I -
ETIMOLOGIA: IL SIGNORE DELL'ISPIRAZIONE Il nome del dio è attestato
come Wōtan/Wōdan in antico alto tedesco, Wōdan in antico
basso tedesco (sassone), Wōden in anglosassone, Óðinn in norreno;
la grafia longobarda Godan presenta forse un'ortografia particolare della
semiconsonante [w] e non necessariamente la presenza di una labiovelare. Tutte
queste varianti derivano da un protogermanico *Wōđanaz. La forma norrena
sarebbe passata attraverso un protonordico *Wōđin-, con la semiconsonante
[w] poi caduta dinanzi alla vocale [o:]. Da qui, le varie forme nelle lingue
scandinave moderne: Óðinn in islandese, Óðin in feringio, Odin
in danese e norvegese, Oden in svedese. Il teonimo non è attestato nelle
lingue germaniche orientali.
L'etimologia più accreditata di questo teonimo fu segnalata nell'XI secolo da
Adam Bremensis, che sintetizza meravigliosamente il carattere del dio con la
frase «Wodan, id est furor» (Gesta
Hammaburgensis Ecclesiæ Pontificum [IV: 26-27]). Ancora oggi si
ritiene che il nome del dio derivi da una radice protogermanica *wōđ-, che nei suoi esiti designa l'ebbrezza,
l'eccitazione, il furore, il genio poetico (gotico Wōds «posseduto»,
anglosassone wōð «canto», norreno óðr «ebbrezza poetica», tedesco
Wut «furore») (Dumézil 1959 | De Vries 1961).
In inglese questa radice ha prodotto la parola wood «furioso, selvaggio,
folle», nota a Chaucer ma divenuta già arcaica ai tempi di Shakespeare, il quale
diverte i suoi spettatori con un gioco di parole, facendo dire al giovane
protagonista di una sua commedia di essere «furioso in questa foresta» [wood
within this wood] (A midsummer night's dream [II: 1]). Alla base della parola vi è la radice indoeuropea
*WĀT-, del probabile significato di «soffio, ispirazione», da cui sono derivati
il latino vates «poeta ispirato» e il protoceltico *watus «poesia
profetica» (continuato nell'irlandese fáith «poeta» e nel gallese
gwawd «poesia, preghiera»).
Il nome del dio è costituito da questa radice *wōđ- più il cosiddetto «suffisso del comando» [Herrschersuffix],
ricostruito in protogermanico come *-na (Meid 1957).
Posto su un sostantivo collettivo, questo suffisso ne definisce il capo, il
reggitore o la guida. Tale costruzione è attestata in diverse lingue germaniche.
Ad esempio in gotico la parola þiuðans «re» si produce combinando il
termine þiuð- «popolo» con il suffisso del comando -(a)n: il
significato è «colui che guida, comanda, regge il popolo». Sempre in gotico,
kindins «capotribù» è formato allo stesso modo su kind- «tribù». In
norreno, dróttinn «condottiero» è analogamente costruito su drótt
«truppa». L'epiteto Herjan «capo
delle schiere», attribuito a Óðinn, è
invece formato da herr «esercito» più il suffisso del comando.
(Benveniste 1967)
Il suffisso del comando non è tipico delle lingue germaniche, ma è attestato
anche in italico, celtico e illirico. Deriverebbe infatti dal fondo indoeuropeo,
dov'è ricostruito nella forma *-NO. In latino, termini come dominus
«capofamiglia» o tribunus «tribuno» sono costruiti a partire
rispettivamente dalle parole domus «casa» e tribuus «tribù»,
sicché dominus può essere tradotto «colui che regge la casa» e tribunus
«colui che guida la tribù». L'esempio del latino è particolarmente importante,
perché la religione romana conosce diverse divinità il cui nome è appunto
costruito col suffisso del comando. È il caso di Portunus
«colui che regge il porto», il dio incaricato alla protezione dei porti e delle
ricchezze che vi si accumulano, il cui nome scaturisce da portuus
«porto»; o di Fortuna «colei che regge le sorti»,
costruito sul termine fors «sorte, destino». Il nome del dio
Tiberinus si costruisce sul nome del fiume Tiber
«Tevere» e potremmo tradurlo con «colui che ha in sua potestà il Tevere».
Persino il nome di Neptunus presenta la stessa
costruzione, ma è talmente antico che non è più analizzabile neppure in latino:
deriverebbe forse da qualche perduto sostantivo *neptu dal possibile
significato di «acqua, umidità». (Meid 1957 | Benveniste
1967)
Queste note attestano un antichissimo procedimento linguistico che a volte
poteva derivare il nome di un dio dall'elemento che governava o reggeva. Si ha
ragione di credere che anche il nome di Óðinn
fosse costruito in questo modo. Il protogermanico *Wōđanaz sarebbe dunque
da intendere come *Wōđ-(a)n- «colui che regge il *wōđaz» (Meid 1957 |
Benveniste 1967). Per quanto non neghi questa etimologia, Benveniste
manifesta però un cauto scetticismo, notando come di solito il prefisso del
comando si trovi di solito appoggiato un termine collettivo. Perché una nozione
astratta come *wōđaz «furore,
ebbrezza, genio poetico» possa tenere questo ruolo, afferma Benveniste,
bisognerebbe trasporre l'astratto in collettivo e interpretare *Wōđanaz
come «colui che comanda i posseduti dal *wōđaz».
Benveniste ritiene di trovare un appoggio nel concetto della «caccia selvaggia»
nota nelle letterature medievali, in cui
Óðinn era rappresentato alla testa dell'esercito di anime che cavalcava
nelle notti di tempesta (Benveniste 1967).
Benveniste dimentica però che questa immagine di
Óðinn è piuttosto tarda, appartenendo al
folklore d'epoca cristiana, mentre il nome del dio è molto più antico, risalendo
a un'epoca precedente alla differenziazione delle lingue germaniche.
Alternativamente, si potrebbe anche giungere all'ipotesi di Rübekeil che
interpreta il nome del dio come «colui che guida i poeti ispirati».
In realtà il prefisso del comando non richiede obbligatoriamente un radicale
collettivo. I nomi romani di Portunus,
Fortuna, Tiberinus e
Neptunus, per esempio, sono costruiti a partire da
termini che non indicano assolutamente una collettività e che, almeno in un paio
di casi, sono altrettanto astratti di *wōđaz.
Un dettaglio assai interessante è che le due Edda
attestano anche il nome del dio ridotto alla pura radice. Si tratta del
personaggio chiamato Óðr, che la
Vǫluspá
e il Gylfaginning asseriscono essere lo sposo
della dea Freyja. Etimologicamente, il
nome di Óðr non è altro che il nome di
Óðinn privato del suffisso del comando e
ridotto al puro sostantivo (óð- < protogermanico *wōđ-). Questo non ci stupisce, in quanto
Óðr non è che un trasparente doppione di
Óðinn, come lui perennemente impegnato in
lunghi viaggi, tanto che Freyja (a sua
volta un doppione di Frigg) piangeva
lacrime d'oro rosso, triste e disperata per la sua assenza.
Per l'etimologia del nome del dio si è anche pensato alla radice indoeuropea
*WEH-, indicante il «vento» (cfr. sanscrito
vāta, avestico vāiti, ḫittita ḫuwantiš, greco (w)aemi,
latino ventus, gallese awel, gotico winds, norreno vindr,
antico alto tedesco waian, tedesco Wehen, anglosassone weder,
inglese wind, antico prussiano wins, lituano vėjas, lettone
vējš, paleoslavo vĕjetŭ, polacco wiać, russo vejat',
tocario want/yente). Per quanto *WEH-
«vento» sia una radice distinta da *WĀT- «soffio, ispirazione», le è comunque
affine ed è indubbio che tra l'una e l'altra radice vi sia una sorta di affinità
semantica, forse mantenuta per via paraetimologica. Il «respiro» e
l'«ispirazione» hanno in comune la nozione di spiritus, il cui
significato primario è «vento», inteso come «soffio vitale». Nella mitologia
indiana, vāta è un nome del dio del vento Vāyu
(il quale ha molti punti in comune con Wōtan),
ma indica anche il soffio vitale che mantiene in vita il mondo. |
|
|
Un'etimologia storica del nome di Wōtan,
proposta dall'esoterista Cornelius Agrippa (1486-1535) nel
De occulta philosophia, mete in connessione il teonimo
con la parola tedesca Gott «dio». Questo termine, caratteristico delle
lingue germaniche (cfr. gotico guþ, norreno goð, tedesco Gott,
inglese god), sarebbe a sua volta derivato da un protogermanico *gođ,
il cui significato originale sembra indicasse il destinatario delle invocazioni
o dei sacrifici (Isnardi 1991) [VEDI].
Questa etimologia è insoddisfacente a spiegare il nome del dio germanico. |
|
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II -
LE FONTI LETTERARIE LATINE La prima e più importante fonte latina
riguardante il nostro dio, è quella trasmessa da Tacitus
nella sua
Germania:
Deorum maxime Mercurium
colunt, cui certis diebus humanis quoque hostiis litare fas habent. |
Sopra tutti gli dèi [i
Germani] onorano Mercurius, cui ritengono lecito,
in certi giorni, fare anche sacrifici umani. |
Cornelius Tacitus:
Germania
[2] |
Il dio che Tacitus interpreta col nome latino di
Mercurius è naturalmente *Wōđanaz.
La notizia di Tacitus è importantissima perché documenta la preminenza di questo
dio nel pantheon germanico già nel I secolo a.C. Probabilmente si tratta
del regnator omnium deus che, sempre secondo
Tacitus, i Semnones veneravano
in un boschetto sacro (Germania [39]).
Mezzo millennio più tardi, il monaco benedettino e agiografo Ionas Bobiensis
(Giona di Bobbio, ±600-659>), racconta, nella Vitæ
Columbani Abbatis discipulorumque eius, un episodio in cui il missionario irlandese, trovandosi a Bregenz, nel
territorio degli Alemanni, disturbò una libagione in onore del dio locale
Vodanus, il quale viene assimilato – come
già in Tacitus – a Mercurius. Il passo è poco
conosciuto e val la pena riportarlo per intero:
Ad destinatum deinde
perveniunt locum. Quem peragrans vir Dei non suis placere animis aiet, sed tamen
ob fidem in gentibus serendam inibi paulisper moraturum se spondit. Sunt etenim
inibi vicinae nationes Suaevorum. Quo cum moraretur et inter habitatores loci
illius progrederetur, repperit eos sacrificium profanum litare velle, vasque
magnum, quem vulgo cupam vocant, qui XX modia amplius minusve capiebat, cervisa
plenum in medio positum. Ad quem vir Dei accessit sciscitaturque, quid de illo
fieri vellint. Illi aiunt se Deo suo Vodano nomine, quem Mercurium, ut alii
aiunt, autumant, velle litare. Ille pestiferum opus audiens, vas insufflat,
miroque modo vas cum fragore dissolvitur et per frustra dividitur, visque rapida
cum ligore cervisae prorumpit; manifesteque datur intellegi diabolum in eo vase
fuisse occultatum, qui per profanum ligorem caperet animas sacrificantum.
Videntes barbari, stupefacti aiunt magnum virum Dei habere anhelitum, qui sic
possit dissolvere vas ligaminibus munitum, castigatusque euangelicis dictis, ut
ab his segregarentur sacrificiis, domibus redire imperat. Multique eorum tunc
per beati viri suasum vel doctrinam ad Christi fidem conversi, baptismum sunt
consecuti; aliosque, quos iam lavacro ablutus error detinebat profanus, ad
cultum euangelicae doctrinae monitis suis ut bonus pastor ecclesiae sinibus
reducebat. |
Infine essi giunsero alla
loro destinazione. La quale non piacque, disse il pellegrino di Dio [Columbanus],
al suo animo; tuttavia egli promise che sarebbe rimasto, al fine di diffondere
la fede presso quella gente. Erano ormai vicini al paese degli Svevi. Durante la
sua permanenza, avanzando tra gli abitanti del luogo, [Columbanus] si accorse che
questi intendevano celebrare un sacrificio pagano. Un grande paiolo, chiamato
coppa da quella gente, della capienza di venti misure o poco meno, era stata
riempita di birra e posta nel mezzo. Allora l'uomo di Dio andò a chiedere loro
cosa intendessero farne. Questi dissero che stavano per celebrare un sacrificio
al loro dio, il cui nome era Vodanus, ma
che altri chiamano Mercurius. Quand'egli udì
dell'abominevole pratica, soffiò sul paiolo e miracolosamente quello si spaccò
con uno schianto e andò in pezzi, tanto che la birra ne schizzò fuori con forza.
Fu allora manifesto come il diavolo si fosse nascosto in quel paiolo per rapire
le anime degli officianti attraverso quel rito profano. Vedendo ciò, i barbari
stupefatti dissero che l'uomo di Dio aveva un alito potente, se riusciva a
spaccare un paiolo tanto robusto. Ma egli li rimproverò con le parole del
Vangelo e intimò loro di cessare questo tipo di offerte e di tornare a casa.
Allora molti di loro, persuasi dalle prediche di quel beato e convertiti alla
dottrina e alla fede di Cristo, vennero battezzati. Altri, che erano già stati
battezzati ma perseveravano nell'errore pagano, [Colombano] li ammoniva al culto
della dottrina evangelica e, come un buon pastore, li riconduceva nel seno della
Chiesa. |
Ionas Bobiensis: Vitæ
Columbani Abbatis discipulorumque eius [53] |
Al 670, circa, risale l'Origo gentis Langobardorum, il cui racconto viene
narrato in forma più estesa da Paulus Diaconus (720-799), alla fine dell'VIII secolo, nella
sua Historia Langobardorum. Nella narrazione è inserita quella che il Diacono definisce
una «ridicola favola» [ridiculam fabulam] ma che gli studiosi sospettano
essere la versione prosastica di un perduto canto in versi allitterativi in
lingua longobarda.
Refert hoc loco
antiquitas ridiculam fabulam: quod accedentes Wandali ad Godan victoriam de
Winilis postulaverint, illeque responderit, se illis victoriam daturum quos
primum oriente sole conspexisset. Tunc accessisse Gambaram ad Fream, uxorem
Godan, et Winilis victoriam postulasse, Freamque consilium dedisse, ut Winilorum
mulieres solutos crines erga faciem ad barbæ similitudinem componerent maneque
primo cum viris adessent seseque a Godan videndas pariter e regione, qua ille
per fenestram orientem versus erat solitus aspicere, collocarent. Atque ita
factum fuisse. Quas cum Godan oriente sole conspiceret, dixisse: «Qui sunt isti
longibarbi?». Tunc Fream subiunxisse, ut quibus nomen tribuerat victoriam
condonaret. Sicque Winilis Godan victoriam concessisse. Hæc risu digna sunt et
pro nihilo habenda. Victoria enim non potestati est adtributa hominum, sed de
cælo potius ministratur. Certum tamen est, Langobardos ab intactæ ferro barbæ
longitudine, cum primitus Winili dicti fuerint, ita postmodum appellatos. Nam
iuxta illorum linguam lang longam, bard barbam significat. |
Gli antichi riferiscono a
questo punto una ridicola favola secondo cui i Vandali si sarebbero rivolti a
Wotan per chiedergli la vittoria sui
Vinnili, e il dio avrebbe risposto promettendola a coloro che avesse scorto per
primi al sorgere del sole. Fu quindi il turno di Gambara [madre di Ibor e Aion,
i due condottieri dei Vinnili] che, supplicando la vittoria, si rivolse a
Frea, moglie di
Wotan, ottenendone questo consiglio: le
mogli dei Vinnili, scioltesi i capelli, se li lasciassero scendere lungo il viso
come barbe e di primo mattino, avvicinatesi alle schiere degli uomini, vi si
disponessero in modo da esser viste da Wotan
nel luogo da cui era solito, da una finestra, guardare verso oriente. Così fu
fatto, e Wotan, scorgendole al sorger del
sole, osservò: “Chi sono quelli con la barba lunga?”
Frea ne approfittò per chiedergli di
concedere la vittoria a coloro che aveva nominato. E
Wotan concesse la vittoria ai Vinnili. Ma
queste sono storielle da riderci sopra: la vittoria infatti non dipende dagli
uomini, ma è dal cielo se mai che viene assegnata. Tuttavia è certo che i
Longobardi, detti prima Vinnili, d'allora in poi furono chiamati con l'altro
nome per la lunghezza della barba intonsa: infatti, nella loro lingua, lang
significa «lunga» e bart «barba». |
Paulus Diaconus:
Historia Langobardorum [I: 8-9] |
E fu così che i Winnili non solo ottennero la vittoria, ma anche il nome con
il quale vennero da allora in poi conosciuti: Longobardi «[quelli con la] barba
lunga». Subito dopo Paulus Diaconus aggiunge una nota importantissima, nel quale
torna a chiarire ancora una volta l'identificazione che Tacitus aveva lasciato in
sospeso più di settecento anni prima:
Wotan sane, quem adiecta
littera Godan dixerunt, ipse est qui apud Romanos Mercurius dicitur et ab
universis Germaniæ gentibus ut deus adoratur; qui non circa hæc tempora, sed
longe anterius, nec in Germania, sed in Grecia fuisse perhibetur. |
E
Wotan, che essi, con l'aggiunta di una
lettera, chiamarono Godan, è lo stesso
dio che i Romani chiamavano Mercurius. Venerato da
tutte le genti della Germania, pare tuttavia che le più remote origini di questa
divinità non siano germaniche ma greche. |
Paulus Diaconus: Historia
Langobardorum [I: 9] |
Tra le pratiche citate nell'Indiculus superstitionum et
paganiarum, il «Piccolo indice delle
superstizioni e cose pagane», che chiude il capitolare di Carlomannus (743), sono additate
alla pubblica riprovazione celebrazioni in onore di
Mercurius e Iuppiter. Segno indiscutibile
che nell'VIII secolo, presso i Franchi, si continuavano a celebrare riti in
onore di Wotan e di un altro dio, che
potrebbe essere Donner o
Ziu.
Adam Bremensis, storico tedesco attivo intorno al 1070, dunque al tramonto
del paganesimo scandinavo, descrive in un passo memorabile le tre divinità i cui
idoli si levavano nel tempio di Uppsala, in Svezia, tra cui vi è quello di
Óðinn.
In hoc templo, quod totum
ex auro paratum est, statuas trium deorum veneratur populus, ita ut
potentissimus eorum Thor in medio solium habeat triclinio; hinc et inde locum
possident Wodan et Fricco. Quorum significationes eiusmodi sunt: Thor, inquiunt,
praesidet in aere, qui tonitrus et fulmina, ventos ymbresque, serena et fruges
gubernat. Alter Wodan, id est furor, bella gerit, hominique ministrat virtutem
contra inimicos. Tertius est Fricco, pacem voluptatemque largiens mortalibus.
Cuius etiam simulacrum fingunt cum ingenti priapo. Wodanem vero sculpunt
armatum, sicut nostri Martem solent; Thor autem cum sceptro Iovem simulare
videtur. [...] |
In quel tempio, tutto ornato
d'oro, il popolo adora tre statue di dèi; Þórr,
il più potente, che siede nel mezzo, con
Óðinn alla sua destra e Freyr alla sua
sinistra. Questi dèi hanno i seguenti significati:
Þórr, dicono, è il signore dell'aria e
governa il tuono e il fulmine, il vento e la pioggia, il bel tempo e le messi.
Il secondo, Óðinn, che è il furore,
conduce le guerre e fornisce all'uomo il valore contro i nemici. Il terzo,
Freyr, procura ai mortali la pace e la
voluttà. L'idolo di questi è munito di un enorme fallo.
Óðinn viene raffigurato armato, come il
nostro Mars; col suo scettro,
Þórr sembra imitare
Iuppiter. [...] |
Omnibus itaque diis suis
attributos habent sacerdotes, qui sacrificia populi offerant. Si pestis et famis
imminet, Thor ydolo lybatur, si bellum, Wodani, si nuptiae celebrandae sunt,
Fricconi. |
Essi hanno sacerdoti adibiti
a tutti i loro dèi, che a essi presentano i sacrifici del popolo. Se vi è
pericolo di peste o di carestia, fanno un'offerta all'idolo di
Þórr; per la guerra, a
Óðinn; e se vi sono delle nozze da
celebrare, a Freyr. |
Adam
Bremensis:
Gesta Hammaburgensis Ecclesiæ Pontificum
[IV: 26-27] |
Un'altra interessante fonte latina è rappresentata da Galfridus Monemutensis
(Goffredo di Monmouth, ±1100-1155) che, nella sua
Historia regum Britanniæ, fa dire a Hengist, capo degli Juti invasori di Britannia:
Deos patrios, Saturnum,
Iovem atque ceteros qui mundum istum gubernant colimus: maxime autem Mercurium,
quem Worden lingua nostra appellamus. Huic veteres nostri dedicaverunt quartam
feriam septimane, que usque in hodiernum diem nomen Wonnesdei de nomine ipsius
sortita est. Post illum colimus deam inter ceteras potentissimam vocabulo Fream,
cui etiam dedicauerunt sextam feriam quam ex nomine eius Fridei vocamus. |
Veneriamo e onoriamo gli dèi
patri, Iuppiter, Saturnus,
Mercurius, e tutti quegli altri che onoravano i
nostri padri, ma soprattutto Mercurius, che nella
nostra lingua chiamiamo Wōden. A lui i
nostri avi consacrarono il quarto giorno della settimana, che anche oggi nella
nostra lingua prende nome da lui wodnesdei, cioè «mercoledì». Dopo di lui
onoriamo una dea, che è la più potente di tutte le altre, di nome
Frea: anche a essa è stato consacrato un giorno, il
sesto della settimana, che dal suo nome chiamiamo fridei, cioè «venerdì». |
Galfridus Monemutensis:
Historia regum Britanniæ [VI: 1]
|
Tra tutte le fonti latine che trattano di mitologia germanica, la più
significativa è però sicuramente l'imponente Gesta
Danorum di Saxo Grammaticus (±1150-±1220). Vi si narrano le
imprese di un gran numero di antichi re danesi, tra cui vi è lo stesso
Othinus. Per quanto il racconto di
Sassone sia fortemente evemerizzato, e
Othinus sia descritto in tutto e per tutto come un sovrano mortale, pur
dotato di poteri magici e di una sapienza soprannaturale, nondimeno a lui sono
attribuite gesta nelle quali si riconoscono in trasparenza gli stessi miti
nordici noti dalle due Edda, in molti casi
rielaborati e completati con nuovi dettagli. I racconti riferiti da Sassone sono
talmente interessanti e vasti che a loro dedicheremo in futuro un'apposita
sezione. |
III
- LE FONTI EPIGRAFICHE Alcune iscrizioni latine provenienti dalla
Germania settentrionale contengono delle invocazioni a
Mercurius. Poiché, come sappiamo, Mercurius
altri non era che l'interprætatio romana del
*Wōđanaz proto-germanico, è probabile che
alcune di loro possano essere inserite nel dossier relativo a
Óðinn (Gutenbrunner
1936).
Le prime testimonianze in vernacolo tedesco si limitano a un certo numero di
laconiche e ostiche iscrizioni runiche, alcune delle quali attestano la presenza
del dio. Dal territorio degli Alemanni proviene la cosiddetta Fibula di
Nordendorf (località vicino Augsburg, Bavaria), risalente all'inizio del VII
secolo, nella quale è scritto:
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Logaþore Wodan Wigiþonarr (?) |
Fibula di Nordendorf |
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L'iscrizione viene usualmente letta come «Logaþore Wodan Wigiþonarr»,
con riferimento a Wōdan,
Donar e, forse, a un altro personaggio nel
quale si è voluto vedere Lóðurr o Loki, anche se con ragioni
etimologiche piuttosto fragili (K. Düwel interpreta logaþore come «mago,
stregone», e traduce «Wōdan e
Donar sono stregoni»). Quale che sia il
significato del primo termine, non v'è dubbio che la fibula invochi delle
divinità di cui Wōdan è membro importante
e fondamentale.
Il nome del dio compare anche nell'iscrizione runica di Ribe (Jutland,
Danimarca, inizio del IX secolo), incisa su un cranio umano:
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ulfuR Auk uþin Auk HutiuR HiAlb buris uiþR
þAiMA uiArki Auk tuirkuniG buur |
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Ulfr ok Óðinn ok Hatýr. Hjalp Buri er viðr
þeima verki ok dvergynni. Burr. (?) |
Cranio di Ribe |
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È permesso chiedersi che cosa avesse in mente l'autore dell'iscrizione quando
metteva insieme (sempre che l'interpretazione sia corretta) Ulfr ok Óðinn ok
Hatýr, «Il lupo e Óðinn e Hatýr»
(l'ultimo nome è forse Týr?). Esistono altre
letture alternative dell'iscrizione, ma la maggior parte degli studiosi è
persuasa che uþin sia proprio Óðinn.
L'ultima iscrizione runica, in ordine di tempo, contenente il nome di
Óðinn, si trova su una delle tavolette di
Bryggen. In questa località, presso Bergen (Norvegia), vennero rinvenute nel
1955 circa seicentosettanta tavolette di legno incise con iscrizioni runiche,
per la maggior risalenti al XIV secolo. Prima di allora si era creduto che l'uso
delle rune in Norvegia fosse tramontato insieme al paganesimo: invece esse
perduravano in piena epoca cristiana. Le iscrizioni sono molto varie in quanto a
contenuto: nomi, indicazioni di proprietà, ordini, lettere d'affari, messaggi
d'amore, brevi invocazioni cristiane – alcune delle quali in latino – certamente
utilizzate a scopo apotropaico. Tra queste, una sola tavoletta presenta i nomi
di Þórr e
Óðinn, segno del residuo perdurare di
sacche di paganesimo in epoca tanto tarda.
hæil seþu ok ihuhum goþom
þor þik þig oþen þik æihi |
|
Heil sé þú ok í hugum góðum.
Þórr þik þiggi, Óðinn þik eigi. |
Salute a te e buoni pensieri,
che Þórr ti riceva, che
Óðinn ti possieda. |
Tavoletta
di Bryggen B380 |
|
IV - LE FONTI VERNACOLARI
GERMANICO-CONTINENTALI Poiché la letteratura scritta avanza di pari
passo con la cristianizzazione, non dobbiamo stupirci se pochissimi tra i primi
documenti nei volgari germanici trattano delle divinità pagane. Proprio sul
limitare tra paganesimo e cristianesimo in terra tedesca, si collocano le
cosiddette due
Merseburger
Zaubersprüche, o «Incantesimi di Meserburgo», in antico
alto tedesco, la seconda delle quali cita
Wōtan [uuodan] quale signore della magia e degli incantesimi: il dio
interviene a guarire con una formula il destriero di
Balder che si è distorto una zampa, dopo
che altre divinità (Sinhtgunt, Sunna,
Frīja e
Volla) non sono riuscite a fare altrettanto.
Phol ende uuodan
uuorun zi holza.
du uuart demo balderes uolon
sin uuoz birenkit.
thu biguol en sinthgunt,
sunna era suister;
thu biguol en friia,
uolla era suister;
thu biguol en uuodan,
so he uuola conda:
sose benrenki,
sose bluotrenki,
sose lidirenki:
ben zi bena,
bluot zi bluoda,
lid zi geliden,
sose gelimida sin. |
Phol e
Wōtan
cavalcavano nel bosco.
Allora al puledro di Balder
si distorse un piede.
Allora gli parlò Sinhtgunt,
e Sunna sua sorella;
allora gli parlò Frīja,
e Volla sua sorella;
allora gli parlò Wotan,
come lui solo sapeva,
per fratture d'ossa
per strappi alle carni
per distorsioni:
“Osso con osso,
sangue con sangue,
membro con membro,
come fossero legati”. |
Merseburger
Zaubersprüche [2] |
Il dio è quindi citato in una formula di abiura basso-tedesca (sassone o
franca) risalente alla fine dell'VIII secolo o all'inizio del IX, nella quale il
neofita, ricevendo il battesimo, dichiarava: «Rinuncio a tutte le opere e parole
del diavolo, a Thūnor e
Wōden e Saxnot
e a tutti gli spiriti malvagi che sono i loro compagni» [end ec forsacho
allum diaboles uuercum and wordum thunaer ande uuoden ende saxnote ende allvm
them unholdum the hira genotas sint] (Abrenuntiatio
saxon). |
V -
LE FONTI VERNACOLARI SCANDINAVE
Mentre nell'Europa continentale scompare ogni testimonianza del paganesimo
germanico, nei tre secoli successivi si verifica la grande fioritura delle
letteratura scandinava, in particolare di quella islandese, con il suo
patrimonio inestimabile di composizioni scaldiche, poemi mitologici e saghe.
Quasi tutte le nostre conoscenze sulla mitologia nordica provengono proprio
dalle fonti norrene, nelle quali il dio, presente col nome
germanico-settentrionale di Óðinn, ha
ormai raggiunto quella fisionomia e quel grado di specializzazione con i quali,
una volta scomparso il paganesimo, sarà fissato nella memoria collettiva.
Le più antiche attestazioni letterarie di
Óðinn nella letteratura norrena, le troviamo in alcuni poemi scaldici
risalenti al IX e al X secolo. Il primo è l'Eiríksmál,
il «Discorso
per Eiríkr», panegirico anonimo composto in memoria
di Eiríkr Blóðøx, re di Norvegia, nel 954, dove assistiamo a una scena in cui
Óðinn prepara una degna accoglienza al
defunto sovrano che sta per accedere alla
Valhǫll; lo stesso dio spiega
che la sconfitta e la morte di Eiríkr sono state da lui decretate in vista di
uno scopo superiore: il valore del re sarà necessario alla causa degli dèi
quando verrà il giorno di ragnarǫk.
Di poco posteriore è l'Hákonarmál, il «Discorso per Hákon»,
composto dallo scaldo Eyvindr Finnson skáldaspillir sul modello della
composizione precedente; questa volta il panegirico è per il re Hákon Góði, il
quale cadde nella battaglia di Stǫrð (961) combattendo contro i figli del
fratellastro Eiríkr Blóðøx. Dopo un'accesa descrizione della battaglia, il
sovrano caduto viene trasportato dalle
Valkyrjur nella Valhǫll
e, nonostante il defunto fosse di fede cristiana,
Óðinn lo accoglie ugualmente tra gli
Einherjar.
Il poeta vichingo Egill Skallagrímsson, al momento di abbandonare la Norvegia
per l'Islanda, invoca alcuni dèi (tra cui
Óðinn) e maledice Eiríkr Blóðøx che lo ha spogliato dei suoi beni e
costretto all'esilio:
Svá skyldi goð gjalda,
gram reki bǫnd af lǫndum,
reið sé rǫgn ok Óðinn,
rö́n míns féar hö́num;
folkmýgi lát flýja,
Freyr ok Njǫrðr, af jǫrðum,
leiðisk lofða stríði
landö́ss, þanns vé grandar. |
Che lo ricompensino gli dèi, il re,
lo caccino le potenze del paese,
i numi e Óðinn si infurino,
col ladro delle mie ricchezze!
Lo facciano scappare, l'oppressore del popolo,
Freyr e
Njǫrdr, dalle sue terre!
Che gli porti odio, a quel nemico degli uomini,
l'áss del paese [Þórr], al violatore dei
santuari! |
Egill
saga Skallagrímssonar [56] |
Di estremo interesse è il Sonatorrek,
l'«Inutile vendetta per il figlio», sempre di Egill Skallagrímsson, una sorta
di lucido lamento per la perdita del figlio Bǫðvarr scomparso in mare. Il poeta
si rivolge a Óðinn – qui sempre nominato
con kenningar («signore della lancia», «amico dei giganti», «nemico del
lupo») – come a un dio infido e sleale. Le invettive di Egill potranno
sorprendere chi è abituato a intendere in modo più sottomesso il rapporto con le
proprie divinità: ma nulla di questo avviene nella lontana Islanda. Egill accusa
Óðinn di aver deliberatamente spezzato il
patto di fiducia e amicizia che aveva stretto con lui, e per questo egli ha
cessato di tributargli sacrifici. Ammette però che
Óðinn, pur non avendogli risparmiato un
dolore così lacerante, lo ha comunque consolato col dono inestimabile dell'arte
poetica.
Áttak gótt
við geirs dróttin,
gerðumk tryggr
at trúa hónum,
áðr vinan
vagna rúni,
sigrhǫfundr,
of sleit við mik. |
Vivevo in armonia
col signore della lancia,
avevo preso fiducia
nell'appoggiarmi a lui.
Ma ha scelto di strappare,
l'amico dei giganti,
principe di vittoria,
l'amicizia con me. |
Blœtka því
bróður Vílis,
goðjaðar,
at gjarn séak,
þó hefr Míms vinr
mér of fengnar
bǫlva bœtr,
ef et betra telk. |
Non sacrifico più
al fratello di Víli,
al primo degli dèi.
Farlo, oggi, mi ripugna.
Ma l'amico di Mímir
ha scovato una cura
per la mia sofferenza
e, riesco ancora a dirlo,
l'unica per guarirmi. |
Gǫfumk íþrótt
ulfs of bági
vígi vanr
vammi firða
ok þat geð,
es ek gerða mér
vísa fjandr
af vélǫndum. |
Mi ha donato un mestiere,
il nemico del lupo,
l'astuto combattente,
trasparente e perfetto.
Mi ha dato poi una mente
che ha mutato ai miei occhi
in nemici sicuri
gli ipocriti di sempre. |
Egill Skallagrímsson:
Sonatorrek [22-24] |
Vengono poi i poemi della
Ljóða Edda, composti tra il IX e l'XI secolo,
ma probabilmente risalenti a una non precisata antichità. Essi sono una delle
fonti principali per la nostra conoscenza dei miti attribuiti a
Óðinn. È cosa lunga e ardua elencare
tutte le citazioni del dio in questi poemi. Ne facciamo un rapido sunto
invitando il lettore a consultare le fonti originali (disponibili nella nostra
sezione antologica):
-
Vǫluspá. La presenza di
Óðinn è costante. Lui e i suoi fratelli
creano inizialmente l'universo [4-6]. Quindi
Óðinn apre le ostilità tra
Æsir e
Vanir scagliando la sua lancia contro
le schiere nemiche [24]. Si allude all'occhio che
Óðinn cedette al fine di bere alla fonte
della sapienza [28]. Si narra dello scontro di
Óðinn contro il lupo
Fenrir nel corso della battaglia
escatologica, nel giorno di ragnarǫk,
e della morte del dio, sbranato dal lupo [53].
-
Hávamál. Poema gnomico-sentenziale
tradizionalmente attribuito in tutto o in parte allo stesso
Óðinn. Vi si narra l'episodio della
fallita seduzione della figlia di Billingr da parte di
Óðinn [96-102]
e quello del furto dell'idromele della poesia al gigante
Suttungr [104-110]. Si accenna al mito dell'autosacrificio di
Óðinn al fine di prendere possesso delle
rune [138-145]. Si traccia infine un quadro degli
incantesimi padroneggiati dal dio, narrati dallo stesso a un certo
Loddfáfnir [146-163].
-
Vafþrúðnismál.
Il poema narra del certamen di sapienza che
Óðinn, celato sotto il falso nome di
Gagnráðr, tenne col gigante
Vafþrúðnir, allo scopo di stabilire
chi di loro fosse il più saggio.
-
Grímnismál. Poema gnomico nel quale,
legato tra due fuochi per ordine del re
Geirrøðr, il dio, qui celato sotto il
nome di Grímnir, declama una
serie di strofe di estremo interesse mitologico e conclude il monologo svelando
tutti i nomi ed epiteti con cui egli è chiamato [46-50]
e rivelando alla fine la sua identità [54].
- Hárbarðzljóð.
Sotto il falso nome di Hárbarðr,
Óðinn alterca con
Þórr, divertendosi a irritarlo. Nel corso
della discussione si accenna a diversi miti andati perduti e si evidenziano le
personalità dei due dèi.
- Lokasenna.
In questo poema ingiurioso, Loki lancia
accuse velenose a ciascuno degli dèi, compreso
Óðinn, del quale rivela i lati meno
onorevoli.
-
Baldrs draumar.
Sotto il falso nome di Vegtamr,
Óðinn si reca negli inferi dove interroga
una veggente, la quale gli rivela della prossima fine di suoi figlio
Baldr.
- Helgkviða Hundingsbana ǫnnor. Dopo aver sostenuto l'eroe Helgi nel
corso della sua esistenza, Óðinn cede la
sua stessa lancia al cognato Dagr affinché lo uccida. Ritrovando sua sorella
Sigrún, vedova di Helgi, che gli promette una vendetta, Dagr le dice che «solo
Óðinn provocò tutte le disgrazie, poiché
porta la discordia tra parenti» [34].
- Reginsmál.
Óðinn interviene a stabilire il destino
di Sigurðr.
- Sigrdrífumál.
Óðinn punisce la valchiria Sigrdrífa
sprofondandola in un sonno magico, dal quale più tardi la desterà Sigurðr.
Risvegliandosi, la valchiria tratta a lungo dell'arte di padroneggiare le rune,
e accenna a diversi miti perduti su Óðinn.
I due principali testi norreni in prosa che riguardano
Óðinn vennero però redatti da Snorri
Sturluson all'inizio del XIII secolo. Il primo dei due è naturalmente la Prose Edda,
in cui il grande scrittore islandese – attingendo in larga misura ai canti della
Ljóða Edda
e alla poesia scaldica – descrive nei dettagli la fisionomia del dio e racconta
i principali miti che lo riguardano. Un altro quadro assai vivido di
Óðinn e dei suoi poteri stregoneschi,
Snorri ce lo consegna nei capitoli 6-7 della Ynglinga
saga, dove il dio viene evemerizzato, secondo l'esempio della
storiografia medievale, e descritto come un antico sovrano dell'Asia il quale,
in tempi remoti, avrebbe condotto il suo popolo in Scandinavia.
A partire dal XII secolo, il mondo nordico produce l'imponente fenomeno
letterario delle saghe, nelle quali vengono annotate tutte le vicende che per un
motivo o per l'altro vengono ritenute degne di essere fissate nella memoria
letteraria: biografie di sovrani, eroi, guerrieri, poeti, navigatori, santi; vi
sono le cronache familiari degli insediamenti islandesi e lunghi resoconti
storiografici sui re dei paesi del nord. Le saghe coprono in pratica tutto lo
spettro esistenti tra le vicende mitiche e le cronache storiche, portando molti
esempi in cui la storia e la leggenda si mescolano inestricabilmente. La
presenza di Óðinn è piuttosto frequente
in questo tipo di narrazioni. È quasi costante in quelle mitologiche, ma
all'occorrenza il dio può fare la sua inaspettata comparsa anche in quelle
storiche.
Tra le saghe prettamente mitologiche,
Óðinn ha un posto di assoluto rilievo nella
Vǫlsunga saga, incentrata sulle gesta di varie generazioni di eroi
appartenenti alla stirpe di Vǫlsungr (tra cui spiccano le figure di Sigmundr,
Helgi e Sigurðr). Óðinn non è solo
l'antenato dei Vǫlsungar, ma è continuamente presente nel corso della vicenda,
di cui è contemporaneamente regista e comparsa, e a volte sembra provi piacere a
spargere i semi delle discordie future. Egli interviene per favorire la nascita
dei vari eroi, li aiuta e favorisce nel corso della loro vita, a volte elargendo
loro preziosi consigli, e giunge a reclamare, quando è il momento, la loro vita.
Nella Hálfs saga ok Hálfsrekka
si dice esplicitamente che il misterioso
Hǫttr, il quale aiuta una regina a
preparare una birra eccellente per vincere una gara, sia
Óðinn; egli le domanda in compenso «ciò
che c'è tra lei e il paiolo», cioè il figlio che la donna porta in grembo.
Costui è l'eroe Víkarr, che nasce già consacrato al dio. Nella
Gautreks saga, che riprende alcuni temi
della precedente, Óðinn compare col falso
nome di Hrosshársgrani: la
falsa impiccagione inscenata per soddisfare il dio si trasforma in un reale
sacrificio e Víkarr muore impiccato e trafitto dalla canna magicamente
trasformatasi in lancia.
Tra le molte saghe mitologiche nelle quali compare
Óðinn, ricordiamo brevemente la
Skjǫldunga saga, nella quale il dio si
manifesta nel corso di una battaglia e aveva resuscita i caduti causando grande
strage presso i Danesi; la Ǫrvar-Odds saga,
in cui Óðinn compare sotto il nome di
Jólfr e dona all'eroe Oddr tre
frecce magiche di pietra che gli serviranno per uccidere un dèmone; la
Hervǫrs saga ok Heiðreks, in cui il dio compare sotto
il nome di Gestumblindi e
coinvolge re Heiðrekr a una gara di indovinelli: la
Hrólfs saga Kraka, dove, nelle vesti di un misterioso contadino di
nome Hrani, dà ospitalità a Hrólfr
Kraki e ne stabilisce la sorte.
Ma, come detto, Óðinn compare anche
nelle saghe prettamente storiche, in contesti in cui non ci si aspetterebbe di
incontrare una divinità pagana, tanto a mostrare quanto la mentalità scandinava
medievale, anche in tempi cristiani, fosse ancora intrisa di lui. Sotto il nome
di Gestr, il dio si sarebbe
presentato a re Óláfr Tryggvason (♔ 995-1000), stando a quanto raccontano sia Snorri Sturluson nella
Óláfs saga Tryggvasonar (sesta parte della
Heimskringla), sia Oddr Snorrason nella prima parte delle
Konunga sǫgur o «Saghe reali». Con lo
stesso nome, il dio avrebbe visitato anche re Óláfr II Haraldsson inn Helgi
(♔ 1015-1028), stando a quanto racconta il Flateyjarbók. In epoca cristiana si svolge anche la
Bárðs saga Snæfellsáss, nelle quale l'equipaggio di
un vascello prende a bordo un uomo guercio, avvolto in un mantello azzurro, che
si presenta col nome di Rauðgrani
e comincia a incitare gli uomini a praticare sacrifici pagani; un prete
cristiano si infuria e lo colpisce con un crocifisso, lo strano personaggio cade
fuoribordo e non torna più. Questi testi rivelano tra le righe il dissidio tra
cristianesimo e paganesimo che dopo il 1000 aveva luogo nei paesi scandinavi:
Óðinn viene avvertito come presenza
residua di un mondo in disfacimento, una sorta di antico spettro che cerca di
contrastare l'avanzata della nuova fede. Non desta meraviglia il fatto che le
sue ultime comparsate – spesso anonime – abbiano tutto il sapore delle storia di
fantasmi. Ad esempio, nella Hákons, Guttorms ok Inges
saga si racconta che, quattro giorni prima della battaglia di Lena
(1208), un fabbro riceve la visita di un misterioso individuo che vuole far
ferrare il suo cavallo. Resosi conto di non avere a che fare con una persona
normale, il fabbro rivolge molte domande al nuovo venuto, ma l'uomo, dopo aver
lasciato intendere la propria identità, balza via al galoppo saltando col
cavallo un recinto altissimo.
Queste sono le ultime apparizioni del dio nella letteratura scandinava.
Dopodiché egli sarà a lungo presente soltanto nel folklore e in talune ballate
popolari. |
VI - LE FONTI GENEALOGICHE ANGLOSASSONI Le fonti britanniche,
sia in lingua latina che anglosassone, sono ricche di riferimenti a
Wōden, citato come mitico progenitore di
molte delle dinastie fondate dagli invasori germanici, riconducendo a lui molte
delle mitiche genealogie dei sovrani Angli, Sassoni o Juti.
Esordisce Bǣda Venerabilis (672-735) che, nella sua imponente
Historia ecclesiastica gentis Anglorum,
scritta in latino e terminata nel 731, riporta la genealogia di Hengist e Horsa,
i due capi degli Juti invasori di Britannia:
Erant autem filii
Uictgilsi, cuius pater Uitta, cuius pater Uecta, cuius pater Uoden, de cuius
stirpe multarum prouinciarum regium genus originem duxit. |
[Hengist e Horsa] erano i
due figli di Wihtgils, il cui padre era Witta, il cui padre era Wecta, il cui
padre era Wōden: da questa famiglia
trasse origine la stirpe reale di molte regioni. |
Bǣda Venerabilis: Historia
ecclesiastica gentis Anglorum
[I: 15] |
Diverse genealogie risalenti a Wōden
sono citate nella Historia Brittonum di
Nennius (IX secolo). La stirpe di Horsa ed Hengist ricompare qui con un
interessantissimo ampliamento:
Hors et Hengist, qui et
ipsi fratres erant, filii Guictglis, filii Guigta, filii Guectha, filii Woden,
filii Frealaf, filii Fredulf, filii Finn, filii Fodepald, filii Geta, qui fuit,
ut aiunt, filius dei. non ipse est deus deorum, amen, deus exercituum, sed unus
est ab idolis eorum, quod ipsi colebant. |
Horsa e Hengist, che erano
figli di Wihtgils, figlio di Witta, figlio di Wecta, figlio di
Wōden, figlio di Freoþlaf, figlio di
Freoþulf, figlio di Finn, figlio di Fodepald, figlio di
Gēata,
che si dice fosse figlio di un dio, ma non il Dio di tutti gli dèi, amen,
il Dio degli eserciti, ma uno degli idoli in cui loro credono. |
Nennius:
Historia Brittonum [31] |
Significativamente, Nennius pare rendersi conto che la genealogia di Hengist e
Horsa attinga al mito pagano. Questo Gēata, qui detto antenato dello stesso
Wōden (come anche in
Cronaca anglosassone [547]), è l'antenato
eponimo del popolo dei Goti della Svezia meridionale (norreno Gautar,
anglosassone Gēatas, come attestato
nel Bēowulf).
Si noti che anche Jordanes pone un Gapt alla base della stirpe degli
Amali, famiglia reale degli Ostrogoti (De origine
actibusque Getarum
[XIV: 79]). Questo nome ricompare come
Gautr nelle fonti norrene, dove è
considerato epiteto dello stesso Óðinn.
Sempre in Nennius si forniscono molte interessanti genealogie che fanno capo a
Wōden. In un paio di esse si cita un
Beldeyg [anglosassone Bældæg] figlio di
Wōden (Historia
Brittonum [57 | 61]), nel quale è forse vedere
Baldr figlio di
Óðinn. In un altro caso troviamo un
Inguec [anglosassone Ingwi], discendente di
Wōden (Historia
Brittonum [57]), il quale è probabilmente da identificare con
l'Yngvi scandinavo, epiteto di Freyr quale
progenitore della stirpe reale degli Ynglingar.
Woden genuit Beldeyg,
genuit Beornec, genuit Gechbrond, genuit Aluson, genuit Inguec, genuit
Aedibrith, genuit Ossa, genuit Eobba, genuit Ida. |
Wōden generò Beldeyg [Bældæg],
che generò Beornec [Bennoc], che generò Gechbrond, che generò Aluson, che generò
Inguec [Ingwi], che generò Aedibrith, che generò Ossa [Esa], che generò Eobba
[Eoppa] che generò Ida. |
Nennius:
Historia Brittonum [57] |
De ortu regum
Eastanglorum. Woden genuit Casser, genuit Titinon, genuit Trigil, genuit
Rodmunt, genuit Rippan, genuit Guillem Guechan, genuit ipse primus regnavit in
Brittannia super gentem Eastanglorum. Guecha genuit Guffan, genuit Tydil, genuit
Ecni, genuit Adric, genuit Aldul, genuit genuit Elric. |
Genealogia dei re
dell'Anglia orientale. Wōden generò
Casser, che generò Titinon, che generò Trigil, che generò Rodmunt, che generò
Rippan, che generò Guillem Guecha, che per primo regnò in Britannia sulle genti
dell'Anglia orientale. Guecha fu padre di Guffa, che generò Tydil, che generò
Ecni, che generò Aldwulf, che generò Elric. |
Nennius: Historia
Brittonum [59] |
De genealogia Merciorum.
Woden genuit Guedolgeat, genuit Gueagon, genuit Guithleg, genuit Guerdmund,
genuit Offa, genuit Ongen, genuit Eamer, genuit Pubba. Ipse Pubba habuit
duodecim filios, quorum duo notitiores mihi sunt quam alii, id est Penda et Eua.
[...] |
Genealogia dei re della
Mercia. Wōden generò Guedolgeat, che
generò Gueagon, che generò Guithleg [Wihtlæg], che generò Guerdmund [Wærmund],
che generò Offa, che generò Ongen [Angelþeow], che generò Eamer [Eomær], che
generò Pubba [Pybba]. Quest'ultimo ebbe dodici figli, due dei quali mi sono più
conosciuti degli altri, cioè Penda ed Eawa. [...]. |
Nennius: Historia
Brittonum [60] |
De regibus Deurorum.
Woden genuit Beldeyg, Brond genuit Siggar, genuit Sebald, genuit Zegulf, genuit
genuit Soemil, genuit ipse primus separavit Deur o Birneich. Soemil genuit
Sguerthing, genuit Giulglis, genuit Usfrean, genuit Iffi, genuit Ulli, Ædgum,
Osfird et Eadfird. |
[Genealogia] dei re dei
Dieri. Wōden generò Beldeyg [Bældæg],
Brond generò Siggar [Sigegar], che era il padre di Sebald [Sæbald], padre di
Zegulf, che generò Soemil, che per primo separò la Deira dalla Bernicia. Soemil
generò Sguerthing, che generò Giulglis [Wilgisl], che generò Usfrean [Uxfrea],
che generò Iffi [Yff], che generò Ulli [Ælle], Ædgum,
Osfird ed Eanfrid. |
Nennius: Historia
Brittonum [61] |
Al 1185 circa risale la Vita Kentigerni,
attribuita al monaco Jocelinus Furnesius (Jocelin di Furness, 1175-1214). Vissuto nel VI secolo,
San Cantigernus/Kentigern (o San
Mungo) di Glasgow, città da lui stesso fondata, fu uno dei principali
evangelizzatori della Scozia prima dell'arrivo di San Columba di Iona (da
confondere con San Columbanus). Quanto leggiamo nella sua agiografia, ci rivela
probabilmente quale concezione del dio avessero Bǣda
e Nennius, «In verità,
affermò [Cantigernus], Wōden, ritenuto il
principale tra gli dèi (e soprattutto dagli Angli, che facevano risalire la loro
origine a lui e al quale avevano consacrato il quarto giorno della settimana),
era stato probabilmente un mortale di fede pagana e un re dei Sassoni, e sia
questi che molte altre nazioni ritenevano di discendere da lui. E aggiunse che
il corpo di Wōden, poiché molti anni
erano trascorsi, si era ormai perduto nella polvere, e la sua anima si trovava
ora negli inferi, preda del fuoco eterno» (Vita
Kentigerni [XXXII]). Questo passo è però troppo sospetto per essere
considerato una fonte attendibile, innanzitutto perché contiene un errore
storico: le genti a cui San Cantigernus si rivolgeva erano Celti di Scozia, i
quali difficilmente avrebbero adorato un dio germanico. Evidentemente è lo
stesso Jocelinus Furnesius ad attribuire loro, quale dio, quello stesso
Wōden a cui Angli e Sassoni, come abbiamo
visto, facevano risalire le loro genealogie.
Nella Cronaca Anglosassone, una raccolta
di annali in lingua anglosassone, la cui composizione ed elaborazione copre
tutto il periodo tra l'890 e il 1154, compare più volte
Wōden come antenato mitico nelle
genealogie dei primi sovrani di stirpe germanica di Britannia. Per lo più si
tratta di varianti delle medesime genealogie già attestate in Bǣda e in Nennius.
Heora heretogan wæron
twegen gebroðra. Hengest ⁊ Horsa. þæt wæron Wihtgilses suna. Wihtgils wæs
Witting. Witta Wecting. Wecta Wodning. fram þan Wodne awoc eall ure cyne cynn.
⁊ Suðanhymbra eac. |
I loro capi erano due
fratelli, Hengist e Horsa, i quali erano figli di Wihtigils. Wihtgils era
[figlio] di Witta, Witta di Wecta, Wecta di
Wōden. Da queste Wōden sorsero tutte
le nostre stirpe reali e anche quelle di Southumbria. |
Cronaca Anglosassone [449] |
Her Ida feng to rice,
þanen Norðanhymbra kinecynn onwoc, Ida wæs Eopping, Eoppa Esing, Esa wæs
Inguing, Ingui Angenwitting, Angenwit Alocing, Aloc Benocing, Benoc Branding,
Brand Bældæging, Bældæg Wodening, Woden Freoþolafing, Freoþelaf Freoþulfing,
Friþulf Finning, Finn Godulfing, Godulf Geating. |
Quest'anno Ida iniziò il suo
regno; da lui sorse la stirpe reale di Northumbria. Ida era [figlio] di Eoppa,
Eoppa di Esa, Esa di Ingwi, Ingwi di Angewit, Angewit di Alloc, Alloc di Bennoc,
Bennoc di Brand, Brand di Bældæg, Bældæg di
Wōden, Wōden di Freoþlaf, Freoþlaf di
Freoþulf, Freoþulf di Finn, Finn di Godulf, Godulf di
Gēata. |
Cronaca Anglosassone [547] |
Her Cynric feaht wið
Bryttas on þære stowe þe is genemned Searoburh, ⁊ þa Bryttas geflimde. Cerdic
wæs Cynrices fæder, Cerdic Elesing, Elesa Esling, Esla Gewising, Giwis Wiging,
Wig Freawining, Freawine Freoþogaring, Freoþogar Branding, Brand Bældæging,
Bældæg Wodening. |
Quest'anno Cynric combatté
con i Bretoni nel luogo che è chiamato Sarum e li mise in fuga. Padre di Cynric
era Cerdic. Cerdic era [figlio] di Elesa, Elesa di Esla, Esla di Gewis, Gewis di
Wig, Wig di Freawin, Freawin di Freoþgar, Freoþgar di Brand, Brand di
Bældæg,
Bældæg
di Wōden. |
Cronaca Anglosassone [552] |
Ælle wæs Yffing, Yffe
Uxfreaing, Uxfrea Wilgi[s]ling, Wilgisl Westerfalcing, Westerfalca Sæfugling,
Sæfugel Sæbalding, Sæbald Sigegeating, Sigegeat Swebdæging, Swebdæg Sigegaring,
Sigegar Wægdæging, Wægdæg Wodening. |
Ælle era [figlio] di Yff,
Yff di Uxfrea, Uxfrea di Wilgisl, Wilgis di Westerfalc, Westerfalc di Sæfugel,
Sæfugel di Sæbald, Sæbald di Sigegeat, Sigegeat di Swebdæg, Swebdæg di Sigegar ,
Sigegar di Wægdæg, Wægdæg di Wōden. |
Cronaca Anglosassone [560] |
Se wæs Cuþyng, Cuþa
Kynricing, Cynric Cerdicing, Cerdic Elesyng, Elesa Esling, Esla Gewising, Gewis
Wiging, Wig Freawining, Freawine Freoþogaring, Freoþogar Branding, Brand
Bældæging, Bældæg Wodening. |
[Ceolwulf] era [figlio] di
Cuþa, Cuþa di Cynric, Cynric di Cerdic, Cerdic di Elesa, Elesa di Esla, Esla di
Gewis, Gewis di Wig, Wig di Freawine, Freawine di Freoþgar, Freoþgar di Brand,
Brand di Bældæg,
Bældæg
di Wōden. |
Cronaca Anglosassone [597] |
Penda wæs Pybbing, Pybba
Creoding, Creoda Cynewalding, Cynewald Cnebbing, Cnebba Iceling, Icel Eomæring,
Eomær Angelþeowing, Angelþeow Offing, Offa Wærmunding, Wærmund Wihtlæging,
Wihtlæg Wodening. |
Penda era [figlio] di Pybba,
Pybba di Creoda, Creoda di Cynewald, Cynewald di Cnebba, Cnebba di Icel, Icel di
Eomær, Eomær di Angelþeow, Angelþeow di Offa, Offa of Wærmund, Wærmund of
Wihtlæg, Wihtlæg of Wōden. |
Cronaca Anglosassone [626] |
Offa wæs Þingferþing, Þingferð
Eanwulfing, Eanwulf Osmoding, Osmod Eawing, Eawa Pybbing, Pybba Creoding, Creoda
Cynewalding, Cynewald Cnebbing, Cnebba Iceling, Icel Eomæring, Eomær
Angelþeowing, Angelþeow Offing, Offa Wærmunding, Wærmund Wihtlæging, Wihtlæg
Wodening. |
Offa era [figlio] di Þingferð, Þingferð
di Eanwulf, Eanwulf di Osmod, Osmod di Eawa, Eawa di Pybba, Pybba di Creoda,
Creoda di Cynewald, Cynewald di Cnebba, Cnebba di Icel, Icel di Eomær, Eomær di
Angelþeow, Angelþeow di Offa, Offa of Wærmund, Wærmund of Wihtlæg, Wihtlæg of
Wōden. |
Cronaca Anglosassoni [755] |
|
VII - ÓĐINN: UNA VISIONE D'INSIEME Le nostre fonti,
soprattutto quelle in lingua norrena, ci presentano un'immagine di
Óðinn assai vivida e suggestiva. Poche
divinità dei vari paganesimi europei sono ritratte con tanti dettagli e
caratterizzate con tanta cura e attenzione.
Óðinn risalta come una figura straordinariamente ricca di compiti e
funzioni, anche se le sue vastissime e multiformi capacità, i molti livelli del
sacro a cui egli ha accesso, sono congegnati con sottile accortezza teologica,
sicché ne risulta nel complesso una figura coerente e priva di vistose
contraddizioni. Detto questo, un inventario di tutte le funzioni coperte da
Óðinn è un compito piuttosto lungo e
arduo.
Legato per ascendenza ai giganti primordiali,
Óðinn è il padre e il capo degli dèi.
Nelle narrazioni storicizzanti è il primo re degli
Æsir; in quelle mitiche è naturalmente
il loro unico sovrano dalla creazione al
ragnarǫk. In particolare è il
patrono dei re degli uomini, protettore e garante della loro potenza. È il
signore dell'ordine cosmico, e come tale è lui che patisce più coscientemente e
più profondamente il grande dramma cosmico: egli ha previsto l'uccisione di suo
figlio Baldr, ma non ha potuto impedirla,
pur deplorandola come padre e come signore del mondo: egli sa bene che quella
morte delegittimerà quei principi di giustizia e pace su cui si regge l'ordine
dell'universo, senza i quali ogni cosa esistente è condannata al definitivo
crollo morale. Sulle parole che Óðinn
sussurra nell'orecchio del figlio morto, i testi hanno rispettato il mistero.
Dio sinistro e poco rassicurante, Óðinn
è innanzitutto il viandante, colui che, avvolto in un mantello azzurro scuro e
col cappello calcato sul capo, si muove per le strade del mondo. Tutto questo
contribuisce in parte ad accrescere il suo sapere e la sua conoscenza
(d'altronde i suoi corvi Huginn e
Muninn – che sono insieme i suoi
occhi e la sua mente, il suo pensiero e la sua memoria – volano ogni giorno su
tutta la Terra e la sera ritornano a sussurrargli alle orecchie tutto quanto
hanno visto e udito). Allo stesso modo, Óðinn
circola dovunque, padrone e spia a un tempo, e conosce ogni paese della terra.
Egli è l'ospite inaspettato che giunge sotto falso nome nelle case della gente,
tanto nelle fattorie di contadini quanto nelle regge dei sovrani. Un gran numero
di narrazioni si riferiscono a questo motivo, tanto da meritare a
Óðinn l'epiteto di
Gestr «ospite». Il tema che ha i
suoi addentellati nella mitologia classica, dove tocca solitamente a
Zeús ed Hermês
visitare in incognito le case degli uomini. Da qui il concetto, ampiamente
diffuso in Grecia e in Scandinavia, della sacralità dell'ospite, simbolicamente
rappresentata dalla divinità che bussa alla porta sotto mentite spoglie. Ma
mentre gli dèi «classici» si impongono come giudici morali del comportamento
degli uomini, Óðinn agisce a volte in
maniera che agli esseri umani può parere inesplicabile: manovra, trama e agisce
seguendo i suoi scopi segreti.
Óðinn è il veggente, lo stregone, il
poeta, il sapiente, il conoscitore delle cose antiche e profonde, tutte qualità
che dipendono dal suo dominio sull'óðr, l'«ebbrezza poetica», il
principio che definisce etimologicamente il nome del dio. La sapienza di
Óðinn si esprime simbolicamente
attraverso una mutilazione, pare volontaria: è guercio, avendo ceduto in pegno
uno dei suoi occhi nella sorgente di
Mímisbrunnr, fonte di ogni sapere (Gylfaginning [15]).
Hvers fregnið mik?
hví freistið mín?
Alt veitk, Óðinn,
hvar auga falt
í enum mæra
Mímis brunni;
drekkr mjǫð Mímir
morgin hverjan
af veði Valfǫðrs.
Vituð ég enn eða hvat? |
Che cosa mi chiedete?
Perché mi mettete alla prova?
Tutto io so, Óðinn,
dove tu nascondesti l'occhio
nella famosa
Mímisbrunnr!
Mímir beve idromele
ogni mattino
dal pegno pagato da Valfǫðr.
Che altro tu sai? |
Ljóða Edda >
Grímnismál [29] |
Le rune, lettere magiche che riassumono i principi basilari dell'universo,
sono proprietà di Óðinn. Il potere su di
esse gli è venuto da una sorta di iniziazione a cui il dio si è sottoposto, a
una «quasi morte» interpretata in modo plausibile alla luce delle pratiche
sciamaniche finniche e siberiane (Pipping 1928 | Eliade
1951). Il mito è riportato in un passo piuttosto enigmatico dell'Hávamál, riguardo al quale Snorri non fornisce alcuna spiegazione.
Veit ek, at ek hekk
vindgameiði á
nætr allar níu,
geiri undaðr
ok gefinn Óðni,
sialfur sialfum mér,
á þeim meiði
er manngi veit
hvers af rótum renn. |
Lo so io, fui appeso
al tronco sferzato dal vento
per nove intere notti,
ferito di lancia
e consegnato a Óðinn,
io stesso a me stesso,
su quell'albero
che nessuno sa
dove dalle radici s'innalzi. |
Við hleifi mik sældu
né við hornigi,
nýsta ek niðr,
nam ek upp rúnar,
æpandi nam,
fell ek aftr þaðan. |
Con pane non mi saziarono
né con corni [mi dissetarono].
Guardai in basso,
feci salire le rune,
chiamandole lo feci,
e caddi di là. |
Ljóða Edda
>
Hávamál [138-139] |
Óðinn conosce più cose di ogni altro
essere al mondo, con la possibile eccezione di certi giganti ancora più antichi
e sapienti, con i quali il dio ama disputare in pericolose gare di sapienza (è
appunto l'argomento del
Vafþrúðnismál). Ma
Óðinn è in grado di padroneggiare molti incantesimi e di compiere un gran
numero di prodigi. Il
Hávamál descrive molte delle
formule magiche conosciuti dal dio, di cui un elenco di diciotto incantesimi
compare nella sezione intitolata Ljóðatal,
«Dissertazione sui
canti magici»: pronunciando tali galdrar,
Óðinn si dice in grado di uscire da
situazioni pericolose, paralizzare i nemici, rendere inoffensive le loro armi,
liberarsi da ceppi e catene, spegnere il fuoco, calmare il vento, acquietare le
tempeste, sedare le liti, ingannare le streghe, rendere invulnerabili i
guerrieri, far parlare gli impiccati, sedurre donne e fanciulle
(Hávamál [146-153]).
A questi si aggiungono altri nove incantesimi – dei quali non è precisata la
natura – che Óðinn avrebbe ricevuto dallo
zio materno, qui definito semplicemente «figlio di
Bǫlþorn» e in cui forse potrebbe essere
visto Mímir (Hávamál [140]). Nella narrazione storicizzante contenuta nella
Ynglinga saga, Snorri riassume
meravigliosamente l'idea che la gente si facesse dei molti talenti di
Óðinn, verso la fine del paganesimo:
Óðinn skipti hǫmum; lá þá
búkrinn sem sofinn eða dauðr, en hann var þá fugl eða dýr, fiskr eða ormr, ok
fór á einni svipstund á fjarlæg lǫnd, at sínum erendum eða annarra manna. Þat
kunni hann enn at gera með orðum einum, at slǫkkva eld ok kyrra sjá, ok snúa
vindum hverja leið er hann vildi. Óðinn átti skip, þat er Skiðblaðnir hét, er
hann fór á yfir hǫf stór, en þat mátti vefja saman sem dúk. Óðinn hafði með sér
hǫfuð Mímis, ok sagði þat honum mǫrg tíðindi or ǫðrum heimum. En stundum vakti
hann upp dauða menn or jǫrðu, eða settist undir hanga; fyrir því var hann
kallaðr drauga dróttinn eða hanga dróttinn. Hann átti hrafna tvá, er hann hafði
tamit við mál; flugu þeir víða um lǫnd ok sǫgðu honum mǫrg tíðindi. Af þessum
hlutum varð hann stórliga fróðr. |
Óðinn cambiava aspetto; mentre il suo
corpo giaceva come morto o addormentato egli diventava uccello o animale, pesce
o serpe, portandosi in un batter d'occhi in terre lontane per [accudire alle]
proprie o altrui faccende. Inoltre, con le sole parole, spegneva il fuoco,
calmava i marosi, mutava il vento a volontà. Possedeva la nave che si chiama
Skíðblaðnir, con la quale
viaggiava sui grandi mari, e quella [nave] poteva essere ripiegata come una
tovaglia. Óðinn teneva presso di sé la
testa di Mímir che gli rivelava molte
notizie dagli altri mondi. A volte resuscitava dalla terra i morti o si sedeva
sotto i corpi penzolanti dalle forche; perciò era detto signore degli spiriti
dei morti o degli impiccati. Possedeva due corvi che aveva addestrato a parlare;
essi volavano per l'ampio mondo e gli riferivano molte notizie. Perciò era
divenuto straordinariamente saggio. |
Allar þessar íþróttir
kendi hann með rúnum ok ljóðum, þeim er galdrar heita; fyrir því eru Æsir
kallaðir galdrasmiðir. Óðinn kunni þá íþrótt, er mestr máttr fylgði, ok framdi
sjálfr, er seiðr heitir. En af því mátti hann vita ǫrlǫg manna ok úorðna hluti,
svá ok at gera mǫnnum bana eða úhamingju eða vanheilindi, svá ok at taka frá
mǫnnum vit eða afl ok gefa ǫðrum. En þessi fjǫlkynngi, er framit er, fylgir svá
mikil ergi, at eigi þótti karlmǫnnum skammlaust við at fara, ok var gyðjunum
kend sú íþrótt. |
Tutte queste arti egli
insegnava con le rune e quei canti che sono detti galdrar, perciò gli
Æsir sono detti fabbri di canti magici.
Óðinn possedeva l'arte, da cui scaturisce
un grande potere e che egli stesso esercitava, che si chiama magia. Perciò aveva
il potere di conoscere il destino degli uomini e le cose non [ancora] avvenute,
oltre [a quello] di recare la morte o la sfortuna o la malattia agli uomini o
anche di togliere il senno o la forza a uno per trasferirli ad altri. E questa
magia quando è praticata comporta una tale inverecondia che ai maschi parve che
praticarla non fosse senza vergogna; e quest'arte fu insegnata alle
sacerdotesse. |
Óðinn vissi um alt
jarðfé, hvar fólgit var, ok hann kunni þau ljóð, er upp laukst fyrir honum
jǫrðin, ok bjǫrg ok steinar, ok haugarnir, ok batt hann með orðum einum þá er
fyrir bjoggu, ok gékk inn ok tók þar slíkt er hann vildi. Af þessum krǫptum varð
hann mjǫk frægr. |
Óðinn sapeva dov'erano nascosti tutti i
tesori della terra, e conosceva i canti che gli aprivano la terra e le rocce, le
pietre e tumuli: legava con le sole parole quelli che vi abitavano, poi entrava
e prendeva tutto quello che gli piaceva. Per questi suoi poteri egli divenne
assai famoso. |
Snorri Sturluson:
Ynglinga saga [7] |
Il vivido racconto di Snorri ci trasmette l'immagine di un re stregone. In
questa narrazione Óðinn non è descritto
come un dio, bensì come un sovrano dell'antichità; non si fa tuttavia a
riconoscere, nel racconto dei suoi straordinari poteri, l'originario carattere
soprannaturale. Molti dettagli del racconto rimandano a quanto già sapevamo
dalle fonti eddiche, soprattutto dal catalogo degli incantesimi dell'Hávamál. Vi è qualche intrusione indebita: la magica nave
Skíðblaðnir, ad esempio, viene
altrove detta appartenere a Freyr
(Gylfaginning
[43]) e non a
Óðinn, e si hanno tutte le ragioni per presumere che sia la prima
attribuzione quella corretta. Altri dettagli del resoconto di Snorri sono invece
straordinariamente indicativi, come il fatto che a
Óðinn fosse attribuita la magia seiðr,
con la quale era possibile «legare» l'altrui volontà (cfr. antico alto tedesco
seita «corda, laccio»), ma la cui arte, diffusa soprattutto tra le donne,
richiedeva pratiche giudicate sconvenienti per gli uomini, ai limiti del
travestitismo e dell'omosessualità (ergi vuol dire «oscenità,
impudicizia, codardia», da cui l'aggettivo argr, insulto sanguinosissimo,
lesivo per la dignità e la virilità di un guerriero). Il racconto di Snorri
trova riscontro in un poema eddico, il Lokasenna,
in cui Loki accusa esplicitamente
Óðinn di essersi travestito da donna per praticare questo tipo di
incantesimi:
En þik síða kóðo
Sámseyo í,
ok draptu á vétt sem vǫlor,
vitka líki
fórtu verþjóð yfir,
ok hugða ek þat args aðal |
Dissero che avevi fatto incantesimi
in Samsey
e battevi sul tamburo come le veggenti.
In veste di maga
hai viaggiato tra i popoli,
e a me questo sembra da frocio. |
Ljóða Edda > Lokasenna [23] |
La sapienza magica di Óðinn è
inseparabile dalla non meno misteriosa ispirazione poetica. Di fatto i poeti
ritenevano che da lui derivasse il genio e l'ispirazione della poesia. Abbiamo
visto che Egill Skallagrímsson attribuiva a
Óðinn la sua abilità di scaldo: «mi ha dato un mestiere [...] trasparente e
perfetto» [Gǫfumk íþrótt [...] vammi firða] (Sonatorrek [24]). Il mito riferito nel poema
eddico narra di come Óðinn rubò al
gigante Suttungr l'idromele che rende
poeti, e lo fece seducendo e ingannando sua figlia
Gunnlǫð, e quindi mentendo
spudoratamente ai giganti venuti al suo cospetto a reclamare giustizia
(Hávamál [104-110]).
Snorri spiega questo mito nello
Skáldskaparmál, aggiungendo un
importante dettaglio: dopo aver ingoiato tutto l'idromele che gli aveva pórto
Gunnlǫð,
Óðinn si trasformò in aquila e volò via;
ma Suttungr si trasformò anch'esso in
aquila per non lasciarlo sfuggire. Nel corso dell'inseguimento, il gigante
riuscì quasi a catturare Óðinn, tanto che
il dio si lasciò sfuggire dal becco una piccola parte parte dell'idromele, che
gocciolò sulla terra. Questa è la porzione del poetastro [skáldfífla],
dice Snorri, e, per tale ragione, chiunque può improvvisare versi. Ma
l'autentica ispirazione arriva unicamente come dono di
Óðinn.
En Suttungamjǫð gaf Óðinn
ásunum ok þeim mǫnnum, er yrkja kunnu. Því kǫllum vér skáldskapinn feng Óðins ok
fund ok drykk hans ok gjǫf hans ok drykk ásanna |
Óðinn diede l'idromele di
Suttungr agli
Æsir e a quegli uomini che sanno
comporre versi. Perciò noi definiamo l'arte poetica ora bottino di
Óðinn, ora sua bevuta, ora suo dono, ora
bevanda degli dèi. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [6] |
Snorri aveva senz'altro in mente una composizione, attribuita – senza
autorità – al leggendario scaldo Bragi Boddason (VIII secolo), in cui il dono
dell'arte poetica viene attribuita a Óðinn
in una serie di complesse kenningar che in un modo o nell'altro fanno
capo al dio, invocato qui con molti diversi epiteti:
Skǫld kalla mik:
skipsmið Viðurs,
Gauts gjafrǫtuð,
grepp óhneppan,
Yggs ǫlbera,
óðs skap-Móða,
hagsmið bragar.
Hvat's skald nema þat? |
Scaldo, mi chiamano:
fabbro del liquore di Viðurr,
scopritore del dono di Gautr,
poeta senza avarizie,
dispensatore della birra di Yggr,
Móði, per natura, dell'ispirazione,
abile fabbro di versi.
Se non è questo, che cos'è un poeta? |
Bragi Boddason:
«Skǫld kalla mik» |
Buona parte dei talenti magici attribuiti a
Óðinn si riferiscono all'arte della
guerra. Egli protegge i suoi guerrieri, li rende invulnerabili, li libera se
catturati, contemporaneamente paralizza i nemici, blocca le loro armi, fa
serpeggiare il terrore nelle schiere e, infine, stabilisce in battaglia chi
debba avere la vittoria e chi la sconfitta. Le saghe lo mostrano spesso come
arbitro dei combattimenti, mentre strappa con un gesto la vittoria a chi crede
di averla conquistata, condannando a morte il guerriero di cui tocca l'arma con
la propria. Lo mostrano anche mentre scaglia la propria lancia sull'esercito che
sarà sconfitto, decretando così il loro destino.
I guerrieri devoti a Óðinn sembrano
dividersi in due categorie. Da una parte abbiamo gli invasati. Ovvero i
berserkir «camicie d'orso» e gli ulfeðnar «mantelli di lupo»,
guerrieri che sul campo di battaglia vengono invasi da una sorta di furia
animale [berserksgangr], forse partecipando in parte – come orsi o lupi
mannari – ai doni di metamorfosi dello stesso
Óðinn. Essi attendono il combattimento ululando, gettando bava e mordendo
gli scudi, e poi si gettano come furie sul nemico facendo il vuoto intorno a
loro, incuranti della fatica e del dolore; alla fine dello scontro, crollano
esausti e privi di coscienza. Per quanto i berserkir fossero certamente
preziosissimi sul campo di battaglia – e molti sovrani li utilizzarono come
guardie del corpo – essi non vennero mai giudicati benevolmente dalla società
scandinava; le tarde saghe li dipingono come bande di briganti privi di senso
morale, a cui vengono attribuiti saccheggi e ruberie, stupri e delitti. D'altra
parte, un secondo tipo di guerrieri associati a
Óðinn è quello degli eroi «odinici»,
combattenti valorosi, cavallereschi, seducenti, che incarnano in qualche modo i
più elevati ideali della nobiltà germanica: Sigmundr, Helgi e Sigurðr sono gli
esempi più celebri di questa categoria di guerrieri.
L'agire di Óðinn è indiretto, sottile,
e segue spesso schemi e piani misteriosi, che a volte egli prepara e attua nel
corso di molte generazioni. Molto spesso, soprattutto nelle saghe, vediamo
Óðinn manovrare di nascosto gli eventi e
portare gli uomini a scontri fatali di cui lui decide l'esito. A volte sembra
addirittura che provi piacere, come all'inizio della
Vǫlsunga saga, a seminare i germi di discordie future. I suoi
improvvisi voltafaccia nascondono però una superiore conoscenza del tempo e dei
meccanismi della storia. Óðinn non ha mai
preteso di essere un dio giusto, e quanto egli compie è per uno scopo superiore:
raccogliere la sua mèsse di eroi.
In battaglia, Óðinn agisce come una
sorta di giudice supremo. Egli sceglie coloro che vinceranno, sia quelli che
cadranno, con la precisazione che figurare nel quadro degli sconfitti non è
vista come una disgrazia. Sia la vittoria che la morte sono doni graditi ai
guerrieri: e infatti, tra i suoi molti nomi,
Óðinn enumera sia Sigfǫðr
«padre di vittoria» che Valfǫðr
«padre dei caduti». Gli emissari femminili di
Óðinn, le Valkyrjur
(«coloro che scelgono [kjósa] i caduti [valar]»), raccolgono gli
spiriti degli uccisi e li trasportano in
Ásgarðr, nel grande salone di
Valhǫll. Qui essi trascorrono la loro esistenza ultraterrena impegnati in
continui scontri e duelli da cui, anche quando vengono feriti o uccisi, si
rialzano di nuovo illesi; a tratti, interrotti i combattimenti, essi prendono
parte ai solenni banchetti presieduti dal lo stesso
Óðinn, mentre le
Valkyrjur recano loro corni
ricolmi di birra. Tale immagine è sicuramente alla base delle posteriori
rappresentazioni del folklore scandinavo, attestate soprattutto in Danimarca e
nel sud della Svezia, dove «Oden» è il
capo della Caccia Selvaggia, l'armata degli spettri che cavalca in cielo nelle
notti di tempesta.
I guerrieri caduti in tutte le battaglie del mondo accrescono infatti
l'esercito che Óðinn mette insieme per
formare la schiera degli Einherjar,
i «combattenti unici, per eccellenza», i quali combatteranno al fianco degli dèi
nella grande battaglia escatologica. Questo spiegava in parte, nella mentalità
germanica, il carattere aleatorio dei campi di battaglia, in cui anche il
guerriero più valoroso poteva infine essere sconfitto e ucciso dai nemici. Chi
godeva del favore di Óðinn, e usciva
sovente vittorioso dagli scontri, doveva aspettarsi che prima o poi il dio
reclamasse il debito chiedendo la sua vita. Questo non era visto come
ingiustizia o tradimento: bensì era il dio che, soddisfatto del valore di un
guerriero, lo giudicava degno di entrare tra gli
Einherjar. Alcuni poemi
scaldici di carattere encomiastico – tra cui i citati
Eiríksmál e Hákonarmál
– presentano la morte in battaglia di un sovrano o di un grande guerriero come
di un onore a loro reso da Óðinn in nome
del loro valore e del loro coraggio.
Questa speranza diede luogo a una usanza rituale che con poca spesa poteva
rendere il più casalingo degli uomini un guerriero degno di «andare a
Óðinn»: bastava farsi segnare, prima
della morte, con un taglio effettuato con la punta di una lancia. Oppure,
sistema altrettanto efficace ma più meritorio, impiccarsi a immagine del dio. È
questa la morte che scelse per sé l'eroe Hadingus nel racconto che di lui fa
Saxo Grammaticus. Ma Óðinn è per
eccellenza il dio che esige il sacrificio di uomini innocenti, e si tratta di
una caratteristica antica, perché già Tacitus notava che i Germani riservavano a
Mercurius le vittime umane, mentre placavano
Hercules e Mars con
vittime animali. |
VIII
- LA TRADIZIONE DEGLI ÓĐINS NǪFN Tra i
poemi eddici, il
Grímnismál è uno dei più
interessanti dal punto di vista mitologico. Il misterioso ospite
Grímnir, che re
Geirrøðr
sta torturando crudelmente tra due fuochi divampanti, declama dinanzi
all'attonito sovrano i misteri del regno degli dèi e dei Nove Mondi. Alla fine
del poema, il prigioniera elenca – in una sequela di cinque fittissime strofe a
cui se ne aggiunge una sesta in coda – la lunga lista degli heiti con i
quali è conosciuto, e solo all'ultima strofa rivela la sua terribile identità.
Hétomk Grímr,
hétomk Gangleri,
Herjan ok Hjálmberi,
Þekkr ok Þriði,
Þuðr ok Uðr,
Helblindi ok Hár; |
Mi chiamo Grímr,
mi chiamo Gangleri,
Herjan e
Hjálmberi,
Þekkr e
Þriði,
Þuðr e
Uðr,
Helblindi e
Hár; |
Saðr ok Svipall
ok Sanngetall,
Herteitr ok Hnikarr,
Bileygr, Báleygr
Bǫlverkr, Fjǫlnir,
Grímr ok Grímnir,
Glapsviðr ok Fjǫlsviðr; |
Saðr e
Svipall
e Sanngetall,
Herteitr e
Hnikarr,
Bileygr,
Báleygr
Bǫlverkr,
Fjǫlnir,
Grímr e
Grímnir,
Glapsviðr e
Fjǫlsviðr; |
Síðhǫttr, Síðskeggr,
Sigfǫðr, Hnikuðr,
Alfǫðr, Valfǫðr,
Atríðr ok Farmatýr;
eino nafni
hétomk aldregi,
síz ek með fólkom fór. |
Síðhǫttr,
Síðskeggr,
Sigfǫðr,
Hnikuðr,
Allfǫðr,
Valfǫðr,
Atríðr e
Farmatýr;
con un nome soltanto
non mi chiamo mai
quando io tra le genti viaggio. |
Grímne mik héto
at Geirrǫðar,
en Jálk at Ásmundar,
enn þá Kjalar,
er ek kjálka dró;
Þrór þingom at,
Viðurr at vígom,
Óski ok Ómi,
Jafnhár ok Biflindi,
Gǫndlir ok Hárbarðr með goðom; |
Grímnir son
chiamato
presso le genti di Geirrøðr,
e Jálkr presso le genti di Ásmundr,
e poi Kjalarr,
perché tirai una slitta,
Þrór nelle assemblee
Viðurr nelle battaglie,
Óski e
Ómi,
Jafnhár e
Biflindi,
Gǫndlir e
Hárbarðr tra gli dèi; |
Sviðurr ok Sviðrir
er ek hét at Søkkmímis [...] |
Sviðurr
e Sviðrir
sono chiamato presso Søkkmímir [...] |
Óðinn ek nú heiti,
Yggr ek áðan hét,
hétomk Þundr fyrir þat,
Vakr ok Skilfingr,
Váfuðr ok Hroptatýr,
Gautr ok Jálkr með goðom,
Ofnir ok Svafnir,
er ek hygg at orðnir sé
allir af einom mér. |
Óðinn ora io
chiamo,
Yggr un tempo avevo nome;
chiamato Þundr ancor prima,
Vakr e
Skilfingr,
Váfuðr e
Hroptatýr,
Gautr e
Jálkr tra gli dèi,
Ófnir e
Sváfnir,
i cui pensieri vengono
tutti da me soltanto! |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46-50 | 54] |
Realizzando con orrore che l'ospite che ha tanto maltrattato è
Óðinn stesso, re
Geirrøðr balza in piedi per
liberarlo, ma inciampa e cade trafitto sulla propria spada.
Questo e altri poemi gnomici dipendono a loro volta dalle þulur,
antichi elenchi in versi dove si forniscono gli heiti (ovvero i nomi, gli
epiteti o le definizioni poetiche) di cose, persone, divinità o creature
mitologiche. Le þulur dedicate ai nomi di
Óðinn [Óðins nǫfn] ci forniscono
una lunghissima lista di tutti gli heiti attribuiti al dio, molti dei
quali attestati nel
Grímnismál e in altri poemi
eddici. Nelle þulur non vi è alcuna cornice narrativa: sono puri esercizi
di erudizione mitologica, perlopiù composti da sequele di nomi propri abilmente
disposti in metrica:
Nú skal yppa
Óðins nǫfn.
Atríðr, Auðun
ok Aldafǫðr,
Gizurr, Kjalarr,
Gautr, Viðrímnir,
Gollorr, Grímnir,
Ginnarr, Hnikuðr. |
Ora innalzeremo
i nomi di Óðinn.
Atríðr,
Auðun
e Aldafǫðr,
Gizurr,
Kjalarr,
Gautr,
Viðrímnir,
Gollorr,
Grímnir,
Ginnarr,
Hnikuðr |
Fjǫlnir, Dresvarpr,
Fengr, Arnhǫfði,
Fráríðr, Allfǫðr
ok Farmatýr,
Herjan, Fjǫlsviðr,
Hnikarr, Hornǫlvir,
Hroptr, Hjálmberi,
Hár, Fjallgeiguðr. |
Fjǫlnir,
Dresvarpr,
Fengr,
Arnhǫfði,
Fráríðr,
Allfǫðr
e Farmatýr,
Herjan,
Fjǫlsviðr,
Hnikarr,
Hornǫlvir,
Hroptr,
Hjálmberi,
Hár,
Fjallgeiguðr. |
Grímr, Gapþrosnir,
Gangráðr, Svipall,
Glapsviðr, Gǫndlir
ok Gangleri,
Herteitr, Hárbarðr
ok Hroptatýr,
Geiguðr, Gǫllnir
ok Geirlǫðnir. |
Grímr,
Gapþrosnir,
Gangráðr,
Svipall,
Glapsviðr,
Gǫndlir
e Gangleri,
Herteitr,
Hárbarðr
e Hroptatýr,
Geiguðr,
Gǫllnir
e Geirlǫðnir. |
Hleifruðr, Hávi,
Hagverkr, Sviðuðr,
Síðhǫttr, Sváfnir,
Sigfǫðr, Þrasarr,
Hrami, Hjárrandi
ok Hengikeptr,
Hrosshársgrani,
Hrjóðr, Tvíblindi. |
Hleifruðr,
Hávi,
Hagverkr,
Sviðuðr,
Síðhǫttr,
Sváfnir,
Sigfǫðr,
Þrasarr,
Hrami,
Hjárrandi
e Hengikeptr,
Hrosshársgrani,
Hrjóðr,
Tvíblindi. |
Hroptr, Herblindi
ok Herjafǫðr,
Hvatmóðr, Hléfreyr,
Hveðrungr, Þriði,
Gǫllungr, Bileygr
ok Geirǫlnir,
Vö́fuðr, Valfǫðr,
Vingnir, Rǫgnir. |
Hroptr,
Herblindi
ed Herjafǫðr,
Hvatmóðr,
Hléfreyr,
Hveðrungr,
Þriði,
Gǫllungr,
Bileygr
e Geirǫlnir,
Vö́fuðr,
Valfǫðr,
Vingnir,
Rǫgnir. |
Sviðurr ok Skollvaldr,
Siggautr, Viðurr,
Sviðrir, Báleygr,
Sigðir, Brúni,
Sigmundr, Svǫlnir,
Síðskeggr ok Njótr,
Olgr, Biflindi
ok Ennibrattr. |
Sviðurr
e Skollvaldr,
Siggautr,
Viðurr,
Sviðrir,
Báleygr,
Sigðir,
Brúni,
Sigmundr,
Svǫlnir,
Síðskeggr e
Njótr,
Olgr,
Biflindi
ed Ennibrattr. |
Bǫlverkr, Eylúðr,
Brúnn, Sanngetall,
Þekkr, Þuðr, Ómi,
Þundr ok Ófnir,
Uðr, Jólnir, Vakr,
Jálkr ok Langbarðr,
Grímr ok Lǫndungr,
Gestumblindi. |
Bǫlverkr,
Eylúðr,
Brúnn,
Sanngetall,
Þekkr,
Þuðr,
Ómi,
Þundr e
Ófnir,
Uðr,
Jólnir,
Vakr,
Jálkr e
Langbarðr,
Grímr e
Lǫndungr,
Gestumblindi. |
Sigtryggr, Jǫrmunr,
Saðr, Gunnblindi,
Jafnhár, Óski,
Jǫlfuðr ok Þrór,
Ýjungr, Skilfingr,
Óðinn, Tveggi,
Veratýr, Sigþrór,
Valgautr ok Yggr. |
Sigtryggr,
Jǫrmunr,
Saðr,
Gunnblindi,
Jafnhár,
Óski,
Jǫlfuðr e
Þrór,
Ýjungr,
Skilfingr,
Óðinn,
Tveggi,
Veratýr,
Sigþrór,
Valgautr e
Yggr |
Þulur
>
Óðins nǫfn [1-8] |
Nella Prose Edda, Snorri fornisce a sua volta un paio di liste di epiteti di
Óðinn. La prima di esse è interessante
perché si tratta non di una lista, ma di un vero e proprio canone. Sono infatti
i dodici nomi che il dio avrebbe avuto anticamente in
Ásgarðr, enumerati in quello che appare
essere una sorta di ordine di importanza. Difficile dire da dove Snorri abbia
tratto tale tradizione e quale fosse il suo antico significato. Di alcuni di
questi nomi egli fornisce addirittura delle forme alternative:
Sá heitir Allfǫðr at váru
máli, en í Ásgarði inum forna átti hann tólf nǫfn. Eitt er Allfǫðr, annat er
Herran eða Herjan, þriðja er Nikarr eða Hnikarr, fjórða er Nikuz eða Hnikuðr,
fimta Fjǫlnir, sétta Óski, sjaunda Ómi, átta Bifliði eða Biflindi, níunda
Sviðarr, tíunda Sviðrir, ellipta Viðrir, tólfta Jálg eða Jálkr. |
Egli è chiamato
Allfǫðr nella nostra lingua, ma
anticamente in Ásgarðr aveva dodici
nomi. Il primo è Allfǫðr, il
secondo Herran o
Herjan, il terzo
Nikarr o
Hnikarr, il quarto
Nikuðr o
Hnikuðr, il quinto
Fjǫlnir, il sesto
Óski, il settimo
Ómi, l'ottavo
Bifliði o
Biflindi, il nono
Sviðurr, il decimo
Sviðrir, l'undicesimo
Viðrir, il dodicesimo
Jálg o
Jálkr.» |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning
[3] |
Più tardi, Snorri riporta il passo sopra citato del
Grímnismál, pur spostando qualche verso ed eliminando i versi di
raccordo non strettamente necessari (Gylfaginning [20]). Dopodiché aggiunge una nota interessante:
Þá mælti Gangleri: “Geysimǫrg heiti hafi þér gefit honum! Ok þat veit trúa mín at þat mun vera
mikill fróðleikr sá er hann kann skyn ok dœmi hverir atburðir hafa orðit sér til
hvers þessa nafns!” |
Quindi parlò
Gangleri: “Straordinario è il numero di
nomi che gli avete dato! In fede mia, dev'essere una grande sapienza quella che
riesca a comprendere e discernere tutti gli eventi che hanno portato a ciascuno
di questi nomi!” |
Þá segir Hár: “Mikil
skynsemi er at rifja vandliga þat upp. En þó er þér þat skjótast at segja at
flest heiti hafa verit gefin af þeim atburð at svá margar sem eru greinir
tungnanna í verǫldunni, þá þykkjask allar þjóðir þurfa at breyta nafni hans til
sinnar tungu til ákalls ok bæna fyrir sjálfum sér. En sumir atburðir til þessa
heita hafa gerzk í ferðum hans, ok er þat fœrt í frásagnir, ok muntu eigi mega
fróðr maðr heita, ef þú skalt eigi kunna segja frá þeim stórtíðindum”. |
Quindi disse
Hár: “Una grande intelligenza occorre
per comprenderli correttamente, tuttavia in breve ti dico che molti nomi gli
sono stati dati per il fatto che al mondo vi sono diverse lingue e dunque tutti
i popoli pensarono che occorresse tradurre il suo nome nella propria lingua per
poterlo invocare e pregare essi stessi. Alcuni di questi nomi hanno tuttavia
origine dai suoi viaggi, che sono tramandati nelle cronache, e non puoi essere
chiamato saggio se non sei capace di raccontare questi grandi eventi”. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning
[20] |
Con questa annotazione, Snorri fa capire che molti appellativi di
Óðinn sono legati a un'impresa o un
viaggio del dio, dettaglio a cui aveva già alluso il poema eddico
(Grímnismál [48]), ma disgraziatamente –
a parte qualche caso fortuito – di questi miti non sappiamo nulla. |
IX - IL CATALOGO DEGLI
EPITETI DI ÓĐINN Riportare un elenco esaustivo dei nomi e degli
epiteti di Óðinn è impresa impossibile.
Gianna Chiesa Isnardi, nel suo lavoro sui miti nordici, elenca un gran numero di
heiti di Óðinn
(Isnardi 1991), ma diversi di questi, a controllare
sulle fonti, si rivelano inconsistenti; in molti casi la verifica non è agevole.
L'elenco che riportiamo di seguito è attinto dalle þulur, dalle fonti
eddiche e dalle saghe più importanti, e non pretende di essere completo.
|
Aldafǫðr |
Ljóða Edda >
Vafþrúðnismál
[4 | 54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10]
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
«Padre degli uomini».
Relativo al ruolo di Óðinn quale creatore
e progenitore degli uomini. |
|
Allfǫðr |
Ljóða Edda >
Grímnismál [4]
Ljóða Edda >
Helgkviða Hundingsbana ǫnnor [38]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 9 | 10 | 14 | 15 | 20 | 34 | 35 | 39]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10]
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«Padre di tutti».
Importante epiteto inteso al ruolo di Óðinn
quale progenitore degli dèi e creatore degli uomini. È il primo dei dodici nomi
che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr.
Tale nomen divinum sembra risalire all'antichità indoeuropea. Nel mondo
celtico ha un preciso corrispettivo nel titolo di Ollathair
«padre di tutti» attribuito al dio irlandese
Dagda Mór. In Omero
Zeús è definito «padre degli dèi e degli uomini» [patḕr
andrôn te theôn te] (Iliás [I: ]),
la medesima formula usata da Snorri quando spiega che
Óðinn è
chiamato Allfǫðr
in quanto «padre di tutti gli dèi e gli
uomini» [faðir allra goðanna ok manna] (Gylfaginning [9]).
In latino, umbro e illirico l'epiteto sembra fosse così stabile che si fuse col
nome del dio (Iuppiter,
Iupater, Deipàtyros). Negli inni vedici, gli
dèi più importanti sono spesso gratificati con i titoli di «padre degli
dèi» [devānāṃ pitaram] (Brahmaṇaspati in Ṛgveda
[II: 26: ]) e di «padre degli uomini» [pitā mānuṣāṇām] (Agni in Ṛgveda [IV, 1,
]).
Il tema della paternità universale di
Óðinn non deve nulla al cristianesimo ma rientra in schemi tipicamente
indoeuropei (Campanile 1994). |
|
Annarr |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [10]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [33 | 36] |
«Secondo».
Ha questo nome un personaggio appartenente alle più remote generazioni nella
teogonia scandinava, detto secondo sposo di
Nótt e padre di Jǫrð. Ma poiché Snorri
afferma che Jǫrð fosse insieme figlia e
sposa di Óðinn, è possibile che questo
Annarr vada identificato con lo stesso
Óðinn. In tal caso tale nome andrebbe
considerato come un epiteto dello stesso
Óðinn, per quanto ignorato nelle þulur e nelle altre liste degli
heiti del dio. In tal caso, il nome Annarr
«secondo» sarebbe da mettere mettere in relazione con l'epiteto
Þriði «terzo», sempre attribuito
a Óðinn. |
|
Arnhǫfði |
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«Testa d'aquila».
Da ǫrn «aquila». Probabilmente l'epiteto ricorda l'episodio in cui
Óðinn fuggì in forma d'aquila dopo aver
rubato l'idromele della poesia dalla casa del gigante
Suttungr. |
|
Atríðr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[48]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
«[Colui che] avanza cavalcando». |
|
Auðun |
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
«Ricco».
Questo epiteto sembrerebbe più adatto per un dio della terza funzione che per
Óðinn. Tuttavia Snorri ricorda che
Óðinn sapeva dove erano celati tutti i
tesori della terra, e che conosceva le parole per aprire le rocce e i tumuli
sepolcrali, quindi entrava e prendeva quanto desiderasse (Ynglinga
saga [6-7]). |
|
Báleygr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Occhio fiammeggiante».
Forse inteso nel senso che Óðinn
paralizzava il nemico con lo sguardo. |
|
Biflindi
(o Bifliði) |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«[Colui] che scuote [la lancia?]»
Epiteto relativo al fatto che Óðinn
decideva l'esito di uno scontro toccando con la lancia il guerriero votato alla
morte o scagliando l'arma contro l'esercito destinato alla sconfitta. Snorri
afferma sia l'ottavo dei dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr, e suggerisce egli stesso
l'alternanza tra le forme «Bifliði
o Biflindi» [Bifliði eða
Biflindi] (Gylfaginning [3]). |
|
Bileygr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«Mancante di un occhio».
Com'è noto, Óðinn aveva un solo occhio,
avendo ceduto l'altro alla fonte della sapienza in
Mímisbrunnr. |
|
Brúni /
Brúnn |
Þulur > Óðins nǫfn [6 | 7] |
«Folte sopracciglia» (ma forse anche «lo scuro»).
Questo epiteto è identico al nome del nano
Brúni
(Vǫluspá [H:
13]). |
|
Bǫlverkr |
Ljóða Edda >
Hávamál [109]
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [5-6]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«[Colui che] agisce male».
Com'è noto, Óðinn non esitava a mentire e
ingannare pur di arrivare ai suoi scopi. Forse l'epiteto era anche inteso nel
senso che Óðinn «tradiva» i suoi fedeli,
provocandone la morte in battaglia. Sotto questo nome,
Óðinn si presentò in casa del gigante
Suttungr e gli rubò l'idromele della
poesia. Si noti che nelle þulur è attestato l'epiteto
Hagverkr «[Colui che] agisce
bene», di senso diametralmente opposto [infra]. |
|
Dresvarpr |
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«[Colui che] scaglia [la lancia]
in battaglia».
Epiteto probabilmente inerente al fatto che
Óðinn scagliava la sua lancia Gungnir
contro l'esercito che destinava alla sconfitta. |
|
Ennibratr |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Fronte ampia».
Si confronti con Ennilangr
«fronte alta», appellativo di Þórr. |
|
Eylúðr |
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
Epiteto assai problematico,
riportato nelle þulur. La Isnardi interpreta, pur con un ampio margine di
dubbio, «sempre risonante» (lúðr è uno strumento musicale a fiato)
(Isnardi 1991). Bisogna però notare che il composto
eylúðr compare nella letteratura scaldica in un'accezione completamente
diversa: in un passo di Snæbjǫrn, eylúðr «mulino delle isole» (lúðr
ha infatti anche il significato di «mulino») è una kenning per «mare». |
|
Farmaguð |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Gylfaginning [20] |
«Dio dei carichi».
Epiteto di Óðinn probabilmente visto
quale dio del commercio. |
|
Farmatýr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[48]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20] |
«Dio del fardello»
Epiteto di Óðinn visto quale dio che
protegge (o libera) i prigionieri? |
|
Fengr |
Ljóða Edda > Discorso di Reginn
[18]
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
Letteralmente «preda» o
«provvista».
Forse da intendere nell'accezione di Óðinn
quale dio del commercio. Cfr. il Fengo che, nel racconto di Saxo
Grammaticus, esorta i suoi uomini a procedere con le impiccagioni
(Gesta Danorum [III: vi: 21]). |
|
Fimbultýr |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[60] |
«Dio terribile».
Con questo inquietante epiteto, Óðinn
viene ricordato come il sovrano del tempo passato, dopo che il
ragnarǫk avrà distrutto il vecchio mondo. |
|
Fjallgeiguðr |
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«Penzolante dalle montagne» (?)
Curioso epiteto costruito sull'epiteto
Geiguðr «penzolante», riferito a
sua volta all'aspetto di Óðinn quale dio
degli impiccati [infra]. |
|
Fjǫlnir |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«Sapiente».
Inteso come dio della sapienza e della magia. Snorri afferma sia il quinto dei
dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr (Gylfaginning [3]). Lo stesso nome ha un mitico sovrano di Svezia (Ynglinga saga [10-11, 16]). |
|
Fjǫlsviðr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«Assai sapiente» |
|
Forni |
Flateyjarbók
[I] |
«Antico».
Probabilmente con riferimento all'età di
Óðinn, o forse all'antica sapienza da lui posseduta
(Isnardi 1991). Con questo nome il dio è attestato in una saga storica,
in cui appare nell'aspetto di un uomo guercio e di possente corporatura, il
quale aiuta a costruire una nave. |
|
Fráríðr |
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«[Colui che] cavalca verso [la
battaglia]». |
|
Gangleri |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«Stanco del cammino».
Inteso nell'aspetto di viandante. Lo stesso epiteto è adottato da re
Gylfi quando si reca in incognito nell'Ásgarðr (Gylfaginning [passim]). |
|
Gagnráðr
(o Gangráðr) |
|
«[Colui che] conosce la via»
Con questo nome, Óðinn si presentò come
ospite presso il gigante Vafþrúðnir,
sfidandolo a una gara di sapienza. |
Ljóða Edda >
Vafþrúðnismál
[8-9 | 11 | 13 | 15 | 17]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
|
Gapþrosnir |
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
Cfr. gapi, «avventato,
incosciente» (Cleasby & Vigfússon 1847).
Altrimenti interpretato come «mago» (Isnardi 1991). |
|
Gautatýr
|
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldksaparmál
[10] |
Forse «dio dei Goti» (?).
Epiteto composto sul nomen Gautr [infra]. Probabilmente da
intendere come dio o antenato dei Goti della Svezia occidentale [Gautar]
(cfr. anglosassone Geātes). |
|
Gautr
|
Ljóða Edda >
Grímnismál
[54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [45 |
62 | 67 | 76 | 82]
Snorri Sturluson:
Prose Edda > Háttatál [55]
Þulur > Óðins nǫfn [1]
Bragi Boddason: «Skǫld kalla mik» [1c]
Jordanes:
De origine actibusque Getarum [XIV: 79]
Nennius: Historia
Brittonum [31]
Cronaca anglosassone [547] |
Probabilmente «il goto».
L'epiteto si connette con la regione del Götland (Svezia occidentale), toponimo
che presuppone la forma antica Gautar come designazione del popolo che la
abitava (cfr anglosassone Geātes). Da essi si sarebbero mossi, intorno al
I secolo, genti destinate a formare il popolo germanico orientale dei Goti
(Ostrogoti e Visigoti) (Manganella 1979).
Si tratta forse, dunque, di un epiteto di
Óðinn in qualità di dio o antenato dei Goti, come starebbe anche a indicare
l'epiteto composto Gautatýr [supra]. Questo
farebbe pensare a un possibile collegamento con Gapt, il progenitore
degli Amali (famiglia reale degli Ostrogoti) secondo Jordanes
(De origine actibusque Getarum [XIV: 79]). Si tratta
ancora del Gēata (qui detto antenato di
Wōden)
che Nennius pone alla base della genealogia di Hengist e Horsa, gli invasori
danesi di Britannia.
Il nome è stato utilizzato, soprattutto in poesia, per formare epiteti composti
come Siggautr e
Valgautr (dove gautr
sembra sostituire fǫðr «padre»). Ciò ha fatto pensare alcuni filologi,
anche se con scarsa verosimiglianza, che il termine gautr possa
significare «padre» o «uomo» (Cleasby & Vigfússon 1847).
Altri intendono «il sacrificato» (Kuhn 1971, Koch 1984).
Con una splendida doppia kenning, Bragi Boddason definisce il poeta
«scopritore del dono di Gautr» [Gauts gjafrǫtuð]. |
|
Geiguðr |
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«Penzolante [dalla forca]».
Con riferimento al mito dell'autosacrificio di
Óðinn, ma anche al fatto che gli
impiccati erano sacri al dio, il quale era in grado di farli parlare e farsi
rivelare tutti i loro segreti. |
|
Geirlǫðnir |
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
Forse da intendersi «[Colui che]
invita [alla battaglia] delle lance», oppure «[colui che] invita con la lancia».
Sicuramente un epiteto di Óðinn inerente
al suo carattere di dio guerriero, armato di lancia. |
|
Geirǫlnir
|
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«[Colui che] avanza con la
lancia». |
|
Gestr |
|
«Straniero, ospite»
Epiteto da intendere secondo il carattere di
Óðinn come viandante che chiede ospitalità alle case degli uomini. Nelle
saghe storiche il dio compare due volte con questo nome, quale ospite di re
Óláfr Tryggvason e in seguito di re Óláfr il Santo. |
Flateyjarbók
Heimskringla > Óláfs saga Tryggvasonar |
|
Gestumblindi |
Hervǫrs saga ok
Heiðreks
[10]
Þulur > Óðins nǫfn [7]
(Cfr. Saxo Grammaticus:
Gesta Danorum [V: x: 1]) |
«Ospite cieco».
Dissimulato sotto questo nome, Óðinn
sfidò re Heiðrekr a una gara di indovinelli. Da
confrontare con il Gestiblindus attestato da Saxo Grammaticus
(Gesta Danorum [V: x: 1]). |
|
Ginnarr |
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
«Ingannatore».
Questo epiteto di Óðinn, attestato nelle
þulur, è identico al nome di un nano (Vǫluspá [16],
Gylfaginning [14]). |
|
Gizurr |
Þulur > Óðins nǫfn [1-8]
Málsháttakvæði [22] |
«[Colui che] comprende il vero».
Epiteto attestato, oltre che nelle þulur, nel cosiddetto
Málsháttakvæði o «Poema dei proverbi». |
|
Glapsviðr
|
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«Abile nell'incantare» o «abile
nel sedurre».
Forse con riferimento alle molte donne sedotte da
Óðinn. |
|
Grímr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46-47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3, 7] |
«Mascherato».
Epiteto che designa Óðinn in qualità
viandante che chiede ospitalità nelle case presentandosi sotto mentite spoglie. |
|
Grímnir |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[passim | 47-49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
«Mascherato».
Stesso senso del precedente. Con questo epiteto,
Óðinn si presentò alla casa di re
Geirrøðr,
secondo quanto narrato nel
Grímnismál. |
|
Gunnblindi |
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«[Colui che] acceca nella
battaglia». |
|
Gǫllnir
/ Gǫllorr / Gǫllungr |
Þulur > Óðins nǫfn [1 | 3 | 5] |
«[Colui che è] nel frastuono
[della battaglia]». |
|
Gǫndlir
|
Ljóða Edda >
Grímnismál
[49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«[Colui che possieda] la verga
magica».
L'epiteto si connette con gǫndull, che è «verga, bacchetta magica», ma
anche «membro virile». |
|
Hagverkr
|
Þulur > Óðins nǫfn [4] |
«[Colui che] agisce bene».
Questo epiteto, attestato soltanto nelle þulur, ha significato opposto al
più diffuso Bǫlverkr «[colui
che] agisce male» [supra]. |
|
Hangaguð
|
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Gylfaginning [20] |
«Dio degli impiccati».
Anche qui con riferimento al mito dell'autosacrificio di
Óðinn e al fatto che gli impiccati erano
sacri al dio, il quale era in grado di farli parlare e farsi rivelare tutti i
loro segreti. |
|
Haptaguð
|
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Gylfaginning [20] |
«Dio dei legami».
Può essere inteso sia in senso generico, relativamente alla facoltà di «legare»
o vincolare la volontà altrui; sia come capacità di sciogliere i ceppi che
avvincono i prigionieri (cfr.
Hávamál [149]). |
|
Hárbarðr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[49]
Ljóða Edda > Hárbarðzljóð [passim]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«Barba grigia».
Con questo epiteto, Óðinn alterca con
Þórr nell'Hárbarðzljóð. |
|
Hávi > Hár |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[21]
Ljóða Edda >
Hávamál [passim |
109 | 111 | 164]
Ljóða Edda >
Grímnismál [4]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [2]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [11 |
60-61]
Þulur > Óðins nǫfn [2, 4] |
«Alto, eccelso».
Epiteto certamente inteso nell'accezione di dio supremo. Con questo nome, sono
attribuiti a Óðinn i detti che compongono
l'Hávamál. È inoltre uno dei tre personaggi che accolgono
re Gylfi nell'Ásgarðr. Il medesimo nome è anche
attribuito a un nano (Vǫluspá [15],
Gylfaginning [14]). |
|
Helblindi |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20] |
«[Colui che] acceca a morte». |
|
Hengikeptr |
Þulur > Óðins nǫfn [4] |
«Gota cadente».
Epiteto inerente alla vecchiaia e sapienza del dio. |
|
Herblindi |
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«[Colui che] acceca le schiere». |
|
Herjafǫðr |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[43]
Ljóða Edda >
Vafþrúðnismál
[2]
Ljóða Edda >
Grímnismál [19
| 25 | 26]
Ljóða Edda > Carme magico di
Hynðla [2]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 |
20]
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«Padre delle schiere».
Da herr «schiera, esercito». Epiteto di
Óðinn quale dio della guerra, visto
probabilmente alla testa all'esercito degli
Einherjar. |
|
Herjan
(o Herjann) / Herran |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[30]
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Ljóða Edda > Primo carme di
Guðrún [19]
Ljóða Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«Capo delle schiere».
Da herr «schiera, esercito», con il suffisso di comando.
Óðinn è visto alla testa all'esercito
degli Einherjar. Snorri afferma
sia il secondo dei dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr e suggerisce lui stesso
un'alternanza tra le forme «Herran
o Herjan» [Herran eða Herjan]
(Gylfaginning [3]),
ma è da dubitare che si tratti di due forme dello stesso epiteto- Al contrario,
Herran è probabilmente da
intendersi come «signore». |
|
Herteitr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«Felice nelle schiere». |
|
Hertýr |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Skáldksaparmál [10] |
«Dio delle schiere».
Epiteto di Óðinn quale dio di
vittoria, parallelo a Herfǫðr ma
costruito sul termine týr (qui usato come generico per «dio») |
|
Hjálmberi |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [2] |
«[Colui che] porta l'elmo». |
|
Hjárrandi |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldksaparmál
[62]
Snorri Sturluson:
Prose Edda > Háttatál [53]
Bragi Boddason: Ragnarsdrápa
[11]
Þulur > Óðins nǫfn [[4] |
«[Colui che] suona».
Citato da Bragi Boddason in una splendida kenning dove gli scudi sono
chiamati «porte di Hjárrandi» [hurðir
Hjárranda], in quanto conducono alla
Valhǫll. |
|
Hléfreyr
|
Þulur >
Óðins nǫfn [5] |
«Famoso signore», oppure «famoso
combattente» (Isnardi 1991). |
|
Hleifruðr |
Þulur >
Óðins nǫfn [4] |
Appellativo tuttora privo di una
spiegazione, forse da emendare in Hléfǫðr «padre famoso». |
|
Hnikarr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[47]
Ljóða Edda > Reginsmál [passim | 18-20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [2]
Vǫlsunga saga [17]. |
«[Colui che] istiga alla
battaglia».
Epiteto di Óðinn quale dio che prepara
gli scontri tra gli uomini. Con questo nome,
Óðinn dialoga con Sigurðr in un poema eddico.
In una saga, calma una tempesta sul mare per aiutare lo stesso
Sigurðr. Snorri afferma sia il terzo dei dodici
nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr,
e suggerisce l'alternanza tra le forme «Nikarr o
Hnikarr» [Hnikarr eða Hnikarr]
(Gylfaginning [3]). |
|
Hnikuðr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[48]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
«[Colui che] istiga alla
battaglia».
Probabilmente una variante del precedente. Snorri afferma sia il quarto dei
dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr, e suggerisce l'alternanza tra le
forme «Nikuz o
Hnikuðr» [Nikuz eða Hnikuðr]
(Gylfaginning [3]). |
|
Hornǫlvir |
Þulur >
Óðins nǫfn [2] |
Forse «sacerdote del corno».
In tal caso, indicherebbe forse in Óðinn
colui che dispensa ai poeti l'idromele della poesia. |
|
Hrafnaguð |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [38] |
«Dio dei corvi».
Questo epiteto ha Óðinn perché
accompagnati dai corvi Huginn e
Muninn, che ogni giorno volano
intorno la terra e poi tornano a riferirgli ogni notizia che hanno visto e
sentito. Parallelamente, i corvi sono animali legati alle immagini delle
battaglie, in particolare, dei caduti di cui
Óðinn è giudice supremo («festino dei corvi» è
una kenning ricorrente nella poesia scandinava per indicare gli scontri
armati). |
|
Hrjóðr |
Þulur >
Óðins nǫfn [4] |
«Distruttore» o «[Colui che]
scaglia» (Cleasby & Vigfússon 1847). Altri
interpretano nel senso di «terribile» (Isnardi 1991). |
|
Hrami |
Þulur >
Óðins nǫfn [4] |
«[Colui che ha] artigli d'orso»
(?). «Laceratore» (?).
Epiteto di difficile interpretazione, forse derivato da «artiglio d'orso» [hrammr].
In tal caso evocherebbe forse un legame di
Óðinn con questo animale (Isnardi 1991),
designandolo dio dei guerrieri berserkir. È anche possibile che l'epiteto
sia una scrittura errata per Hrani
[infra]. |
|
Hrani |
|
«Trasandato, sbruffone,
incivile».
Dissimulato sotto l'aspetto di un contadino con questo nome,
Óðinn diede ospitalità al re danese
Hrólfr Kraki durante il suo viaggio in Svezia. |
Hrólfs saga Kraka |
|
Hroptr |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[62]
Ljóða Edda >
Hávamál [142]
Ljóða Edda >
Grímnismál [8]
Ljóða Edda > Insulti di Loki
[45]
Ljóða Edda > Sigrdrífumál [13]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10 |
62]
Þulur > Óðins nǫfn [2, 5]
(Cfr. Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [III: iv: 2 | IX: iv: 12]) |
Epiteto di interpretazione molto
controversa: si ritiene che hroptr sia un termine generico per «dio» [áss] (Isnardi 1991), anche se viene utilizzato per indicare
Óðinn, il dio per antonomasia.
Altri intendono «voce» (Scardigli & Meli 1982) o
«[colui che] urla» (Branston 1955).
In due fonti distinte (Hávamál e
Sigrdrífumál), l'epiteto sembra legato alla scoperta delle
rune e al loro potere.
Il nome compare anche nelle Gesta Danorum
nel personaggio di Roftarus/Rofterus (o
Rostarus/Rosterus), del quale è detto operasse la guarigione di un guerriero
facendosi promettere in cambio le anime di coloro che costui avrebbe ucciso. |
|
Hroptatýr |
Ljóða Edda >
Hávamál [160]
Ljóða Edda >
Grímnismál
[54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
Forse «Dio [týr] degli
Æsir» (Isnardi
1991).
Oppure «dio urlatore» (Branston 1955).
Derivato dal precedente in costruzione con týr «dio». |
|
Hrosshársgrani |
|
«Dal labbro [baffuto come] un
crine di cavallo».
Secondo quanto narra la Gautreks saga,
con questo nome Óðinn, assunto l'aspetto
di un vecchio, intervenne più volte nell'esistenza degli eroi
Starkaðr e Víkarr,
stabilendo le loro fortune e il loro destino. |
Þulur > Óðins nǫfn [4]
Gautreks saga |
|
Hvatmóðr |
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«[Colui che] eccita alla
battaglia». |
|
Hveðrungr |
|
«Vento mormorante».
Epiteto che pare ricollegarsi alla natura originaria di
Óðinn quale dio del vento. Vi è però la
possibilità che tale epiteto sia stato elencato tra gli appellativi di
Óðinn per l'errata interpretazione di un
verso di Þjóðólfr ór Hvíni (Ynglingatal
[32]) dove ci si riferisce piuttosto a
Loki (il quale è il destinatario
dell'epiteto anche in
Vǫluspá [55] e nella relativa citazione di Snorri). |
Þulur > Óðins nǫfn
[5] Per Loki:
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[55]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [51]
Þjóðólfr ór Hvíni: Ynglingatal
[32]
|
|
Hǫttr |
Hálfs saga ok
Hálfsrekka [1] |
«Incappucciato».
Con questo nome, Óðinn si presentò alla
bellissima Geirhildr e combinò il matrimonio tra
lei e re Alrekr. In seguito la aiutò a vincere una
gara preparando un'ottima birra, e in cambio le chiese «ciò che c'era tra lei e
il paiolo», cioè il figlio che la donna portava in grembo. Costui sarebbe stato
l'eroe Víkarr, di cui
Óðinn avrebbe poi richiesto la vita in
sacrificio. |
|
Jafnhár |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [passim | 2]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Altrettanto alto».
Epiteto certamente inteso nell'accezione di dio supremo, anche se il suo senso
preciso non è chiaro. È uno dei tre personaggi che accolgono re
Gylfi nell'Ásgarðr. |
|
Jálkr (o
Jálg) |
Ljóða Edda >
Grímnismál [49
| 54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«Castrato».
Epiteto, evidentemente legato a un mito perduto, che
Óðinn assumeva quando andava in visita a
un certo Ásmundr. Forse è da connettere alle
pratiche legate alla magia seiðr che, come sappiamo, richiedevano
comportamenti indecorosi per gli uomini (Isnardi 1991).
Improbabile l'ipotesi secondo la quale tale epiteto alluderebbe a qualche antico
mito cosmogonico, forse omologo a quello della castrazione di
Ouranós (Branston 1955).
Snorri afferma sia l'ultimo dei dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr, e suggerisce lui stesso
l'alternanza tra le forme «Jálg o
Jálkr» [Jálg eða Jálkr]
(Gylfaginning [3]). |
|
Jólfr /
Jǫlfuðr |
Þulur > Óðins nǫfn [8]
Ǫrvar-Odds saga |
Nome col quale
Óðinn appare all'eroe
Oddr, e gli dona tre magiche frecce di pietra che
serviranno per uccidere un dèmone. |
|
Jólnir |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [27]
Þulur > Óðins nǫfn [7]
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa
[2] |
Forse «[Signore degli] dèi».
Eilífr Goðrúnarson cita questo epiteto nella Þórsdrápa. |
|
Jǫrmunr |
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Il potente».
Si confronti con la radice germanica *īrmin- (forse in origine nome di un
antico dio celeste), da cui il nome della tribù degli Erminones citata da
Tacitus (Germania [1]) e la colonna
Īrminsul adorata dai Sassoni. |
|
Kjalarr |
Ljóða Edda >Grímnismál [49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [14] |
«[Colui che va sulla] slitta».
Secondo la citazione di un mito perduto,
Óðinn venne così chiamato perché avrebbe tirato una slitta. |
|
Langbarðr
|
Þulur > Óðins nǫfn [7]
(cfr. Paulus Diaconus: Historia Langobardorum
[I: 8]) |
«Barba lunga».
Si confronti questo epiteto col mito etnonimo dei Longobardi narrato da Paulus
Diaconus. |
|
Lǫndungr |
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
La Isnardi emenda in Lóðungr
e interpreta come «[colui che porta] il mantello ispido» (cfr loðinn
«ispido»), suggerendovi un presunto travestimento del dio come lupo e orso, al
modo dei guerrieri invasati (berserkir e ulfeðnar) a lui votati
(Isnardi 1991). L'interpretazione non solo appare
forzata, ma nessun mito lascia intendere che
Óðinn si sia mai trasformato in orso o lupo. |
|
Njótr |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«[Colui che] usufruisce». |
|
Ófnir |
Ljóða Edda >Grímnismál [54]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«[Colui che] eccita alla
battaglia».
Il
Grímnismál [54] cita
Ófnir e
Sváfnir, congiunti in stretta
allitterazione, come epiteti di Óðinn; ma
la medesima coppia di nomi era già comparsa alla strofa
[34] nell'elenco dei serpenti che, insieme a
Níðhǫggr, giacciono alle radici del
frassino Yggdrasill. |
|
Olgr |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«[Colui che] rumoreggia» (?).
Epiteto di difficile interpretazione, forse riferito al mare in tempesta
(Isnardi 1991). Alcuni pensano sia da emendare in
Ǫlgr
«bue», ma non è ben chiaro quale sia il senso. |
|
Ómi |
Ljóða Edda >Grímnismál [49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«[Colui che ha voce] risonante».
Forse inteso in funzione della capacità di
Óðinn di operare incantesimi tramite formule magiche declamate a gran voce.
Può anche darsi, tuttavia, che si riferisca alle sue funzioni di capo che incita
le schiere alla battaglia. Snorri afferma sia il settimo dei dodici nomi che il
dio aveva anticamente nell'Ásgarðr (Gylfaginning [3]). |
|
Óski |
Ljóða Edda >Grímnismál [49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«[Colui che] esaudisce i desideri». Snorri
afferma sia il sesto dei dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr (Gylfaginning [3]). |
|
Rauðgrani
|
Bárðar saga Snæfellsáss |
«Crine rosso»
Sotto questo nome, un personaggio che è sicuramente
Óðinn compare in una saga storica
nell'aspetto di un uomo guercio e con un mantello azzurro scuro. Si mette a
predicare il credo pagano all'equipaggio di un vascello che l'ha preso a bordo
ma, percosso da un prete cristiano, cade in mare e scompare. |
|
Rǫgnir |
Ljóða Edda > Sigdrífumál
[15] (?)
Ljóða Edda > Atlakviða
in grǿnlenzka [33]
Ljóða Edda [minora] > Hyndluljóð [35] (?)
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [15]
Þulur > Óðins nǫfn [5]
(cfr. Egill Skallagrímsson: Sonatorrek [22]) |
«Signore».
Nel Sigrdrífumál si parla delle
rune incise sulle ruote del «carro di Rungnir» Molti autori sono persuasi
che Rungnir sia qui un errore per
Rǫgnir, anche se rimane il fatto
che il carro non è tra gli attribuiti di
Óðinn, ma è più confacente a Þórr. In
alcuni testi rimane tuttavia un'immagine alternativa di
Óðinn alla guida di un carro, come in una
kenning di Egill Skallagrímsson, in cui
Óðinn è definito «principe del carro» [vagna
rúni] (Sonatorrek
[22]). |
|
Saðr > Sannr |
Ljóða Edda >Grímnismál [47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [20]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«[Colui che] dice il vero».
Da intendere forse in relazione alla condizione di iniziato di
Óðinn (Isnardi
1991). |
|
Sanngetall |
Ljóða Edda >Grímnismál [47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«[Colui che] intuisce il vero»
Come il precedente, forse è anche questo da intendere in relazione alla
condizione di iniziato di Óðinn
(Isnardi 1991). |
|
Skilfingr |
Ljóða Edda >Grímnismál [47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«[Colui che] dimora in una rocca»
Cfr. skjálf «rocca montuosa». Epiteto dovuto probabilmente alla dimora di
Óðinn in
Valaskjálf. |
|
Skollvaldr |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Potente nell'inganno» |
|
Síðgrani |
Ljóða Edda > Álvissmál
[6] |
«Ben barbuto». |
|
Síðhǫttr |
Ljóða Edda >Grímnismál [48]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [4 | 6] |
«Ben incappucciato».
Quando viaggia, Óðinn appare spesso
incappucciato, o con un cappello a larghe falde che gli nasconde il volto. |
|
Síðskeggr |
Ljóða Edda >Grímnismál [48]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Ben crinito». |
|
Sigðir |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Servo della vittoria». |
|
Sigfǫðr |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[55]
Ljóða Edda >Grímnismál [48]
Ljóða Edda > Lokasenna
[58]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [4] |
«Padre della vittoria».
Importante epiteto che contraddistingue Óðinn
quale dio che decide, nelle battaglie, a chi vada assegnata la vittoria. Si
vedano al riguardo i molti epiteti costruiti su sigr «vittoria». |
|
Siggautr |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Gautr di vittoria».
Epiteto di Óðinn quale dio di vittoria,
parallelo a Sigfǫðr ma costruito sul
nomen divinum Gautr [supra].
|
|
Sigrhǫfunð |
Egill Skallagímsson: Sonatorrek [v. ] |
«Principe di vittoria».
Epiteto di Óðinn, attestato nella
letteratura scaldica, quale dio che stabilisce a chi debba andare la vittoria. |
|
Sigmundr |
Þulur > Óðins nǫfn [6] |
«Protettore della vittoria».
Stesso nome ha l'eroe Sigmundr. |
|
Sigtryggr |
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Fedele nella vittoria». |
|
Sigtýr |
Ljóða Edda > Atlakviða
in grǿnlenzka [30]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10 |
43] |
«Dio di vittoria».
Epiteto di Óðinn quale dio di vittoria,
parallelo a Sigfǫðr ma costruito sul
termine týr (qui usato come generico per «dio»). |
|
Sigþrór |
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Cospicuo nella vittoria». |
|
Sváfnir |
Ljóða Edda >Grímnismál [54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [2]
Þulur > Óðins nǫfn [4]
Þorbjǫrn Hornklofi: Hrafnsmál [v. ] |
«[Colui che] addormenta».
Da intendere probabilmente nel senso di dio che decide la morte dei guerrieri.
Ma si ricordi anche il mito col quale Óðinn
addormenta la valchiria Brynhilldr con la spina del
sonno (Sigrdrífumál [pr.]; Vǫlsunga saga [21]).
Il
Grímnismál [54] cita
Ófnir e
Sváfnir, congiunti in stretta
allitterazione, come epiteti di Óðinn; ma
la medesima coppia di nomi era già comparsa alla strofa
[34] nell'elenco dei serpenti che, insieme a
Níðhǫggr, giacciono alle radici del
frassino Yggdrasill.
Tale epiteto è anche citato da Þorbjǫrn Hornklofi nel Hrafnsmál,
il «Discorso del corvo», composizione che Snorri attribuisce erroneamente a Þjóðólfr ór Hvíni. |
|
Sviðrir |
Ljóða Edda >Grímnismál [50]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [4] |
Molti filologi considerano
Sviðrir una variante di
Sviðurr [infra]
e lo associano al significato di quest'ultimo epiteto
(Cleasby ~ Vigfússon 1874).
Stessa conclusione è sostenuta dalla Isnardi (Isnardi
1991), la quale però, nella precedente traduzione della Prose Edda di Snorri, aveva suggerito per il solo
Sviðrir
il significato di «castrone»
(Isnardi 1975).
Al contrario, le due
Edda trattano
Sviðrir e
Sviðurr considerano due epiteti distinti, allitteranti
tra loro. Al riguardo Snorri afferma che
Sviðrir sia il decimo dei dodici
nomi che il dio avesse anticamente nell'Ásgarðr,
mentre Sviðurr era il nono
(Gylfaginning [3]).
Fu dissimulandosi sotto entrambi i nomi che Óðinn uccise il gigante
Søkkmímir.
Le þulur distinguano
addirittura tre forme: Sviðurr,
Sviðurð e
Sviðrir.
L'alternanza tra le forme
Sviðurr e Sviðrir ha un
parallelo nell'alternanza tra Viðurr
e Viðrir, anch'essi epiteti
distinti dalle fonti. |
|
Sviðurr /
Sviðurðr |
|
Forse
«[colui che] porta la lancia» (da sviða
«alabarda»).
Pur non escludendo questa interpretazione, per la Isnardi il significato più
convincente dell'epiteto è «[signore del] vento» (Isnardi
1975 | Isnardi 1991) o, alternativamente, «[colui che] sa calmare [le tempeste]»
(Isnardi 1991), con evidente riferimento
all'epiteto Viðurr, che ha
tale significato.
Il dizionario islandese traduce «il distruttore»
(Cleasby ~ Vigfússon 1874).
Snorri afferma che Sviðurr sia
il nono dei dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr (Gylfaginning [3]). Dissimulato sotto i nomi di
Sviðurr e
Sviðrir,
Óðinn uccise il gigante
Søkkmímir.
La forma alternativa Sviðarr è attestata soltanto nel manoscritto R
della Ljóða Edda.
Nelle þulur troviamo una forma
Sviðurðr che tuttavia pare essere un'ulteriore variante di
Sviðurr. |
Ljóða Edda >Grímnismál [50]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3 | 20]
Þulur > Óðins nǫfn [4 | 6] |
|
Svipall |
Ljóða Edda >Grímnismál [47]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [3] |
«Mutevole». |
|
Svǫlnir |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [26]
Þulur > Óðins nǫfn [6]
Þjóðólfr ór Hvínir: Haustlǫng
[15].
Bragi Boddason: Ragnarsdrápa
[v. ]
Eyvindr Finnsson
Skáldaspillir: Lausavísur [12].
Kormákr Ǫgmundarsson: Lausavísur [22] |
Gianna Chiesa Isnardi interpreta
«[Colui che] porta lo scudo», con riferimento allo scudo
Svalinn posto davanti al sole (Isnardi 1991).
Ludovica Koch identifica inspiegabilmente l'epiteto
Svǫlnir con
Sváfnir
e li traduce entrambi «[colui che] addormenta».
L'heiti è citato anche in molte composizioni scaldiche. Þjóðólfr ór
Hvíni, nel poema Haustlǫng, «Lungo come un
autunno»,
in cui descrive le scene mitologiche dipinte su uno scudo, cita questo epiteto
in una kenning dove «vedova di
Svǫlnir» [Svǫlnis ekkja] è la dea-terra
Jǫrð, madre di
Þórr.
Eyvindr Finnsson skáldaspillir esordisce una
composizione col bellissimo verso «nevica sulla sposa di Svǫlnir» [Snýr á
Svǫlsnis vö́ru]; anche qui «sposa di
Svǫlnir» è una kenning per indicare la terra.
Bragi Boddason nella Ragnarsdrápa, parla invece del «soldo
della sala di Svǫlnir» [Svǫlnis salpenningi kenna] come kenning
per «scudi».
Nella redazione U della Prose Edda (Gylfaginning [2]), compare
Svǫlnir
invece di
Sváfnir nei versi di
Þorbjǫrn Hornklofi (Hrafnsmál) che
Snorri cita attribuendoli erroneamente a Þjóðólfr ór Hvíni. |
|
Tveggi |
Þulur > Óðins nǫfn [8]
Egill Skallagrímsson: Sonatorrek [v.
]
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[63] (?)
(Cfr. Tacitus:
Germania [1])
|
«Doppio», probabilmente da
intendersi nel senso di «ambiguo».
Forse con riferimento al carattere ingannatore del dio. Potrebbe esservi un
possibile riferimento a questo epiteto in
Vǫluspá [63], ma
l'interpretazione è controversa. Si può anche pensare a un riferimento con il
Tvisto citato da Tacitus (Germania [1]). |
|
Tvíblindi |
Þulur > Óðins nǫfn [4] |
«Cieco da entrambi gli occhi».
Può darsi che questo epiteto alluda a una mutilazione funzionale: la cecità
degli occhi che corrisponde alla veggenza o alla capacità poetica (si pensi a
Omero). Potrebbe anche esserci qualche riferimento a un mito non tramandato. Si
è anche pensato a un'identificazione di Óðinn
con Hǫðr, in tal caso visto come
emanazione del padre (Isnardi 1991). |
|
Uðr |
Ljóða Edda >Grímnismál [46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
Forse da connettere al norreno
arcaico uðr > unnr
«onda» (cfr. svalar unnir «fresche onde», in
Vǫluspá [3]). Il
senso di questo epiteto non è affatto chiaro. |
|
Váfuðr /
Vö́fuðr |
Ljóða Edda >Grímnismál [54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [45]
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«[Colui che] erra» o «[Colui che]
ondeggia».
Forse si intende Óðinn in qualità di
signore del vento. |
|
Vakr
|
Ljóða Edda >
Grímnismál
[54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«Sveglio, desto, vigile». |
|
Valfǫðr |
Ljóða Edda >
Vǫluspá [1
| 27]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [15 | 19]
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«Padre dei caduti».
Importante epiteto di Óðinn quale dio che
stabilisce chi debba morire in battaglia, e dunque entrare a far parte della
schiera degli Einherjar. In
questo senso, questo epiteto è complementare con
Sigfǫðr [supra]. |
|
Valgautr |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldksaparmál
[10]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Padre dei caduti».
Epiteto di Óðinn quale dio che stabilisce
la sorte dei guerrieri in battaglia, parallelo a
Valfǫðr ma costruito sul nomen
divinum Gautr [supra].
|
|
Valtamr |
Ljóða Edda [minora] >
Baldrs Draumar [6] |
«Aduso [alla scelta] dei caduti».
Nel
Baldrs Draumar, Óðinn si presenta come
«Vegtamr
figlio di Valtamr», dove tuttavia anche il nome del padre è da
leggere come epiteto dello stesso Óðinn,
il quale provvede a stabilire in battaglia chi debba morire. |
|
Valtýr |
Eyvindr Finnsson skáldaspillir: Háleygjatal [15]. |
«Dio dei caduti».
Epiteto di Óðinn quale dio di vittoria,
parallelo a Valfǫðr ma costruito
sul termine týr (qui usato come generico per «dio»). Il termine ricorre
nella poesia scaldica, e più specificatamente nell'Háleygjatal,
il «Catalogo degli Háleygjar», di Eyvindr Finnsson skáldaspillir. |
|
Valþǫgnir
|
|
«[Colui che] accoglie i caduti»
Epiteto di Óðinn quale dio che
accoglie i guerrieri caduti nella
Valhǫll, anch'esso attestato nella letteratura scaldica. |
|
Vegtamr |
Ljóða Edda [minora] >
Baldrs Draumar [6 | 13] (passim) |
«Viandante».
Con questo nome, Óðinn interrogò una
veggente sul destino di Baldr. |
|
Veratýr |
Ljóða Edda >
Grímnismál [3]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Dio degli uomini».
Sotto questo nome, Óðinn si presenta ad
Agnarr, figlio di re Geirrøðr
(Grímnismál [3]). |
|
Viðrir |
Ljóða Edda > Lokasenna [26]
Ljóða Edda > Helgakviða
Hundingsbana in
fyrri [13]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [3]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [11 |
62-63 | 76]
Egill Skallagrímsson: Hǫfuðslaun
[3] |
«[Signore del] vento».
Epiteto di Óðinn, forse visto nel suo
aspetto di dio atmosferico legato al vento. Snorri afferma sia l'undicesimo dei
dodici nomi che il dio aveva anticamente nell'Ásgarðr (Gylfaginning [3]). Un poema eddico attesta una kenning dove i
lupi sono detti «cagne di
Viðrir» (Helgakviða
Hundingsbana in
fyrri [13]). L'epiteto è anche citato nell'Hǫfuðslaun, il «Riscatto della testa», di Egill Skallagrímsson. |
|
Viðurr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [6]
Egill Skallagrímsson: Arinbjarnakvíða [v.
]
Egill Skallagrímsson: Sonatorrek [v. ] |
«[Signore del] vento».
Da alcuni considerato identico al precedente, anche questo epiteto designa
Óðinn visto nel suo aspetto di dio
atmosferico legato al vento, e forse alla parola come mezzo di poesia e di
conoscenza, almeno a giudicare dalle metafore che Egill Skallagrímsson
costruisce intorno a questo epiteto; ad esempio, nell'Arinbjarnakvíða,
«boccale di
Viðurr» [Viðurs fulli] è
kenning per «poesia», e nel Sonatorrek, «furto di
Viðurr» [Viðurs þýfi]
significa ugualmente «poesia». |
|
Viðrímnir |
Þulur > Óðins nǫfn [1] |
Forse da leggere Viðhrímnir.
«Risonante», «[colui che] grida di rimando». |
|
Vingnir |
Þulur > Óðins nǫfn [5] |
«[Colui che] scuote [la lancia]».
Si noti che Vingnir è anche
appellativo di Þórr
(Vafþrúðnismál
[51]). |
|
Yggjungr |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[28] |
«Molto spaventoso».
Epiteto di Óðinn, forse dovuto
all'irresistibile potere magico [kraptr] esercitato dal dio, che ispirava
il terrore nelle schiere. |
|
Yggr |
Ljóða Edda >
Vafþrúðnismál
[5]
Ljóða Edda >
Grímnismál
[53-54]
Ljóða Edda >
Hymiskviða
[2]
Ljóða Edda > Fáfnismál [43]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10 |
12 | 58 | 67-68 | 80]
Snorri Sturluson:
Prose Edda > Háttatál [31 | 50]
Þulur > Óðins nǫfn [8]
Kormákr Ǫgmundarsson:
Sigurðsdrápa [3] |
«Terribile».
Epiteto importante e piuttosto diffuso, che ricompare tra l'altro come
kenning nel nome del frassino
Yggdrasill «destriero del terribile», con probabile riferimento al mito
dell'autosacrificio di Óðinn che si
impiccò all'albero cosmico. |
|
Ýjungr |
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«[Colui che] aizza agli scontri»,
visto come dio che si compiace della guerra e dei combattimenti, provocandone le
fatalità ai propri scopi. |
|
Þekkr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«Obbediente, disponibile,
piacevole».
Si noti che Þekkr è anche il nome
di un nano (Vǫluspá [12];
Gylfaginning [14: xviii]). |
|
Þrasarr |
Þulur > Óðins nǫfn [4] |
«Furioso».
Forse nell'accezione del furor poetico, o anche della furia nel corso
della battaglia. |
|
Þriði |
|
«Terzo».
Epiteto di senso non chiaro. Ha questo nome uno dei tre personaggi che accolgono
re Gylfi nell'Ásgarðr. Eilífr Goðrúnarson cita questo
epiteto nella Þórsdrápa. |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [passim][2]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [10 |
27]
Þulur > Óðins nǫfn [5]
Eilífr Goðrúnarson: Þórsdrápa
[2] |
|
Þrór
|
Ljóða Edda >
Grímnismál
[49]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [8] |
«Proficuo».
Forse come dio dei traffici e del commercio?
Si noti che Þrór è anche il nome
di un nano (Vǫluspá [12];
Gylfaginning [14 {18}]). |
|
Þuðr |
Ljóða Edda >
Grímnismál
[46]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
Inteso forse come «prosperoso»,
questo epiteto non è molto chiaro. Verosimilmente si tratta di una forma errata
perché il suo significato letterale di «sottile, debole, chiaro» mal si adatta
alla figura del dio, a meno che non si riferisca anch'esso a qualche mito
perduto. |
|
Þundr |
Ljóða Edda >
Hávamál [145]
Ljóða Edda >
Grímnismál [46
| 54]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Gylfaginning [20]
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldksaparmál [11]
Snorri Sturluson:
Prose Edda > Háttatál [58]
Þulur > Óðins nǫfn [7] |
«Tempestoso»
Epiteto meteorologico, legato forse al vento che, battendo sul mare, crea le
tempeste. |
|
X - INTERPRETAZIONI
CRITICHE DELLA FIGURA DI ÓĐINN
L'immagine che la filologia ottocentesca ha di
Óðinn è essenzialmente quella di un re
degli dèi (analogo in questo allo Iuppiter
classico), le cui funzioni spaziano dall'attività guerresca alla pratica magica.
Nel suo monumentale lavoro sui miti germanici, Jacob Grimm ne sottolinea in
particolar modo – tracciando addirittura dei paralleli biblici – lo status
di dio supremo e le caratteristiche guerresche (Grimm
1835). La prima critica fu mossa nella tesi di dottorato di un giovane
archeologo danese, Karl Nikolaj Henry Petersen (1849-1896), il quale sosteneva,
con abbondanti argomenti, che Óðinn fosse
un dio proveniente dal meridione e originariamente estraneo al pantheon
germanico, al quale sarebbe stata aggiunto solo tardivamente. Seppure con
intenti diversi dalla teoria «storicistica» che interpretava il sistema
teologico dei Germani alla luce delle loro migrazioni preistoriche nel nord
Europa ①, Petersen scriveva che «le leggende
della migrazione di Óðinn verso il nord,
possono contenere un nucleo di verità» (Petersen 1876).
La tesi di Petersen provocò una profonda impressione tra gli specialisti e diede
l'avvio a una serie di analisi critiche che misero in discussione il ruolo di
Óðinn quale dio supremo nelle varie fasi
della religione germanica. (Helm 1946 | Helm 1953 | Wessén
1924 | Philippson 1953)
Anche se l'ipotesi che Óðinn fosse una
divinità extra-germanica non incontrò mai molti consensi, nondimeno si cominciò
a ritenere che egli sia stato in origine una divinità di importanza minore. Il
proto-Óðinn sarebbe dunque stato, nelle
varie ipotesi degli studiosi, un umile dio domestico, un dio dei morti, un
piccolo dio stregone, oppure un dio della fecondità. La sua crescita di
importanza, secondo gli studiosi, era già cominciata ai tempi di Tacitus, come
indica il fatto che lo storico romano presentava Mercurius
come il più onorato tra gli dèi germanici (Germania
[9]), o almeno presso quelle tribù localizzate nei territori stanziati
lungo la sponda orientale del Reno e tra l'Elba e l'Oder, cioè ai confine
dell'impero romano. Il culto di Óðinn
sarebbe poi avanzato da sud verso nord, dalla Germania alla Scandinavia, mentre
il dio concentrava su di sé un gran numero di funzioni, a scapito delle altre
divinità, fino a ritrovarsi investito del rango di dio supremo.
Tale punto di vista è tuttora appoggiato da un buon numero di specialisti e
sostenuto in autorevoli pubblicazioni. Scrive la filologa Gianna Chiesa Isnardi
nel suo eccellente lavoro di sintesi sulla mitologia scandinava: «sebbene paia
probabile che il suo culto si sia diffuso in epoca relativamente tarda, [Óðinn] si guadagnò ben presto la posizione
di dio supremo e come tale sopraffece altre divinità del cielo un tempo assai
più importanti come Týr e
Ullr» (Isnardi 1991).
L'autrice ricorda al proposito come la diffusione del nome di
Óðinn nella toponomastica fosse minima
rispetto ai toponimi costruiti su Þórr,
con una concentrazione maggiore nelle zone meridionali e orientali della
Scandinavia, segno – secondo l'autrice – di una tarda penetrazione del culto del
dio, il quale si sarebbe propagato a partire dall'area continentale, progredendo
non senza resistenze verso le zone periferiche della Scandinavia
(Isnardi 1991).
I pochi toponimi che contengono il nome di
Óðinn sono infatti attestati in Danimarca (Vojens, Oddense e Odense), in
Svezia (Onslunda, Odenslunda, Odenslanda, Onsala, Odensala, Odensåker, Odensvi,
Odensharg) e nel meridione della Norvegia (Onsøien, Onsaaker, Osland, Onsrud,
l'antica Óðinssalir, nonché la penisola di Onsøy [< Óðinsøy «isola di
Odino»] nella provincia dell'Østfold), mentre sono invece del tutto assenti
nella Norvegia settentrionale e in Islanda, regioni in cui si era invece devoti
a Þórr. Analogamente, non sono attestati
nomi teofori costruiti su Óðinn, mentre
al contrario ve ne sono moltissimi che celebrano
Þórr (Þórbjǫrn, Þórsteinn, Þórólfr,
Þórkell, Þórir, Þórmóðr, etc.). Tutto questo dimostrerebbe, a detta di molti
studiosi, che il culto di Óðinn sia più
recente di quello di Þórr e degli altri
dèi. (Isnardi 1991)
A partire dagli anni Cinquanta, l'ipotesi «riduzionista» di
Óðinn fu messa in discussione da Jan De
Vries e soprattutto da Georges Dumézil, i quali polemizzarono con quello che a
loro dire era diventato un «esercizio abituale nella filologia germanica»
(De Vries 1957 | Dumézil 1959). Ma soprattutto
Dumézil prendeva le distanze dalle interpretazioni basate sull'evoluzione
progressiva del culto di Óðinn, e
scriveva: «La critica a questo tipo di spiegazioni facili e seducenti che
credono di basarsi logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrappongono
artificialmente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora essere fatta, poiché
l'esperienza dimostra che non vi rinuncia volentieri». E aggiunge: «I numerosi
tentativi fatti per dimostrare che la promozione di *Wōđanaz è cosa
recente [...] non potevano riuscire a dispetto dell'intelligenza,
dell'erudizione e del talento dei loro autori» (Dumézil
1958). Lo stesso Dumézil provvide, in una serie di studi magistrali, a
«riabilitare» la figura del dio, cercando di dimostrarne l'appartenenza al più
antico strato della teologia germanica. L'intento dello studioso francese era
però quello di portare acqua al suo mulino, in quanto proprio nella correlazione
funzionale tra lo scandinavo Óðinn e il
dio vedico Varuṇa egli trovava uno dei più
importanti cavalli di battaglia nella ricostruzione da lui avanzata sul pensiero
religioso degli indoeuropei [infra]. (Dumézil 1959)
Dumézil obiettò che la rarità dei toponimi scandinavi costruiti sul nome di
Óðinn, rispetto a quelli costruiti sul
nome di Þórr, non fosse un risultato dalla
minore antichità del culto di Óðinn
rispetto a quello di Þórr, ma dipendesse
dal fatto che le due divinità ricevevano culti separati dalle classi sociali di
cui erano rispettivamente i patroni. Il culto di
Óðinn era probabilmente limitato all'élite
nobiliare, al comitatus (De Vries 1970),
mentre quello di Þórr aveva un carattere
più schiettamente popolare. Questo fatto è esplicitamente attestato in un canto
eddico, dove si dice che «a Óðinn tocca
la nobiltà [...] mentre a Þórr tocca la
stirpe dei servi» [Óðinn á jarla,[...] en Þórr á þrælakyn]
(Hárbarðsljóð [24]). Mentre la
maggior parte della popolazione, che viveva nelle fattorie, aveva tutte le
ragioni per dirigere la propria devozione a
Þórr, signore della prosperità rurale, del temporale e delle piogge
apportatrici di fertilità, che non al sinistro re-stregone. Questo spiegava
anche perché in Islanda non fossero registrati toponimi dedicati a
Óðinn: era naturale che degli emigrati,
fuggiti dalla Norvegia per contrasti con re Harald Hárfagri (Aroldo Bellachioma)
e fondatori nella remota isola di una repubblica di ricchi contadini, non
fossero propensi a dare il nome del re degli dèi a neppure uno dei nuovi siti.
Infine, l'estrema rarità di antroponimi basati sul nome di
Óðinn era spiegabile col carattere del
dio, inquietante e terribile. Anche nei registri degli altri popoli indoeuropei,
notava Dumézil, vi sono divinità i cui nomi vengono assegnati agli uomini, e
altre per cui vige un rispettoso riserbo. Ciò dipende dal carattere del dio e
dalla natura del culto, non dal fatto che una divinità sia più o meno recente di
un'altra. (Dumézil 1959)
Dumézil provvide a smontare le varie interpretazioni portate a sostegno di
una diffusione tardiva del culto di Óðinn.
I «riduzionisti», per esempio, avevano
notato che nella mitologia lappone figuravano soltanto le divinità equivalenti a
Þórr,
Freyr e Njǫrðr, ma non si faceva
menzione di un dio in qualche modo rapportabile a
Óðinn, segno – a loro dire – che questi
fosse penetrato nella regione dopo gli altri dèi. Il dato era invece spiegabile,
secondo Dumézil, col fatto che i Lapponi avessero adottato più facilmente il dio
del tuono, quello della fecondità e quello della navigazione (arte che essi
avevano appreso dagli Scandinavi) che non il dio della poesia e della magia, in
quanto i Finni custodivano da secoli una forma loro propria di stregoneria e
sciamanesimo (Dumézil 1959). Al contrario, è la
figura di Óðinn a presentare molti
aspetti che rimandano a una qualche forma di sciamanesimo, a dimostrazione che,
almeno su questo punto, furono i Germani a essere influenzati dai Finni e non
viceversa. Ciò potrebbe essere accaduto già all'epoca delle prime migrazioni
germaniche in nord Europa, cosa che retrodaterebbe la presenza di
Óðinn nel pantheon germanico a
tempi piuttosto remoti.
Un ulteriore argomento, avanzato già dall'archeologo svedese Oscar Montelius
(1843-1921) e in seguito più volte ripreso, si basava sul fatto che
Óðinn era considerato dio inventore delle
rune e detentore del loro potere. Ora, poiché la scrittura runica è cosa
relativamente recente, diffusasi dal sud verso nord nel corso del primo
millennio, ne deriva un terminus a quo per il dio delle rune, almeno
nella forma e nel carattere con cui lo conosciamo, in quanto nessuna iscrizione
runica risulta anteriore all'èra cristiana. Tale ipotesi è purtroppo molto
debole: nulla infatti impedisce che siano state le rune, nel momento della loro
creazione, a essere poste sotto la tutela del dio stregone. Potente strumento
magico, esse rientravano incontestabilmente nel dominio del dio. (Dumézil 1959)
Un ultimo argomento avanzato dai «riduzionisti» era basato su un argomento
ex silentio: si notava come il nome del dio fosse attestato soltanto nel
germanico occidentale (Wōtan/Wōdan/Wōden) e settentrionale (Óðinn), ma
non avesse alcun riscontro in germanico orientale. Se
Óðinn fosse stato una divinità antica, ci
si aspetterebbe di trovarne la presenza presso tutti i popoli germanici. E
dunque, se esso fosse esistito anche presso i Goti e se tra essi avesse goduto
della medesima posizione di eminenza che aveva in Germania e in Scandinavia,
perché nessuno degli autori che hanno parlato dei Goti l'ha mai menzionato? Se
dunque i Goti lo ignoravano o non gli davano rilievo, se ne deduceva che il dio
non appartenesse – almeno col suo rango – all'originaria struttura del pantheon
germanico, ma che, appunto, il suo status di dio supremo fosse il
risultato di un'innovazione recente diffusasi in Scandinavia. Tale argomento si
rivelava però molto debole semplicemente per il fatto che i documenti sulla
religione gotica sono di per sé esigui. Inoltre, l'epiteto scandinavo
Gautr, nonché la localizzazione nel
Götland svedese della maggior parte dei toponimi contenenti il nome del dio,
rivelavano, al perfetto contrario, che l'Óðinn
scandinavo era particolarmente collegato con i Goti. Infine,
Gautr aveva un riscontro nel
Gapt che, secondo Jordanes (De origine actibusque
Getarum
[XIV: 79]), apriva la genealogia degli Amali, stirpe regale dei Goti. (Dumézil 1959) [supra]
La risposta a questo dilemma, se Óðinn
sia una divinità già presente nell'originario pantheon germanico o se la sua
importanza sia andata crescendo nel tempo, sta probabilmente in qualche punto
tra i due estremi. Notiamo che la posizione esemplificata dalla Isnardi, secondo
cui Óðinn sarebbe cresciuto d'importanza
sopraffacendo delle antiche e importanti divinità del cielo, come
Týr e Ullr,
si basa su un malinteso fin troppo diffuso tra gli appassionati di mitologia: il
forzato confronto, cioè, di ogni sistema mitologico col «modello» greco-romano.
In realtà nulla ci autorizza a utilizzare il pantheon ellenico come
modello di una situazione originaria, né a sostenere che il ruolo di dèi supremi
debba per forza spettare alle divinità celesti. Al contrario, il ruolo di
preminenza di un Zeús/Iuppiter
nelle mitologie classiche sembra un accomodamento teologico sul modello
medio-orientale, che non rispecchia in nessun modo un eventuale modello
indoeuropeo.
Tolto di mezzo questo ingombrante malinteso, bisogna tuttavia notare che la
sfera funzionale di Óðinn è molto vasta,
abbracciando campi tra loro diversi come la guerra, la poesia, la sapienza, la
magia, il diritto, la morte e il commercio. Questo fa indubbiamente pensare che,
col passar del tempo, il dio abbia accresciuto la propria sfera d'azione e si
sia appropriato di funzioni aggiuntive. La comparazione con omologhe figure
della mitologia indoeuropea rileva la complessiva antichità della figura di
Óðinn; in particolare, le affinità di
Óðinn col
Mercurius gallico e col
Lúg irlandese, mostrano la
presenza una divinità sovrafunzionale, dalle multiformi capacità, il cui dominio
si estende contemporaneamente in molte sfere del sacro e il cui status
amplia la semplice regalità guerriera, portandolo ad assurgere a tutti gli
effetti al rango di dio supremo. Si è voluto parlare, non a torto, di un'unica
divinità celto-germanica il cui culto – nelle sue varie forme – sarebbe stato
diffuso in tutta l'Europa centrale [infra]. Ciò ci permette di retrodatare a tempi
piuttosto remoti la figura di un dio con aspetti e capacità simili a quelli
evidenziati per Óðinn nella tarda
letteratura islandese. Questo naturalmente non vieta che, col passar del tempo,
il dio abbia assunto una maggiore rilevanza nel mito e nel culto, ma tale
promozione andrebbe intesa in maniera piuttosto relativa. Non si può certo
parlare di una divinità aggiunta in tempi recenti al pantheon germanico e
a questo punto bisogna vagliare con attenzione l'ipotesi di un dio minore
assurto al rango di dio supremo. A nostro avviso si può sperare sull'antichità e
soprattutto sull'importanza del ruolo di
Óðinn nella più antica religione germanica.
|
XI -
ÓĐINN E VARUṆA: L'ANALISI FUNZIONALE DI GEORGES DUMÉZIL
Uno sguardo sulle più importanti interpretazioni critiche della figura di
Óðinn non può dirsi completo senza
approfondire l'analisi che Georges Dumézil (1898-1986) dedicò, nel corso di
un'intera carriera di studi, al grande dio scandinavo, attraverso il confronto
con le divinità funzionalmente corrispondenti in altre religioni indoeuropee.
Com'è noto, Dumézil distingueva tre funzioni nel pensiero indoeuropeo:
- la funzione magica, giuridica e sacrale;
- la funzione guerriera;
- la funzione economica.
A questo schema – ripetuto regolarmente nelle culture di
matrice indoeuropea – corrispondeva una ripartizione in altrettante sfere del
sacro, poste sotto la tutela di un certo numero di divinità caratterizzate in
senso funzionale. In particolare: due personaggi distinti alla prima funzione;
un unico personaggio alla seconda funzione; una coppia di gemelli appena
distinguibili alla terza funzione. Poiché tale schema si ripeteva nelle varie
culture indoeuropee, Dumézil poté mettere in relazione le divinità appartenenti
alla medesima funzione, ottenendo un impressionante e convincente quadro
d'insieme di quello che sarebbe stato l'antico pensiero religioso degli
indoeuropei.
In particolare egli aveva notato che la prima funzione era
solitamente occupata da due personaggi aventi nome e carattere diverso, eppure
in certa misura complementari. Nel mondo indiano gli dèi collocati in questa
posizione erano Mitra e Varuṇ̣a, due divinità che negli inni vedici erano
strettamente associate in un dvandva che li comprendeva entrambi in un
unico nome: Mitravaruṇa. Ma
Mitra e Varuṇa non erano solo dèi complementari, ma anche
antitetici: a ogni specificazione dell'uno corrispondeva la contraria
specificazione dell'altro, secondo la citazione brāhmaṇ̣ica «Ciò che è di
Mitra non è di Varuṇa»
(Śatapatha-brāhmaṇa [III, ii, 4, ]). Da queste opposizioni
derivavano varie specificazioni secondo il quale Mitra
corrisponderebbe al giorno, a questo mondo, al fuoco visibile, mentre
Varuṇa corrisponderebbe alla notte, all'altro
mondo, al fuoco invisibile, e via dicendo. Dumézil condensava opportunamente
queste opposte caratteristiche nella formula secondo la quale
Mitra è «vicino all'uomo» e Varuṇa
«lontano dall'uomo». (Dumézil 1940)
L'analisi etimologica ci informa
che il nome di Mitra è formato dal suffisso dei
termini di strumento su una radice che significa «scambiare pacificamente e
regolarmente»; non ha quindi altro significato che «contratto».
Mitra è dunque un fenomeno sociale divinizzato:
l'apoteosi di un puro atto giuridico, comprendente l'insieme di effetti che
produce insieme con lo stato d'animo che instaura tra gli uomini. Al contrario,
il nome di Varuṇa manca di un'etimologia sicura,
ma dalla sua azione ne deriva che egli sia il signore della māyā, il
gioco di forme e illusioni che costituisce la realtà esperita; con i suoi lacci,
è anche colui che afferra i trasgressori e i peccatori, imprigionandoli
(Dumézil 1959). Dunque, Mitra è un giurista, laddove
Varuṇa è un mago. Essi rappresentano i due poli
dei giuramenti e dei patti sociali stretti tra loro dagli uomini.
Secondo Dumézil, la medesima
struttura a due termini, esemplificata nel sistema vedico dal binomio formato da
Mitra e Varuṇa, avrebbe un
riscontro proprio nella mitologia scandinava, dove sarebbe all'origine, seppure
distorta in modo molto interessante, della dualità di
Óðinn e Týr.
Dumézil segnala una sorprendente
serie di analogie tra Óðinn e
Varuṇa. Entrambi sono
dei dei maghi e, anche se la magia scandinava presenta tratti peculiari che non
hanno riscontro in India, il dono della metamorfosi caratteristico del dio
nordico coinciderebbe con la māyā di cui fa uso abbondante il dio vedico.
Inoltre, l'afferrare istantaneo e irresistibile di Varuṇa,
esemplificato dai suoi lacci e nodi, sembra corrispondere a certe modalità del
carattere di Óðinn, il quale in
battaglia ha il dono di accecare, assordare e paralizzare i nemici, in certi
casi rappresentato col legarli d'un laccio invisibile (Brot
af
Sigurðarkviðo [16]) (è l'herfjǫturr «laccio dell'esercito» la virtù
che paralizza il combattente, nozione in seguito personificata nel nome
dell'omonima valchiria). Altri aspetti ambigui, inquietanti e quasi demoniaci di
Varuṇa trovano corrispondenza in alcuni tratti del
carattere di Óðinn. Entrambe le divinità sembrano in rapporto con antichi
giganti o esseri della generazione titanica (gli
Jǫtnar in Scandinavia, a cui
corrispondono gli Asura in India). Entrambe
sono inoltre legate alla classe nobiliare e all'istituzione regale. Come
Óðinn
presiede al banchetto dei caduti in combattimento, Varuṇa viene invocato nei rituali funerari in quanto a lui e a
Yama vanno i caduti ārya.
Tra
Óðinn e
Varuṇa vi sono naturalmente profonde differenze,
spiegate da Dumézil secondo gli ambienti, le collocazioni geografiche e le
diverse condizioni di vita in cui venivano praticate le due religioni. Così
Varuṇa non è il patrono dei poeti, come lo è
Óðinn,
né Varuṇa ha la familiarità con gli impiccati che
dimostra Óðinn e che si fonda probabilmente su pratiche sciamaniche.
Inoltre, anche se accessoriamente invocato per ottenere la vittoria in
battaglia, Varuṇa non è un dio guerriero. Egli
vigila sulle leggi e mantiene nell'ordine i popoli, e lascia a
Indra la pratica della battaglia, come si evince
negli inni vedici che citano congiuntamente i due eroi
(Ṛgveda [85: 3]). Al contrario,
Óðinn sembra
molto a suo agio nelle imprese guerresche, di cui – come abbiamo visto –
stabilisce le sorti e decide a chi vada la vittoria e a chi la sconfitta. È un
dio degli eserciti, patrono dei guerrieri, signore dei caduti, peculiarità che
Dumézil spiega col fatto che i Germani davano grande risalto alle imprese
belliche ed eroiche. (Dumézil 1958 | Dumézil 1959)
È certamente riduttivo
considerare – come abbiamo fatto – l'ipotesi di relazione tra
Óðinn e
Varuṇa al di fuori dello schema generale delle tre
funzioni che Dumézil ha costruito e messo alla prova nel corso di un'intera
carriera di studi. L'ipotesi trova interesse e solidità proprio nel contesto
della teoria: isolata rischia di apparire un mero esercizio intellettuale. Sulla
sua validità sono stati spesi i proverbiali fiumi d'inchiostro e la critica più
recente ha giustamente smontato il pensiero duméziliano, mostrandone i limiti e
le difficoltà, anche se la monumentale teoria non ha perso per nulla il suo
interesse.
Quello che tuttavia ci preme
considerare è la natura del rapporto tra le due divinità (Óðinn e
Varuṇa), che di fatto è stata spesso travisata sia
dai sostenitori che dagli avversari di Dumézil. Il lavoro dell'illustre francese
era rivolto alla ricostruzione del pensiero degli antichi Indoeuropei attraverso
la comparazione delle istituzioni religiose e mitologiche dei popoli che ne sono
discesi. Il suo studio non verteva sullo sviluppo delle figure divine, ma
semplicemente sul posto che esse occupavano nella griglia trifunzionale da lui
escogitata. Dumézil non ha mai sostenuto che vi fosse un medesimo personaggio
alla base di Óðinn e
Varuṇa, ma semplicemente
che, a un certo punto nell'evoluzione parallela della religione germanica e di
quella vedica, queste due divinità avevano finito con l'occupare la medesima
nicchia funzionale. L'ipotesi di una relazione tra le due divinità ha dunque
senso soltanto se si ammette la correttezza della teoria che c'è dietro; se
eliminiamo lo schema duméziliano, la maggior parte delle attinenze tra
Óðinn e
Varuṇa perde la sua raison d'être. Non si
può che notare che i doni di metamorfosi di
Óðinn riguardano principalmente la
persona del dio stesso, mentre la māyā
di Varuṇa
fa parte di una metafisica che comprende la natura
stessa della realtà; al laccio di Varuṇa non
corrisponde nulla di tanto definito da parte di
Óðinn, e
comunque le due divinità applicano il loro potere paralizzante in contesti del
tutto differenti; analogamente il legame di Varuṇa con la
regalità e la classe nobiliare non è un tratto così importante nella fisionomia
del dio quanto lo è per Óðinn; e via dicendo. Infine, allo strettissimo legame tra
Varuṇa e Mitra, esemplificato dal
dandva presente nei canti vedici, non corrisponde nulla del genere per
quanto riguarda Óðinn e Týr: due divinità
che non appaiono mai, nei testi, strettamente congiunte.
Questo rende in un certo senso
inutile la difesa di Dumézil riguardo l'antichità della figura di
Óðinn. Se lo
schema trifunzionale individuato da Dumézil appartiene al fondo comune
indoeuropeo, non è necessario che anche le divinità che ne riempiono le griglie
siano altrettanto antiche. Dal punto di vista logico, nulla impedisce che, in
qualche fase nello sviluppo delle teologie vedica e nordica, due divinità
originariamente diverse come Varuṇa e
Óðinn siano
andate a occupare una medesima nicchia funzionale In tal caso, la loro analogia
sarebbe soltanto il risultato di una rilettura delle due figure divine
nell'ambito del nuovo ruolo che hanno assunto. Dumézil, nel corso dei suoi
studi, ha registrato molti accomodamenti di questo genere, dove figure
relativamente recenti sono state organizzate secondo le esigenze del sistema
trifunzionale (ad esempio gli Amǝša Spǝnta
dello Zoroastrismo). Concludendo, l'eventuale correttezza dello schema
duméziliano non implica necessariamente che divinità analoghe abbiano una
medesima origine, né che esse stesse risalgano all'antichità indoeuropea.
Il legame tra
Óðinn e
Varuṇa va dunque visto come semplice analogia. Si
tratta di due divinità dotate di capacità, poteri e caratteristiche per molti
versi simili tra loro; le sfere del sacro su cui applicano il rispettivo potere
in parte coincidono. Ma per il resto sono con ogni probabilità personaggi
perfettamente distinti. |
XII -
ÓĐINN E LÚG: UN'UNICA DIVINITÀ
CELTO-GERMANICA? Gli studiosi hanno da tempo notato come
l'antico *Wōđanaz
germanico (di cui Óðinn è l'esito
scandinavo) facesse parte di uno spettro di figure simili per fisionomia e
capacità distribuite in buona parte dell'Europa centro-occidentale, sia presso i
popoli germanici che celtici. Gli autori latini, a cavallo dell'Era Volgare, non
mancarono di notare che le popolazioni dall'una e dall'altra parte del Reno,
nonostante le differenze etniche e linguistiche, tributassero il loro culto
supremo a una divinità che aveva tutte le caratteristiche di
Mercurius (e non di Iuppiter,
come invece accadeva nel mondo classico). Il già citato passo di Tacitus sul dio
supremo dei Germani può agevolmente essere confrontato con un analogo passo che
Caesar riferisce invece ai Galli:
Deorum
maxime Mercurium colunt, cui certis diebus humanis quoque hostiis litare fas
habent. |
Il dio che [i
Germani] onorano di più è Mercurius, cui ritengono
lecito, in certi giorni, fare anche sacrifici umani. |
Cornelius Tacitus:
Germania
[2] |
Deorum
maxime Mercurium colunt, huius sunt plurima simulacra, hunc omnium inuentorem
artium ferunt, hunc uiarum atque itinere ducem, hunc ad quæstus pecuniæ
mercaturasque habere uim maximam arbitrantur. |
Il dio che [i
Galli] onorano di più è Mercurius:
le sue statue sono le più numerose, essi lo considerano come l'inventore di
tutte le arti, egli è per loro il dio che indica il cammino, che guida il
viaggiatore, egli è il più abile ad assicurare i guadagni e a proteggere il
commercio. |
Caius Iulius Caesar:
De Bello Gallico
[VI: 17] |
Il dio germanico che Tacitus interpreta col Mercurius
latino è naturalmente
*Wōđanaz, come testimoniano
espressamente gli autori posteriori (cfr. Paulus Diaconus). Nel caso del
Mercurius gallico, purtroppo,
non è possibile ricostruire con altrettanta verosimiglianza il nome celtico (*Lugos (?)), ma se ne può
agevolmente riconoscere l'esito irlandese nel personaggio di
Lúg Samildánach, come spiegato altrove ①. Il
Mercurius gallico e quello
germanico (nei rispettivi esiti dello scandinavo
Óðinn e l'irlandese
Lúg), sono ancora facilmente riconoscibili l'uno
nell'altro, tanto che Jan De Vries segnalò una
lunga lista di similitudini tra i due personaggi
(De Vries 1961²).
- Il
Mercurius gallico e
*Wōđanaz hanno la supremità dei
rispettivi panthea.
- Il
Mercurius gallico è protettore dei viandanti,
Óðinn è il
viandante [Vegtamr].
- *Lugos è in relazione con i
corvi, a Óðinn
i corvi sono sacri.
- Lúg
irlandese e Óðinn
sono entrambi comandanti di eserciti.
- Lúg
e Óðinn
posseggono una lancia.
- Lúg
e Óðinn
fanno uso in guerra della magia più che del vigore fisico.
- Lúg
chiude un occhio nelle sue azioni magiche,
Óðinn ha solo un occhio.
- Lúg
è un maestro dell'arte poetica,
Óðinn è il patrono degli scaldi.
A dire il vero, alcune delle similitudini segnalate da De Vries sono
piuttosto fragili (ad esempio la relazione del
Mercurius gallico con
i corvi si basa su un presunto legame etimologico con la città di Lugdunum),
nondimeno l'analisi generale è probabilmente corretta.
È dunque ragionevole pensare a una divinità suprema simile a
Mercurius
diffusa – sia pure con varianti regionali e sotto nomi diversi – in tutta
l'Europa centrale e nelle isole Britanniche, sia presso i popoli di lingua
celtica che germanica. Per quanto non possiamo dir molto del suo aspetto più
antico, possiamo riconoscerne la fisionomia negli esiti attestati nella tarda
letteratura, come l'irlandese
Lúg e lo
scandinavo Óðinn. Entrambi
detengono il rango supremo nei rispettivi panthea, ma in un modo a loro
peculiare, che già al primo sguardo appare del tutto diverso da quello esibito
dallo Iuppiter classico.
Sia
Lúg che
Óðinn esibiscono abilità che li
portano a eccellere in una gran quantità di campi: nel governo, nella guerra,
nella poesia, nella magia. La loro statura di dio supremo dipende da una qualità
che si estende all'intero spettro funzionale e che quindi trascende la semplice
nozione di regalità indoeuropea, intesa nell'accezione di regalità guerriera.
Questo fatto è molto evidente nel mito celtico dove è ben evidente la
perplessità di Caesar quando riferisce che i Galli tributavano a
Mercurius
il culto supremo,
per poi aggiungere che spettava però a
Iuppiter
il ruolo di re degli dèi.
Questo dettaglio ha da sempre confuso gli studiosi, fuorviati dal modello
classico: in realtà lo
Iuppiter gallico non aveva nulla a che vedere col suo omologo romano, come
abbiamo mostrato altrove ②. Al contrario, doveva essere un dio-tuono sul tipo
dell'Indra vedico, una sorta di re degli dèi,
limitato però alla funzione guerriera.
Mercurius
era invece investito di una
supremità (qualità distinta dalla regalità di
Iuppiter) che comprendeva, univa e
trascendeva le singole funzioni. Questo particolare rapporto tra lo
Iuppiter
e il
Mercurius
gallici lo
ritroviamo nell'epica irlandese, dove il re guerriero
Núada cede la sua carica al
sovrafunzionale
Lúg , dopo
averne constatato le multiformi abilità in tutti i campi (sapienza, forza,
arte), e
nominandolo sovrano ad interim il tempo necessario per vincere la seconda
battaglia di Mag Tuired ③.
Nel mito scandinavo,
Óðinn viene presentato come unico e solo re degli dèi e la
sua supremità non viene mai messa a confronto con altri tipi di regalità (anche
se vi sono fragili indicazioni che, in una fase molto antica del mito germanico,
*Þūnraz fosse investito del rango di re
guerriero); il suo carattere di dio sovrafunzionale lo rende più simile a
Lúg di quanto non sia a
Núada o ad altri re di seconda
funzione, come l'indiano Indra. Dunque
Lúg e
Óðinn non sono dei semplici re guerrieri, ma sorta di sovrani
sovrafunzionali, il cui potere si estende indifferentemente nella guerra, nel
diritto, nelle arti e nella magia.
Resta da vedere se la
somiglianza tra il Mercurius gallico e il
Mercurius germanico (esemplificati nei rispettivi
ambiti da
Lúg e
Óðinn) sia dovuta a una diffusione – vi furono secolari
contatti tra genti galliche e germaniche – o per derivazione da un archetipo
comune, cosa che porterebbe a retrodatare la figura del dio, ammettendone le
caratteristiche segnalate, a un'epoca piuttosto remota. Probabilmente sono vere
entrambe le possibilità: due figure omologhe sono state ereditate in entrambe le
culture, e si sono in seguito fissate attraverso ripetuti scambi culturali.
|
XIII -
ÓĐINN ED HERMÊS: LE
RAGIONI DELL'INTERPRETAZIONE CLASSICA Gli autori classici avevano
identificato la suprema divinità dei Germani,
*Wōđanaz, con il dio romano
Mercurius. Tale identificazione destava certamente
qualche perplessità, in quanto nel mondo classico non spettava a
Mercurius il rango di dio supremo, né era a
Mercurius – bensì a Iuppiter
– che veniva tributato il massimo culto. Rimaneva però il fatto che, di tutti
gli dèi classici, Mercurius era quello nel quale
più di ogni altro si rispecchiava la fisionomia del
*Wōđanaz
germanico, tanto che l'identificazione tra le due divinità era pacificamente
accettata in epoca tardo-antica. È significativo il fatto che con la diffusione
del calendario settimanale in nord Europa, al dies Mercurii venne fatto
corrispondere un giorno dedicato proprio a
*Wōđanaz, come testimoniano i vari esiti
del «mercoledì» nelle lingue germaniche (cfr. norreno Óðinsdagr,
anglosassone Wodnesdæg e inglese Wednesday).
Ci si può dunque chiedere quali elementi e attribuiti delle due figure divine
avessero permesso l'identificazione di Mercurius e
*Wōđanaz,
e se tale identificazione possa considerarsi significativa alla luce di una
reale omologia tra le due figure divine.
Notiamo innanzitutto che la nostra immagine di
Mercurius è un po' posticcia. Il dio romano è probabilmente sorto dalla
convergenza di un antico dio italico del commercio (probabilmente l'etrusco
Turms) con l'Hermês
ellenico, il cui culto venne introdotto a Roma dalle colonie greche dell'Italia
meridionale. Col tempo, la figura di Mercurius
venne rielaborata sul modello ellenico: l'interprætatio græca cancellò
quasi completamente la fisionomia e gli attributi dell'originaria divinità
italica. Tuttavia, gli autori classici che andavano identificando con
Mercurius il dio supremo della religione germanica,
avevano senz'altro in mente la ricca mitologia di Hermês,
ed è a quest'ultimo che rivolgeremo la nostra attenzione.
Il culto di Hermês sembra avere il suo nucleo in
Arcadia, regione che vanta i natali del dio, nato in una grotta sul monte
Cillene. Da qui, il culto del dio si sarebbe spostato dapprima in direzione di
Atene, quindi si sarebbe esteso a tutta la Grecia (Ferrari
1990). Hermês potrebbe dunque essere un dio
pre-indoeuropeo, altrimenti ci aspetteremmo una diffusione generalizzata del suo
culto fin dai tempi più remoti. Senza entrare in dettagli, anche il nome pare
avere origini pre-indoeuropee (Càssola 1975).
Divinità venerata dai pastori, Hermês sembra avere
come funzione primitiva la protezione e, soprattutto, la moltiplicazione delle
mandrie e degli armenti (Homḗrou hýmnoi
[IV: -]
| Theogonía [-]), cosa che
farebbe di lui un dio della fecondità, cioè un nume ben lontano dall'immagine di
Óðinn. Ma a
questo punto iniziano le sorprese, perché da questo «nucleo» pastorale, la
figura del dio sembra moltiplicarsi in un gran numero di aspetti e attributi che
lo riconducono senz'altro nell'orbita del dio germanico.
Innanzitutto Hermês è un dio errabondo, così
come era forse in origine la vita dei pastori. Egli era adorato lungo le strade,
e i viandanti lo consideravano una guida e una scorta sicura. Questa
caratteristica, Hermês l'ha in comune sia con il
Mercurius gallico, che
parimenti era considerato protettore dei viandanti e dei pellegrini, sia con
Óðinn, che
era il viandante [Vegtamr] per
antonomasia. Come Óðinn
chiedeva ospitalità alle case dei mortali, presentandosi sotto mentite spoglie,
così faceva Hermês, perlopiù in compagnia di
Zeús, per poi ricompensare coloro che rispettavano
la sacralità degli ospiti e punire gli altri (cfr. Ovidius: Metamorphoseon
[VIII: -]). Hermês
veniva rappresentato vestito da viandante, con un mantello sulle spalle, in capo
un cappello a larghe falde (il petaso) e appoggiandosi a un lungo bastone: un
abbigliamento identico a quello di
Óðinn. Nel caso di Hermês,
il bastone del viandante divenne ben presto la verga dell'araldo, il caduceo,
che in epoca tarda venne ornata da due serpenti; nel caso di
Óðinn, il
bastone era una lancia, come forse capitava ai prudenti viaggiatori nel mondo
nordico (si ricordi la canna che si trasforma magicamente in lancia nel mito del
falso sacrificio di Víkarr). Abbiamo dunque, tanto
per cominciare, due divinità vagabonde, che si muovono lungo le strade, a volte
accompagnandosi ai pellegrini e ai viaggiatori, con i quali dividono il cibo e i
pericoli, e che bussano alle porte delle case chiedendo ospitalità per la notte.
Tra gli dèi greci, Hermês è ricordato per essere
quello che più frequenta il mondo degli uomini. A lui è gradito «accompagnarsi
ai mortali» (Iliás [XXIX: -), laddove
Óðinn non
sembra un dio molto amichevole. Ma l'immagine di
Óðinn
«lontano dagli uomini» (secondo la nota formula di Dumézil), contrasta col fatto
che il dio germanico frequentasse spesso il mondo umano, sia pur sotto mentite
spoglie, e non disdegnasse di accompagnarsi ai viaggiatori. Certo è però che
Hermês veniva invocato come «il più benevolo verso
gli uomini» e «il più largo di doni» (Aristophánēs:
Eirḗnē
[-]), cosa che non si può certo dire di
Óðinn.
Nel caso di Hermês, il suo ruolo di protettore
dei viandanti gli ha valso un'altra importante caratteristica: quella di
psicopompo. Egli scorta negli inferi le anime dei morti, che altrimenti
sarebbero incapaci di trovare da sole la strada (così come le anime dei proci
che svolazzano senza mèta, come pipistrelli, nell'ultimo libro dell'Odýsseia). Ma pur non essendo tecnicamente un dio
della morte, Hermês sembra ben presente al momento
del trapasso. «Chiamo Hermês sotterraneo, guida
d'anime, che m'addormenti bene» prega Áias prima di uccidersi (Sophoklês:
Aías [-]), ed «Hermês lo
prende» era un modo poetico per definire l'attimo, l'azione della morte
(Aischýlos: Choēphóroi []). In questi
dettagli, Hermês presenta una serie di punti di
attinenza con Óðinn (Campanile 1994). Pur non
scortando personalmente le anime nell'altro mondo,
Óðinn le
affida alle sue Valkyrjur. E
pur non essendo anch'esso un dio del trapasso, è anch'egli presente alle morti
violente, soprattutto nel caso di sacrifici praticati in suo nome. Le saghe
trattano di personaggi che si impiccano o si trafiggono spontaneamente,
sacrificandosi a Óðinn,
e la scena del suicidio di Áias
non è molto lontana – fatte le dovute cautele – dallo spirito scandinavo. Al
contrario, però, Óðinn
stabilisce personalmente le sorti degli uomini nelle battaglie e decide se essi
siano o meno degni della Valhǫll,
cosa che esula dai compiti di Hermês, il quale si
limita ad accompagnare le anime nell'aldilà ma non ha voce in capitolo nel
determinare il loro destino (sono però attestate preghiere dove si chiedeva al
dio di condurre i morituri a una fausta sorte oltremondana, cfr. Horatius,
Carmina [I: x: -]).
Bisogna ancora notare che accessoriamente Hermês
riconduce alla luce del sole chi è prigioniero degli inferi, come nel caso in
cui riporta Persephónē
alla madre Dēmḗtēr
(Homḗrou hýmnoi [II: -]), configurandosi
quindi come lo sciamano conosce le strade tra i mondi e funge da collegamento
tra tutti i livelli dell'essere. Hermês è dunque,
in sintesi, il dio che ha esperienza dei percorsi del mondo metafisico, un
motivo che si può facilmente ascrivere allo stesso
Óðinn.
Hermês era inoltre noto per le sue vaste e
multiformi capacità. Così lo canta l'inno a lui
dedicato: «dalle molte arti, dalla mente sottile, predone, ladro di buoi,
ispiratore di sogni, vigile nella notte» [polýtropon, haimylomḗtēn,
lēïstêr', elatêra boôn, hēgḗtor' oneírōn, nyktòs opōpētêra]
(Homḗrou hýmnoi [IV: -]). In questo
ragguardevole curriculum spicca l'epiteto di
polýtropos «dalle molte arti, pieno di risorse, ingegnoso, abile a
escogitare stratagemmi», che non solo Hermês
ha in comune con Odysseús (Odýsseia
[I: 1]), ma sembra il perfetto calco semantico del titolo di
«inventore di ogni arte» [omnium
inventorem artium] che Caesar attribuisce al Mercurius
celtico, e che corrisponde a sua volta al titolo di «[colui che] unisce ogni
arte» [Samildánach] che caratterizza
Lúg
nell'epica irlandese. In virtù del suo ingegno e della sua astuzia,
Hermês era in grado di portare a termine compiti
impossibili agli altri dèi, ed è a lui che gli olimpici si rivolgono quando sono
in difficoltà. Lui solo è in grado di trovare
Árēs
tenuto prigioniero dai giganti, o recuperare l'infelice Iṓ tramutata in vacca nonostante la serrata
custodia del mandriano Árgos. Quando si tratta di trovare cose
nascoste, o di nasconderle, nessuno è secondo a Hermês
per destrezza e abilità. Noto per la sua «mente aguzza» (Iliás
[XX: ]), Hermês è maestro di astuzia ai
mortali (Odýsseia [XIX: -]) e una delle
sue doti è il genio inventivo. Hermês ha inventato
la lira e la siringa, strumenti che sa suonare perfettamente, come dimostra la
scena in cui addormenta Árgos con dolci melodie tratte dalla lira
(così come Lúg
era in grado, suonando l'arpa, di far ridere, piangere e addormentare gli
ascoltatori). Hermês era inoltre considerato
inventore del modo di tenere i conti, delle note musicali e delle lettere
dell'alfabeto, così come a
Óðinn veniva attribuita la scoperta delle rune.
Ma Hermês ha un'altra importante caratteristica
in comune con Óðinn:
è un furfante, bugiardo e ingannatore, protettore dei ladri e ladro egli stesso.
Perciò è un dio notturno, «amico della notte nera» [melaínēs nyktòs hetaîre]
(Homḗrou hýmnoi
[IV: ]). Quando vi è da
rubare qualcosa, gli dèi inviano lui, che non ha difficoltà a compiere ogni tipo
di furto con sovrumana destrezza. Ma Hermês sembra
legato soprattutto al furto del bestiame, cosa curiosa in quanto egli stesso è
amico dei pastori e protettore del bestiame. Nel mito della nascita di
Hermês, riferito nell'inno omerico a lui dedicato,
il dio neonato rubò i buoi di Apóllōn,
nascondendoli. Dopo aver invano mentito per dissimulare il misfatto,
Hermês regalò ad Apóllōn la
lira che aveva appena ricavato da un guscio di tartaruga, e così il mondo
conobbe per la prima volta la musica e il canto. La cosa curiosa è che
l'attività ladronesca di Hermês è a volte definita
col verbo antitoréō «forare, penetrare attraverso un foro», con
riferimento a una straordinaria scena in cui il dio ritorna alla culla passando
come una nebbia attraverso la serratura della porta:
«il veloce Hermês, figlio di Zeús, rannicchiandosi, passò attraverso la
serratura della sala, simile alla brezza d'estate, come la nebbia»
(Homḗrou hýmnoi [IV: -]). Questa strana
caratteristica del dio-ladro che s'introduce in un foro ricorda in modo
straordinario l'episodio in cui
Óðinn, per rubare l'idromele della poesia
custodito da Suttungr, pratica con un
trapano un foro nella parete della montagne e, tramutatosi in serpente, vi si
introduce. Inseguito dai giganti, anch'egli – come Hermês
– mentisce spudoratamente, negando di essere l'autore del misfatto. Infine il
furto di Óðinn
è altrettanto significativo di quello di Hermês:
nel mito ellenico la conseguenza è la scoperta della musica, in quello norreno
l'inestimabile dono della poesia.
Un'altra curiosa caratteristica di Hermês è la
sua capacità di eludere i cani da guardia, passando senza svegliarli o impedendo
loro di abbaiare. Questo ricorda un'analoga capacità di
Óðinn (re
Geirrøðr lo riconosce per il fatto che nemmeno i cani più feroci
osano avventarglisi contro). Ma c'è di più: così un verso di Hippônax
invoca il dio: «o Hermês, strangolatore di cani, in meonio Kandaúlēs» [Hermê
kunáŋcha, Mēıonistì
Kandaúla]. Questo dio lidio, Kandaúlēs, con il
quale Hippônax identifica Hermês, ha
un'etimologia trasparente: «strangolatore di cani»
(Càssola 1975). Sembra
trattarsi di un aspetto fondamentale, per quanto poco noto, del dio.
Anche nel mondo celtico,
Lúg sembra avere
molti rapporti con la specie canina; tra l'altro il suo stesso figlio mortale,
Cú Chulainn, ricevette questo nome in quanto ebbe a
sostituire il feroce cane da guardia del fabbro Culann,
da lui stesso soffocato tirandogli una palla in gola.
Le affinità tra Hermês da un lato, e
Óðinn e
Lúg
dall'altro, sono incontestabili, e non solo giustificano l'interprætatio degli autori latini, ma sembrano mostrare
una qualche relazione tra la divinità classica e quella celto-germanica.
La differenza più sostanziale tra Hermês da una
parte e dall'altra il gruppo formato da
Óðinn e
Lúg,
è che questi ultimi due erano considerati gli dèi supremi e a loro veniva
tributato il massimo culto. Al contrario, il dio greco sembra essere una sorta
di factotum al servizio degli altri numi («servo degli dèi» lo definisce
a più riprese il titano incatenato di
Aischýlos, in
Promētheús
desmṓtēs [,
, ]), cosa che spiega forse perché il suo culto
fosse diffuso soprattutto presso le classi umili (al perfetto contrario di
quanto accadeva a Óðinn,
che era patrono dei re e dei nobili). Ma detto questo, bisogna notare che, al di
sotto dell'Hermês «umile», si intravede uno strato
più antico in cui il dio appare investito di maggior importanza: molti dati
impliciti fanno capire che, in una fase anteriore della tradizione, a
Hermês si facesse risalire la genealogia della più
famosa dinastia del mito greco, quella dei Pelopidi, così come
Óðinn in Scandinavia era considerato antenato mitico di molte
stirpi regali. A Hermês i sovrani dei Phaíakes
libavano alla fine del banchetto (Odýsseia [VII:
ı-ı]). Infine, epiteti a lui accessoriamente attribuiti come
prómachos «combattente in prima fila» (Pausanías:
Periḗgēsis [IX: xxii: 1-2]), fanno pensare a un suo antico
ruolo quale patrono dell'aristocrazia guerriera.
Col passar del tempo, a Hermês verrà attribuita
la conoscenza delle cose misteriose, diventerà quindi una sorta di dio della
sapienza, tanto che sarà fatta derivare da lui quella tradizione esoterica e
sapienziale di origine egiziana che, prendendo nome dal dio, si chiamò appunto
Ermetismo. Ma questo tratto di dio della sapienza – che avvicina tantissimo
Hermês a
Óðinn – fu davvero
una derivazione posteriore, o era presente già in qualche modo alle origini del
personaggio? |
XIV
- ÓĐINN: ESITO GERMANICO DEL
DIO-VENTO INDOEUROPEO?
Che
Lúg e
Óðinn siano
figure omologhe (sorte per differenziazione da un unico personaggio più antico)
è ragionevole presumerlo; forse, la vicinanza geografica di Celti e Germani ha
contribuito a mantenere un certo parallelismo tra le due divinità, fino a tempi
molto recenti. Ma, se così fosse, quale può essere stata la fisionomia del
personaggio originale? Quale può essere stata la sua evoluzione? E che dire di
eventuali relazioni con divinità simili di altre mitologie, come ad esempio
Hermês e Mercurius?
Non è naturalmente possibile dare una
risposta a queste domande. Possiamo però proporre un'ipotesi di lavoro, ed è
quanto faremo in questo capitolo. Estrapolando a ritroso le caratteristiche di
questa classe di divinità, cercando di capire quali attributi possano essere
incrostazioni posteriori e quali siano originari, cercheremo di delineare la
fisionomia di quello che chiameremo «dio-vento».
Si trattava – nella nostra
ricostruzione – di un dio legato al vento, nell'idea di soffio creatore,
ebbrezza, poesia. E poiché la poesia è sapienza, il dio-vento era un conoscitore
delle cose antiche e profonde. Era il signore della magia, che combatteva usando
incantesimi e metamorfosi. Era l'artigiano, l'inventore, l'eroe culturale, e a
lui vennero attribuite la creazione dell'alfabeto, delle note musicali, del modo
di tenere i conti. Come l'elemento di cui era patrono, si muoveva tra i mondi,
con grande rapidità. Era lo sciamano che conduce le anime dei morti all'aldilà.
Scortava i viaggiatori, i pellegrini, i mercanti lungo le strade. Questi ultimi
erano cari al dio-vento, che li favoriva accrescendo le loro ricchezze. Questi
era dunque anche un dio economico, legato al bestiame, alle proprietà, che
accresceva il denaro e faceva moltiplicare gli armenti. Sempre indiretto, il dio
vento era astuto, mentitore, ingannatore, seduttore. Come il vento, si
introduceva in ogni spiraglio, silenzioso e invisibile, ed era dunque il dio dei
ladri, colui che poteva acquietare i cani. Le sue multiformi capacità lo
ponevano in molte nicchie funzionali, sicché egli agiva contemporaneamente su
molti livelli. È improbabile che in origine sia stato un dio sovrano, o sia
stato investito di un culto supremo; era comunque un dio misterioso, ineffabile,
piuttosto inquietante e che esigeva rispetto.
La Grecia rielaborò profondamente i
ruoli della regalità divina secondo i modelli mediorientali. Qui l'antico
dio-cielo Zeús crebbe d'importanza e divenne il
fulgido monarca degli dèi ellenici. Rubò il titolo di re e la folgore all'antico
dio-tuono, e se ne appropriò, trasformandosi in una sorta di re-tiranno
mesopotamico. Il dio-tuono, declassato al rango di semi-dio, si trasformò nell'Hēraklês del mito eroico: continuò a uccidere mostri e
salvaguardare l'ordine cosmico, ma ormai privato della sua statura divina. In
quanto al dio-vento, una volta penetrato in Grecia, potrebbe aver fornito un
certo numero di elementi di interpretazione per una locale divinità
pre-indoeuropea, una sorta di dio dei pastori, forse in virtù di un'affinità
«economica»; avrebbe così cominciato ad apparire un personaggio di rango non
alto nella gerarchia divina, ma di profonda sapienza e incomparabile astuzia,
dalle vaste e multiformi capacità, capace di muoversi ovunque con gran velocità.
Ceduto il dominio sulla poesia ad Apóllōn,
attenuate le caratteristiche guerresche, sarebbe infine risultato – a seguito
della lunga serie di trasformazioni – l'Hermês
classico. Questo poi, avrebbe a sua volta fornito elementi di interpretazione
per il dio italico Mercurius, una sorta di divinità
del commercio e delle attività economiche, la cui fisionomia sarebbe presto
scomparsa per assumere in toto il carattere del dio greco.
Contemporaneamente, nell'Europa
centrale dovette avvenire, in tempo già molto antico, una sorta di importante
mutamento di prospettiva. Svanito quasi del tutto il dio-cielo, il dio-tuono
venne profondamente ripensato nella sua regalità guerriera, mentre il dio-vento
cresceva nel culto e nel rango. Queste trasformazioni dovettero avvenire già in
epoca molto remota, visto che, all'inizio dell'Era Volgare, sia Celti che
Germani tributavano già al dio-vento il culto supremo, seppure con qualche
differenza.
I Celti dovettero dare preminenza alle
capacità artigianali del dio-vento, e ne considerarono la supremità come una
caratteristica parallela e non sovrapponibile alla regalità guerriera, ma che,
anzi, ne estendeva lo spettro funzionale. In questo modo, essi mantennero il
dio-tuono Taranis nel suo
rango di re degli dèi (Caesar lo identificò con
Iuppiter per via dell'uso
della folgore), ma diedero la supremità al dio-vento inventore di tutte le arti
(che Caesar identificò con Mercurius). Nell'esito
irlandese troviamo il medesimo rapporto tra il re guerriero
Núada e il
sovrano sovrafunzionale
Lúg.
Un po' la stessa cosa accadde presso i
Germani. Anche qui, una volta scomparso il dio-cielo, il dio-vento
*Wōđanaz
crebbe di importanza assumendo lo status di dio
supremo. Parallelamente, il dio-tuono *Þūnraz
venne declassato da re a semplice guerriero, e, pur mantenendo il rango divino,
divenne un personaggio assai simile a Hēraklês (col
quale viene esplicitamente identificato da Tacitus). La traduzione del giovedì,
giorno che nel mondo latino era dedicato a Iuppiter,
venne invece dedicato a *Þūnraz nel mondo
germanico: tale associazione venne fatta probabilmente sulla base che entrambe
la divinità avevano l'uso della folgore, ma forse pesò anche il ricordo di
un'antica statura sovrana da parte di *Þūnraz.
Nella mitologia scandinava,
Óðinn è ormai il sovrano unico e indiscusso del
pantheon locale.
Difficile dire che cosa avvenne presso
altri popoli. Tra gli Slavi il dio-tuono
Perunŭ mantenne – a quanto pare –
il suo status di re guerrieri degli dèi, ed è possibile che il dio-vento
Velesŭ, pur non esautorandolo,
sia rimasto una divinità di una certa importanza, una sorta di
Óðinn in
chiave minore: inquietante dio legato tanto al bestiame quanto al mondo dei
morti, oltreché patrono dei poeti.
Tutto questo è naturalmente soltanto
una fragile ipotesi di lavoro: nuovi dati, nuovi metodi d'interpretazione,
potranno rinforzare o demolire la nostra idea. |
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