I - LO IUPPITER GALLICO:
INTRODUZIONE
Questo capitolo tratta
essenzialmente di tre figure, diversamente
documentate, di cui sosteniamo la reciproca
identificazione. Esse sono:
- lo
Iuppiter gallico, citato da
Caesar, di cui vi
sono testimonianze epigrafiche e
iconografiche;
- il
«dio
con la ruota», di cui
vi sono numerose figurazioni;
- il dio
Taranis, presente nelle iscrizioni
dedicatorie.
Che lo
Iuppiter gallico sia da identificare nel
«dio con
la ruota» è
dimostrato dalle iscrizioni che accompagnano in alcuni casi le figurazioni di quest'ultimo. Che
sia da identificare con
Taranis,
invece, lo si deduce dall'accostamento dei nomi nelle
iscrizioni dedicatorie, ma anche da
un passo (assai controverso) dei Commenta Bernensia.
Che lo
Iuppiter gallico fosse stato un dio-tuono (e non un dio-cielo
come lo
Iuppiter romano), lo si deduce dalla presenza
della ruota e dall'etimologia del nome
Taranis.
Ciò non contraddice affatto la notizia che Cesare fornisce
in
De bello
Gallico [VI: 17]
secondo cui lo
Iuppiter gallico era considerato il re degli
dèi, per quanto non a lui era tributato il
massimo culto, essendo la regalità guerriera, nelle mitologie
indoeuropee, attributo tradizionale del dio-tuono (si veda l'esempio indiano di
Indra). |
II - LO IUPPITER GALLICO.
L'INTERPRAETATIO ROMANA
Nel
De bello
Gallico,
Caesar cita Iuppiter solo al quarto posto tra i cinque
dèi principali dei Galli, con una scolorita
formula: «è il signore degli
dèi». Al primo posto nella gerarchia
divina, infatti, Caesar aveva posto Mercurius:
Deorum
maxime Mercurium colunt [...].
post hunc Apollinem et
Martem et Iouem et
Minerua. de his eandem
fer quam reliquae
gentes habent
hopinionem: Apollinem
morbos depellere,
Mineruam operum atque
artificiorum initia
tradere, Iouem imperium
caelestium tenere,
Martem bella
regere. |
Il dio
che i Galli onorano di
più è Mercurius
[...]. Dopo di
lui adorano Apollo,
Mars,
Iuppiter e
Minerva. Essi
si fanno di questi
dèi pressappoco
la stessa idea degli
altri popoli: Apollo
guarisce dalle malattie, Minerva insegna
i princìpi
dei lavori manuali, Iuppiter
è il signore
degli altri dèi, Mars
presiede alla
guerra. |
Caesar:
De bello
Gallico [VI: 17] |
La perplessità di Caesar
è ancora una volta spiegata: la
divinità celtica che i Romani interpretarono
con
Iuppiter rassomigliava solo per alcuni tratti al
dio classico, per altri era un personaggio
affatto diverso. Questa è la ragione per cui
lo
Iuppiter gallico, che pure era il re degli
dèi, si trovava in posizione subordinata
rispetto a
Mercurius.
Il
pántheon celtico era organizzato in maniera diversa
dal pántheon classico.
La posizione
d'inferiorità dello
Iuppiter gallico rispetto a
Mercurius sembra confermata dai ritrovamenti
archeologici. Per quanto concerne il numero di
iscrizioni e dediche,
Iuppiter non raggiunge di gran lunga l'abbondanza
di
Mercurius, anche se i dati a nostra disposizione
testimoniano un culto assai sentito e duraturo.
Sembra che a
Iuppiter i Galli tributassero sacrifici
umani.
Anche l'agiografia cristiana
testimonia il perdurare della venerazione di
Iuppiter in Gallia. Suoi luoghi di culto furono
ad esempio Artins (dép. Loire-et-Cher) (Vita Sancti Iuliani), Lectoure
(dép. Gers)
(Vita Santi Clari), e Agde
(dép. Hérault)
(Passio Sanctorum Martyrum Tiberii, Modesti et
Florentiae).
Nelle figurazioni, lo
Iuppiter gallico porta spesso gli attributi del
suo omologo romano: lo scettro, il fulmine e
l'aquila. Ma è più importante il
fatto che venga talvolta identificato in un dio
armato di ruota. |
III - GLI EPITETI DELLO IUPPITER
GALLICO
L'epigrafia dedicata allo
Iuppiter gallico non raggiunge l'abbondanza e
diversità di quelli dedicati a Mercurius o Mars, anzi testimonia quanto la figura romana
si sia sovraimpressa a quella della divinità
gallica. Alcuni di questi epiteti, a cominciare dal
diffuso Optimus Maximus (ben attestato nell'epigrafia
nella tipica sigla I.O.M.) sono
infatti di origine classica.
|
Accio
Attestato in una iscrizione
proveniente da Aquincum (Pannonia Inferior) ⇒
Budapest (Ungheria)
(CIL [iii: 3428]). Il dativo Accioni presente nell'iscrizione lascia
ambiguità sulla corretta lezione del nominativo, che
potrebbe essere Accio, Accionis o
Acciones. L'epiteto
può forse essere ricollegato alla
palude di Accion, presso il lago di
Genève, di cui parla Postumius Rufius Festus Avienio in
Ora Maritima [].
|
|
Baginatis
L'epiteto è attestato in una
dedica a Iovi Baginati (dativo) proveniente
da
Morestel (dép. Isère, Francia)
(CIL [xii: 2383]).
L'etimologia è trasparente: dall'indoeuropeo *BʰEĜ-, che indica sia la quercia che
il faggio, alberi confusi tra loro in
molte lingue (cfr. greco
phēgós, latino
fagus).
L'esistenza di uno
Iuppiter Baginatis «delle querce» viene
a confermare la notizia di
Máximos Týrios
secondo cui i Celti adoravano
Zeús nell'immagine di una vecchia
quercia (Lógoi [VIII: 8]). Una
rappresentazione dello
Iuppiter
gallico trovata a Séguret (dép. Vaucluse,
Francia) è
accompagnata da una quercia. Anche le
cosiddette «colonne del
cavaliere», che si ritiene rappresentino lo
Iuppiter gallico, sono
spesso fatte a immagine
di una quercia. È anche attestato un dio
Baginus
(AE [1889: 183]).
Al plurale, abbiamo le dee
Baginatiae (AE [1889:
00183 | 2000: 886, 887, 889]) e le
Matres Baginienses
(AE [2000: 884, 885, 890).
Esistono numerosissime altre testimonianze della santità della
quercia tra le genti galliche. In un brano della sua
storia
Naturalis historia,
Plinius parla di una festa che si svolgeva nel sesto
giorno del mese lunare, durante la quale i druidi
salivano su una quercia sacra, tagliavano un rametto
di vischio e sacrificavano due tori bianchi; egli
stesso aggiunge – erroneamente – che la parola «druido» deriverebbe
dalla radice
drýs «quercia».
Non est omittenda in hac re et Galliarum
admiratio. Nihil abent Druidae – ita suos appelant magos – visco et arbore, in
qua gignatur, si modo sit robur, sacratius. Iam per se roborum eligunt lucos nec
ulla sacra sine earum fronde conficiunt, ut inde appellati quoque
interpretatione Graeca possint Druidae videri. Enimvero quidquid adgnascatur
illis e caelo missum putant signumque esse electae ab ipso deo arboris. Est autem id rarum admodum inventu
et repertum magna religione peritur
et ante omnia sexta luna, quae
principia mensum annorumque his
facit et saeculi post tricesimum
annum, quia iam virium abunde
habeat nec sit sui dimidia. Omnia
sanantem appellant suo vocabulo. Sacrificio epulisque rite sub arbore conparatis
duos admovent candidi coloris tauros, quorum cornua tum primum vinciantur.
Sacerdos candida veste cultus arborem scandit, falce aurea demetit, candido id
excipitur sago. Tum deinde victimas immolant precantes, suum donum deus
prosperum faciat iis quibus dederit. Fecunditatem eo poto dari cuicumque
animalium sterili arbitantur, contra venena esse omnia remedio. Tanta gentium in
rebus frivolis plerumque religio est. |
Non bisogna
dimenticare a questo
proposito anche
l'ammirazione a cui il
vischio è fatto
oggetto in Gallia. I
druidi – così si
chiamano i maghi di quei
paesi – non considerano
niente più sacro
del vischio e
dell'albero su cui esso
cresce, purché si
tratti di un rovere.
Già scelgono come
sacri i boschi di rovere
in quanto tali, e non
compiono alcun rito
religioso se non hanno
fronde di questo albero
tanto che il termine di
«druidi» può
sembrare di derivazione
greca. In realtà
essi ritengono tutto
ciò che nasce
sulle piante di rovere
come inviato dal cielo,
un segno che l'albero
è stato scelto
dalla divinità
stessa. Peraltro il
vischio di rovere
è molto raro a
trovarsi e quando viene
scoperto lo si raccoglie
con grande devozione:
innanzitutto al sesto
giorno della luna (che
segna per loro l'inizio
del mese e dell'anno e
del secolo, ogni trent'anni), e questo
perché in tale
giorno la luna ha
già abbastanza
forza e non è a
mezzo. Il nome che hanno
dato al vischio
significa «che
guarisce tutto».
Dopo aver apprestato
secondo il rituale il
sacrificio e il
banchetto ai piedi
dell'albero, fanno
avvicinare due tori
bianchi a cui per la
prima volta vengono
legate le corna. Il
sacerdote, vestito di
bianco, sale
sull'albero, taglia il
vischio con un falcetto
d'oro e lo raccoglie in
un panno bianco. Poi
immolano le vittime,
pregando il dio
perché renda il
suo dono propizio a
coloro ai quali lo ha
destinato. Ritengono che
il vischio, preso in
pozione, dia la
capacità di
riprodursi a qualunque
animale sterile, e che
sia un rimedio contro
tutti i veleni:
così grande
è la devozione
che certi popoli
rivolgono a cose per lo
più prive
d'importanza. |
Gaius Plinius Secundus:
Naturalis historia [XVI:
95] |
Il
rapporto tra il dio fulminante e la
quercia non è affatto una
caratteristica celtica, anzi, sembra
essere una costante di molte mitologie. In
Grecia c'era uno Zeús
Phēgōnaîos; in Frigia uno Zeús
Bagaîos; a
Roma si aveva parimenti uno Iuppiter
Quercus. Non ci si
stupisce dunque di trovare anche in ambito
celtico uno
Iuppiter Baginatis, a continuare questo lungo
rapporto tra il dio fulminante e la
quercia. La quercia era inoltre sacra
a
Þórr
nel mondo germanico, e il dio del tuono
baltico,
Pērkuns/Perknas
(a cui va forse anche aggiunto forse anche il russo
Perunŭ
①) sembra
derivi dall'indoeuropeo PERKʷU-
«quercia»
Ⓐ.
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Beisirisse
Questo epiteto è
attribuito a Iuppiter
Optimus Maximus in una sola iscrizione trovata
a Cadéac
(dép. Hautes-Pyrénées, Francia), nel
territorio dei Bigerriones
(CIL
[xiii
370]). È probabile si tratti di una divinità
di origine iberica; a possibile spiegazione del suo
nome è stata proposta una relazione con un
proto-basco *beissi «cliente».
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Bussumarus
Attestato in tre iscrizioni: due
ad
Apulum
(Dacia) ⇒
Alba Iulia (Romania)
(AE [1944: 32] | CIL [iii: 1033]) e una a
Tomis
(Moesia Inferior) ⇒
Constanța (Romania)
(CIL [iii: 14215,15]).
Interpretato dal gallico
bussu- «colpo» e
maru «grande» (cfr.
gallese mawr, irlandese
mór «grande»), dunque
«[colui che] ben colpisce». Secondo
un'etimologia alternativa, la prima parte del nome,
bussu- , significherebbe «labbra» (cfr. medio
irlandese pus/bus «labbra», irlandese
busóc «baciare»), ma anche «pene» (cfr. medio
irlandese bod «pene»), quindi . La doppia
«SS» rappresenterebbe in tal caso il tau gallicum «Ꞵ».
Buꞵumarus sarebbe quindi interpretabile come
«[colui che ha] un grande pene».
(Lambert 1994)
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Candam(i)us
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Rosa esafolia |
San Vicién d'a Buerda |
Epiteto di Iuppiter
attestato in tre iscrizioni provenienti dall'Hispania
Citerior: una dove il nome è attestato nella lezione
Candamio (dativo)
(CIL [xii: 2695])
da Candanedo, due ex voto dove è attestato
nella lezione Candamo (dativo)
(IRPPalencia [6] | Meseta [59]).
Probabilmente una divinità dei Cantabres o degli
Astures, in seguito identificata con Iuppiter,
Candam(i)us è forse da
mettere in correlazione con il
Candiedo callaico. È stata anche ipotizzata
una relazione con l'attuale cittadina di Candamo/Candamu
(Asturias, Spagna).
In una delle iscrizioni dedicate al dio compare l'immagine di
una rosa esafolia, simbolo assai diffuso nell'Europa dell'età del bronzo
(compare anche sul calderone di Gundestrup ①) e
ben
conosciuto in ambito ispano-romano e cristiano, soprattutto nel nord dell'Aragón. Leggendo
la rosa come simbolo solare, lo studioso spagnolo José María Blázquez Martínez
ha interpretato Candam(i)us come dio celeste e
atmosferico, equivalente locale del Taranis
gallico. (Peralta Labrador 1989).
L'ipotesi è però
viziata da una confusione non risolvibile tra i ruoli di dio-cielo, dio-tuono e
dio-sole, che in mitologia appaiono regolarmente separati. Si può forse tentare
un cauto paragone stilistico tra la rosa e la ruota di
Taranis, ma pretendere di dedurre il
carattere del dio a partire dall'unica attestazione di un simbolo di uso così
ampio come la rosa esapetala può rivelarsi fuorviante.
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Candiedo
Attestato in un'unica iscrizione
da Aquae Flaviae (Hispania Citerior) ⇒
Chaves (Portogallo)
(CIL [ii: 2599]),
quindi nel territorio dei Callaeci. Il nome compare
come epiteto di Iuppiter
Optimus Maximus nella forma dativa Candiedoni.
Il nominativo potrebbe essere Candiedo,
Candiedonis, Candiedones. A volte connesso
con il
Candam(i)us attestato
tra i Cantabres, si è proposta, quale etimologia,
una relazione con il latino candidus
«bianco».
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Cernenus
Attestato in una iscrizione
proveniente da Alburnus Maior (Dacia) ⇒ Roșia Montană (Transilvania, Romania)
(CIL [iii: 924, 1]).
L'iscrizione in questione, molto lunga e
interessante ①, risulta scolpita da un collegium
funeraticium, una corporazione predisposta allo
scopo principale di provvedere alle esequie e alla
sepoltura dei propri componenti
(Mommsen 1843); nel
caso in questione, i componenti si definiscono
cultores di un cosiddetto Collegium Iovis
Cerneni, dal nome di una divinità locale
identificata con Iuppiter.
Al riguardo, è stato proposto un parallelo con il nome di
Cernunnos, anche se
l'epiteto potrebbe invece derivare dal luogo di
provenienza: il villaggio di Corna, situato presso
l'odierna Roșia Montană. Una
seconda iscrizione proveniente da
Qartḥadašt/Carthago
(Africa Proconsularis) ⇒
Qartāǧ, Tūnis (Tunisia)
(CIL [viii: 12488])
è dedicata a uno «I O M CER»
nel quale si è proposto di vedere una contrazione di
Iuppiter Optimus Maximus Cernenus,
sebbene l'ambiguità del testo e la distanza
geografica lo rendano piuttosto improbabile.
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Ladicus
Attestato in tre iscrizioni
provenienti dal territorio dei Callaeci (Hispania Citerior) ⇒
Galizia (Spagna)
(Aquae Flavie [52] | CIL [ii:
2525] | IRG [iv: 62]).
Epiteto topico con il quale
Iuppiter
era adorato sul monte Ladus o Ladicus, una cima
nella Serra do Faro de Avión, al confine tra Galizia
e Portogallo.
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Optimus Maximus
Abbreviata in
I O M, la formula Iuppiter
Optimus Maximus uno dei
più importanti e diffusi epiteti
dello Iuppiter
romano. |
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Part(h)inus
Con questo epiteto,
Iuppiter era adorato lungo i confini
nord-orientali della Dalmatia (⇒ Dalmacija, Croazia)
e della Moesia Superior (⇒ Bulgaria)
(CIL [iii 8353,
14613]). È
probabile che l'epiteto sia legato
alla locale tribù dei Partheni
(Wilkes 1969 | Čremošnik 1959
| Green 1984 | Green 1998).
|
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Poeninus
Attestato in una trentina di
targhe provenienti da
Mons Avium (Alpes Poeninae) ⇒ Passo del San Bernardino (Svizzera),
Poeninus è forse un
epiteto topico, derivante dalla radice celtica
penn «testa, capo, cima»
(cfr. le stesse Alpi Pennine e dei
monti Appennini; il Summus Poeninus è l'attuale Gran
S. Bernardo). Di un dio Poeninus,
adorato dai Seduni Veragri tra i valichi alpini,
parla Titus Livius, il quale presenta una
paraetimologia del toponimo, collegandolo al fatto
che i Cartaginesi [Poeni]
vi sarebbero transitati al seguito di Ḥannibaʿal:
...eo magis miror ambigi quanam
Alpes transierit et vulgo credere
Poenino – atque inde nomen ei iugo
Alpium inditum – transgressum,
Coelium per Cremonis iugum dicere
transisse; qui ambo saltus eum non
in Taurinos sed per Salassos
montanos ad Libuos Gallos
deduxerint. Nec veri simile est ea
tum ad Galliam patuisse itinera;
utique quae ad Poeninum ferunt
obsaepta gentibus semigermanis
fuissent. Neque hercule montibus
hism si quem forte id movet, ab
transiuto Poenorum ullo Seduni
Veragri, incolae iugi eius, [nomen] norint inditum sed ab eo quem in
summo sacratum vertice Poeninum
montani appellant. |
Mi meraviglio che vi
sia disaccordo circa il
valico attraverso il
quale [Ḥannibaʿal] varcò le Alpi; mi
stupisco anche che
generalmente si creda
sia passato per il
Poeninus (anche se questo sarebbe
il motivo per cui quel
valico ha questo nome) e che Coelius dica che è passato attraverso il
passo di Cremonis. Entrambi questi
valichi non lo avrebbero condotto
nel territorio dei Taurini ma in
quello dei Galli Libui, dopo aver
attraversato la regione montagnosa
dei Salassi. E non sembra
plausibile che a quel tempo quelle
vie verso la Gallia fossero aperte
e, in ogni caso, quelle che portano
al valico del Pennino sarebbero
state sbarrate da popolazioni
semi-germaniche. E certo i Seduni
Veragri, abitanti di
quella zona montagnosa,
non attribuiscono
l'origine del nome di
questi monti al
passaggio dei
Poeni [Cartaginesi]:
essi fanno derivare quel
nome dal dio che,
adorato sulla cima
più alta,
è chiamato
Poeninus
dai montanari. |
Titus Livius:
Ab Urbe condita libri [XXI: 38: 9] |
|
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Sucaelus
Il problematico epiteto
Sucaelus è presente in
una iscrizione rivenuta a
Mogontiacum (Germania Superior) ⇒ Mainz
(Germania), dedicata a «I O M SUCAELO»
(dativo) e al genius loci (CIL [xii: 6730]) ①. Secondo alcuni autori, questo epiteto
identificherebbe Iuppiter con Sucellus
(Pisani 1949 | Lambrechts 1942).
②
|
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Tanarus
Epiteto presente in una dedica trovata a Chester
(Regno Unito). L'altare è quasi completamente
consumato e per la sua lettura è stato
necessario affidarsi a una trascrizione più
tarda (Green 1992).
I O M TANARO
L [†] GALER
PRAESENS CLVNIA
PRI LEG XX V V
COMMODO ET
LATERANO COS V S L M |
I(ovi) O(ptimo) M(aximo) Tanaro
L(ucius) [Elufrius (?)] Galer(ia)
Praesens [Cl]unia
pri(nceps) leg(ionis) XX V(aleriae) V(ictricis)
Commodo et
Laterano co(n)s(ulibus) v(otum)
s(olvit) l(ibens) m(erito) |
CIL [vii:
168] |
Il testo viene generalmente accettato come
segue: «A
Iuppiter Optimus Maximus
Tanarus, Lucius Bruttius Praesens, della tribù Galeria, da
Clunia [Hispania], a capo della Legione XX Valeria Victrix,
volentieri e giustamente ha adempiuto al suo voto
durante i consolati di Commodus e Lateranus [154 d.C.]».
Quest'ultima iscrizione è forse da
mettere in relazione con un'altra rinvenuta in Dalmatia,
sempre a Skradin (Šibensko-Kninska
Županija, Croazia) nella quale si legge
«IOVI TAN»
(AE [2010, 1225]).
L'epiteto è forse una variante di
Taranis.
|
|
Taranis
Il nome
Taranis, il «tonante», è
innanzitutto citato da Lucanus in un verso del
Pharsalia,
dove si legge:
...Et
Taranis Schythicae non
mitior ara Dianae. |
...E
l'ara di
Taranis non più mite di quella
di Diana scitica. |
Marcus Annaeus Lucanus:
Pharsalia [I: ] |
Il nome è però piuttosto raro
nell'epigrafia. Esso è presente innanzitutto in un'iscrizione rinvenuta in Gallia Lugunensis, a Orgon (dép. Bouches-du-Rhône, Francia), nel 1886, oggi
custodita nel Musée Calvet di Avignon. Si
tratta di una dedica scritta in lettere greche,
fatta da un certo Vēbroumaros
nel II secolo, dove il nome del dio compare declinato al
dativo nella lezione «ΤΑΡΑΝΟΟΥ»,
ed è tradotto: «Vēbroumaros
ha offerto a
Taranis
per riconoscenza
una decima».
ΟΥΗΒΡΟΥΜΑΡΟC
ΔΕΔΕ ΤΑΡΑΝΟΟΥ
ΒΡΑΤΟΥΔΕΚΑΝΤΕΜ |
Ouēbroumaros
Dede Taranoou
Bratoudekantem |
|
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RIG [G: 27] |
Un'iscrizione consistente nella sola parola «TARANVOS»
è stata trovata in Gallia Belgica
(CAG [80-01, p. 234]),
ad
Amiens (dép Somme, Francia), ma mancando totalmente un contesto è impossibile
dire se la parola sia un nomen divinum,
oppure il nome del dedicante o
abbia qualsiasi altro significato. Stessa cosa
bisogna dire dell'iscrizione «TARANI»
rivenuta in Aquitania,
a
Montans (dép Midi-Pyrénées, Francia)
(CAG [81, p. 165]).
Un'iscrizione rivenuta sempre in Aquitania, a Bourganeuf (dép Creuse, Francia),
è dedicata a «I O M / TARANVEN[†...»
(AE [1961: 159]).
Essa
l'unica dove il nomen viene associato a quello di Iuppiter.
L'epiteto, purtroppo mutilo, sembra una forma
aggettivale, forse ricostruibile in *Taranuensis:
NVM AVG
ET I O M
TARANVEN[†...
D S P P P |
Num(ini) Aug(usti)
et I(ovi) O(ptimo) M(aximo)
Taranuen[sis?]
d(e) s(uo) p(ro) p(ietate) p(osuit) |
AE [1961: 159] |
|
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Taranuc(n)us L'epiteto Taranucus
o Taranucnus è evidentemente una variazione o forma aggettivale di
Taranis. Secondo Vittore
Pisani il suffisso
-cnus
indicherebbe un patronimico e dunque il dio
Taranucnus sarebbe in realtà un figlio del
dio
Taranis e non
Taranis stesso
(Pisani 1949). Più convincente l'ipotesi secondo la quale il termine vada
considerato come titolo aggettivale, e quindi
«colui che tuona»
(Green 1992). Esso è attestato da tre
iscrizioni, una dalmata e due renane. Nella dedica rinvenuta a Skradin (Šibensko-Kninska Županija,
Croazia), il nomen compare nella lezione Taranuco
(dativo) ed è utilizzato come epiteto di Iuppiter:
IOVI TA
RANVCO
ARRIA SVC
CESSA
V S |
Iovi Ta-
ranuco
Arria Suc-
cessa v(otum) s(olvit) |
CIL [iii:
2804] |
Due iscrizioni
provengono invece dalla regione del Reno; qui il nomen
compare nella lezione Taranucno (dativo) e non è
utilizzato come epiteto o interpraetatio di una
divinità romana. La prima di esse è stata rinvenuta a Godramstein presso Landau (Baden-Württemberg, Germania)
ed è:
IN
H
D
D DEO
TARANVCNO
TRAVINI
QVIBVS
EX
COLLATA STIPE[†...
IVL IVLIVS [†...
IVSSV [†... |
In h(onorem) d(omus) d(ivinae) deo
[T]aranucno
Travini
quibus ex
collata stipe[†...
Iul(ius) Iul[ius †...
iuss[u †... |
|
CIL [xii: 6094] |
La seconda, incisa sull'altare
gallo-romano trovato a Böckingen presso
Heilbronn (Rheinland-Pfalz, Germania), è dedicata al dio per ordine [ex iussu]
di un certo Veratius Primus:
DEO
TARANVCNO
VERATIVS
PRIMVS
EX IVSSV |
Deo
Taranucno
Veratius
Primus
ex iussu |
|
CIL [xii:
6478] |
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|
Iuppiter Uxellimus
Forse da intendersi con
«altissimo», con possibile
allusione alle sue qualità di dio-cielo, Iuppiter
Uxellimus è presente in una iscrizione proviente da
Rimske Toplice (Slovenia), nel Noricum
(CIL [iii: 5145]). (Alföldy
1974 | Green 1986 | Green 1992)
|
|
IV - IL
«DIO CON LA RUOTA»
Il cosiddetto
«dio con la ruota» compare in
molte figurazioni galliche: si tratta di un
personaggio barbuto, nudo, che si appoggia o regge
in pugno una ruota con un numero variabile di
raggi. In alcune immagini il dio viene identificato
con
Iuppiter.
Esaminiamo le immagini
più importanti del
«dio con la ruota».
Sul calderone di Gundestrup compare un
personaggio barbuto che solleva in alto ambedue le braccia:
la destra sembra afferrare una ruota con otto raggi,
visibile solo per metà; accanto, un giovane inginocchiato
sembra prendere la ruota con entrambe le mani. Sono inoltre
rappresentate due pantere che si muovono verso destra e tre
grifoni che si muovono verso sinistra; sotto, un serpente criocefalo
[immagine]✦. Purtroppo non vi sono
iscrizioni. ①
Una statuetta di bronzo,
ugualmente anonima, rinvenuta a Châtelet
(dép. Haute-Marne, Francia) rappresenta un uomo nudo con la
barba. Regge con la mano sinistra una ruota a sei raggi,
deposta al suolo accanto a sé; nella mano destra, sollevata,
impugna quello che sembra il simbolo classico del fulmine.
Al braccio destro sono appesi nove oggetti dall'andamento
sinuoso di non facile interpretazione (non è molto chiara
l'ipotesi di alcuni autori secondo il quale tali oggetti
simboleggerebbero la traccia lasciata dal lampo) [immagine]✦. ②
C'è
poi la statua proveniente da Séguret
(dép. Vaucluse), l'antico territorio degli Avantici,
dove il dio si appoggia con la destra a una ruota a
dieci raggi. Altri esempi sono stati trovati a
Trier. C'è anche la matrice di una statua che tiene una ruota
in ambedue le mani, proveniente da Caer Llyon, l'antica Isca Silurum
(Galles, Regno Unito). Poche di queste figurazioni portano
iscrizioni, come la statua di Landouzy-la-Ville
(dép. Aisne, Francia), dove I.O.M.
è la tradizionale sigla per
Iuppiter Optimus Maximus.
Talvolta compare il simbolo
della ruota, ma senza la figura divina. Un altare
trovato presso Laudan (dép. Gard, Francia) presenta su
ambedue i lati un'aquila e una ruota a cinque
raggi. Un altro proveniente da Rousset-les-Vignes (dép. Drôme,
Francia)③ mostra una ruota a sei raggi tra due
fulmini; l'iscrizione è anche qui una dedica
a
Iuppiter:
IOVI IVBR
VS VOTVM
V L M |
Iovi iubr-
us votum
{v(otum)} l(aetus) m(erito) |
|
AE [2000: 891] = CAG [26, p. 529] |
A Montmirat (dép. Gard) è
venuto alla luce un frammento di altare con una
ruota a nove raggi, sotto cui era effigiato un fulgur
conditum. Su un altare a
Vauvert, presso Nîmes (dép. Gard), troviamo su una
facciata una ruota con otto raggi e su ambedue i
lati un fulmine stilizzato. Altri tre altari sono
stati dedicati a
Iuppiter nell'Inghilterra del nord (di cui due
dedicati da devoti appartenenti alla tribù
germanica dei Tungri!).
Qualche volta la ruota compare
anche come attributo di
Iuno sposa di
Iuppiter (Autun, Alzey, Tongern).
Nonostante la maggior parte
delle figurazioni del
«dio con la ruota» sia
anonima, le poche dediche sono sempre e comunque
rivolte a
Iuppiter; si è visto che anche alcune
immagini di ruote portano dediche a
Iuppiter.
È evidente che la
ruota sia il simbolo che i Galli attribuivano a
quel loro dio che in epoca romana venne assimilato
a
Iuppiter. Lo
Iuppiter gallico e il
«dio con la ruota» sono, con
sufficiente certezza, lo stesso personaggio.
|
V - SIGNIFICATO DELLA
RUOTA
|
Rouelles (50 a.C. – 50 d.C.) |
Musée d'Archéologie nationale,
Saint-Germain-en-Laye (dép. Yvelines, Francia) |
MUSEO: [Il «dio con la
ruota» >
Rouelles]► |
Abbiamo visto
come il simbolo della ruota sia il tradizionale
attributo di
Iuppiter in Gallia, sia che compaia impugnata dal
dio, sia che appaia senza la figura divina. In
entrambi i casi vi sono esempî di iscrizioni
che rimandano a
Iuppiter Optimus Maximus.
Piccole ruote, chiamate dagli archeologi
rouelles, forse associate al culto di
Taranis, erano portate come
amuleto tanto in Gallia quanto in Britannia. Ne sono state
ritrovate numerose soprattutto nei santuari della Gallia
Belgica. Nel
sud della Francia sono state rinvenute monete che
mostrano una ruota con quattro spirali o una croce
(si tratta di riproduzioni del
kýklos
mantikós di
Delfi, ma il loro adattamento in Gallia dovrebbe
indicare che esse trovavano corrispondenza nelle
concezioni locali).
Ma qual è il significato
della ruota? Gli studiosi sono arrivati a
interpretazioni diverse. Secondo Gaidoz la ruota
era un simbolo solare
(Gaidoz
1884), idea ripresa da altri
autori (Vendryes 1948 | Pettazzoni
1954). Anche De Vries considera il
«dio con la ruota» una
divinità di carattere celeste, di cui il
sole sarebbe la più radiosa manifestazione,
e siccome il sole vede tutto, il
«dio con la ruota» sarebbe
anche un dio onniveggente e invocato nei
giuramenti, ed al proposito De Vries ricorda le
antiche formule irlandesi in cui s'invocano le
forze della natura: il sole spesso nominato in
primo luogo, poi la luna e le stelle (De Vries 1961).
Altri studiosi hanno visto nella
ruota il simbolo del ciclo dell'anno, preludendo a
certe immagini medievali dove l'anno è
raffigurato come una ruota, divisa in quattro o
dodici parti, quante sono le stagioni o i mesi. Ma
in tal caso la ruota impugnata dal dio non dovrebbe
avere un numero di raggi così incerto e
variabile.
Flouest ha invece visto nella
ruota un simbolo del tuono, richiamando
l'attenzione sull'idea del carro su cui viaggerebbe
un dio del tuono: quest'idea si richiama al
parallelo germanico, dove il dio-tuono
Þórr viaggia su un carro tirato da caproni, le
cui ruote producono il rombo del tuono tra le nubi
(Flouest 1885). A tale opinione fanno
seguito molti autori
(Renel 1907 | Hatt 1951). È questa, a
nostro avviso, la proposta più ragionevole, soprattutto
tenendo conto dei molti parallelismi che sussistevano tra le
culture celtica germanica. |
VI - TARANIS:
INTERPRETAZIONI
Il più importante epiteto
gallico di
Iuppiter è
Taranis, ricordato dal poeta
Lucanus in un celebre verso del
Pharsalia, ripreso poi dai suoi
scoliasti, con qualche identificazione
discordante:
...Et
Taranis Schythicae non
mitior ara Dianae. |
...E
l'ara di
Taranis non più mite di quella
di Diana scitica. |
Marcus Annaeus Lucanus:
Pharsalia [I: -] |
Taranis
Ditis pater hoc modo aput eos placatur: in alueo ligneo aliquod homines
cremantur. [...]. [Credunt] prasidem bellorum et
caelestum deorum maximum Tarnanin Iouem adsuetum olim humanis placari capitibus,
nunc uero gaudere pecorum. |
Taranis
Dis
Pater presso di loro viene
placato in questo modo: uomini
vengono bruciati vivi in tini di
legno [...]. [Credono] che
Taranis
sia
Iuppiter,
signore delle guerre e
massimo fra gli
dèi celesti,
avvezzo un tempo a
essere placato con
vittime umane, ora con
sacrificio di animali. |
M. Annaei Lucani Commenta Bernensia |
Lucanus cita il nome del dio
senza ridurlo a epiteto e questo ci autorizza a
pensare che
Taranis fosse il nome proprio di una
divinità identificata con lo
Iuppiter romano.
Purtroppo i
Commenta Bernensia sono fonte di
confusione: essi identificano
Taranis prima con
Iuppiter e poi con
Dis Pater.
Possiamo accettare la prima interpretazione, la seconda lascia
un po' perplessi. L'ignoto scoliaste sembra operare le sue
identificazioni su basi alquanto discutibili!
Se conosciamo il nome del
dio al nominativo lo dobbiamo appunto a Lucanus. Il nomen
Taranis deriva senza dubbio dalla radice
*taran-
«tuono» (cfr.
bretone
taran e
antico irlandese
torann
«tuono»; la forma in moderno irlandese
è
toirneach).
Dunque questo nome va reso come «tuono» o
il «tonante».
La lezione
Taranis è attestato in Lucanus e nell'iscrizione in caratteri greci di Orgon
(CIL [xii: 820]) [immagine]✦. Le
rimanenti fonti
archeologiche sono esigue e contraddittorie, e il nome del dio
vi compare perlopiù in forme declinate o derivate. Problematica la forma
Taranucnus, presente nelle iscrizioni renane
(CIL [xiii:
6094, 6478]) [immagine
|
immagine]✦ con la variazione
dalmata di
Taranucus
(CIL [iii: 2804]). Secondo
Vittore Pisani il
suffisso
-cnus
indicherebbe un patronimico e dunque il dio
Taranucnus sarebbe in realtà un figlio del
dio
Taranis e non
Taranis stesso
(Pisani 1949). Più convincente l'ipotesi secondo la quale il termine vada
considerato come titolo aggettivale, e quindi
«colui che tuona»
(Green 1992).
La lezione
Tanarus, attestata nell'iscrizione di Chester
(CIL [vii
168]), è forse anch'essa una variazione del
nomen
Taranis. In tal caso si spiega ipotizzando
un'alternanza di radici
*taran-/*tanar-,
di cui una si è formata dall'altra per
metatesi (inversione delle consonanti), anche se
non è facile capire quale sia la forma
originale e quale la derivata. Si può invece
respingere l'ipotesi che vorrebbe far derivare la
forma
Tanarus dal nome greco del fiume ligure Tanaro
[Tánaros].
Lo scarso numero di iscrizioni
rivolte a questo dio, soltanto sette in tutta
l'area celtica, fanno pensare, a dispetto delle
informazioni di Lucano, che
Taranis non fosse stata una divinità
celtica molto importante; di contro non si
può fare a meno di notare che questi monumenti sono ben distribuiti, essendo stati
trovati in Gallia, in Germania, in Britannia e
persino in Dalmazia, implicando quindi che
Taranis fosse perlomeno conosciuto su una vasta
area. Secondo la Green, è possibile che
Lucano abbia esagerato l'importanza del dio per
ignoranza o per licenza poetica; sembra infatti che
egli non avesse visitato personalmente la Gallia e
quindi abbia ottenuto le informazioni di seconda
mano, portando i chiosatori posteriori a
esagerare l'importanza dei pochi nomi tramandati
dalle fonti classiche
(Green 1992).
Nessuna delle dediche a
Taranis che possediamo è accompagnata
dall'immagine del dio, così non sappiamo con
certezza quale fosse il suo aspetto.
L'interpretazione di
Taranis
quale dio del tuono, dovuta esclusivamente all'etimologia del
nome e ormai ampiamente accettata dalla maggioranza degli
studiosi, fu proposta nella prima metà del Settecento
(Martin 1727). Improbabili le
ipotesi che designano
Taranis un dio solare e psicopompo
(Le Roux 1955), o addirittura un dio
dei morti
(Lambrechts 1942). Restrittiva l'ipotesi che lo indica
come un dio dei giuramenti
(Van Hamel 1934). Da scartare anche l'ipotesi che
pretenderebbe di identificare
Taranis nel
«dio
col mazzuolo»,
il quale
nell'epigrafia si chiama invece
Sucellos.
Ma il punto dolente della
questione è se
Taranis vada o meno identificato con lo
Iuppiter gallico di cui parla
Caesar nel
De bello
Gallico. Delle
varie iscrizioni dedicatorie, soltanto in tre il teonimo è usato come epiteto
di
Iuppiter, e cioè nella dedica
a «I O M / TARANVEN[†...» da Bourganeuf (Francia)
(AE [1961: 159]);
in quella a «IOVI TA/RANVCO» rinvenuta a Skradin (Croazia)
(CIL [iii 2804]), e in
quella a «I O M TANARO» da Chester
(Regno Unito)
(CIL [vii
168]). La maggior parte degli esperti si è
pronunciata a favore della correttezza di tale
identificazione
(Heichelheim 1932 | Lambrechts 1942 | Grenier
1945 | Duval 1954 | Duval 1957 | Le Roux 1959). Altri autori, pur
accettando tale identificazione, pensano tuttavia
che sia stata effettuata su basi piuttosto
superficiali: mentre lo
Iuppiter romano era una divinità
complessa, con un'ampia gamma di funzioni che
variavano dalla regalità al potere
atmosferico,
Taranis sembra essere stato esclusivamente una
divinità naturalistica
(Green 1998). Tale affermazione, tuttavia, è
basata sul fatto che quel poco che sappiamo di
Taranis siamo stati costretti a dedurlo per via
etimologica e quindi non sappiamo quali sfumature
della divinità siano andate perdute.
Al contrario, De Vries, che come
abbiamo visto considera la ruota un simbolo solare
e dunque dà allo
Iuppiter gallico un carattere di dio-cielo, nega la sua identificazione con
Taranis. Secondo quest'ultimo studioso,
Taranis sarebbe stato essenzialmente un
dio-tuono sul tipo di
Indra
o
Þórr, e come
tale legato alla casta guerriera; se in epoca
romana venne interpretato con
Iuppiter, lo fu solo a causa del suo carattere
tonante (De Vries 1961). Ma anche se la
ruota può essere interpretata come simbolo
solare, non esistono reali identificazioni tra
dio-sole e dio-tuono
(Green 1992).
La nostra opinione è che
il vizio di interpretazione è piuttosto tra
lo
Iuppiter romano e lo
Iuppiter gallico, il primo un dio-cielo e il secondo un dio-tuono, avvicinati
l'uno all'altro esclusivamente per il comune
carattere tonante. Riteniamo che lo
Iuppiter gallico, ovvero il
«dio con la ruota», sia stato
a tutti gli effetti un dio-tuono sul tipo di
Indra
o
Þórr, e che
quindi si possa senz'altro accettare la sua
identificazione con
Taranis. Ed ora vedremo per quali
ragioni. |
VII - LO IUPPITER GALLICO:
DIO-CIELO O DIO-TUONO?
La questione
dello
Iuppiter gallico, che ha a lungo diviso gli
studiosi, è alla fine riassumibile in due
scuole di pensiero. C'è chi vuole che lo
Iuppiter gallico fosse stato un dio-cielo, sulla falsariga dello
Iuppiter classico; chi pensa invece a un dio-tuono,
come il
Þórr germanico.
Chi opta per la seconda alternativa ammette
l'identità tra lo
Iuppiter gallico e
Taranis, altrimenti è costretto a
considerarli due divinità distinte.
Prima di affrontare il problema,
sarà meglio definire entrambi i mitologemi,
del dio-cielo e
del dio-tuono,
ben distinti in tutte le mitologie di matrice
indoeuropea.
In termini tradizionali, il dio-cielo è l'incarnazione del
cielo nel suo aspetto più alto e luminoso. Il dio-cielo
simboleggia la legge eterna che dirige il tempo e lo spazio,
e quindi l'ordine cosmico. Ma come conseguenza, il dio-cielo
tende a porsi in un sovrumano distacco dalle cose terrene,
cosicché nei suoi vari esiti troviamo la sua figura quasi
sempre piuttosto sbiadita e lontana. Il dio-cielo, pur
avendo mutato la fisionomia, ha conservato quasi dovunque un
nome derivato dall'originario *DʲĒWS PʰƎTĒR
«cielo padre» indoeuropeo.
Abbiamo così Dyauṣ Pitā
in India, Zeús
Patḗr in Grecia,
Iuppiter a Roma
(nonché, da una formazione aggettivale *DEJW-
«celeste», vari termini per «dio» nelle lingue indoeuropee,
cfr. sanscrito deva, greco diós, latino
deus, irlandese día, norreno týr, quest'ultimo
ipostasizzato nel nome del dio
Týr).
①
Il dio-tuono
è invece il re degli dèi, dunque il
detentore della regalità guerriera. È
un dio atmosferico, signore delle nubi e della
pioggia. È colui che tutela l'ordine cosmico
contro le forze del caos, l'uccisore dei mostri e
dei giganti, e le sue armi sono il tuono e la
folgore. Al contrario del dio-cielo,
il dio tuono non ha conservato il nome originale,
ma la sua fisionomia è rimasta
pressoché inalterata in tutte le mitologie.
È Indra in India,
Hēraklês in Grecia,
Hercules a
Roma,
*Þūnraz/Þórr tra i
Germani.
A questo punto dobbiamo
chiederci chi fosse lo
Iuppiter gallico: un dio-cielo
abbassato di livello, o un dio-tuono
ancora perfettamente funzionale?
La nostra idea è che si
trattasse originariamente di un dio-tuono.
Parecchi elementi riconducono
verso questa assimilazione: la sua regalità
di second'ordine, il fulmine che impugna, la ruota
che simboleggia forse il rombo del tuono, e
ovviamente l'epiteto
Taranis/Tanarus che non solo ci riporta all'idea di
tuono, ma che sembra anche corradicale con il nome
del dio-tuono
germanico
*Þūnraz/Þórr.
Data questa ipotesi di lavoro,
facciamo un rapido confronto con le altre mitologie
indoeuropee, e analizziamo i vari esiti di dio-cielo e dio-tuono.
Nell'India vedica troviamo, fin
dai primi documenti a noi pervenuti, il dio-cielo
Dyauṣ Pitā quasi del tutto
assente dalla mitologia. Il dio-tuono
Indra ha
invece la parte dell'impetuoso re degli dèi,
la cui arma prediletta è il fulmine
[vajra]. Nel
mito,
Indra appare
come l'uccisore del serpente
Vṛtra,
che con le sue spire tratteneva le acque del mondo
provocando la siccità.
La Grecia dovette invece subire,
negli stadî più arcaici del suo
sviluppo culturale, l'influsso culturale del Medio
Oriente. La figura del dio-cielo fu
caricata di una regalità di stampo
orientale, sulla falsariga delle divinità
supreme delle mitologie semitiche (Baʿal,
Marduk,
Yǝhwāh);
come risultato,
Zeús
assunse una regalità più diretta, non
dissimile da quella dei monarchi orientali, si
armò del fulmine e prese potere
sull'atmosfera e sulla pioggia. Il dio-tuono
Hēraklês, privato della regalità
guerriera, scaduto il fulmine in una semplice
clava, fu invece declassato al rango di semi-dio e
si accontentò di portare avanti la sua
tradizionale missione di uccisore di mostri.
A Roma la situazione fu forse
diversa, prima che il fascino esercitato dal mondo
ellenico inducesse i Romani a ridefinire i
caratteri delle loro divinità sul calco di
quelle greche. Tuttavia qui
Iuppiter conservò molti più
caratteri del dio-cielo di
quanto non fosse avvenuto in Grecia ed
Hercules non fu mai abbassato al
rango di semidio.
Ora, mentre in Grecia ed a
Roma il dio-cielo si arricchiva a spese del dio-tuono, tra i
Germani ebbe un esito completamente diverso. Qui, toccò invece
al dio-vento
*Wōtanaz/Óðinn
divenire dio supremo, eliminando il dio-cielo o forse
riducendolo
a una scialba figura di contorno (*Tīwaz/Týr); il dio-tuono
*Þūnraz/Þórr
rimase un
guerriero fracassone, grande uccisore di mostri,
nonché signore del tuono, ma privo della
regalità:
*Wōtanaz/Óðinn aveva assunto in sé sia la
regalità guerriera del dio-tuono, sia la supremità del dio-cielo.
Anche tra i Celti, come tra i
Germani, il trasferimento del dio-vento in posizione suprema rivoluzionò
i quadri del pantheon, ma in maniera un po'
diversa. Il
Mercurius gallico ebbe la supremità, ma non
la regalità, che evidentemente rimase allo
Iuppiter gallico. Ecco perché nella sua
lista, Caesar cita
Mercurius al primo posto tra le cinque principali
divinità galliche, e mette al quarto posto
Iuppiter, anche se afferma essere il re degli
dèi. In effetti è possibile che lo
Iuppiter gallico fosse un sovrano tipo
Indra: un re guerriero, ma non il detentore
della suprema regalità.
La cosa è perfettamente
ammissibile. Si ricordi che anche il dio-tuono
germanico
*Þūnraz/Þórr,
originariamente interpretato con
Hercules, finì in seguito per
vedersi assegnato il giovedì, giorno tradizionalmente
dedicato a
Iuppiter.
Quanto abbiamo detto non esclude
però che differenti figure divine del
pantheon celtico non possano essere state
parallelamente identificate con
Iuppiter in epoca gallo-romana; oppure (il che
è la stessa cosa) che lo Iuppiter romano in
Gallia non abbia assunto su di sé epiteti e
attributi di altre divinità celtiche. Tra
queste potrebbe esserci stato per esempio un antico dio-cielo
celtico ormai uscito dal culto e dalla
mitologia.
Questo fatto spiegherebbe la
compresenza, per quanto riguarda lo
Iuppiter gallico, di epiteti da dio-tuono, quali
Taranis «tonante»,
Baginatis «delle querce»,
Bussumarus «colui che ben colpisce»,
accanto a epiteti più adatti a un dio-cielo,
come
Uxellimus «altissimo» e forse il
discusso
Sucaelus (cfr. latino
caelum
«cielo»).
|
VIII - RAPPORTI TRA IL
DIO-TUONO GERMANICO E IL DIO-TUONO CELTICO
Abbiamo visto che il più
importante degli epiteti dello
Iuppiter gallico è
Taranis (dalla radice
*taran
«tuono»). Abbiamo anche visto che una
delle forme alternative di questo nome è
Tanarus, spiegabile ipotizzando un'alternanza di
radici
*taran-/*tanar-,
di cui una si sarebbe formata dall'altra per
metatesi o inversione delle consonanti
(TRN/TNR).
Ora, questa seconda successione
di consonanti (TNR) la
troviamo nel nome del dio-tuono
germanico
*Þūnraz. È infatti probabile che lo
Iuppiter gallico (Taranis), sia stato un personaggio assai simile
al dio-tuono
germanico.
Tra gli antichi Germani il dio-tuono si chiamava
*Þūnraz (da cui l'antico alto tedesco
donar
«tuono» e il norreno
Þórr). Secondo
le tradizioni scandinave, Þórr produceva il fulmine con il martello
Mjöllnir e il rombo del tuono con le ruote del
suo carro (e fulmine e ruota sembrano appunto gli
elementi caratteristici dello
Iuppiter gallico).
Già Tacitus aveva
identificato il dio-tuono
germanico
*Þūnraz con
Hercules
(Germania [9]), basandosi verosimilmente sul fatto che
erano entrambi eroi forzuti avvezzi a uccidere
mostri a colpi di clava o di maglio. In seguito, il dio-tuono
germanico
*Þūnraz
venne piuttosto identificato col dio-cielo
Iuppiter a
causa del carattere tonante. Ecco perché il
giovedì (latino dies Iovis),
giorno tradizionalmente sacro al dio-cielo, nelle lingue germaniche è invece
associato al dio-tuono
(tedesco Donnerstag,
inglese thursday,
danese e svedese torsdag).
Ci troviamo dunque di fronte a
due diverse divinità, o forse due diverse varianti di
un medesimo dio, un dio-tuono celtico e un dio-tuono
germanico, che i Romani interpretarono in entrambi i casi con
Iuppiter. Che tali divinità fossero simili
è ragionevole. Non c'è motivo per
pensare che Celti e Germani avessero innalzato una
barriera tra l'una e l'altra sponda del Reno; anzi,
vi sono tutte le ragioni per credere a profondi
scambi culturali tra i due popoli. È dunque
probabile che esistesse una figura divina di dio-tuono,
diffusa indifferentemente tra Celti e Germani, i
cui attributi sfumassero di popolazione in
popolazione. Il suo nome copriva un vasto spettro
di nomi, celtici e germanici, tutti derivanti dalla
medesima radice per «tuono».
Taranis/Tanarus tra i Celti;
*Þūnraz tra i Germani. |
IX - LO IUPPITER GALLICO:
POSSIBILI ESITI NELLA MITOLOGIA CELTICA
INSULARE
La successiva domanda è: quale
personaggio della mitologia celtica insulare potrebbe
rappresentare un tardo esito dello
Iuppiter gallico? Ebbene, siamo costretti ad
ammettere che, secondo il nostro schema, non
è possibile rintracciare con sicurezza, tra
i Celti insulari, alcun personaggio omologo allo
Iuppiter/Taranis.
Molti sutdiosi, un po' affrettatamente,
hanno proposto di vedere lo
Iuppiter gallico nel
Dagda Mór irlandese. Ad assimilare le due figure
non vi sono in realtà dei tratti significativi. Entrambe le
divinità sembrano occupare uno status privilegiato
nei rispettivi pánthea, sebbene
ci sarebbero innanzitutto la mazza del
Dagda, che era montata su ruote, e il fatto
che il
Dagda
fosse
chiamato «padre di tutti» [Ollathair], titolo
assimilabile. Tuttavia, se
la nostra ipotesi è buona e lo
Iuppiter gallico è un dio-tuono,
allora quest'interpretazione viene a cadere: il
Dagda Mór non ha
assolutamente nulla del tradizionale dio-tuono, tranne, forse, la spiccata ingordigia.
E ancora, la mazza del
Dagda,
capace di dare la morte ma di far tornare alla
vita, sembra avere molti punti in comune con il
martello di
Þórr. Ma come
vedremo meglio in seguito, noi associamo piuttosto
il
Dagda Mór al dio
Sucellos.
Anche
Núada
Aircetlám sembra
avere poco dello
Iuppiter
gallico, a parte la sua regalità guerriera. Il mito della
mutilazione del braccio di
Núada
però ha riscontro nel mito norreno del dio-cielo
Týr,
che ebbe la mano staccata dal lupo
Fenrir. Ma tutto ciò è
insufficiente per interpretare
Núada in entrambi i sensi: sia come dio-tuono
che come dio-cielo.
Eliminati il
Dagda Mór e
Núada, non esistono personaggi della mitologia
celtica insulare che possiamo porre vicini allo
Iuppiter gallico. |
X -
JUPITERGIGÄNTENSAULEN, LE COLONNE DEL CAVALIERE
|
Jupitergigantensäule |
Badisches Landesmuseum, Karlsruhe (Baden-Württemberg, Germania) |
Lo scorcio
superstite di un antico mito celtico che aveva
forse come protagonista lo
Iuppiter gallico, compare in una serie di circa
150 monumenti, eretti fra gli anni 170 e 240 d.C.
Tali monumenti, detti «colonne del
cavaliere» (il termine tecnico è in tedesco
Jupitergigantensäulen, «colonne di Iuppiter e del gigante»,
sebbene faccia riferimento a un'identificazione ipotetica), sono diffusi soprattutto nel
territorio dei Lingones e dei Mediomatrici, nel
nord-est della Gallia, da cui si irradiano nella
valle della Mosella, territorio dei Treveri. Ve ne erano
ancora lungo il Reno, su entrambe le sponde del fiume, fino
ad Altenburg (Thuringia, Germania). Esemplari isolati sono stati trovati
anche nelle Fiandre, in Bretagna e nel territorio
degli Arverni. Uno è stato rinvenuto
addirittura in Britannia (Willingham Fen, presso
Cambridge).
Le «colonne del
cavaliere» sono formate da un
tamburo di base da cui si diparte la colonna vera e
propria. Il tamburo o plinto è normalmente a
due livelli: uno a quattro lati, sui quali sono raffigurate
altrettante divinità romane, tipicamente
Iuno,
Mercurius,
Hercules e
Minerva
(Viergötterstein, «pietra dei quattro dèi»), e uno a
sette/otto lati, che in genere riporta dipinte delle
personificazioni dei giorni della settimana (Wochengötterstein,
«pietra delle divinità settimanali»).
La colonna, alta diversi metri,
è generalmente sormontata da un capitello
corinzio. In cima al capitello è ritratto un
cavaliere
che cavalca con solenne andatura, il mantello
gonfio di vento; il fulmine di cui è armato
veniva spesso realizzato in metallo in modo che
riflettesse la luce imitando la traccia del lampo.
A volte il cavaliere impugna la ruota a guisa di
scudo protettivo, come a Luxeuil
(dép. Haute-Saône), Meaux (dép. Seine-et-Marne),
Quémigny-sur-Seine (dép. Côte-d'Or, Francia) e Obernberg (Bayern,
Germania).
Il cavallo calpesta con gli
zoccoli un anguipede,
una sorta di gigante il cui corpo termina in una
coda di serpente o di pesce, il quale giace al
suolo schiacciato dagli zoccoli del cavallo. L'anguipede
è spesso barbuto, lo vediamo contorcersi dal
dolore, mentre il suo viso ferito e i suoi muscoli
tesi rivelano l'intollerabile peso del carico che
lo sta schiacciando. In un caso, tuttavia, pare che
l'anguipede
sorregga con le proprie mani le zampe anteriori
dell'animale. Nel monumento rinvenuto nelle
vicinanze di Mainz (Rheinland-Pfalz, Germania), l'anguipede ha
la testa che giace sotto lo zoccolo del cavallo e
guarda a ritroso il cavaliere. Vi sono poi dei casi
in cui il
cavaliere
non monta a cavallo, ma si erge con le proprie
gambe sul mostro, come nel monumento di Grand (dép. Vosges,
Francia) o in quello trovato sul fiume Waal, presso Nijmegen
(Paesi Bassi). Esemplari
completi di questo monumento, come quelli di Mainz
o di Trier (Rheinland-Pfalz, Germania), sono rari; generalmente possediamo solo
dei frammenti della figura del cavaliere.
Che il
cavaliere
sia da identificare con lo
Iuppiter gallico lo si deduce unicamente dal
fatto che qualche volta impugna la ruota.
Un'indicazione secondaria può essere il
fatto che in certi casi tali colonne sembrano avere
come modello un albero di quercia in pieno rigoglio
– il pilastro di Stuttgart (Baden-Württemberg, Germania) è decorato con foglie di quercia
e ghiande – e la quercia era ugualmente sacra allo
Iuppiter
romano ed a quello gallico. A questo si unisce la notizia di
Valerius Flaccus che annota come
la tribù dei Coralli (probabilmente celtica)
venerava effigi di
Iuppiter associate a ruote e pilastri:
«ruote barbariche sono i loro emblemi, immagini di cinghiali
con i dorsi rivestiti di ferro e colonne spezzati, effigi di
Iuppiter»
(Argonautica [VI: ]). Ma per quanto coerenti, queste sono
solo vaghe indicazioni: non vi è certezza
che la figura del cavaliere sia davvero da
identificare con
Iuppiter. Nel caso tale identificazione sia
corretta, si potrebbe forse dedurre che l'idea di
collocare un'immagine del cio-cielo su un alto
pilastro poteva nascere in parte dalla
volontà di innalzarlo verso il cielo; il
pilastro era dunque percepito come un ponte tra il
mondo terreno e quello celeste
(Green 1992). Al contrario, non si può fare a
meno di notare che nel mondo classico non troviamo
mai
Iuppiter in veste di cavaliere, ragione per cui
se ne deduce facilmente che l'immagine appartiene a
buon diritto al simbolismo celtico.
Queste colonne sono state
trovate fuori dalle città e dalle grandi vie
di comunicazioni, per lo più tra le rovine
di villae ma
anche nel letto di un fiume o nelle vicinanze di
sepolcri. Ci sono degli esempi in cui il basamento
di una pietra con quattro divinità è
stato murato sotto l'altare di una chiesa
cristiana. L'influsso romano è
incontestabile, ma non si deve concludere che si
tratti di monumenti romani
(Riese 1898). Si è anche argomentato, con
scarso fondamento, che tali monumenti fossero di
origine germanica
(Hertlein 1910).
È molto difficile
decidere che cosa significhi effettivamente la
scena. Chi o che cosa rappresenta l'anguipede? In quale rapporto sta con il
cavaliere
che lo sovrasta? Fernand Benoît è stato il
primo a parlare di una versione celtica della
gigantomachia
(Benoît 1954), ripreso in seguito
da Miranda Jane Green secondo
la quale vi sarebbero alla base delle influenze
mediterranee
(Green 1992), cosa che Jan De Vries aveva precedentemente
negato (De Vries 1961). Sempre secondo
la Green, ciò che tali colonne
illustrerebbero è la lotta tra cielo e mondo
sotterraneo, tra vita e morte, bene e male, luce e
oscurità. Il gigante, con i suoi arti
anguiformi, rappresenterebbe l'elemento ctonio e
negativo, soggiogato dalla forza positiva del dio-cielo.
Questo senza negare un rapporto dualistico, di
interdipendenza, tra i due personaggi
(Green 1998). In effetti sembra di capire che
c'è stata una lotta, il
cavaliere ha vinto e ora schiaccia sotto di
sé l'avversario; l'espressione di terrore
dell'anguipede
s'accorderebbe con questa interpretazione.
Tra le altre teorie proposte nel
corso degli anni, interessante quella di Ferdinand Haug, il
quale, ritornando ritornando al tempo in cui certe
parti della Gallia erano minacciate dalle invasioni
dei Germani, ha immaginato che il monumento
raffigurasse la vittoria dell'esercito romano sui
barbari
(Haug 1891).
Friedrich Hertlein ha invece pensato a una divinità
terrestre in procinto di sorreggere il cielo
(Hertlein 1910). Reinach ha visto
nell'anguipede le acque nascoste nelle
profondità della terra
(Reinach 1914). Camille Jullian ha pensato
invece alla vittoria del dio del sole (sempre
interpretando la ruota quale simbolo solare) sulle
tenebre
(Jullian 1907-1920). E siccome le colonne nel territorio dei
Lingones si trovavano presso una sorgente o nel
letto d'un fiume, Pierre autori hanno giudicato vaga e discutibile e non
sempre in accordo con la situazione di altri
reperti (Lambrecht
1949).
Alcuni studiosi sono convinti
che non si possa assolutamente parlare di una
battaglia. Difatti il mostro, in alcuni casi, come
per esempio nella figurazione trovava a Saint-Malo
in Bretagna, è donna. Questa circostanza ha
portato Georges Drioux a concepire nel gruppo il dio del
sole e la dea della guerra
(Drioux 1934): ma pure si tratta di un'interpretazione
improbabile (gli esempi in cui il mostro è
una donna costituiscono delle eccezioni
isolate).
Ebbene, non conoscendo il mito
non sapremo mai quali ipotesi siano giuste o
sbagliate. Proponiamo qui, riallacciandoci in parte
a Pierre Lambrecht, una possibile soluzione dell'enigma:
il motivo indoeuropeo della lotta contro il
serpente. Nel mito vedico,
Indra, il dio-tuono,
combatté e uccise il serpente Vṛtra, il quale tratteneva tutte le acque del
mondo causando una siccità di portata
cosmica. Sebbene non sia direttamente attestato in ambito
celtico (con la possibile eccezione del racconto irlandese
della lotta tra
Dían
Cécht e il serpente
Méchi, le cui ceneri vennero poi disperse
nella corrente di un fiume) questo mito ha un suo omologo
classico nel racconto della lotta di
Zeús contro Typhôn e
germanico in quello di
Þórr
contro
Jǫrmungandr (il quale di nuovo conteneva le acque con il
suo enorme corpo serpentino). Possiamo allora vedere nell'immagine la
lotta tra il dio-tuono e
il serpente
della siccità,
ipotesi avvalorata dal fatto che le immagini nel
territorio dei Lingones si trovavano vicino a corsi d'acqua,
forse per scongiurare il loro disseccarsi estivo. |
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