NOTE
1 ― (a) Hljóðs biðk «ascolto io chiedo»,
esordisce la vǫlva, con
formula solenne e imperiosa, ché tra poco la
grande profezia svolgerà i fili del
tempo e scioglierà i nodi del destino.
È probabilmente la stessa formula che veniva
utilizzata nel þing, nelle assemblee vichinghe, per imporre il silenzio e richiamare
l'attenzione dei presenti, e che riecheggia con forza
l'antica formula omerica kéklute óphr'
éipō «ascoltate
affinché io dica» (Polia
1983). ― (d) L'espressione «figli
di Heimdallr» per indicare le
«sacre stirpi» [helgar kindir] degli uomini, richiama il mito
riferito nel Rígsþula
dove alla discendenza di
Heimdallr si
riconducono i capostipiti delle tre classi
sociali. ― (e)
Valfǫðr, «Padre dei caduti», è epiteto di
Óðinn.
2 ― (d) Fædda hǫfðu è
letteralmente «mi diedero cibo», ma forse è da intendere
con «mi generarono». ― (f)
Questo verso è di ardua
traduzione. Secondo l'interpretazione condivisa dalla maggior parte degli
studiosi, quel níu í viði si riferirebbe appunto ai «nove
sostegni» dei mondi (cfr. viðjur «radici, travi» < viðr «bosco,
legna»);
non mancano però le voci dissenzienti: alcuni pensano che la frase sia da leggere
níu íviði «nove specie di creature»; Sir George W. Cox è riandato all'antico svedese
inviþir
e ha interpretato, un po' fantasiosamente, «l'insieme
di tutti gli esseri, del mondo dei vivi e del mondo dei morti». In tutti i
casi si tratta di una visione dell'universo riassunto nella sua stabilità e nella sua
totalità (Cox 1870). ― (g)
La parola mjǫtviðr è una delle più delicate
dell'intera letteratura mitologica norrena. È stata qui
resa con «albero misuratore», da «albero [viðr]
delle misure [mjǫt]». Quest'ultima parola è connessa col norreno meta
«misurare», da cui mjǫtuðr «giudice, governatore, dispensatore del
fato» (cfr. gotico mitan, antico alto tedesco mezzan, tedesco messen, anglosassone
metan «misurare»; ma anche latino medeor «misuro»
e meditari «meditare»). S'intende probabilmente il frassino
Yggdrasill come asse e impalcatura del cosmo, i cui
rami e radici formano gli assi [viðjur] che reggono
i mondi e ne misurano il tempo [SAGGIO].
3 ― Questa strofa della
Vǫluspá
possono essere agevolmente messa a confronto con alcuni versi del
Wessobrunner
Gebet, la «Preghiera di Wessobrunn», un testo in antico
alto tedesco proveniente dall'omonimo monastero
bavarese, composto intorno al 775. Un brano della
preghiera così suona:
Dat
gafregin
ih mit firahim iriuuizzo meista.
Dat ero ni uuas noh ufhimil,
noh paum noh pereg ni uuas,
ni [sterro]
nohheinig noh sunna ni scein,
noh mano ni liuhta, noh der maręo seo. |
Questo appresi tra gli
uomini, il sommo prodigio.
Che non era la terra, né il cielo in
alto,
non era albero, né monte,
né [stella] alcuna, né il sole splendeva,
né la luna brillava, né il lucente mare.
|
Wessobrunner Gebet |
Entrambi i brani descrivono lo stato precedente la
creazione in termini negativi: attestando l'originaria
inesistenza degli enti e delle sostanze che compongono il
nostro universo. Si precisa dunque che in principio non
esistevano né il cielo, né la terra, non vi erano alberi,
monti e mari, né splendevano il sole e la luna, e via
dicendo. È in questo stadio negativo che subentra quindi
la creazione: sia essa la complessa cosmogonia pagana
descritta nella Vǫluspá,
o la creatio ex nihilo operata dal Dio cristiano nel
Wessobrunner
Gebet.
La somiglianza formale tra i due brani è impressionante.
Il verso di Vǫluspá [3c-3d],
«non c'era sabbia né mare | né gelide onde» [vasa sandr né sær,
|
né svalar unnir], richiama il
«né il lucente mare» [noh der mareo seo]
di
Wessobrunner Gebet [5].
Il verso successivo [3e-3f],
«terra non si distingueva | né cielo in alto» [jǫrð fansk æva
|
né upphiminn], è vicinissimo a
Wessobrunner Gebet [2]
«che non era la terra, né il cielo in
alto» [ero ni uuas noh ufhimil]. La
somiglianza formale dei due brani,
a volte addirittura letterale (per «cielo in alto»
troviamo l'identico composto ufhimil in
anticoaltotedesco e uphiminn in islandese), ha
indotto gli studiosi a ipotizzare l'esistenza, in
tempi remoti, di un poema germanico della creazione i cui
esiti siano confluiti, separatamente, nelle due
composizioni: il poema pagano islandese, la preghiera
cristiana alto-tedesca. ― (a)
Ár significa «una
volta» (latino olim), ed è una parola frequente
all'inizio dei poemi eddici (la ritroveremo in:
Hymiskviða
[1], Rígsþula
[1], Atlakviða in grǿnlenzka [1],
Guðrúnarkviða [1],
Sigurðarkviða [1]).
Ár vas alda, letteralmente
«una volta era il tempo»
(ǫld è «tempo,
età, epoca), può
essere tradotto «in principio» (Cleasby
~ Vigfússon 1874).
― (a-b) I primi
due semiversi, nella versione citata da Snorri, suonano in
altro modo: «Al principio era
il tempo | quando nulla esisteva» [Ár
var alda | það er ekki var]
(Gylfaginning [4
{5}]). Probabilmente
Snorri attinse a una versione della
Vǫluspá
diversa da quella attestata nei due manoscritti a noi
pervenuti.
4 ― (a)
La Vǫluspá
non fornisce i nomi dei figli di
Borr. È Snorri ad affermare che essi furono
Óðinn e i suoi fratelli
Vili e
Vé
(Gylfaginning [6d]).
5 ― (e-j)
Questi semiversi possono essere messi in
relazione con la
Preghiera di Wessobrunn
[4-5], laddove dice:
«né [stella] alcuna, né il sole
splendeva, né la luna brillava» [ni [sterro]
nohheinig noh sunna ni scein,
noh mano ni liuhta].
Addirittura, la parola sterro «stella», assente nel manoscritto del
Wessobrunner
Gebet, è stata
proposta dai filologi in base al confronto col
poema eddico. Analogamente, nel
citare questa strofa, Snorri omette i primi due semiversi
ma cita questi ultimi sei semiversi, seppure invertendo
l'ordine col quale vengono elencati gli ultimi due
luminari: nella citazione di Snorri viene prima il sole,
poi la luna e poi le stelle
(Gylfaginning [8
{10}]).
7 ―
(b)
Iðavǫllr: «campo del vortice, campo-torto», campo al
centro di Ásgarðr
dove gli dèi decisero per la prima volta l'ordinamento del
loro regno e, dunque, di tutto il mondo. Qui si riuniranno
di nuovo gli
Æsir
sopravvissuti al
ragnarǫk all'inizio del ciclo che verrà, per
stabilire il nuovo ordine cosmico. Il riferimento al
«vortice», simbolo di inizio e di fine, oltre che metafora
astronomica della rotazione del cielo, insieme al fatto
che Iðavǫllr sia
l'unica parte di
Ásgarðr che non
verrà distrutta, ne suggeriscono l'identificazione con il
nord celeste o con una proiezione terrestre di esso. La
stella polare è infatti il punto del cielo che, pur
cambiando posizione a causa della precessione degli
equinozi, rappresenta in ogni epoca il centro della
rotazione celeste, dunque il «vortice» che emana il
movimento e dà ordine al cosmo.
8 ― (f) Non è molto chiaro chi fossero le
«tre fanciulle di giganti» [þríar þursa
meyjar]; sicuramente corrispondono a quelle che Snorri
indica come donne «venute da
Jǫtunheimr»
[kómu ór
Jǫtunheimum]
(Gylfaginning [14b]). Non si può tuttavia dir molto sulla loro
identità. Karl Müllenhoff ritiene si tratti le tre
Nornir, di cui si parla nel capitolo successivo
[15] del testo di Snorri
(Müllenhoff 1908), seguito in
questo da Giorgio Dolfini, che commenta in tal senso la
sua traduzione
(Dolfini 1975), ma senza una
reale certezza. Si tratta del rimasuglio di un mito
perduto, probabilmente non chiaro allo stesso Snorri.
9 ― (g-h) I nomi
Brimir e
Bláinn
sembrano essere
epiteti di
Ymir. Questa strofa è chiusa da una doppia kenning
in quanto «sangue di
Brimir»
è metafora per significare il mare, e «ossa di
Bláinn» per indicare le
pietre.
10 ― (e-h)
Questa strofa presenta qualche problema d'interpretazione.
In genere viene interpretata nel senso che gli dèi
crearono i dvergar dalla terra,
ma altri ritengono che siano i dvergar stessi il soggetto
della frase. Ad esempio Bugge interpreta: «I nani
fecero molti fantocci nella terra» a cui gli dèi avrebbero
poi infuso il soffio vitale (Bugge
1881 | Polia
1883). Non è ben chiaro, in questo caso, chi fossero i
«fantocci» creati dai nani. Tantopiù che Snorri dà una
spiegazione molto ragionevole del passo:
Þar næst settust goðin upp í sæti sín ok
réttu dóma sína ok minntust, hvaðan dvergar
hǫfðu kviknat í moldinni ok niðri í jǫrðunni,
svá sem maðkar í holdi. Dvergarnir hǫfðu
skipazt fyrst ok tekit kviknun í holdi Ymis
ok váru þá maðkar, en af atkvæðum goðanna
urðu þeir vitandi manvits ok hǫfðu manns
líki ok búa þó í jǫrðu ok í steinum. |
Poi gli dèi s'insediarono sui loro troni, si
riunirono in giudizio e ricordarono in che
modo i dvergar avessero preso vita nel fango e
sotto la terra, come i vermi nella carne. I
dvergar furono creati per primi e presero vita
nella carne di Ymir,
dove erano come
vermi, tuttavia per decisione degli dèi ricevettero la conoscenza del sapere
umano e l'aspetto degli uomini, e abitarono nella terra e nelle
rocce. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning
[14] |
Non vi è motivo di dubitare che questa sia
la corretta interpretazione della creazione dei dvergar, che qui
appaiono, proprio in virtù della loro origine, legati per
nascita alla terra e al fango. [SAGGIO]
11 ― Le strofe
[11-16] costituiscono il
cosiddetto «catalogo dei nani»,
una composizione probabilmente indipendente inclusa nella
Vǫluspá.
La versione del «catalogo» fornita dal Codex Regius [R]
presenta alcune differenze, nei nomi e nell'ordine dei dvergar,
con la versione presente nell'Hauksbók
[H];
l'una e l'altra presentano a loro volta altre differenze con
la redazione citata da Snorri (Gylfaginning
[14 {17-20}]).
Le varie redazioni discendono probabilmente da un antigrafo il
quale dipendeva a sua volta dalle
þulur, antichi elenchi in versi dove si fornivano gli
heiti (i nomi, gli epiteti o le definizioni poetiche)
di cose, persone, divinità o creature mitologiche. Per
un'analisi dettagliata delle fonti rimandiamo alla pagina
apposita [MITI].
― (d) Dopo
Alþjófr
e
Dvalinn,
la redazione H
inserisce una serie di quattro nomi, non presenti in
R [«Nár e
Náinn
|
Nípingr,
Dáinn»],
i quali appaiono però essere una duplicazione di una sequenza
che H
riporta alla strofa [13]. ―
(e) I nomi
Bívǫrr
e
Bávǫrr
compaiono in H e in Snorri nelle
varianti grafiche
Bífurr
e
Báforr.
― (f) Il nome
Bǫmburr
compare in Snorri nella variante
Bǫmbǫrr.
― (g-h) I nani
Ánn,
Ánarr e
Ái
appartengono a una serie che i vari manoscritti di Snorri
presentano in maniera piuttosto difforme; il confronto tra le
varie redazioni e le þulur
mostra che la serie originaria doveva essere formata dai nomi:
Óri,
Órinn, Óinn,
Ónn e
Ónarr [SAGGIO].
12 ― (b)
Il nome
Þráinn
compare in Snorri nella variante
Þróinn.
― (c) Il nome
Þekkr,
presente in R (e in Snorri),
viene sostituito in H da
Þrár
(forse, una variante del
Þrór
presente in [12b]).
13
― (b) In luogo del
nome
Náli
compare in Snorri un Váli
(la confusione è sorta forse per qualche legame
con la coppia formata da
Váli e Nari, figli di
Loki). ― (c)
Heptivili
(«manico di lima») appare
in H
scisso in due nomi distinti: Hefti e Fili («manico»
e «lima»). Solo il secondo nome (Fili)
è attestato separatamente come il nome di un nano
[13a]. ― (d)
Hannarr viene
sostituito in Snorri da Hárr.
Invece, il nome
Svíurr
compare in H nella variante
Svíðr
e in Snorri nella variante Svíarr.
― (e-h) Questi
versi, gli unici a riportare una sequenza di otto nomi [«Nár e
Náinn
|
Nípingr,
Dáinn,
|
Billingr,
Brúni,
|
Bíldr e
Búri»],
sono riportati unicamente in H,
mancando in R e in Snorri.―
(i) Il nome
Hornbori,
attestato nella redazione
R, viene
sostituito da Fornbogi
nella redazione H.
14
― (d) Nella parafrasi
in prosa che Snorri fa di questa strofa
(Gylfaginning
[14f]),
si parla dei
Lofarr
al plurale, come nome complessivo di questa stirpe di dvergar.
15
― (b) Al nome
Dólgþrasir,
Snorri sostituisce Dólgþvari.
― (c) Al nome
Hár,
Snorri sostituisce Hǫrr.
Ad
Haugspori,
sostituisce invece Hugstari.
― (d) Il primo nome
viene riportato come
Hlévangr
«campo riparato» in R,
ma come
Hlévargr
«lupo dei luoghi protetti» in
H. La seconda forma
sembra più ragionevole. Snorri
lo sostituisce con un nome affatto diverso:
Hleðjólfr
«lupo protettore». Il secondo nome compare invece
nella forma
Glói
in R,
nella forma
Glóinn
in
H e in Snorri.― (e-f)
Questi due versi, che riportano una breve sequenza di quattro
nomi, sono presenti soltanto nella redazione di Snorri [«Dóri, Óri,
|
Dúfr,
Andvari»],
mancando nei due codici della
Vǫluspá.
16
― (a) Snorri
sostituisce
Yngvi
con Ingi. È più
probabile sia quest'ultimo il nome originario del nano,
essendo
Yngvi
un epiteto di Freyr,
quale progenitore della stirpe degli Ynglingar. ― (c-d)
Questi due semiversi, con una sequenza di quattro nomi [«Fjalarr e
Frosti
|
Finnr e
Ginnarr»]
è attestata nel codice R, ma
manca in H. Anche Snorri,
tuttavia, la riporta (seppur sostituendo
Fjalarr
con Falr).
17 ―
Le strofe [17-18] alludono
alla creazione della prima coppia umana a partire da due
alberi, un frassino [askr] e un olmo [embla].
Così Snorri spiega il passo e descrive la scena:
Þá er þeir Bors
synir gengu með sævarstrǫndu,
fundu þeir tré tvau, ok tóku upp
tréin ok skǫpuðu af menn. Gaf hinn
fyrsti ǫnd ok líf, annarr vit ok
hrǿring, þriði ásjónu, málit ok
heyrn ok sjón; gáfu þeim klæði ok
nǫfn. Hét karlmaðrinn Askr en
konan Embla, ok ólusk þaðan af
mannkindin. |
Mentre i figli di
Borr andavano lungo la riva del mare
trovarono due alberi, li raccolsero e li mutarono in uomini. Il primo diede
loro respiro e vita, il secondo ragione e movimento, il terzo aspetto, parola,
udito e vista. Gli diedero poi vesti e nomi. Il maschio si chiamò
Askr, la femmina
Embla e nacque allora l'umanità. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning
[9b] |
― (b) La
Vǫluspá
non chiarisce quale fosse la «stirpe» [liðr] da cui i tre dèi
sarebbero giunti, così come non si sa bene a quale «casa»
faccia riferimento il testo.
― (d) È stato qui suggerito di
emendare
at húsi «a casa» in at húmi «al mare»,
interpretando la scena come se si
svolgesse sulla riva del mare. La correzione è
giustificata dal fatto che Snorri afferma che gli dèi andavano «lungo la riva del mare»
[með sævarstrǫndu] quando trovarono i due tronchi
destinati a essere trasformati nella prima coppia umana.
18 ―
(e-g) Mentre la
Vǫluspá attribuisce la
creazione degli uomini alla triade
Óðinn
~
Hǿnir
~
Lóðurr, Snorri afferma che a
compiere l'opera fossero stati in realtà «i figli di Bórr»
(Gylfaginning
[9b]). Tuttavia lo stesso Snorri aveva
precedentemente affermato che i figli di Bórr
fossero Óðinn
~
Vili
~
Vé
(Gylfaginning
[6d]) e alla loro opera aveva attribuito
l'uccisione di
Ymir e la creazione del mondo. Sono stati naturalmente
versati i proverbiali fiumi d'inchiostro per stabilire se
la triade della Vǫluspá (Óðinn
~
Hǿnir
~
Lóðurr) possa venire
identificata o meno con quella fornita da Snorri (Óðinn
~
Vili
~
Vé). [SAGGIO]►
20 ― (c) Si è tradotto qui
«da quelle acque» ma il testo originale dice sæ
«mare». Difficile capire se si intenda la fonte
Urðarbrunnr o se bisogna invece immaginare uno
specchio d'acqua assai più consistente alle radici del
frassino
Yggdrasill.
21 ― (c) L'episodio di
Gullveig è particolarmente enigmatico, in quanto tutto
ciò che sappiamo di questo personaggio consiste in queste
due strofe della
Vǫluspá.
Non vi sono altri riferimenti a
Gullveig in tutta la letteratura mitologica, e anche
Snorri, nella sua opera, non ne fa alcun cenno. Si ritiene
che il tentativo di uccidere
Gullveig abbia causato un dissidio tra gli
Æsir e i
Vanir, da cui una guerra tra le due stirpi divine
(a cui si accenna rapidamente nella strofa
[24]);
in realtà i due episodi potrebbero anche non avere nulla a
che fare l'uno con l'altro. ― (e)
Hár «alto» è epiteto di
Óðinn.
25-26 ― Stando al
racconto di
Snorri (Gylfaginning [42]), dopo la guerra contro i
Vanir, gli
Æsir ingaggiarono un gigante affinché ricostruisse
le mura dell'Ásgarðr.
Ma questi chiese come pagamento il sole e la luna, e la
dea Freyja, sposa di
Óðr. Era stato
Loki a consigliare agli dèi di accettare il patto,
convinto che il gigante non fosse riuscito a finire il
lavoro nel tempo stabilito. Ma quando le mura furono
completate entro i termini, gli dèi ruppero il contratto e
Þórr uccise il gigante.
[MITO]►
27
― (b) Seguiamo qui
l'interpretazione tradizionale secondo cui il «fragore
celato» [hljóð of folgit]
indichi il Gjallarhorn, il corno destinato a suonare nel giorno
di ragnarǫk e che
Heimdallr, se tale interpretazione è corretta, avrebbe
nascosto alle radici del frassino
Yggdrasill. ― (g)
Valfǫðr
«padre dei caduti»è un epiteto di
Óðinn. Per «pegno di
Valfǫðr»
si intende qui l'occhio ceduto da
Óðinn in cambio di un sorso alla sorgente di
Mímisbrunnr, da cui sgorga l'acqua della sapienza.
Mímir è appunto il guardiano di tale fonte.
28 ― Questa breve descrizione della
vǫlva, che sedeva sola «di fuori»
[úti], va forse messo in
relazione con certe descrizioni presenti negli
antichi testi, dove i veggenti erano presentati desti nella solitudine notturna intenti a scrutare
i fati. Si tratta forse della scena che dà l'avvio all'intera
rappresentazione del poema. Yggjungr «molto spaventoso» è
epiteto di Óðinn,
che guarda la
vǫlva «negli occhi» [í
augu senza parlare, forse per provarne il potere. La
vǫlva sostiene lo sguardo del dio e gli
rivela di conoscere il suo più geloso segreto: egli ha
dato in pegno un occhio al saggio Mímir, custode della fonte della
sapienza di Mímisbrunnr.
29 ―
(a) Herfǫðr «padre degli eserciti» è
epiteto di Óðinn.
E la
persona a cui avrebbe dato anelli e collane, oltre alla verga della
profezia, è naturalmente la stessa
vǫlva.
― (b-d)
Secondo questi versi, Herfǫðr
(Óðinn)
avrebbe dato alla vǫlva: (1) anelli e collane,
(2) sagge parole di ricchezza, (3) la verga della
profezia [spágandr]. Ma emendando spágandr
in spá ganda e adottando l'interpretazione del Neckel, la strofa diventerebbe così:
«Herfǫðr le diede anelli e collane, ottenne [in
cambio] sagge parole di ricchezza e profezie
[ottenute tramite] la verga» (Neckel 1908 | Polia
1983). La correzione sembra chiarire lo scopo della
visita di Óðinn alla
vǫlva, ma si
tratta comunque di una forzatura che non aggiunge dettagli
a quanto già implicito nel resto del poema, che tratta
comunque di una profezia lanciata dalla stessa veggente.
30 ―
(j)
Herjan
«capo degli eserciti» è, ancora una volta, epiteto di
Óðinn.
32 ―
(e) Il fratello di
Baldr di cui qui si parla è
Váli figlio di
Óðinn, che nacque appositamente per vendicarne la
morte.
33 ―
(d) Il nemico di
Baldr è invece il cieco
Hǫðr, che venne ucciso da
Váli. ―
(e)
Frigg, sposa di
Óðinn, era la madre di
Baldr.
34 ―
Questi versi vengono dal codice H, dove
sostituiscono i primi quattro semiversi di quella che nel
codice R è la strofa
[35]. ―
(a) Il
Váli di cui qui si parla, interpretando il testo
secondo quanto afferma Snorri, non sarebbe il
summenzionato
Váli figlio di
Óðinn, ma
Váli figlio di
Loki, il quale venne trasformato in lupo dagli dèi e
sbranò il fratello
Narfi. Con gli intestini di questi, gli dèi trassero i
lacci con cui
Loki venne legato.
Sigyn, sposa di
Loki, gli rimase accanto.
36 ―
Il codice R considera la
sequenza [36-37] un'unica
strofa: gli studiosi sono però persuasi che si tratti
della giustapposizione di due strofe, di cui la prima
[36] mutila. Tutto il gruppo
di strofe [36-39] sembra dare
una vivida descrizione del mondo infero.
37 ―
Nell'ambito della veloce visione degli inferi presentata
dalla Veggente, compaiono qui queste due località, le
Niðavellir, che, secondo
quanto qui è detto, sembrano ospitare la corte dei dvergar (Sindri
è infatti nome di un dvergr, come risulta dalle
þulur), e
Ókólnir,
dove si troverebbe la sala da birra del gigante
Brimir
(apparentemente lo stesso
citato nel verso [9g]).
― Snorri riporta una riscrittura in prosa di questa
strofa, con alcune varianti piuttosto interessanti:
Margar eru þá vistir góðar ok margar illar. Bazt
er þá at vera á Gimlé á himni, ok allgott er til
góðs drykkjar þeim er þat þykkir gaman í þeim sal er
Brimir heitir, hann stendr ok á himni [á Ókólni]. Sá
er ok góðr salr er stendr á Niðafjǫllum, gǫrr af
rauðu gulli, sá heitir Sindri. Í þessum sǫlum skulu
byggja góðir menn ok siðlátir. |
Allora vi saranno molti luoghi
buoni e molti cattivi. Il migliore
per abitarvi sarà
Gimlé, nel cielo,
ottimo per buone bevute, per coloro
che là troveranno piacere, in
quella sala che si chiama
Brimir
e sta in cielo [a
Ókólnir].
Sarà un buon luogo quello che si
trova nei
Niðafjǫll, fatto con oro rosso e che si chiama Sindri. In
quella dimora vivranno gli uomini
buoni e i giusti. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda
>
Gylfaginning [52] |
Mentre la Vǫluspá
presenta le regioni di Niðavellir e
Ókólnir
nell'ambito di una visione dei luoghi infernali, Snorri ne dà
un'immagine affatto diversa: sale celesti deputate ad
accogliere gli uomini giusti nel futuro escatologico dopo il
ragnarǫk. È possibile che nella versione
del poema consultata da Snorri, questa strofa fosse collocata
verso la fine della composizione e si riferisse appunto ai
tempi futuri. D'altra parte, se le
Niðavellir sono le
«pianure oscure», un toponimo come
Ókólnir «mai freddo» dà più l'idea di un
luogo accogliente, e non di una dimora di giganti collocata in
gelide regioni infernali. Snorri comunque sembra
fraintendere il poema eddico, affermando che
Brimir
e Sindri siano i nomi delle due sale in questione, e non il
gigante e il nano a cui esse rispettivamente appartengono.
Inoltre Snorri confonde le
Niðavellir con
i Niðafjǫll, che
costituiscono la regione infernale da cui emerge il
serpente Níðhǫggr
nella chiusa del poema (Vǫluspá [66]).
38 ―
Le strofe [38-39] seguono la
[43] nel codice H. ―
(c)
Nástrandir è la spiaggia dei morti, in
Helheimr; il palazzo descritto appartiene alla regina
Hel.
39 ―
Secondo alcuni esegeti, questa strofa sarebbe pervenuta in
forma corrotta, forse come giustapposizione di due strofe
mutile, di cui la prima comprenderebbe i primi semiversi
[a-f], la seconda i semiversi
[g-j]. ― (g)
Níðhǫggr è il serpente che giace alla radici del
frassino
Yggdrasill. (Cfr.
Grímnismál
[34-35]).
40
― Questa strofa e la successiva sono citate da
Snorri
(Gylfaginning
[12 {13-14}]).
― (a) La vecchia che abita
in Járnviðr (la foresta dagli alberi di ferro) è forse
Angrboða, madre del lupo
Fenrir. I lupi sono dunque la stirpe di
Fenrir.
― (f) Tra di essi, il lupo
Skoll è destinato, nel giorno di
ragnarǫk, a ingoiare il sole.
― (g)
Tungl
significa letteralmente «luminare» (cfr. latino sidus),
indicando indifferentemente il sole o la luna, e i vari
traduttori hanno proposto via via l'una o l'altra delle
interpretazioni. Mario Polia traduce «sole» segnalando in
nota l'ambiguità del termine (Polia
1983); al contrario, Piergiuseppe Scardigli e
Marcello Meli traducono «astro» segnalando in nota che si
tratta del sole (Scardigli ~ Meli
1982). Gianna Chiesa Isnardi traduce invece «luna»
(Isnardi 1975), così come
Giorgio Dolfini (Dolfini 1975).
La traduzione di
tungl
con «sole» potrebbe essere giustificata dal fatto che alcuni versi più
sotto si parla del lupo destinato a divorare il sole, ma il
significato di «luna» è quello maggiormente attestato
nella letteratura islandese, dove il termine ha spesso
sostituito il più poetico máni «luna»
(Cleasby ~ Vigfússon 1874).
41 ― (e) L'oscurarsi del
sole di cui qui si parla è un annuncio del
fimbulvetr, il «terribile inverno», il tempo di
oscurità e malvagità che precederà il
ragnarǫk.
42 ― (d) Chi sia il «lieto»
Eggþér, che in questi versi si presenta come custode o
pastore, non ci è dato di sapere. Si può solo arguire che
le mandrie dei giganti fossero i lupi.
44 ― (a-d) Questa strofa,
quale cupo ritornello, si udrà altre tre volte, scandendo
i tempi della catastrofe cosmica.
Garmr è il cane legato dinanzi alle porte di
Helheimr, anch'esso destinato a sciogliersi quando
sarà il giorno di
ragnarǫk.
45 ― Con rapidi
accenni e serrate allitterazioni, la
vǫlva ci scaglia
nel
fimbulvetr, il «terribile inverno», il tempo di
gelo e di oscurità, di malvagità e depravazione, che
culminerà nella distruzione universale del
ragnarǫk.
Il mitema del crollo morale dell'umanità, nei tempi
finali, è presente in molte culture diverse compresa
quella cristiana. La più antica attestazione di questo
motivo si trova nella mitologia indù, in cui il
Kaliyuga, l'epoca
finale dell'intero ciclo temporale, è caratterizzata dalla
totale perdita di ogni senso morale e legge religiosa,
perdita che, a partire dai nostri tempi, si farà sempre
più accentuata man mano che il ciclo procederà verso la
sua conclusione. È anche lo stesso motivo presente nelle
Érga kaì Hēmérai
di Hēsíodos, in cui la storia cosmica è vista come una
progressione di età (dell'oro, dell'argento, del bronzo,
del ferro) di cui l'ultima –
la nostra – è caratterizzata
da un'umanità singolarmente priva delle virtù e del valore
dei tempi precedenti.
46 ―
(a) I figli di
Mímir [Míms synir] sono i giganti. C'è un lugubre senso di gioia in
questo loro agitarsi, ché sanno che la battaglia contro
gli dèi è ormai vicina.
47 ―
(d) Il gigante che
si scioglie è
Loki, che avevano lasciato legato nella sua caverna
con le budella di suo figlio.
― (g) «Stirpe di Surtr» è
una
kenning per indicare le fiamme dell'incendio
universale, essendo
Surtr il guardiano del
Múspellsheimr.
50 ―
(a)
Hrymr è il re dei giganti di ghiaccio, che guida le
schiere di Jǫtunheimr. ―
(c)
Jǫrmungandr è il serpente che circonda il mondo.
― (g) L'aquila è forse
Hræsvelgr, che crea i venti col battito delle sue ali. ―
(h)
Naglfar è la nave dei morti.
51 ―
(b) Da est (ma forse
sarebbe più logico da sud) arrivano i
«figli di
Múspell»,
i giganti di fuoco deputati alla distruzione del mondo. ―
(d) Il lupo che li precede è
Fenrir. ― (e-f)
Loki, fratello di
Býleistr, è il loro timoniere.
52 ―
(a)
Surtr è il re dei giganti di fuoco.
― (b) Il «veleno dei
rami» [sviga lævi] è una trasparente kenning per indicare il
fuoco.
53 ―
(a)
Hlín
è
Frigg, qui chiamata col nome di una delle sue ancelle
(o forse si tratta di due personaggi in origine concidenti).
― (c-d) Sposo
di Hlín/Frigg
è
Óðinn, che combatte contro il lupo
Fenrir e muore nello scontro.
― (e) L'«uccisore di
Beli» è
Freyr: si getta a mani nude contro
Surtr ma non ha miglior fortuna.
55 ―
(b)
Sigfǫðr «Padre di vittoria» è epiteto di
Óðinn. ― (c) Suo figlio
Víðarr uccide
Fenrir con la spada vendicando il padre. ― (e)
Hveðrungr è probabilmente un
epiteto di
Loki padre di
Fenrir.
56 ― Spetta a
Þórr, difensore di
Miðgarðr, scendere a battaglia contro
Jǫrmungandr, il serpente che circonda il mondo. Riesce
a ucciderlo, ma subito muore intossicato dal veleno.
― (b |
j)
Hlóðyn
e
Fjǫrgyn
sono due epiteti di Jǫrð,
dea della terra, madre di
Þórr.
― (d)
Si noti che il testo del Codex Regius [R] ha qui in realtà við
úlfs vega «a uccidere il lupo», non il serpente. Si tratta probabilmente di
un errore sorto per confusione tra
Þórr e
Víðarr, prima citato. Il testo viene generalmente emendato in ormi mæta
«a contrastare il serpente». Snorri, nella sua versione, ricombina la strofa,
eliminando i problematici semiversi [c-d] e
sostituendoli con i due semiversi finali.
57 ―
(f) «Quel che alimenta
la vita» è una kenning per indicare il fuoco.
Dunque la frase è da intendere «sibila il vapore con il
fuoco», nell'incendio che mette fine al mondo.
60 ―
(e-f) Questi due
semiversi mancano nel codice R
ma sono presenti in H. ―
(g)
Fimbultýr
«dio terribile» è un epiteto di
Óðinn.
61 ―
(a) Mentre il codice
R scrive il primo semiverso:
«Là di nuovo...» [Þar
muno eptir], il
codice H riporta con piccola variazione:
«Allora gli
Æsir...»
[Þá muno
æser].
62 ―
(f)
Hroptr è un
epiteto di
Óðinn.
63 ―
(d) Chi sono i «figli dei due fratelli»
[burir [...]
bræðra tveggja]? Difficile dirlo.
Secondo alcuni
Hǫðr e
Baldr, i quali tuttavia erano fratelli tra loro e non
cugini. Secondo altri sarebbero invece
Hǿnir e
Lóðurr, ipotesi piuttosto fragile in quanto nulla si
può dire sulla parentela di questi due personaggi. Bellows
interpreta «i figli dei
fratelli di
Tveggi», essendo questo uno degli epiteti di
Óðinn
(Bellows 1923). Poiché
i fratelli di
Óðinn sono
Vili
e
Vé, ci si può
chiedere chi siano i figli di costoro. ―
(e) Il «mondo del
vento» [vindheim] è forse da intendere come il
cielo, o come l'atmosfera? Oppure è una kenning per
indicare il mondo stesso, percorso dal vento?
65 ―
Questa breve strofa, formata da soli quattro semiversi è
assente nel codice R e
attestata unicamente nel codice H,
senza alcuna indicazione della presenza di una lacuna.
Tardi manoscritti aggiungono altri quattro semiversi,
registrati da Henry Bellows:
«Lui stabilisce le regole | e fissa i diritti, | ordina le
leggi | che sempre vivranno» (Bellows
1923). ―
(a) Questo «potente» [enn
ríki] che compare nella penultima strofa, fa
naturalmente pensare all'immagine del Cristo che compare sulle nubi,
nel giorno del Giudizio.
66 ―
Tutta l'ultima strofa, che alcuni ritengono interpolata
nel testo, è di difficile interpretazione.
Perché è il serpente
Níðhǫggr a chiudere il poema? E perché porta i morti
tra le sue ali? È una visione che appartiene al futuro
escatologico o va collocata al presente in cui la
vǫlva narra la sua profezia?―
(h) Si
ritiene che a inabissarsi, nell'ultimissimo verso del poema, sia appunto la
vǫlva, anche se in molte traduzioni
hon
«ella» viene
emendato con
hann
«egli» e l'inabissamento finale
viene riferito a Níðhǫggr. Ma che possa essere la
veggente
(e non il serpente) a inabissarsi, è forse giustificato dal
Baldrs Draumar, dove si narra
di come Óðinn fosse sceso nel regno dei morti e con un
canto magico avesse tratto fuori una morta
vǫlva
dal suo tumulo affinché
interpretasse i funesti sogni che affliggevano Baldr. Non c'è naturalmente alcuna
indicazione che la
vǫlva del
Baldrs Draumar sia la stessa della
Vǫluspá, ma non c'è nemmeno
motivo di escluderlo. |