I - DAGDA MÓR, IL «DIO BUONO»: ETIMOLOGIE
Eochaid
Ollathair, detto il
Dagda Mór, è uno dei
personaggi più intriganti e suggestivi del mito irlandese, sicuramente uno di
quelli che più ha attirato
l'attenzione degli appassionati di mitologia, ma allo stesso
tempo uno dei più sfuggenti, dei più difficili da definire, sul quale si sono intrecciate le ipotesi più
diverse e contraddittorie.
Il nome Eochaid ha
un'etimologia ben conosciuta, dalla radice indoeuropea
*EKWO «cavallo» (cfr. gallico epo-, latino
equus, greco íppos), dettaglio che – nonostante le ipotesi di alcuni studiosi
– non definisce in alcun modo il
carattere del personaggio, in quanto Eochaid è un nome
ricorrente tra vari re
ed eroi nel mito irlandese.
Assai
più interessante il titolo di Ollathair «padre di tutti». Al riguardo, si
veda [INFRA]▼
Ma nei racconti
Eochaid
Ollathair è meglio conosciuto con l'epiteto di
Dagda Mór. L'origine di questo
nome, attestato regolarmente con l'articolo [an
Dagdáe], è narrata in un passo del
Cath Maige Tuired, dove ogni eroe e campione delle
Túatha Dé Danann
spiega
a
Lúg
in quale modo avrebbe impiegato i propri poteri e le proprie capacità per combattere i
Fomóire, al ché
Eochaid
Ollathair ribatte che lui da solo sarebbe stato in grado di fare il lavoro
di tutti gli altri messi assieme:
Atbert an Daogdae: «An cumang arbagaid-si dogen-sou
ule amaon». «Is tu-sai an dagdae!» or cach, gonadde rot-lil
Dagdae o sin e. |
Disse
il Dagda: «I poteri che vantate di
possedere, io li posso esercitare
da solo». «Tu sei dunque il
dagdáe!»
dissero tutti, e per questo da
allora gli fu dato il nome di Dagda. |
Cath Maige Tuired [81] |
Tra le varie ipotesi avanzate sul significato di questo epiteto, la più
antica la troviamo in un testo etimologico irlandese, il
Coir Anmann, le «Affinità dei nomi»,
nel quale
Dagdáe viene
spiegato come «fuoco di Dio» (da daig e déa)
(MacCulloch 1911). Nel suo lavoro pionieristico sulla
Cath Maige Tuired,
Whitley Stokes riteneva invece il nome connesso a un dag «abile», tanto che
nella traduzione del testo rendeva la frase
summenzionata con: «tu sei il
Dagda, la buona mano» [it is
thou art the Dagdae, good hand]
(Stokes 1891).
In
realtà la maggior parte degli studiosi sono persuasi che il
nome del
Dagda derivi da un *dago-deivos «dio buono». E poiché
mór in irlandese vuol dire «grande»,
Dagda Mór
significherebbe appunto «grande dio buono». È questa la traduzione di Elizabeth Gray: «tu sei il
Dagda, il dio
buono» [You are the Dagda, the
Good God]
(Gray 1982). Tuttavia, come già aveva compreso Stokes, nel testo
originale «buono» non è tanto inteso in senso morale, ma come indice
di capacità artigianali e magiche. Per questa ragione, pur
rifacendosi alla traduzione della Gray, Melita Cataldi traduce
in italiano «tu dunque sei il Dagdáe, il dio bravo»
(Cataldi 1985).
Ma il
Dagda è anche conosciuto con un altro
epiteto:
Ruad Rófessa, il «rosso che molto
conosce» (da fios «conoscenza», preceduto da un prefisso intensivo ró-).
Gli studiosi sono persuasi che tale titolo si riferisca alle
conoscenze esoteriche del
Dagda,
il quale sarebbe stato appunto il depositario della scienza druidica, conoscitore delle cose antiche e profonde.
«Rosso» è il colore legato al concetto di regalità, ma è difficile comprenderne
il senso in relazione al
Dagda.
|
II - ASPETTI GROTTESCHI E OSCENI NELL'IMMAGINE DEL DAGDA
I dati che abbiamo sul
Dagda Mór sono alquanto
contraddittori. Si tratta di un personaggio dotato di vasta
sapienza e dalle variegate capacità, a cui le
Túatha Dé Danann
portano assoluto rispetto, eppure i
testi ci dànno di lui un'immagine paradossale.
Il
Cath Maige Tuired, pur non trascurando di alludere alla grande
importanza e dignità del Dagda Mór, ne lascia assai più volentieri trasparire i
lati grotteschi, le esagerazioni relative alla sua
fame, alla sua forza, alla sua potenza erotica. Il testo non ci va leggero. Il
Dagda Mór è costretto
dapprima a
trangugiare un'enorme quantità di porridge per poi cadere in un sonno profondo, tra
gli insulti e le risate dei
Fomóire (e qui De Vries non può fare a meno di pensare a Noè (De
Vries 1961)).
Poi si allontana barcollando per via della sua enorme pancia, con gli abiti
malmessi, oscenamente corti, trascinando una mazza così pesante da lasciarsi
alle spalle un solco profondo come un fossato. Infine incontra un'intraprendente
ragazza fomóir, che lo rovescia al suolo, dentro i suoi
stessi escrementi, lo satireggia beffarda, lo costringe a portarla sulle spalle e infine
si accoppia con lui.
Anche se il
Dagda esce da tutte queste situazioni
come il vincitore morale (ritarda l'avanzata dell'esercito fomóir permettendo
alle
Túatha Dé Danann
di organizzarsi per la prossima battaglia, piega i poteri della figlia
di Indech a danno degli stessi
Fomóire), lo spirito salace di questo episodio
sembra avere a che fare più con Rabelais che con la mitologia. Si tratta in
effetti di un buon esempio della comicità grossolana tipica del Medioevo, a cui
Bachtin attribuiva un significato profondamente positivo (Bachtin
1965). Quello che lascia perplessi, in questo caso, è che il
Cath Maige Tuired
è un racconto essenzialmente
privo di intenti parodistici. L'episodio del Dagda Mór
dovette apparire talmente fuori luogo ai primi interpreti del testo, che,
per decenza, Stokes eliminò parte dell'episodio dalla sua traduzione
(Stokes 1891).
Il
Cath Maige Tuired
attribuisce al
Dagda un aspetto trasandato e dimesso, dall'effetto
volutamente
comico:
Ba drochruid a congraim. Cochline go bac a di
ullend. Inor aodhar imbe go foph a tonai. Is ed deno uchtlebar penntol. Da
broicc imbe di croicinn capoild ocus a find sechtoir. Gabol gicca rothach feidm
ochtair ina diaid, go mba lór do clod coicrice a slicht 'na degaidh, gonad dei
dogaror Slicht Loirge an Dagdai. |
Indecoroso era il suo
abbigliamento: un corto mantello
fino all'incavo dei gomiti e una
tunica bruna grigiastra fino alla
sporgenza del sedere. [Portava
calzari in pelle di cavallo con il
pelo all'esterno. Il suo lungo pene
era scoperto.] Si trascinava dietro
una mazza nodosa che avrebbe
richiesto lo sforzo di otto uomini
per essere trasportata, e la
traccia che lasciava era tanto
profonda da servire come fossato di
confine di una provincia. Per
questa ragione è chiamata «la
traccia della mazza del Dagda». |
Cath Maige Tuired [93] |
Si è parlato di un tentativo,
da parte dei redattori cristiani del testo, di mettere in ridicolo le antiche divinità pagane. L'accusa
non regge. La cura con cui quei redattori hanno raccolto e
tramandato le antiche tradizioni d'Irlanda, la loro dedizione
nel mettere per iscritto centinaia di racconti, poemi,
liriche, agiografie, porta a escludere che
essi abbiano deliberatamente trasformato in farsa gli antichi
miti per screditarne il valore. È
evidente che il materiale che i redattori ci hanno consegnato
è autentico, anche se probabilmente finirono per attribuire un
valore comico a certi episodi bizzarri e inusuali, di cui non
comprendevano il senso e che forse, in origine, avevano avuto
altro significato.
Se sia andata così, non lo sappiamo. D'altronde nulla vieta di
pensare che il mito originale avesse già una vis comica,
correttamente tramandata dai redattori medievali. Come ricorda giustamente De Vries, «anche i
Greci e i Romani, in epoca pagana, si sono permessi degli
scherzi molto grossolani sulle loro divinità; gli Irlandesi,
burloni, non saranno stati da meno».
(De Vries 1961)
|
III - GLI ATTRIBUTI DEL DAGDA:
CLAVA E CALDERONE
Al Dagda Mór
viene attribuito uno dei quattro tesori delle
Túatha Dé Danann: il
calderone [Coire an Dagdae]
che le
Túatha Dé portarono dalla città
boreale di
Murias e del quale è detto che «mai una compagnia se ne
allontanò insoddisfatta». Il calderone del
Dagda era dunque, in primis,
un simbolo dell'abbondanza e dell'ospitalità, valori che
sancivano la legittimità del sovrano,
il quale ospitava nella sua casa gli uomini del clan, e forniva
loro cibo e bevande in abbondanza.
Ma
presso gli antichi Celti il calderone era un simbolo che ammetteva una gran
quantità di interpretazioni diverse, tanto più che, come confermano le
fonti archeologiche, esso era il recipiente sacro dei Celti, paragonabile in un
certo senso al calice cristiano
(Botheroyd ~ Botheroyd 1996).
Gli usi documentati dalla letteratura mitologica sono perlopiù legati alla sfera
del sacro. Basti pensare al calderone nel quale la dea gallese
Ceridwen preparava la pozione della saggezza e
dell'ispirazione poetica, o al calderone della rigenerazione citato in uno dei
«rami» dei Mabinogion, che
apparteneva al gigantesco Brân e che – come il caldaio di
Mḗdeia – era in grado di resuscitare i morti, togliendo però loro il dono della parola. Il
calderone di Brân era affine alla
sorgente di Sláine nel quale Dían Cécht
immergeva i caduti in battaglia, riportandoli in vita.
De
Vries ritiene che alla base di questi ricorrenti calderoni dei miti celtici, vi
siano quelli anticamente utilizzati dai druidi nelle loro pratiche, compresi
quelli impiegati per i sacrifici umani (De Vries
1961). Strábōn riferisce che le sacerdotesse dei Cimbri tagliavano la
gola dei prigionieri sopra un calderone e dal modo in cui il sangue si
raccoglieva nel fondo del recipiente esse traevano auspici per il futuro
(Geōgraphiká [VII: 2, 3]). Gli scoliasti di
Lucanus annotano che le vittime sacrificali a Teutates
venivano annegate dentro un paiolo pieno d'acqua
(Commenta
Bernensia ad Lucano). Sembra essere questo il senso di una
scena che appare sul
Calderone di Gundestrup. Questo calderone sacro dei miti celtici, strumento di sacrificio cruento e
insieme simbolo di abbondanza e di rigenerazione, sarà infine riattualizzato
secondo la simbologia cristiana e riapparirà nei romanzi arturiani come il San Grail, calice
sacro che
conteneva il sangue del Cristo sacrificato.
D'altronde
il medesimo carattere ambivalente lo ritroviamo anche in un altro attributo del
Dagda, la mazza che il dio portava
sempre con sé. Nel
Cath Maige Tuired
veniva descritta come una strana clava fornita di ruote, così pesante che solo
otto uomini erano in grado di smuoverla; quando il
Dagda se la
trascinava dietro, questa clava scavava un solco talmente
profondo che sarebbe potuto servire da fossato confinario per
un'intera provincia. In questo testo vi è un passo dove il
Dagda,
rispondendo a
Lúg che gli chiede quale sarebbe stato il
suo contributo nella prossima battaglia contro i
Fomóire,
così dichiara:
Dugensa
leath fria feraib Erenn etir caemslecht ocus admilliud ocus amaidichtai. Bud lir
bommonn egai fua cosaib gregai a cnaimreth fum luirg an f. sie áit a comraicid
diab namod for rái Muige Tuired |
Mi
metterò al fianco degli uomini di Ériu sia menando colpi che
annientando con la magia. Le ossa
dei nemici sotto la mia mazza
saranno come chicchi di grandine
sotto gli zoccoli dei branchi di
cavalli, là dove si scontrano le
schiere sul campo di battaglia di
Mag Tuired. |
Cath Maige Tuired [119] |
Quest'affermazione
è stata spesso presa come prova, o comunque indicazione, di un
carattere guerriero del
Dagda Mór,
la cui mazza sarebbe stata essenzialmente un'arma d'offesa. È
però utile inserire questo passaggio nel contesto della
narrazione. Nella scena,
Lúg passa in rassegna tutti i membri di più
alto rango delle
Túatha Dé Danann e chiede a ciascuno in quale modo
avrebbe contribuito, secondo le sue capacità e la sua
specializzazione, alla battaglia. Gli rispondono i tre
artigiani, il guaritore
Dían Cécht, il campione
Ogma, la Mórrígan,
i maghi, i coppieri, i druidi, i satiristi, le streghe e
infine, ultimo, il
Dagda.
Ciascuno espone quale sarà il suo contributo personale.
L'aspetto guerriero della battaglia sembra limitato al solo
Ogma: gli altri
personaggi – oltre a fornire fornire l'assistenza logistica,
produrre armi e curare i feriti – impiegano contro il nemico
vari tipi di stregoneria e arti druidiche: li terrorizzano, li
satirizzano, li debilitano ①.
L'attacco contro i
Fomóire viene condotto secondo uno
schema che non si limita alla logica della forza delle armi,
ma
copre l'intero spettro funzionale. È indicativo il fatto che
sia proprio il
Dagda a
chiudere lo schema: la sua funzione non è guerriera, egli
sembra piuttosto una sorta di signore degli inferi che giunge
alla fine per consegnare i guerrieri sconfitti alla morte. Si
può pensare al Dis Pater
amato di martello che, negli anfiteatri romani, dava il colpo
di grazia ai gladiatori morenti dopo la battaglia.
La
funzione della mazza
del
Dagda viene più accuratamente
definita in un
racconto appartenente del Ciclo dell'Ulaid, il Mesca
Ulad. Nel corso della vicenda, la sentinella di guardia alla fortezza
di Crúachan scorge un uomo di
statura gigantesca, a testa di una strana compagnia,
avvicinarsi nella notte, e dalla sua descrizione i
capi delle fortezza comprendono che si tratta appunto del
Dagda Mór.
At-connarc
fer súilech slíastach slinnénach sármór sithfhata co sárbratt lachtnai imbi.
Secht ngerrchochaill cíara comshlemna imbi, girri cecb n-úachtarach, libru cach
n-íchtarach. Nónbur cechtar a dá tháeb. Lorg adúathmar íarnaidi 'na láim, cend
anbthen fhurri ocus cend álgen. Ba sed a reba ocus abairti, fuirmid
in cend n-anbthen for cendar na nónbor condas-marband raa braithiud n-óenúaire.
Fuirmid in cend álgen forru condas-bethaigend issinn úair chétna. |
Ho
visto un uomo con grandi occhi,
grandi cosce e grandi spalle,
altissimo, immenso, in uno
splendido manto scuro; sette
mantelline nere lisce attorno alle
spalle, più corte quelle sopra, più
lunghe quelle sotto. Ha nove uomini
a lato; in pugno una spaventosa
mazza di ferro che da una parte è
nodosa e dall'altra levigata. Ecco
le sue prodezze: porta la
parte nodosa della mazza sulla testa dei nove
uomini, uccidendoli in un batter
d'occhio; porta poi su di loro la
parte levigata risuscitandoli
all'istante. |
Mesca Ulad [81] |
Al contrario
della descrizione fornita dalla
Cath Maige Tuired, l'abbigliamento del
Dagda è qui definito «splendido». Il gigantismo, elemento formale presente in molti
personaggi eroici della letteratura irlandese, viene particolarmente sottolineato. Il
Dagda vi compare come un essere soprannaturale che
esibisce il potere della sua mazza dispensando quasi per gioco la morte e la
vita. I tratti eccezionali di questa descrizione rientrano
nell'esagerazione epica tipica di molti racconti del Ciclo
degli Ulati, ma qui possiamo senz'altro escludere l'intento
comico e cercarvi piuttosto un senso del meraviglioso.
Un'eco di questo motivo lo ritroviamo ancora una
volta nei Mabinogion gallesi, nella scena
in cui il principe
Pwyll scende in combattimento contro
Hafgan e colpisce il suo avversario una sola volta,
evitando di finirlo assestandogli un secondo colpo, in quanto
era stato messo in guardia da
Arawn, re di
Annwfn (l'oltretomba gallese), che il primo colpo avrebbe ucciso
Hafgan, ma il
secondo lo avrebbe riportato in vita.
(Mabinogion > Pwyll pendefyg Dyfed)
Molti
studiosi, tra cui De Vries, hanno creduto di riconoscere nella clava del
Dagda il martello del dio-tuono scandinavo
Þórr e il vajra del dio-tuono
indiano Indra. Se questo fosse vero,
se ne dovrebbe dedurre che il
Dagda sia
egli stesso una sorta dio-tuono (e d'altronde
De Vries mette anche in relazione la ruota che sostiene la mazza del
Dagda
con la ruota che compare nelle figurazioni del dio identificato con
Taranis) (De Vries
1961). Tale correlazione purtroppo non regge a un'analisi più approfondita: le armi impugnate da
Þórr e da Indra
sono ipostasi del fulmine, il loro rumore è il rombo del tuono. Nulla di tutto questo si può dire della strana mazza del
Dagda, che scava lunghi solchi nella terra
ed è in grado di uccidere quanto resuscitare. Non si può negare che anche il
Mjǫllnir impugnato da
Þórr poteva essere usato per consacrare
i matrimoni e,
all'occorrenza, riportare in vita i due caproni che il dio aveva ucciso per
mangiarli. Questi aspetti sono tuttavia occorrenze secondarie di un
martello che rimane a tutti gli effetti un'arma fulminante, un'arma di cui
conosciamo bene il potere micidiale tante volte impiegato
a danno di mostri e giganti, mentre la mazza del
Dagda non solo non ha
nulla a che vedere con i
fulmini, ma non viene mai impiegata come arma. Il
Dagda
si muove in un contesto
assai differente.
Ora, i
due medesimi attributi del
Dagda – calderone e clava – sembrano avere una stretta relazione con le figurazioni gallo-romane del cosiddetto
«dio col mazzuolo», il cui nome
gallico è Sucellos
(Duval 1954). Questa divinità era
appunto caratterizzata da questi due attributi: un vaso
simile a un'olla (che in certi casi assumeva l'aspetto di un piccolo
tino) che il dio reggeva con una mano, e un mazzuolo, in realtà una sorta di
scettro dal lungo manico, che il dio impugnava con l'altra mano.
L'uso dei due oggetti non è chiaro, anche se sicuramente il mazzuolo di Sucellos
– come la
mazza del
Dagda – non era un'arma. Almeno livello
di attributi, dunque, i rapporti tra il
Dagda
e
Sucellos
sembrano piuttosto stretti. Altri studiosi considerano invece questa somiglianza
abbastanza superficiale (De Vries 1961). ②
|
IV - IL DAGDA MÓR: LE IPOTESI DEGLI STUDIOSI
Per spiegare la figura
importante e insieme ingombrante del Dagda Mór,
gli studiosi hanno
avanzato un gran numero di ipotesi, più o meno condivisibili.
Alcune congetture appaiono francamente fuori luogo, come
quella di sir John Rhŷs, secondo la quale il Dagda Mór
sarebbe stato un dio atmosferico (Rhŷs
1905), o quella di Alexander MacBain, che
parla invece di un dio uranico (MacBain
1917).
Ugualmente insostenibile l'interpretazione etimologica di Jan De Vries,
secondo il quale il nome Eochaid (da un indoeuropeo
*EKWO
«cavallo») sia indicativo di un carattere solare del Dagda,
in quanto «fin dai tempi più
remoti il cavallo è un simbolo del sole molto diffuso» (De Vries 1961). A parte l'eccessivo
salto semantico, l'interpretazione di De Vries avrebbe senso se
Eochaid fosse un nome esclusivo del personaggio, invece di essere
piuttosto comune tra i sovrani e gli eroi della mitologia
irlandese. Anche l'epiteto di
Ruad Rófessa «Il rosso che
molto conosce», per De Vries, giustificherebbe
l'interpretazione solare del dio, in quanto si alluderebbe
alla faccia incandescente del sole che vede tutto quanto
accade sulla terra (De Vries 1961).
Più
meditata, a nostro parere, l'opinione di John MacCulloch,
secondo cui il Dagda Mór
sarebbe stato un antico dio legato alla terra e
all'agricoltura, alla ricchezza e alla fertilità. Egli nota come il Dagda
avesse potere sul grano e sul latte, e come si sia battuto per
impedire che gli altri dèi distruggessero questi importanti
alimenti dopo la loro sconfitta a opera dei
Clanna Míled. MacCulloch
sottolinea il fatto che il Dagda
custodisse nel suo síd una serie di oggetti legati alla sfera della
prosperità e della ricchezza: un calderone inesauribile, i maiali di cui
uno era sempre vivo e l'altro pronto per essere cotto,
un barile di birra che non si svuotava mai, tre alberi sempre
carichi di frutti. MacCulloch propone anche, con una serie di
interessanti paralleli, di identificare il Dagda con il dio
Cromm Crúaich il cui idolo si
levava a Mag Slécht e a cui gli Irlandesi sacrificavano a
samain un
terzo dei loro figli per avere latte e grano.
(MacCulloch 1911)
L'opinione di MacCulloch
è compatibile con quella che vede nel Dagda
un antico dio dell'oltretomba. Alcuni dei suoi
attributi, quali una clava in grado di uccidere quanto di
resuscitare i morti, e il calderone inesauribile, indicherebbero questo carattere di signore della
morte e della rinascita. Inoltre l'epiteto ollathair
«padre di tutti», viene messo in correlazione con il Dis Pater
di cui riferisce Caesar, progenitore del popolo gallico
(De
bello Gallico [VI: 18]). Questa tesi è
sostenuta da Françoise Le Roux
(Le Roux 1955) ma viene
recisamente negata da
De Vries (De Vries 1961).
Diversi
autori hanno visto nel
Dagda un dio legato alla
sfera druidica, quindi alla sapienza e alla conoscenza delle
cose misteriose e profonde. Dopo aver fatto notare come
il calderone del Dagda
possa essere messo in relazione con il recipiente utilizzato
dai druidi per i loro sacrifici, De Vries riferisce di un testo irlandese in cui
il Dagda
stesso
viene definito
dia draidechta «dio del druidismo» (De
Vries 1961). Le Roux, la quale nega che il Dagda abbia
qualcosa a che vedere con l'agricoltura,
sembra essere d'accordo su questo punto con De Vries e
definisce il Dagda
«druido degli dèi e dio-druido» e lo descrive come «il dio del contratto e
dell'amicizia, il patrono dei giuristi e degli attaccabrighe»
(Le
Roux 1970-1976).
Altri
autori, hanno invece sottolineato
il carattere regale del Dagda Mór,
collocandolo nella sfera delle divinità supreme
(De Vries
1961 | Dumézil 1977 | Markale 1988). A nostro avviso,
però, pur non negando la presenza di una componente regale
nella figura del Dagda,
crediamo che sia eccessivo definire il personaggio su questi
termini. Si veda [INFRA]▼
Come
dunque si
vede, gli studiosi hanno cercato di collocare il Dagda Mór
in tutte le categorie funzionali, facendone via via un dio della
sapienza e del druidismo, un dio della fecondità e della
ricchezza, un dio dell'oltretomba, un dio supremo. Le ipotesi
coprono in buona misura la prima e la terza funzione duméziliana.
La seconda funzione sembra invece assente: le rappresentazioni
del Dagda
come guerriero sono rare e poco significative, nonostante Jean
Markale affermi il contrario
(Markale 1985). In effetti, gli
studiosi che hanno studiato la figura del Dagda, sono stati costretti a sottolinearne le
variegate capacità e caratteristiche, senza riuscire a incasellarlo
univocamente in questa o quella sfera funzionale. Il fatto è
che il Dagda si presenta, come
Lúg, dotato
di un ampio spettro funzionale. È il Dagda
stesso a sottolineare le sue multiformi capacità, nella scena
in cui si rivolge all'assemblea delle
Túatha Dé Danann dichiarando: «I poteri
che voi vantate di possedere, io li posso esercitare da solo»
(Cath Maige Tuired
[81]).
Ed è proprio questa frase a definire il personaggio,
tanto che gli procurerà il nome con il quale egli è
conosciuto: Dagda
Mór,
il «grande dio bravo».
|
V - IL DAGDA MÓR: POSSIBILI OMOLOGIE NEL
PÁNTHEON CONTINENTALE
Nel
tentativo di comprendere la figura del
Dagda, gli studiosi hanno tentato
possibili comparazioni con figure analoghe della mitologia
celtica continentale, anche se in molti casi si sono scontrati
con i problemi di interpretazione che già sussistono sulle
divinità galliche. Così Sylvia e Paul Botheroyd, nel loro
recente e pregevole dizionario di mitologia celtica, scrivono
riguardo al
Dagda: «Nome, aspetto, imprese,
rivelano in ogni momento che si tratta di un dio che nel
pantheon irlandese occupava il posto di uno
Zeús o di un
Iuppiter, aveva dei tratti in comune con il
Taranis
continentale e Teutates, e inoltre ricopriva le sfere d'azione
di un Dis Pater o di
Sucellos»
(Botheroyd ~ Botheroyd 1992-1996).
Affermazioni come questa mostrano quanto sia facile stabilire identificazione tra divinità diverse
operando su basi superficiali. Per esempio,
l'analogia tra il
Dagda e Teutates
si basa chiaramente su un'affinità etimologica. Da una parte il
Dagda che è detto
Ollathair
«padre di tutti», dall'altra parte Teutates che è
appunto touta tates «padre delle tribù». Peccato che
quel poco che sappiamo su Teutates lo
avvicina piuttosto a un
Mercurius o a un
Mars. Allo
stesso modo, è facile identificare il
Dagda «dio buono» con il dio gallico
Esus «il buono»
basandosi semplicemente sul significato dei nomi. Eppure, quel poco che sappiamo di
Esus rende difficile una
sua identificazione con il
Dagda, senza considerare che
abbiamo visto quali sfumature di significato può nascondere il
nome del dio irlandese («buono» non in senso morale, ma nel
significato di «abile, bravo»).
Eliminando quindi le ipotesi più superficiali e quelle troppo fantasiose, le identificazioni
più pertinenti avanzate dagli studiosi si riducono a due: se il
Dagda Mór sia da considerarsi
l'equivalente irlandese dello
Iuppiter gallico o
piuttosto del Dis Pater
gallico.
Che il Dagda Mór
possa l'omologo
irlandese dello Iuppiter
gallico, è un'ipotesi sostenuta da studiosi autorevoli e
continuamente riproposta nei libri di divulgazione. Tra i sostenitori vi è uno
studioso del calibro di Jan De Vries, il quale arriva alla
conclusione che «il
Dagda
irlandese, nei suoi tratti fondamentali, corrisponda in modo
tale al dio dei Galli che Caesar designa col nome di Iuppiter,
da poterli equiparare entrambi» (De Vries
1961). Lo stesso Georges Dumézil
afferma a più riprese il carattere supremo del
Dagda (Dumézil 1977). Anche Jean Markale ritiene che il Dagda
sia una divinità suprema, identificabile con lo Iuppiter
gallico, pur sottolineandole i molti punti di contatto con Dis Pater,
e conclude affermando salomonicamente che il
Dagda «sarebbe a un tempo Iuppiter e Dis Pater»
(Markale 1985). Perfino Françoise Le Roux,
sostenitrice storica di un'identificazione tra il
Dagda e Dis Pater,
esordisce in un suo articolo definendo il Dagda
«l'equivalente irlandese di Iuppiter», pur senza
spiegarne le ragioni
(Le
Roux 1970-1976).
Ma quali
ragioni giustificano un'identificazione del Dagda Mór
con lo Iuppiter
gallico? Gli studiosi che
sostengono quest'ipotesi sembrano basarla unicamente sulla lettura del
Dagda quale sovrano e padre dei
Túatha Dé Danann. De Vries, parlando del Dagda «padre di tutti» [Ollathair],
scrive al riguardo: «Questa denominazione si riferisce alla
sua eminente posizione nella stirpe divina dei: egli è dunque
il dio supremo» (De Vries 1961).
Sorprende una simile affermazione da parte di un così insigne
studioso! Tanto più che la nozione di padre universale e
quella di re degli dèi non si implicano
necessariamente a vicenda. Lo stesso errore viene commesso da Jean Markale:
«Forse che, presso i Galli, non vi era un dio celeste, padre
degli altri dèi, come lo Zeús-Iuppiter dei
Greco-Romani? Sarebbe davvero sorprendente, tanto più che
Caesar lo menziona». E conclude: «Fortunatamente l'Irlanda ha
conservato il nome del suo dio celeste padre di tutti. Si
tratta del Dagda...»
(Markale 1985). Peccato che Caesar
distingua il dio celeste Iuppiter
dal
Dis Pater padre di tutti.
La nostra
impressione è che tali affermazioni siano viziate da una
confusione tra lo Iuppiter
gallico e lo Iuppiter
romano. Se nello Iuppiter romano convergevano le
nozioni di re degli dèi e di padre universale (quest'ultima
palesata dalla stessa etimologia del nome del dio che, com'è
noto, proviene da un *Deus Pater), questo non avveniva per lo Iuppiter gallico, il quale, secondo la testimonianza di
Caesar, era
soltanto il re degli
dèi, mentre toccava a
Dis Pater, signore degli inferi, la nozione di padre di
tutti.
Parallelamente,
non si può neppure sostenere che il
Dagda Mór fosse il dio supremo
delle
Túatha Dé Danann. Innanzitutto non è chiaro che cosa
si intenda per «dio supremo», tanto più che una simile
affermazione, ricondotta al sistema gallico riferito da
Caesar, ci porterebbe nell'orbita di
Mercurius più che in
quella di Iuppiter.
E se invece ci riferiamo al Dagda
come a un sovrano istituzionale, quale lo Iuppiter
gallico, rimaniamo di nuovo delusi, perché tra le
Túatha Dé Danann questo
ruolo è
ricoperto da
Núada Aircetlám.
A un'attenta analisi, dunque, l'ipotesi di
un'omologia tra il
Dagda Mór e lo
Iuppiter gallico si rivela inconsistente. |
VI - È POSSIBILE ATTRIBUIRE AL
DADGA CARATTERI REGALI?
Molto
spesso, nella letteratura di divulgazione, ci si riferisce al
Dagda Mór come a un dio
sovrano, re delle
Túatha Dé Danann. Questa
concezione si riflette immancabilmente sulla definizione del
personaggio, che finisce per essere omologato allo
Iuppiter cesariano, il quale era però un antico dio-tuono
e sovrano istituzionale: tali facili
identificazioni rischiano di alterare irrimediabilmente
l'interpretazione e la fisionomia del
Dagda. Ma come
adesso vedremo, non si può sostenere che il
Dagda Mór sia caratterizzato da
vere e proprie qualità regali.
Certo non si può negare che il
Dagda Mór compaia nelle liste
regali irlandesi come uno degli antichi re delle
Túatha Dé Danann. Gli
Annála Ríoghdhachta Éireann
assegnano la sovranità su Ériu a nove Re Supremi di stirpe danann,
tra i quali il
Dagda è quello che avrebbe retto il
regno più a lungo:
Di questi personaggi, l'unico strettamente caratterizzato come
sovrano istituzionale è
Núada. Si può ancora parlare di regalità per
Lúg,
che è un sovrano sovrafunzionale, ma nessuno degli altri
personaggi viene definito da una natura regale, a cominciare dallo stesso
Bress il cui regno fu un disastro per il popolo di Ériu.
Queste liste sono in realtà soltanto l'assestamento di una
storiografia posteriore, costruita con metodo evemeristico, al
tempo in cui i redattori dei testi avevano smesso di credere
agli antichi miti (si può fare un raffronto con le genealogie
dei re di «Troia» presentate da Snorri nell'introduzione alla
sua
Edda).
D'altra
parte il
Dagda viene a volte presentato
espressamente come re in alcuni testi mitologici, come
ad esempio nel
Tochmarc Étaine,
che così principia la narrazione:
Bai ri amra
for Eirinn do Thuathaib De a chenel, Eochaid
Ollathar a ainm. Ainm n-aill do dano an
Dagda, ar ba hé dognith na firta ocus
conmidhedh na sina ocus na toirthe
doib. Ba head asbeirdis combo dé asberthe
Dagda fris. |
Regnava su
Ériu un famoso re della
stirpe delle
Túatha Dé
di nome
Eochaid Ollathair. Era
anche chiamato il
Dagda perché
compiva meraviglie e regolava il
tempo e il raccolto: per questo, si
dice, l'avevano chiamato
Dagda. |
Tochmarc Étaine [1] |
Dopodiché
il testo inizia il racconto con la seduzione, da parte del
Dagda, della moglie di
Elchmar,
re del Bruig na Bóinne. Questo è il sito preistorico di
Newgrange sul fiume Boyne, che la tradizione considera
però residenza dello stesso
Dagda. Secondo la leggenda, al momento di lasciare l'Irlanda per
stabilirsi nel sottosuolo, il
Dagda assegnò i vari síde ai
membri delle
Túatha Dé e scelse per sé proprio la dimora del Bruig
na Bóinne. Il fatto è che il
Dagda ha poco a che vedere con Temáir,
tradizionale residenza del Re Supremi di Ériu, e molto con il
Bruig, che sarà la sua residenza occulta e inaccessibile al
tempo in cui le
Túatha Dé Danann scenderanno nei síde. Quella del
Dagda, insomma,
sembra la regalità di un
Dis Pater non quella di uno Iuppiter.
La figura
del
Dagda sembra celare piuttosto una sorta di
antico signore dell'altro mondo; una figura di sovrano sì, ma del regno
misterioso e sotterraneo in cui dimorava il popolo dei síde.
|
VII - IL DAGDA MÓR, «PADRE DI
TUTTI»
Compito delicato è stabilire
che cosa indichi esattamente questo titolo di Ollathair
«padre di tutti», assegnato al Dagda Mór.
È facile essere condotti fuori strada, e abbiamo visto in fatti che tale epiteto
non indica necessariamente uno status di dio supremo, come hanno
frettolosamente opinato alcuni studiosi, tramandando una visione distorta del
personaggio.
La
prima cosa da notare è che, a dispetto del suo epiteto di Ollathair,
nei testi mitici il
Dagda Mór, pur vantando una
numerosa discendenza, non viene mai caratterizzato come capostipite delle
Túatha Dé Danann. Inoltre,
stando alle genealogie riportate dal
Lebor
Gebála Érenn e
da Seathrún Céitinn (Geoffrey Keating) nei suoi
Foras feasa ar Éirinn,
la posizione del
Dagda nella genealogia danann non ha
una posizione particolarmente privilegiata (¹).
Si ha
dunque ragione di pensare che l'epiteto di Ollathair «padre di tutti»
risalga a uno schema mitologico assai più antico di quello a noi tramandato dai
testi. Lo dimostra la stretta correlazione di questo con l'epiteto
Allföðr «padre di
tutti» che in Scandinavia è attribuito a
Óðinn.
Ma questa evidenza non deve portarci a creare qualche artificiosa analogia tra
Óðinn
e il
Dagda,
i quali sono e rimangono due personaggi completamente differenti, per quanto destinatari
finali di un medesimo epiteto.
Óðinn
era, come sappiamo, l'esito scandinavo del dio germanico che Tacito identificava
con Mercurius; e sempre Tacito ci informa che gli
antichi Germani consideravano un certo Mannus – non Mercurius
– loro padre universale. Ne risulta che fu
Óðinn,
nel corso dello sviluppo della mitologia scandinava, ad appropriarsi del titolo
di
Allföðr
che in origine non gli competeva.
La ricerca di un equivalente
gallico del «padre di tutti» non è né lunga né difficile. È lo stesso Caesar a metterci sulla pista giusta
quando scrive:
Galli se
omnes ab Dite patre
prognatos
praedicant idque ab
druidibus proditum
dicunt. |
I Galli
affermano di discendere
tutti da
Dis
pater e
che questa tradizione è stata
tramandata dai druidi. |
Caius Iulius Caesar: De bello Gallico [***] |
Si può certamente ritrovare
nel
Dis Pater cesariano l'origine celtica continentale del
titolo di
Ollathair «padre di tutti»
attribuito al
Dagda Mór.
Addirittura, Françoise Le Roux ritiene a tutti gli effetti che il
Dagda Mór sia l'esito irlandese
del
Dis Pater gallico (Le Roux 1955).
Ma, ripetiamo, anche se l'ipotesi della Le
Roux è decisamente intrigante, rimane pur sempre il fatto che nulla nel mito
irlandese fa supporre che il
Dagda Mór sia una sorta di
progenitore delle stirpi umane, o magari soltanto delle
Túatha Dé Danann. È evidente
che i redattori cristiani rielaborarono le genealogie tradizionali innestandole
opportunamente sul tronco di quelle bibliche, in modo da non creare
contraddizioni con quanto riferito dalle Sacre Scritture, e questa è la ragione
per cui non è stato tramandato alcuno un mito irlandese della creazione del
mondo o degli uomini. È dunque possibile che i redattori dei testi abbiano
alterato consapevolmente la genealogia del
Dagda, trasformandolo da un dio
progenitore a un semplice eroe e sovrano danann.
Ma può anche darsi che
questo epiteto di Ollathair «padre di
tutti» vada
inteso in altra maniera.
Una prudente definizione ci viene fornita da Cormac mac Culennáin, il
quale spiega nel
Sanas Cormaic
che il Dagda venne chiamato Ollathair
perché «fu come un grande padre per le
Túatha Dé Danann» (MacCulloch 1911).
L'informazione di Cormac riesce a definire il ruolo del Dagda
nell'ambito
pantheon danann senza creare alcuna contraddizione con quanto riferito dai testi
mitologici. Lungi dall'essere un dio progenitore, il Dagda,
almeno nella fase più tarda, verrebbe dunque a essere una sorta di padre
spirituale delle
Túatha Dé Danann, così come un sacerdote è chiamato «padre» dalla
congregazione dei fedeli da lui assistita. Stando a Cormac, il Dagda
sarebbe piuttosto il
druido degli dèi, e questa – lo abbiamo visto – è anche la più probabile
interpretazione del ruolo funzionale del personaggio. Sia come sia, la questione
rimane aperta.
|
VIII -
IL DAGDA MÓR:
CONCLUSIONE
In conclusione, il
Dagda Mór
è un dio dalle molte capacità e sfaccettature, essenzialmente appartenente alla prima funzione.
È un dio della scienza druidica, intesa sia come sapienza delle cose misteriose e
profonde, ma anche come ordine istituzionalizzato delle pratiche inerenti
alla sfera del sacro.
Riteniamo
invece fuorviante
considerare il
Dagda
un dio supremo o
comunque un personaggio investito di qualche sorta di regalità. Il suo status
di re delle
Túatha Dé Danann
sembra infatti una derivazione accessoria presente nei tardi annali storici
irlandesi, che non caratterizza in alcun modo la definizione del personaggio. Il
Dagda non
ha nulla a che vedere la regalità guerriera: la sua autorità sembra stendersi
piuttosto sul regno dei síde: è lui a decidere quali saranno le residenze
sotterranee delle
Túatha Dé Danann
dopo la sconfitta a opera dei Milesi, e quindi a instaurare
il regno occulto e misterioso in cui essi andarono a risiedere quando
abbandonarono l'Irlanda agli antenati dei Gaeli.
Il
Dagda risulta essere piuttosto un dio dell'oltretomba, legato alla morte
e alla rigenerazione. La sua clava che può tanto uccidere che far risorgere i
caduti e, in parte, il suo calderone inesauribile, sembrano connetterlo a
questa sfera soprannaturale. Non bisogna però pensare a un oltretomba di tipo classico
– ciò che svierebbe immancabilmente l'interpretazione del personaggio – ma all'aldilà celtico,
sorta di terra dei beati dove si conserva la perfezione originaria e il dono
dell'immortalità.
Il
Dagda non è dunque uno
Iuppiter, ma corrisponde probabilmente al
Dis Pater
gallico, signore dell'oltretomba, da cui i Galli, stando a un passo di Caesar,
ritenevano di discendere. Questo potrebbe spiegare il titolo di ollathair «padre di tutti»
attribuito al
Dagda, anche se le fonti irlandesi non
lo presentano come progenitore ma piuttosto come una sorta di padre spirituale.
È tuttavia probabile che i redattori dei testi irlandesi abbiano modificato le
genealogie divine, allo scopo di censurare qualsiasi riferimento a miti
antropogonici incompatibili con il dato biblico.
Poiché è
a sua volta probabile
che il
Dis Pater cesariano vada identificato nelle immagini
gallo-romane del Dio del
Mazzuolo, il cui nome gallico è Sucellos, ne deriva che il
Dagda può
essere messo in correlazione con questo spettro di figure. La
clava del
Dagda potrebbe corrispondere al mazzuolo-scettro impugnato da
Sucellos, il suo calderone con
l'olla che Sucellos regge
nell'altra mano e che, accessoriamente, è un vero e proprio tino. Ricordiamo
ancora che in rare figurazioni il Dio del
Mazzuolo veste una pelle di lupo ed è chiamato
Dis Pater.
L'identificazione tra
il
Dagda e
Sucellos ha messo d'accordo la
maggioranza degli studiosi. Purtroppo riguardo a
Sucellos non abbiamo
molte informazioni a quel poco che si è ottenuto dall'epigrafia e
dall'iconografia gallo-romane, oltre a qualche laconica informazione desumibile
dalle fonti classiche. Ma del resto anche la figura
irlandese del
Dagda non emerge sempre in modo chiaro. Tutto ciò che ci è
pervenuto di quest'ultimo è il prodotto di una lunga evoluzione locale, filtrata per di più
attraverso le interpretazioni dei monaci che ci hanno tramandato le fonti.
Quanto abbiamo riferito, sono soltanto ipotesi e supposizioni.
|
IX — ESITI FOLKLORICISTICI E LETTERARI: DAL DAGDA A GARGANTUA
|
Gargantua |
Illustrazione di Gustavo Doré per il romanzo
di Rabelais, |
Il
gigantismo che caratterizza il
Dagda Mór,
i suoi eccessi alimentari e sessuali, meriterebbero di essere
analizzati alla luce di certi loci della tradizione popolaresca, quel «realismo grottesco» materiale e corporeo, esagerato e non di
rado triviale, di certe rappresentazioni medievali, di cui Michail Bachtin ha sottolineato la forte
valenza positiva (Bachtin 1965). Al proposito, Jean
Markale ha notato come molti degli elementi presenti nell'immagine eccessiva che i testi irlandesi ci dànno del
Dagda, li ritroviamo pari pari in un
popolare personaggio della letteratura francese, il gigante
Gargantua
(Markale 1985).
Gargantua fa la sua comparsa nella
letteratura – a quanto ne sappiamo – nel 1532, col racconto anonimo
Les grandes et inestimables croniques du grant et enorme geant Gargantua,
erroneamente attribuito a François Rabelais, dove si dice tra l'altro che il padre e la
madre di
Gargantua furono creati dal mago
Merlino grazie ai suoi incantesimi. È però proprio
di
Rabelais il romanzo a cui
Gargantua e suo figlio
Pantagruel devono la loro fama universale,
Gargantua et Pantagruel, la cui edizione
definitiva fu pubblicata a Lione
nel 1542.
Ma
quando erano approdati sulle pagine dei romanzi cinquecenteschi,
Gargantua e Pantagruel
avevano già alle spalle una lunga carriera come personaggi delle tradizioni
popolari francesi. Rabelais e il suo anonimo predecessore non li avevano
inventati, ma soltanto recuperati e aggiornati alla mentalità rinascimentale.
Ironicamente, l'eroe che nelle intenzioni di Rabelais doveva rappresentare l'homo
novus dell'Umanesimo,
era una grottesca figura del folklore medievale.
Purtroppo sappiamo ben poco dell'antico Gargantua.
Dovette essere un personaggio di una certa importanza se, come nota Markale,
la toponimia francese presenta una gran quantità di luoghi detti «passo di Gargantua», «poggio di Gargantua» e
simili. Ritroviamo inoltre questo nome in toponimi quali il Mont Gargan nel
Limousin, il Livry-Gargan nella regione parigina e persino nel nome del Monte
Gargano in Italia
(Markale 1985).
Se
Pantagruel era in origine una sorta di dèmone maligno delle credenze
medievali,
Gargantua, secondo l'idea di Henri Dontenville,
ripresa da Markale, sarebbe stato un'antica divinità gallica, il cui ricordo si
sarebbe conservato nella memoria popolare malgrado tutti i tentativi di
rimozione o di cristianizzazione (Donteville 1973 | Markale 1985). Il dio originale,
caratterizzato da forme gigantesche e da una voracità proporzionata alla
mole,
sarebbe stato legato alle nozioni di abbondanza, forza e potenza sessuale. Markale ritiene possa essere possibile che proprio in questo antico dio
(da lui identificato con lo
Iuppiter
cesariano) si debba vedere l'esito celtico continentale del
Dagda Mór
irlandese (Markale 1985).
Una
traccia letteraria di questo personaggio la
ritroviamo
nella Historia regum Britanniae di Gaufridus
Monemutensis, dove il personaggio viene recuperato
come re di Bretagna con il nome di
Gwrgant Barba-di-porco, il quale, nel corso di una
spedizione navale, si incontra con un certo
Partholwn (il
Parthólon dei miti
irlandesi!), chiaro segno di una tradizione comune che sottintende gli esiti dei
personaggi e delle situazioni mitologiche nei vari paesi del dominio
celtico.
Il nome stesso del gigante, Gargantua, andrebbe collegato al francese gueule «fauci, gola»
(cfr.
gargouille «doccione»), termine derivato da una radice che avrebbe dato il latino gurgem, da cui parole come «ingurgitare» o di significato affine. Anche i nomi dei
genitori di Gargantua,
Grandgousier e Gargamelle, insistono sulla
medesima radice. Appartiene alla stessa area semantica anche il nome della
moglie del gigante, Badebec, che sembra derivare da
bouche «bocca». Markale ammette che tale etimologia sia stata costruita
tenendo conto del carattere «rabelesiano» del personaggio e non dell'effettiva
origine del personaggio, che sarebbe celtica continentale. Si tratterebbe dunque
di una paraetimologia, costruita a posteriori, mentre l'originario nome celtico
del personaggio (che Markale ritiene fosse
*Gargan), doveva avere ben altro
significato. È anche vero che Rabelais aveva
fatto di tutto per valorizzare l'aspetto grande gueule di
Gargantua, cosa che
non era in contraddizione con uno degli aspetti del
Dagda,
ma lo fece soprattutto a causa della chiave di lettura imposta al personaggio, la cui
«voracità» doveva simboleggiare la curiosità intellettuale dell'umanista del
Cinquecento (Markale 1985).
|
X - IL DAGDA E LA MÓRRÍGAN
La
Mórrígan è la furia guerriera, una sorta di dea filatrice del destino, che
– come le valchirie del mito germanico – prefigura e in certa misura stabilisce l'andamento delle
battaglie. Tramite l'atto sessuale con la Mórrígan,
il
Dagda Mór ne ottiene
l'appoggio contro i Fomóire. È indicativo è il fatto che
l'unione avviene nel giorno di Samain, particolare che le dà un carattere di
eternità, poiché tutto ciò che avviene in questo giorno di transizione è «per sempre».
La scena della
Mórrígan presentata nel
Cath Maige Tuired,
che si bagna nel fiume Uinnius tenendo un piede su una sponda e l'altro
sull'altra, ricorda irresistibilmente una scena della
Prose
Edda di Snorri, in cui
Þórr, recandosi alla dimora del gigante
Geirrøðr, incontrò la figlia di questi,
Gjálp, posta a cavalcioni
sulle sponde del fiume Vimur, e intenta a ingrossarlo orinandovi dentro. Allora
Þórr prese dal fiume una grossa pietra e
la lanciò contro la gigantessa dicendo: «Un fiume dev'essere arginato alla
sorgente!» E non mancò il bersaglio. (Skáldskaparmál [4])
Detto
questo, bisogna però aggiungere che, anche se è possibile sottolineare l'affinità formale tra la gigantessa
germanica e la dea celtica, entrambe ritte a cavalcioni di fiume, il significato
che è alla base dei due miti è completamente differente.
|
XI — IL DAGDA PRESSO I FOMÓIRE
La scena in cui il
Dagda Mór arriva presso i
Fomóire ed è costretto a ingurgitare una
impressionante quantità di cibo, e ancora, la scena successiva
del suo accoppiamento con la figlia di Indech,
sono descritte con accenti così grotteschi che più di uno studioso ha proposto
si trattasse di invenzioni della fantasia dei monaci che hanno compilato il
Cath Maige Tuired, forse allo scopo di screditare
quella che in definitiva era un'antica divinità pagana.
Abbiamo già sottolineato come questa idea non regga. È tuttavia
probabile che la grande voracità del
Dagda, nonché il violento appetito sessuale
che dimostra subito dopo per la figlia di Indech,
siano elementi di un mito molto antico, come si può scorgere dal confronto con
scene provenienti da tradizioni molto diverse.
Per l'esattezza ritroviamo una scena simile nella
Prose
Edda di Snorri.
Durante uno dei suoi vagabondaggi,
Þórr
giunge nella dimora del gigante
Útgarðaloki,
dove lui e i suoi compagni sono sottoposti a gare e giochi di abilità. In
particolare,
Þórr
viene sfidato a vuotare in tre sorsi un corno gigantesco.
Þórr ci
prova, ma per quanto beva, il corno sembra inesauribile. Dopo che egli crede di
aver fallito la prova, i giganti gli rivelano che il corno attingeva direttamente al mare
e che con soli tre sorsi egli era riuscito ad abbassarne sensibilmente il
livello
(Gylfaginning [46-47]). Questa sfida ricorda – anche se con esito diverso
– il geis che i
Fomóire lanciano
sul
Dagda Mór, obbligandolo a
trangugiare un'enorme quantità di porridge, cosa che il
Dagda fa agevolmente, per poi cadere
addormentato.
Melita Cataldi interpreta
questa scena come un tentativo da parte dei
Fomóire di indurre il
Dagda Mór
a infrangere le consuetudini formali legate al suo ruolo di ambasciatore. In
altre parole, poiché in qualità di araldo il
Dagda Mór ha garanzie
di incolumità, i
Fomóire per ucciderlo cercano un cavillo legale:
escogitano di offrirgli da mangiare una quantità enorme di cibo in modo che egli
sia costretto a rifiutarne una parte. La speranza dei
Fomóire era che il
Dagda
reagisse lamentando l'eccessiva quantità di
cibo lanciando loro una satira. La difesa da un satireggiamento ingiusto avrebbe
autorizzato i
Fomóire a ucciderlo. Invece il
Dagda Mór
trangugia tutto il
porridge e può così allontanarsi disturbato. (Cataldi
1985)
De Vries ritiene che alla base
del racconto possa celarsi una leggenda cultuale e ricorda che i partecipanti a
certi banchetti sacri dovessero mangiare tutto il cibo e le bevande, senza
lasciar avanzare nulla. In qualità dio-druido, il
Dagda presiedeva infatti a ogni sorta
di sacrificio. Il racconto del
Dagda costretto a divorare il pasto
fino all'ultimo boccone avrebbe appunto offerto una base mitica all'usanza in
questione (De Vries 1961).
Per quanto ingegnosa, tuttavia, l'ipotesi di De Vries ha il difetto dei
ragionamenti circolari: spiega il mito tramite un'usanza (non attestata) di cui
il mito sarebbe a sua volta una giustificazione a priori.
In seguito, il
Dagda,
dopo essersi allontanato barcollando per la gran pancia, viene sfidato a
battersi con una ragazza fomoriana, la figlia di
Indech; incapace di combattere, viene
pesantemente sconfitto e umiliato. Ma poi i due diventano
amanti e, possedendola, il
Dagda la obbliga a usare i suoi poteri contro gli
stessi
Fomóire.
Anche nel mito eddico avviene qualcosa di simile: subito dopo essersi cimentato con
la prova del corno,
Þórr viene
sfidato a combattere con la matrigna di
Útgarðaloki, una vecchia male in arnese, che
Þórr, nonostante i suoi sforzi, non riesce ad atterrare,
finendo lui stesso per piegare un ginocchio. In seguito
si scopre che la vecchia non è altro che Elli, la vecchiaia
stessa, contro cui nessun uomo l'ha mai spuntata, e che, nonostante tutto,
Þórr è riuscito a
resisterle.
Il mito scandinavo può forse gettare un po' di luce sulla sostanza
soprannaturale della ragazza che sfida il
Dagda. La figlia di
Indech è una figura
caotica, che
sovverte i tradizionali ruoli dell'uomo e della donna: deride il
Dagda, si mostra più forte di lui, gli impone di portarla
sulla schiena dopo essere riuscita a ripetere senza alcun errore il
lunghissimo nome del
Dagda. Ma
dopo essere stata posseduta dal
Dagda, ovvero ricondotta al ruolo
tradizionale della donna nei confronti dell'uomo, la ragazza acconsente ad
aiutare le
Túatha Dé Danann contro le schiere fomóire. È
probabile che l'episodio in cui il
Dagda si unisce con la figlia di
Indech
non sia che una diversa versione della scena con la
Mórrígan. In effetti il
Cath Maige Tuired
sembra essere un collage di narrazioni indipendenti.
Il particolare della caduta dei tre sassi dalla cintura del
Dagda Mór o,
come «altri dicono», dei suoi testicoli, rimane
incomprensibile. Ci si può chiedere perché il
Dagda abbia dovuto mettere dei sassi nella cintura, e
perché proprio tre. Nel caso si fosse invece trattato dei testicoli (in
questo caso due), la
perplessità aumenta, considerando che ci troviamo all'inizio di una scena
d'amore e non ha senso privare della propria virilità chi, tra poco, dovrà fare
un'efficiente dimostrazione di ars amatoria.
Una possibile
indicazione sul senso di questa scena ci potrebbe venire da una scena del
Rāmayāṇa avente
per protagonista il dio-tuono indiano, Indra. Il saggio Gautama viveva in un eremo assieme alla sua compagna
Ahalyā, con la quale praticava l'ascesi. Un giorno in cui
Gautama
era assente, Indra ne prese l'aspetto, si recò da
Ahalyā e la
sedusse. Ma proprio mentre Indra usciva dall'eremo,
Gautama lo scorse e lo maledì. Istantaneamente, i testicoli del dio
dai mille occhi caddero a terra. In seguito, però, Indra
li sostituì con quelli di un ariete.
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