MITI

CELTI
Irlandesi

MITI CELTICI
LE AVVENTURE DEL
D
AGDA MÓR
INCONTRO AL GUADO
Torniamo ora alla Cath Maige Tuired. Scaduti i sette anni di tregua, i Fomóire sbarcano in Ériu. Viene inviato a parlamentare il Dagda Mór, signore della sapienza e dell'arte druidica, la cui figura svela d'un tratto elementi grotteschi e paradossali.

1 - LA DONNA DEL FIUME UINNIUS

Il Dagda e la donna del fiume Uinnius
Illustrazione di Jim Fitzpatrick (1952-)
MUSEO: [Jim Fitzpatrick. The Silver Arm]►

ei dei sette anni di tregua erano già trascorsi e mancava ormai soltanto un anno alla grande battaglia che avrebbe deciso a chi sarebbe toccata la sovranità su Ériu, se alle Túatha Dé Danann o ai Fomóire.

Il Dagda Mór si recò a Glenn Edin, nel nord dell'isola, dove aveva una dimora. Aveva infatti predisposto di incontrarvi una donna, il giorno di Samain.

Arrivato a Corann, nel Connacht, trovò la donna che si bagnava nel fiume Uinnius. Teneva un piede ad Alloch Echae, cioè Echuinech, sulla sponda meridionale, e l'altro a Loscuinn, sulla sponda settentrionale. Nove trecce le scendevano dal capo. Il Dagda le parlò e i due si unirono in amore. Quel luogo fu da allora conosciuto come «letto della coppia» [Line na Lánomnou].

Quella donna era la Mórrígan, figlia di Ernmass.

La Mórrígan rivelò al Dagda che i Fomóire sarebbero sbarcati a Mag Céidne. Gli disse che avrebbe chiamato la áes dána di Ériu per incontrarsi con lei al guado del Uinnius, dove avrebbe lasciato le sue istruzioni per la prossima battaglia. E infine aggiunse che sarebbe andata nello Scétne per annientare il re dei Fomóire, Indech mac Dé Domnann: lo avrebbe privato del sangue e delle ghiandole del suo valore.

Più tardi, infatti, come aveva detto, la Mórrígan porse le mani insanguinate ai combattenti che aspettavano al guado del Uinnius. Da allora quel luogo avrebbe avuto nome «guado della distruzione» [Áth Admillte], poiché lì fu progettata la distruzione di re Indech. Fu allora che l'áes dána di Ériu pronunciò incantamenti contro le schiere fomóire.

Questo avvenne una settimana prima di Samain. Poi la Mórrígan e il Dagda Mór si separarono, e alla vigilia di Samain tutti gli uomini di Ériu si riunirono ancora una volta. Sei volte trentamila era il loro numero.

Glenn Edin è una località posta a nordovest del fiume Uinnius, oggi Unshin, che scorre tra Ballysodate e il lago Arrow, nella contea di Sligo.

Áes dána «gente d'arte» è un termine per indicare tutti coloro che praticano professioni libere, creative, quali artigiani, medici, musici, giuristi, eccetera. Ogni mestiere possedeva specifiche pratiche di magia: che la Mórrígan intenda accordarsi anche con l'áes dána di Ériu è giustificato dal fatto che la vittoria in battaglia si otterrà soltanto con l'accordo e le prestazioni di tutti. [GLOSSARIO]►

2 - IL DAGDA MÓR PRESSO I FOMÓIRE

Il Dagda alla prova del porridge
Illustrazione di Giacinto Gaudenzi
MUSEO: [Giacinto Gaudenzi. I Tarocchi del Celti]►

uando si chiuse anche l'ultimo dei sette anni di tregua, i Fomóire sbarcarono in Ériu, a Mag Céidne, proprio come la Mórrígan aveva profetizzato. Il giorno di Samain era ormai vicino.

Allora Lúg mandò il Dagda Mór a spiare le mosse dei Fomóire e a rallentare la loro avanzata, affinché i guerrieri delle Túatha Dé Danann potessero radunarsi per la battaglia. Il Dagda si recò all'accampamento nemico e chiese un rinvio. Ottenne ciò che aveva richiesto. Poi, per prendersi gioco di lui, i Fomóire gli cucinarono della zuppa d'avena, ben sapendo che ne era goloso: riempirono il calderone del re, profondo cinque pugni, con quaranta volte venti barili di latte fresco e una quantità equivalente di farina e grasso, poi ci buttarono dentro capre, pecore e maiali e li fecero bollire insieme alla zuppa. Infine versarono il contenuto del calderone in una grossa buca nel terreno.

Dopodiché Indech mac Dé Domnann, il re dei Fomóire, invitò il Dagda a mangiare quel porridge e gli disse che sarebbe stato messo a morte se non l'avesse finito tutto. Avrebbe dovuto mangiare a sazietà così che non potesse usare la satira contro i Fomóire.

Così il Dagda prese il suo mestolo, che era talmente grosso da poter contenere nell'incavo un uomo e una donna, e mangiò finché non ebbe finito tutto. Disse il Dagda: Buono è il brodo, se buono è il suo aroma. E quando metteva in bocca il mestolo, che conteneva la metà di un porco salato e un quarto di lardo, dichiarava: Come dicono i vecchi saggi, i pezzetti non guastano!

Dopo aver prosciugato completamente la buca, passò le dita sul fondo e grattò tutto quel che era rimasto tra la terra e la ghiaia. Terminato di mangiare si addormentò. Aveva la pancia più grossa del calderone centrale di una casa e i Fomóire ridevano di lui.

Il Dagda se ne andò poi a Tráig Eaba, ma non gli era facile muoversi da quanto era gonfia la sua pancia. Il suo abbigliamento era indecoroso: un corto mantello che gli copriva appena i gomiti e una tunica grigiastra che gli arrivava alla sporgenza del sedere e gli lasciava scoperto il pene. Ai piedi, calzari in pelle di cavallo con il pelo all'esterno. Si trascinava dietro la sua mazza, montata su ruote, la quale sarebbero riusciti a smuoverla soltanto otto uomini, tracciando un solco tanto profondo che sarebbe potuto servire come fossato di confine per un'intera la provincia. Per questa ragione quel solco venne chiamato «solco del bastone del Dagda» [Slicht Loirge an Dagdai].

3 - IL DAGDA E LA FIGLIA DI INDECH

ungo la strada, il Dagda Mór si trovò di fronte una ragazza giovane e bella, piacevole di forma, con lunghi capelli raccolti in splendide trecce. Il suo desiderio corse a lei, ma era impotente per colpa della pancia, e la giovane cominciò a deriderlo. Si batterono e lei lo sbatté a terra così forte che il Dagda sprofondò fino al sedere.

Il Dagda la fissò con ira: — Qual è la tua intenzione, ragazza?

— Questa è la mia intenzione, — rispose la giovane, — obbligarti a portarmi sulla schiena fino alla casa di mio padre, Indech mac Dé Domnann. — E lo urtò con tanta violenza che il solco attorno al Dagda si riempì con gli escrementi del suo stesso ventre. Poi lo satireggiò tre volte per obbligarlo a portarla sulla schiena. Ma il Dagda disse che su di lui gravava un geis che gli vietava di trasportare chiunque non lo chiamasse col suo vero nome.

— Qual è dunque il tuo nome? — chiese la ragazza.
— Fer Benn — rispose lui.
— Questo nome è esagerato! — rise la giovane: — Àlzati e portami sulla schiena, Fer Benn!
— Non è soltanto quello il mio nome — ribatté il Dagda.
— Qual è il tuo nome, ebbene?
— Fer Benn Brúach.
— Àlzati e portami sulla schiena, Fer Benn Brúach!
— Non è soltanto quello il mio nome — disse ancora il Dagda.
— Dimmi il tuo nome per intero, allora! — incitò la ragazza.

Il Dagda e la figlia di Indech
Illustrazione di Jim Fitzpatrick (1952-)
MUSEO: [Jim Fitzpatrick. The Silver Arm]►

Il Dagda le sciorinò allora il suo lunghissimo nome, convinto che la giovane non avrebbe mai saputo ripetere per intero, ma lei lo ripeté senza commettere un solo errore:

— Àlzati e portami sulla schiena, Fer Benn Brúach Brogaill Broumide Cerbad Caic Rolaig Builc Labair Cerrce Di Brig Ollathair Boith Athgen mBethai Brigtere Tri Carboid Roth Rimaire Ríog Scotbe Obthe Olaithbe! Àlzati e portami via da qui!

Il Dagda dovette assentire alla richiesta. — Lo farò, ma tu smetti di deridermi, ragazza!
— Non sarà certo difficile — ribatté lei.

Prima di uscire dalla buca, il Dagda terminò di svuotarsi la pancia e la figlia di Indech dovette aspettare che avesse finito. Poi egli si alzò e fece per prendersi la ragazza sulla schiena. Così facendo mise nella cintura tre pietre che caddero una a una (ma altri dicono che a cadere furono i suoi testicoli). La ragazza gli saltò sopra e così facendo le si scoprirono i riccioli del pube. Allora il Dagda fu preso da improvvisa passione. Si trovavano a Trácht Eboile, e là resta tuttora il segno di dove giacquero.

La figlia di Indech disse poi al Dagda: — Tu non andrai in battaglia. Non ci andrai perché io sarò una pietra alla bocca di ogni guado che dovrai attraversare.

— Tu non mi tratterrai — replicò il Dagda. — Io calpesterò con forza ogni pietra, e su ogni pietra rimarrà per sempre la traccia del mio calcagno.

— Potrà essere così, ma le pietre verranno capovolte in modo che tu non possa vederle. Non potrai superarmi, perché chiamerò i figli di Tethra dai síde, e in ogni guado, in ogni passo che attraverserai, io sarò una quercia gigantesca.

— Io ti supererò — replicò il Dagda. — E su ogni quercia rimarrà per sempre il segno della mia ascia.

Allora la giovane disse: — Ecco, lascia che i Fomóire avanzino attraverso il paese, ché ormai tutti i guerrieri danann si sono radunati per la battaglia. — E aggiunse che avrebbe rivolto le sue arti magiche contro il suo stesso popolo. Con i suoi incantamenti avrebbe trattenuto i Fomóire e con la sua verga druidica avrebbe affrontato la nona parte di ogni schiera nemica.

Fonti

1-3 Cath Maige Tuired

I - DAGDA MÓR, IL «DIO BUONO»: ETIMOLOGIE

Eochaid Ollathair, detto il Dagda Mór, è uno dei personaggi più intriganti e suggestivi del mito irlandese, sicuramente uno di quelli che più ha attirato l'attenzione degli appassionati di mitologia, ma allo stesso tempo uno dei più sfuggenti, dei più difficili da definire, sul quale si sono intrecciate le ipotesi più diverse e contraddittorie.

Il nome Eochaid ha un'etimologia ben conosciuta, dalla radice indoeuropea *EKWO «cavallo» (cfr. gallico epo-, latino equus, greco íppos), dettaglio che – nonostante le ipotesi di alcuni studiosi – non definisce in alcun modo il carattere del personaggio, in quanto Eochaid è un nome ricorrente tra vari re ed eroi nel mito irlandese.

Assai più interessante il titolo di Ollathair «padre di tutti». Al riguardo, si veda [INFRA]▼

Ma nei racconti Eochaid Ollathair è meglio conosciuto con l'epiteto di Dagda Mór. L'origine di questo nome, attestato regolarmente con l'articolo [an Dagdáe], è narrata in un passo del Cath Maige Tuired, dove ogni eroe e campione delle Túatha Dé Danann spiega a Lúg in quale modo avrebbe impiegato i propri poteri e le proprie capacità per combattere i Fomóire, al ché Eochaid Ollathair ribatte che lui da solo sarebbe stato in grado di fare il lavoro di tutti gli altri messi assieme:

Atbert an Daogdae: «An cumang arbagaid-si dogen-sou ule amaon». «Is tu-sai an dagdae!» or cach, gonadde rot-lil Dagdae o sin e.

Disse il Dagda: «I poteri che vantate di possedere, io li posso esercitare da solo». «Tu sei dunque il dagdáe!» dissero tutti, e per questo da allora gli fu dato il nome di Dagda.

Cath Maige Tuired [81]

Tra le varie ipotesi avanzate sul significato di questo epiteto, la più antica la troviamo in un testo etimologico irlandese, il Coir Anmann, le «Affinità dei nomi», nel quale Dagdáe viene spiegato come «fuoco di Dio» (da daig e déa) (MacCulloch 1911). Nel suo lavoro pionieristico sulla Cath Maige Tuired, Whitley Stokes riteneva invece il nome connesso a un dag «abile», tanto che nella traduzione del testo rendeva la frase summenzionata con: «tu sei il Dagda, la buona mano» [it is thou art the Dagdae, good hand] (Stokes 1891).

In realtà la maggior parte degli studiosi sono persuasi che il nome del Dagda derivi da un *dago-deivos «dio buono». E poiché mór in irlandese vuol dire «grande», Dagda Mór significherebbe appunto «grande dio buono». È questa la traduzione di Elizabeth Gray: «tu sei il Dagda, il dio buono» [You are the Dagda, the Good God] (Gray 1982). Tuttavia, come già aveva compreso Stokes, nel testo originale «buono» non è tanto inteso in senso morale, ma come indice di capacità artigianali e magiche. Per questa ragione, pur rifacendosi alla traduzione della Gray, Melita Cataldi traduce in italiano «tu dunque sei il Dagdáe, il dio bravo» (Cataldi 1985).

Ma il Dagda è anche conosciuto con un altro epiteto: Ruad Rófessa, il «rosso che molto conosce» (da fios «conoscenza», preceduto da un prefisso intensivo ró-). Gli studiosi sono persuasi che tale titolo si riferisca alle conoscenze esoteriche del Dagda, il quale sarebbe stato appunto il depositario della scienza druidica, conoscitore delle cose antiche e profonde. «Rosso» è il colore legato al concetto di regalità, ma è difficile comprenderne il senso in relazione al Dagda.

II - ASPETTI GROTTESCHI E OSCENI NELL'IMMAGINE DEL DAGDA

I dati che abbiamo sul Dagda Mór sono alquanto contraddittori. Si tratta di un personaggio dotato di vasta sapienza e dalle variegate capacità, a cui le Túatha Dé Danann portano assoluto rispetto, eppure i testi ci dànno di lui un'immagine paradossale.

Il Cath Maige Tuired, pur non trascurando di alludere alla grande importanza e dignità del Dagda Mór, ne lascia assai più volentieri trasparire i lati grotteschi, le esagerazioni relative alla sua fame, alla sua forza, alla sua potenza erotica. Il testo non ci va leggero. Il Dagda Mór è costretto dapprima a trangugiare un'enorme quantità di porridge per poi cadere in un sonno profondo, tra gli insulti e le risate dei Fomóire (e qui De Vries non può fare a meno di pensare a Noè (De Vries 1961)). Poi si allontana barcollando per via della sua enorme pancia, con gli abiti malmessi, oscenamente corti, trascinando una mazza così pesante da lasciarsi alle spalle un solco profondo come un fossato. Infine incontra un'intraprendente ragazza fomóir, che lo rovescia al suolo, dentro i suoi stessi escrementi, lo satireggia beffarda, lo costringe a portarla sulle spalle e infine si accoppia con lui.

Anche se il Dagda esce da tutte queste situazioni come il vincitore morale (ritarda l'avanzata dell'esercito fomóir permettendo alle Túatha Dé Danann di organizzarsi per la prossima battaglia, piega i poteri della figlia di Indech a danno degli stessi Fomóire), lo spirito salace di questo episodio sembra avere a che fare più con Rabelais che con la mitologia. Si tratta in effetti di un buon esempio della comicità grossolana tipica del Medioevo, a cui Bachtin attribuiva un significato profondamente positivo (Bachtin 1965). Quello che lascia perplessi, in questo caso, è che il Cath Maige Tuired è un racconto essenzialmente privo di intenti parodistici. L'episodio del Dagda Mór dovette apparire talmente fuori luogo ai primi interpreti del testo, che, per decenza, Stokes eliminò parte dell'episodio dalla sua traduzione (Stokes 1891).

Il Cath Maige Tuired attribuisce al Dagda un aspetto trasandato e dimesso, dall'effetto volutamente comico:

Ba drochruid a congraim. Cochline go bac a di ullend. Inor aodhar imbe go foph a tonai. Is ed deno uchtlebar penntol. Da broicc imbe di croicinn capoild ocus a find sechtoir. Gabol gicca rothach feidm ochtair ina diaid, go mba lór do clod coicrice a slicht 'na degaidh, gonad dei dogaror Slicht Loirge an Dagdai.

Indecoroso era il suo abbigliamento: un corto mantello fino all'incavo dei gomiti e una tunica bruna grigiastra fino alla sporgenza del sedere. [Portava calzari in pelle di cavallo con il pelo all'esterno. Il suo lungo pene era scoperto.] Si trascinava dietro una mazza nodosa che avrebbe richiesto lo sforzo di otto uomini per essere trasportata, e la traccia che lasciava era tanto profonda da servire come fossato di confine di una provincia. Per questa ragione è chiamata «la traccia della mazza del Dagda».

Cath Maige Tuired [93]

Si è parlato di un tentativo, da parte dei redattori cristiani del testo, di mettere in ridicolo le antiche divinità pagane. L'accusa non regge. La cura con cui quei redattori hanno raccolto e tramandato le antiche tradizioni d'Irlanda, la loro dedizione nel mettere per iscritto centinaia di racconti, poemi, liriche, agiografie, porta a escludere che essi abbiano deliberatamente trasformato in farsa gli antichi miti per screditarne il valore. È evidente che il materiale che i redattori ci hanno consegnato è autentico, anche se probabilmente finirono per attribuire un valore comico a certi episodi bizzarri e inusuali, di cui non comprendevano il senso e che forse, in origine, avevano avuto altro significato.

Se sia andata così, non lo sappiamo. D'altronde nulla vieta di pensare che il mito originale avesse già una vis comica, correttamente tramandata dai redattori medievali. Come ricorda giustamente De Vries, «anche i Greci e i Romani, in epoca pagana, si sono permessi degli scherzi molto grossolani sulle loro divinità; gli Irlandesi, burloni, non saranno stati da meno». (De Vries 1961)

III - GLI ATTRIBUTI DEL DAGDA: CLAVA E CALDERONE

Al Dagda Mór viene attribuito uno dei quattro tesori delle Túatha Dé Danann: il calderone [Coire an Dagdae] che le Túatha Dé portarono dalla città boreale di Murias e del quale è detto che «mai una compagnia se ne allontanò insoddisfatta». Il calderone del Dagda era dunque, in primis, un simbolo dell'abbondanza e dell'ospitalità, valori che sancivano la legittimità del sovrano, il quale ospitava nella sua casa gli uomini del clan, e forniva loro cibo e bevande in abbondanza.

Sacrificio umano (?)
Calderone di Gundestrup.
Museo : [Calderone di Gundestrup > Pannello interno E]►

Ma presso gli antichi Celti il calderone era un simbolo che ammetteva una gran quantità di interpretazioni diverse, tanto più che, come confermano le fonti archeologiche, esso era il recipiente sacro dei Celti, paragonabile in un certo senso al calice cristiano (Botheroyd ~ Botheroyd 1996). Gli usi documentati dalla letteratura mitologica sono perlopiù legati alla sfera del sacro. Basti pensare al calderone nel quale la dea gallese Ceridwen preparava la pozione della saggezza e dell'ispirazione poetica, o al calderone della rigenerazione citato in uno dei «rami» dei Mabinogion, che apparteneva al gigantesco Brân e che – come il caldaio di Mḗdeia – era in grado di resuscitare i morti, togliendo però loro il dono della parola. Il calderone di Brân era affine alla sorgente di Sláine nel quale Dían Cécht immergeva i caduti in battaglia, riportandoli in vita.

De Vries ritiene che alla base di questi ricorrenti calderoni dei miti celtici, vi siano quelli anticamente utilizzati dai druidi nelle loro pratiche, compresi quelli impiegati per i sacrifici umani (De Vries 1961). Strábōn riferisce che le sacerdotesse dei Cimbri tagliavano la gola dei prigionieri sopra un calderone e dal modo in cui il sangue si raccoglieva nel fondo del recipiente esse traevano auspici per il futuro (Geōgraphiká [VII: 2, 3]). Gli scoliasti di Lucanus annotano che le vittime sacrificali a Teutates venivano annegate dentro un paiolo pieno d'acqua (Commenta Bernensia ad Lucano). Sembra essere questo il senso di una scena che appare sul Calderone di Gundestrup. Questo calderone sacro dei miti celtici, strumento di sacrificio cruento e insieme simbolo di abbondanza e di rigenerazione, sarà infine riattualizzato secondo la simbologia cristiana e riapparirà nei romanzi arturiani come il San Grail, calice sacro che conteneva il sangue del Cristo sacrificato.

D'altronde il medesimo carattere ambivalente lo ritroviamo anche in un altro attributo del Dagda, la mazza che il dio portava sempre con sé. Nel Cath Maige Tuired veniva descritta come una strana clava fornita di ruote, così pesante che solo otto uomini erano in grado di smuoverla; quando il Dagda se la trascinava dietro, questa clava scavava un solco talmente profondo che sarebbe potuto servire da fossato confinario per un'intera provincia. In questo testo vi è un passo dove il Dagda, rispondendo a Lúg che gli chiede quale sarebbe stato il suo contributo nella prossima battaglia contro i Fomóire, così dichiara:

Dugensa leath fria feraib Erenn etir caemslecht ocus admilliud ocus amaidichtai. Bud lir bommonn egai fua cosaib gregai a cnaimreth fum luirg an f. sie áit a comraicid diab namod for rái Muige Tuired

Mi metterò al fianco degli uomini di Ériu sia menando colpi che annientando con la magia. Le ossa dei nemici sotto la mia mazza saranno come chicchi di grandine sotto gli zoccoli dei branchi di cavalli, là dove si scontrano le schiere sul campo di battaglia di Mag Tuired.

Cath Maige Tuired [119]

Quest'affermazione è stata spesso presa come prova, o comunque indicazione, di un carattere guerriero del Dagda Mór, la cui mazza sarebbe stata essenzialmente un'arma d'offesa. È però utile inserire questo passaggio nel contesto della narrazione. Nella scena, Lúg passa in rassegna tutti i membri di più alto rango delle Túatha Dé Danann e chiede a ciascuno in quale modo avrebbe contribuito, secondo le sue capacità e la sua specializzazione, alla battaglia. Gli rispondono i tre artigiani, il guaritore Dían Cécht, il campione Ogma, la Mórrígan, i maghi, i coppieri, i druidi, i satiristi, le streghe e infine, ultimo, il Dagda. Ciascuno espone quale sarà il suo contributo personale. L'aspetto guerriero della battaglia sembra limitato al solo Ogma: gli altri personaggi – oltre a fornire fornire l'assistenza logistica, produrre armi e curare i feriti – impiegano contro il nemico vari tipi di stregoneria e arti druidiche: li terrorizzano, li satirizzano, li debilitano ①. L'attacco contro i Fomóire viene condotto secondo uno schema che non si limita alla logica della forza delle armi, ma copre l'intero spettro funzionale. È indicativo il fatto che sia proprio il Dagda a chiudere lo schema: la sua funzione non è guerriera, egli sembra piuttosto una sorta di signore degli inferi che giunge alla fine per consegnare i guerrieri sconfitti alla morte. Si può pensare al Dis Pater amato di martello che, negli anfiteatri romani, dava il colpo di grazia ai gladiatori morenti dopo la battaglia.

La funzione della mazza del Dagda viene più accuratamente definita in un racconto appartenente del Ciclo dell'Ulaid, il Mesca Ulad. Nel corso della vicenda, la sentinella di guardia alla fortezza di Crúachan scorge un uomo di statura gigantesca, a testa di una strana compagnia, avvicinarsi nella notte, e dalla sua descrizione i capi delle fortezza comprendono che si tratta appunto del Dagda Mór.

At-connarc fer súilech slíastach slinnénach sármór sithfhata co sárbratt lachtnai imbi. Secht ngerrchochaill cíara comshlemna imbi, girri cecb n-úachtarach, libru cach n-íchtarach. Nónbur cechtar a dá tháeb. Lorg adúathmar íarnaidi 'na láim, cend anbthen fhurri ocus cend álgen. Ba sed a reba ocus abairti, fuirmid in cend n-anbthen for cendar na nónbor condas-marband raa braithiud n-óenúaire. Fuirmid in cend álgen forru condas-bethaigend issinn úair chétna.

Ho visto un uomo con grandi occhi, grandi cosce e grandi spalle, altissimo, immenso, in uno splendido manto scuro; sette mantelline nere lisce attorno alle spalle, più corte quelle sopra, più lunghe quelle sotto. Ha nove uomini a lato; in pugno una spaventosa mazza di ferro che da una parte è nodosa e dall'altra levigata. Ecco le sue prodezze: porta la parte nodosa della mazza sulla testa dei nove uomini, uccidendoli in un batter d'occhio; porta poi su di loro la parte levigata risuscitandoli all'istante.

Mesca Ulad [81]

Al contrario della descrizione fornita dalla Cath Maige Tuired, l'abbigliamento del Dagda è qui definito «splendido». Il gigantismo, elemento formale presente in molti personaggi eroici della letteratura irlandese, viene particolarmente sottolineato. Il Dagda vi compare come un essere soprannaturale che esibisce il potere della sua mazza dispensando quasi per gioco la morte e la vita. I tratti eccezionali di questa descrizione rientrano nell'esagerazione epica tipica di molti racconti del Ciclo degli Ulati, ma qui possiamo senz'altro escludere l'intento comico e cercarvi piuttosto un senso del meraviglioso.

Il «dio col mazzuolo»

Statuetta in bronzo del II-III sec. d.C., rinvenuta, forse, a Sauvat (dip. Cantal, Francia).

Museo: [Il «dio col mazzuolo». Iconografia gallo-romana]►

Un'eco di questo motivo lo ritroviamo ancora una volta nei Mabinogion gallesi, nella scena in cui il principe Pwyll scende in combattimento contro Hafgan e colpisce il suo avversario una sola volta, evitando di finirlo assestandogli un secondo colpo, in quanto era stato messo in guardia da Arawn, re di Annwfn (l'oltretomba gallese), che il primo colpo avrebbe ucciso Hafgan, ma il secondo lo avrebbe riportato in vita. (Mabinogion > Pwyll pendefyg Dyfed)

Molti studiosi, tra cui De Vries, hanno creduto di riconoscere nella clava del Dagda il martello del dio-tuono scandinavo Þórr e il vajra del dio-tuono indiano Indra. Se questo fosse vero, se ne dovrebbe dedurre che il Dagda sia egli stesso una sorta dio-tuono (e d'altronde De Vries mette anche in relazione la ruota che sostiene la mazza del Dagda con la ruota che compare nelle figurazioni del dio identificato con Taranis) (De Vries 1961). Tale correlazione purtroppo non regge a un'analisi più approfondita: le armi impugnate da Þórr e da Indra sono ipostasi del fulmine, il loro rumore è il rombo del tuono. Nulla di tutto questo si può dire della strana mazza del Dagda, che scava lunghi solchi nella terra ed è in grado di uccidere quanto resuscitare. Non si può negare che anche il Mjǫllnir impugnato da Þórr poteva essere usato per consacrare i matrimoni e, all'occorrenza, riportare in vita i due caproni che il dio aveva ucciso per mangiarli. Questi aspetti sono tuttavia occorrenze secondarie di un martello che rimane a tutti gli effetti un'arma fulminante, un'arma di cui conosciamo bene il potere micidiale tante volte impiegato a danno di mostri e giganti, mentre la mazza del Dagda non solo non ha nulla a che vedere con i fulmini, ma non viene mai impiegata come arma. Il Dagda si muove in un contesto assai differente.

Ora, i due medesimi attributi del Dagda – calderone e clava – sembrano avere una stretta relazione con le figurazioni gallo-romane del cosiddetto «dio col mazzuolo», il cui nome gallico è Sucellos (Duval 1954). Questa divinità era appunto caratterizzata da questi due attributi: un vaso simile a un'olla (che in certi casi assumeva l'aspetto di un piccolo tino) che il dio reggeva con una mano, e un mazzuolo, in realtà una sorta di scettro dal lungo manico, che il dio impugnava con l'altra mano. L'uso dei due oggetti non è chiaro, anche se sicuramente il mazzuolo di Sucellos – come la mazza del Dagdanon era un'arma. Almeno livello di attributi, dunque, i rapporti tra il Dagda e Sucellos sembrano piuttosto stretti. Altri studiosi considerano invece questa somiglianza abbastanza superficiale (De Vries 1961). ②

IV - IL DAGDA MÓR: LE IPOTESI DEGLI STUDIOSI

Per spiegare la figura importante e insieme ingombrante del Dagda Mór, gli studiosi hanno avanzato un gran numero di ipotesi, più o meno condivisibili. Alcune congetture appaiono francamente fuori luogo, come quella di sir John Rhŷs, secondo la quale il Dagda Mór sarebbe stato un dio atmosferico (Rhŷs 1905), o quella di Alexander MacBain, che parla invece di un dio uranico (MacBain 1917).

Ugualmente insostenibile l'interpretazione etimologica di Jan De Vries, secondo il quale il nome Eochaid (da un indoeuropeo *EKWO «cavallo») sia indicativo di un carattere solare del Dagda, in quanto «fin dai tempi più remoti il cavallo è un simbolo del sole molto diffuso» (De Vries 1961). A parte l'eccessivo salto semantico, l'interpretazione di De Vries avrebbe senso se Eochaid fosse un nome esclusivo del personaggio, invece di essere piuttosto comune tra i sovrani e gli eroi della mitologia irlandese. Anche l'epiteto di Ruad Rófessa «Il rosso che molto conosce», per De Vries, giustificherebbe l'interpretazione solare del dio, in quanto si alluderebbe alla faccia incandescente del sole che vede tutto quanto accade sulla terra (De Vries 1961).

Più meditata, a nostro parere, l'opinione di John MacCulloch, secondo cui il Dagda Mór sarebbe stato un antico dio legato alla terra e all'agricoltura, alla ricchezza e alla fertilità. Egli nota come il Dagda avesse potere sul grano e sul latte, e come si sia battuto per impedire che gli altri dèi distruggessero questi importanti alimenti dopo la loro sconfitta a opera dei Clanna Míled. MacCulloch sottolinea il fatto che il Dagda custodisse nel suo síd una serie di oggetti legati alla sfera della prosperità e della ricchezza: un calderone inesauribile, i maiali di cui uno era sempre vivo e l'altro pronto per essere cotto, un barile di birra che non si svuotava mai, tre alberi sempre carichi di frutti. MacCulloch propone anche, con una serie di interessanti paralleli, di identificare il Dagda con il dio Cromm Crúaich il cui idolo si levava a Mag Slécht e a cui gli Irlandesi sacrificavano a samain un terzo dei loro figli per avere latte e grano. (MacCulloch 1911)

L'opinione di MacCulloch è compatibile con quella che vede nel Dagda un antico dio dell'oltretomba. Alcuni dei suoi attributi, quali una clava in grado di uccidere quanto di resuscitare i morti, e il calderone inesauribile, indicherebbero questo carattere di signore della morte e della rinascita. Inoltre l'epiteto ollathair «padre di tutti», viene messo in correlazione con il Dis Pater di cui riferisce Caesar, progenitore del popolo gallico (De bello Gallico [VI: 18]). Questa tesi è sostenuta da Françoise Le Roux (Le Roux 1955) ma viene recisamente negata da De Vries (De Vries 1961).

Diversi autori hanno visto nel Dagda un dio legato alla sfera druidica, quindi alla sapienza e alla conoscenza delle cose misteriose e profonde. Dopo aver fatto notare come il calderone del Dagda possa essere messo in relazione con il recipiente utilizzato dai druidi per i loro sacrifici, De Vries riferisce di un testo irlandese in cui il Dagda stesso viene definito dia draidechta «dio del druidismo» (De Vries 1961). Le Roux, la quale nega che il Dagda abbia qualcosa a che vedere con l'agricoltura, sembra essere d'accordo su questo punto con De Vries e definisce il Dagda «druido degli dèi e dio-druido» e lo descrive come «il dio del contratto e dell'amicizia, il patrono dei giuristi e degli attaccabrighe» (Le Roux 1970-1976).

Altri autori, hanno invece sottolineato il carattere regale del Dagda Mór, collocandolo nella sfera delle divinità supreme (De Vries 1961 | Dumézil 1977 | Markale 1988). A nostro avviso, però, pur non negando la presenza di una componente regale nella figura del Dagda, crediamo che sia eccessivo definire il personaggio su questi termini. Si veda [INFRA]▼

Come dunque si vede, gli studiosi hanno cercato di collocare il Dagda Mór in tutte le categorie funzionali, facendone via via un dio della sapienza e del druidismo, un dio della fecondità e della ricchezza, un dio dell'oltretomba, un dio supremo. Le ipotesi coprono in buona misura la prima e la terza funzione duméziliana. La seconda funzione sembra invece assente: le rappresentazioni del Dagda come guerriero sono rare e poco significative, nonostante Jean Markale affermi il contrario (Markale 1985). In effetti, gli studiosi che hanno studiato la figura del Dagda, sono stati costretti a sottolinearne le variegate capacità e caratteristiche, senza riuscire a incasellarlo univocamente in questa o quella sfera funzionale. Il fatto è che il Dagda si presenta, come Lúg, dotato di un ampio spettro funzionale. È il Dagda stesso a sottolineare le sue multiformi capacità, nella scena in cui si rivolge all'assemblea delle Túatha Dé Danann dichiarando: «I poteri che voi vantate di possedere, io li posso esercitare da solo» (Cath Maige Tuired [81]). Ed è proprio questa frase a definire il personaggio, tanto che gli procurerà il nome con il quale egli è conosciuto: Dagda Mór, il «grande dio bravo».

V - IL DAGDA MÓR: POSSIBILI OMOLOGIE NEL PÁNTHEON CONTINENTALE

Nel tentativo di comprendere la figura del Dagda, gli studiosi hanno tentato possibili comparazioni con figure analoghe della mitologia celtica continentale, anche se in molti casi si sono scontrati con i problemi di interpretazione che già sussistono sulle divinità galliche. Così Sylvia e Paul Botheroyd, nel loro recente e pregevole dizionario di mitologia celtica, scrivono riguardo al Dagda: «Nome, aspetto, imprese, rivelano in ogni momento che si tratta di un dio che nel pantheon irlandese occupava il posto di uno Zeús o di un Iuppiter, aveva dei tratti in comune con il Taranis continentale e Teutates, e inoltre ricopriva le sfere d'azione di un Dis Pater o di Sucellos» (Botheroyd ~ Botheroyd 1992-1996).

Affermazioni come questa mostrano quanto sia facile stabilire identificazione tra divinità diverse operando su basi superficiali. Per esempio, l'analogia tra il Dagda e Teutates si basa chiaramente su un'affinità etimologica. Da una parte il Dagda che è detto Ollathair «padre di tutti», dall'altra parte Teutates che è appunto touta tates «padre delle tribù». Peccato che quel poco che sappiamo su Teutates lo avvicina piuttosto a un Mercurius o a un Mars. Allo stesso modo, è facile identificare il Dagda «dio buono» con il dio gallico Esus «il buono» basandosi semplicemente sul significato dei nomi. Eppure, quel poco che sappiamo di Esus rende difficile una sua identificazione con il Dagda, senza considerare che abbiamo visto quali sfumature di significato può nascondere il nome del dio irlandese («buono» non in senso morale, ma nel significato di «abile, bravo»).

Eliminando quindi le ipotesi più superficiali e quelle troppo fantasiose, le identificazioni più pertinenti avanzate dagli studiosi si riducono a due: se il Dagda Mór sia da considerarsi l'equivalente irlandese dello Iuppiter gallico o piuttosto del Dis Pater gallico.

Che il Dagda Mór possa l'omologo irlandese dello Iuppiter gallico, è un'ipotesi sostenuta da studiosi autorevoli e continuamente riproposta nei libri di divulgazione. Tra i sostenitori vi è uno studioso del calibro di Jan De Vries, il quale arriva alla conclusione che «il Dagda irlandese, nei suoi tratti fondamentali, corrisponda in modo tale al dio dei Galli che Caesar designa col nome di Iuppiter, da poterli equiparare entrambi» (De Vries 1961). Lo stesso Georges Dumézil afferma a più riprese il carattere supremo del Dagda (Dumézil 1977). Anche Jean Markale ritiene che il Dagda sia una divinità suprema, identificabile con lo Iuppiter gallico, pur sottolineandole i molti punti di contatto con Dis Pater, e conclude affermando salomonicamente che il Dagda «sarebbe a un tempo Iuppiter e Dis Pater» (Markale 1985). Perfino Françoise Le Roux, sostenitrice storica di un'identificazione tra il Dagda e Dis Pater, esordisce in un suo articolo definendo il Dagda «l'equivalente irlandese di Iuppiter», pur senza spiegarne le ragioni (Le Roux 1970-1976).

Ma quali ragioni giustificano un'identificazione del Dagda Mór con lo Iuppiter gallico? Gli studiosi che sostengono quest'ipotesi sembrano basarla unicamente sulla lettura del Dagda quale sovrano e padre dei Túatha Dé Danann. De Vries, parlando del Dagda «padre di tutti» [Ollathair], scrive al riguardo: «Questa denominazione si riferisce alla sua eminente posizione nella stirpe divina dei: egli è dunque il dio supremo» (De Vries 1961). Sorprende una simile affermazione da parte di un così insigne studioso! Tanto più che la nozione di padre universale e quella di re degli dèi non si implicano necessariamente a vicenda. Lo stesso errore viene commesso da Jean Markale: «Forse che, presso i Galli, non vi era un dio celeste, padre degli altri dèi, come lo Zeús-Iuppiter dei Greco-Romani? Sarebbe davvero sorprendente, tanto più che Caesar lo menziona». E conclude: «Fortunatamente l'Irlanda ha conservato il nome del suo dio celeste padre di tutti. Si tratta del Dagda...» (Markale 1985). Peccato che Caesar distingua il dio celeste Iuppiter dal Dis Pater padre di tutti.

La nostra impressione è che tali affermazioni siano viziate da una confusione tra lo Iuppiter gallico e lo Iuppiter romano. Se nello Iuppiter romano convergevano le nozioni di re degli dèi e di padre universale (quest'ultima palesata dalla stessa etimologia del nome del dio che, com'è noto, proviene da un *Deus Pater), questo non avveniva per lo Iuppiter gallico, il quale, secondo la testimonianza di Caesar, era soltanto il re degli dèi, mentre toccava a Dis Pater, signore degli inferi, la nozione di padre di tutti.

Parallelamente, non si può neppure sostenere che il Dagda Mór fosse il dio supremo delle Túatha Dé Danann. Innanzitutto non è chiaro che cosa si intenda per «dio supremo», tanto più che una simile affermazione, ricondotta al sistema gallico riferito da Caesar, ci porterebbe nell'orbita di Mercurius più che in quella di Iuppiter. E se invece ci riferiamo al Dagda come a un sovrano istituzionale, quale lo Iuppiter gallico, rimaniamo di nuovo delusi, perché tra le Túatha Dé Danann questo ruolo è ricoperto da Núada Aircetlám.

A un'attenta analisi, dunque, l'ipotesi di un'omologia tra il Dagda Mór e lo Iuppiter gallico si rivela inconsistente.

VI - È POSSIBILE ATTRIBUIRE AL DADGA CARATTERI REGALI?

Molto spesso, nella letteratura di divulgazione, ci si riferisce al Dagda Mór come a un dio sovrano, re delle Túatha Dé Danann. Questa concezione si riflette immancabilmente sulla definizione del personaggio, che finisce per essere omologato allo Iuppiter cesariano, il quale era però un antico dio-tuono e sovrano istituzionale: tali facili identificazioni rischiano di alterare irrimediabilmente l'interpretazione e la fisionomia del Dagda. Ma come adesso vedremo, non si può sostenere che il Dagda Mór sia caratterizzato da vere e proprie qualità regali.

Certo non si può negare che il Dagda Mór compaia nelle liste regali irlandesi come uno degli antichi re delle Túatha Dé Danann. Gli Annála Ríoghdhachta Éireann assegnano la sovranità su Ériu a nove Re Supremi di stirpe danann, tra i quali il Dagda è quello che avrebbe retto il regno più a lungo:

Di questi personaggi, l'unico strettamente caratterizzato come sovrano istituzionale è Núada. Si può ancora parlare di regalità per Lúg, che è un sovrano sovrafunzionale, ma nessuno degli altri personaggi viene definito da una natura regale, a cominciare dallo stesso Bress il cui regno fu un disastro per il popolo di Ériu. Queste liste sono in realtà soltanto l'assestamento di una storiografia posteriore, costruita con metodo evemeristico, al tempo in cui i redattori dei testi avevano smesso di credere agli antichi miti (si può fare un raffronto con le genealogie dei re di «Troia» presentate da Snorri nell'introduzione alla sua Edda).

D'altra parte il Dagda viene a volte presentato espressamente come re in alcuni testi mitologici, come ad esempio nel Tochmarc Étaine, che così principia la narrazione:

Bai ri amra for Eirinn do Thuathaib De a chenel, Eochaid Ollathar a ainm. Ainm n-aill do dano an Dagda, ar ba hé dognith na firta ocus conmidhedh na sina ocus na toirthe doib. Ba head asbeirdis combo dé asberthe Dagda fris.

Regnava su Ériu un famoso re della stirpe delle Túatha Dé di nome Eochaid Ollathair. Era anche chiamato il Dagda perché compiva meraviglie e regolava il tempo e il raccolto: per questo, si dice, l'avevano chiamato Dagda.

Tochmarc Étaine [1]

Dopodiché il testo inizia il racconto con la seduzione, da parte del Dagda, della moglie di Elchmar, re del Bruig na Bóinne. Questo è il sito preistorico di Newgrange sul fiume Boyne, che la tradizione considera però residenza dello stesso Dagda. Secondo la leggenda, al momento di lasciare l'Irlanda per stabilirsi nel sottosuolo, il Dagda assegnò i vari síde ai membri delle Túatha Dé e scelse per sé proprio la dimora del Bruig na Bóinne. Il fatto è che il Dagda ha poco a che vedere con Temáir, tradizionale residenza del Re Supremi di Ériu, e molto con il Bruig, che sarà la sua residenza occulta e inaccessibile al tempo in cui le Túatha Dé Danann scenderanno nei síde. Quella del Dagda, insomma, sembra la regalità di un Dis Pater non quella di uno Iuppiter.

La figura del Dagda sembra celare piuttosto una sorta di antico signore dell'altro mondo; una figura di sovrano sì, ma del regno misterioso e sotterraneo in cui dimorava il popolo dei síde.

VII - IL DAGDA MÓR, «PADRE DI TUTTI»

Compito delicato è stabilire che cosa indichi esattamente questo titolo di Ollathair «padre di tutti», assegnato al Dagda Mór. È facile essere condotti fuori strada, e abbiamo visto in fatti che tale epiteto non indica necessariamente uno status di dio supremo, come hanno frettolosamente opinato alcuni studiosi, tramandando una visione distorta del personaggio.

La prima cosa da notare è che, a dispetto del suo epiteto di Ollathair, nei testi mitici il Dagda Mór, pur vantando una numerosa discendenza, non viene mai caratterizzato come capostipite delle Túatha Dé Danann. Inoltre, stando alle genealogie riportate dal Lebor Gebála Érenn e da Seathrún Céitinn (Geoffrey Keating) nei suoi Foras feasa ar Éirinn, la posizione del Dagda nella genealogia danann non ha una posizione particolarmente privilegiata (¹).

Si ha dunque ragione di pensare che l'epiteto di Ollathair «padre di tutti» risalga a uno schema mitologico assai più antico di quello a noi tramandato dai testi. Lo dimostra la stretta correlazione di questo con l'epiteto Allföðr «padre di tutti» che in Scandinavia è attribuito a Óðinn. Ma questa evidenza non deve portarci a creare qualche artificiosa analogia tra Óðinn e il Dagda, i quali sono e rimangono due personaggi completamente differenti, per quanto destinatari finali di un medesimo epiteto. Óðinn era, come sappiamo, l'esito scandinavo del dio germanico che Tacito identificava con Mercurius; e sempre Tacito ci informa che gli antichi Germani consideravano un certo Mannus – non Mercurius – loro padre universale. Ne risulta che fu Óðinn, nel corso dello sviluppo della mitologia scandinava, ad appropriarsi del titolo di Allföðr che in origine non gli competeva.

La ricerca di un equivalente gallico del «padre di tutti» non è né lunga né difficile. È lo stesso Caesar a metterci sulla pista giusta quando scrive:

Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant idque ab druidibus proditum dicunt.

I Galli affermano di discendere tutti da Dis pater e che questa tradizione è stata tramandata dai druidi.

Caius Iulius Caesar: De bello Gallico [***]

Si può certamente ritrovare nel Dis Pater cesariano l'origine celtica continentale del titolo di Ollathair «padre di tutti» attribuito al Dagda Mór. Addirittura, Françoise Le Roux ritiene a tutti gli effetti che il Dagda Mór sia l'esito irlandese del Dis Pater gallico (Le Roux 1955).

Ma, ripetiamo, anche se l'ipotesi della Le Roux è decisamente intrigante, rimane pur sempre il fatto che nulla nel mito irlandese fa supporre che il Dagda Mór sia una sorta di progenitore delle stirpi umane, o magari soltanto delle Túatha Dé Danann. È evidente che i redattori cristiani rielaborarono le genealogie tradizionali innestandole opportunamente sul tronco di quelle bibliche, in modo da non creare contraddizioni con quanto riferito dalle Sacre Scritture, e questa è la ragione per cui non è stato tramandato alcuno un mito irlandese della creazione del mondo o degli uomini. È dunque possibile che i redattori dei testi abbiano alterato consapevolmente la genealogia del Dagda, trasformandolo da un dio progenitore a un semplice eroe e sovrano danann.

Ma può anche darsi che questo epiteto di Ollathair «padre di tutti» vada inteso in altra maniera. Una prudente definizione ci viene fornita da Cormac mac Culennáin, il quale spiega nel Sanas Cormaic che il Dagda venne chiamato Ollathair perché «fu come un grande padre per le Túatha Dé Danann» (MacCulloch 1911).

L'informazione di Cormac riesce a definire il ruolo del Dagda nell'ambito pantheon danann senza creare alcuna contraddizione con quanto riferito dai testi mitologici. Lungi dall'essere un dio progenitore, il Dagda, almeno nella fase più tarda, verrebbe dunque a essere una sorta di padre spirituale delle Túatha Dé Danann, così come un sacerdote è chiamato «padre» dalla congregazione dei fedeli da lui assistita. Stando a Cormac, il Dagda sarebbe piuttosto il druido degli dèi, e questa – lo abbiamo visto – è anche la più probabile interpretazione del ruolo funzionale del personaggio. Sia come sia, la questione rimane aperta.

(¹) Genealogie: [Túatha Dé Danann]

VIII - IL DAGDA MÓR: CONCLUSIONE

In conclusione, il Dagda Mór è un dio dalle molte capacità e sfaccettature, essenzialmente appartenente alla prima funzione. È un dio della scienza druidica, intesa sia come sapienza delle cose misteriose e profonde, ma anche come ordine istituzionalizzato delle pratiche inerenti alla sfera del sacro.

Riteniamo invece fuorviante considerare il Dagda un dio supremo o comunque un personaggio investito di qualche sorta di regalità. Il suo status di re delle Túatha Dé Danann sembra infatti una derivazione accessoria presente nei tardi annali storici irlandesi, che non caratterizza in alcun modo la definizione del personaggio. Il Dagda non ha nulla a che vedere la regalità guerriera: la sua autorità sembra stendersi piuttosto sul regno dei síde: è lui a decidere quali saranno le residenze sotterranee delle Túatha Dé Danann dopo la sconfitta a opera dei Milesi, e quindi a instaurare il regno occulto e misterioso in cui essi andarono a risiedere quando abbandonarono l'Irlanda agli antenati dei Gaeli.

Il Dagda risulta essere piuttosto un dio dell'oltretomba, legato alla morte e alla rigenerazione. La sua clava che può tanto uccidere che far risorgere i caduti e, in parte, il suo calderone inesauribile, sembrano connetterlo a questa sfera soprannaturale. Non bisogna però pensare a un oltretomba di tipo classico – ciò che svierebbe immancabilmente l'interpretazione del personaggio – ma all'aldilà celtico, sorta di terra dei beati dove si conserva la perfezione originaria e il dono dell'immortalità.

Il Dagda non è dunque uno Iuppiter, ma corrisponde probabilmente al Dis Pater gallico, signore dell'oltretomba, da cui i Galli, stando a un passo di Caesar, ritenevano di discendere. Questo potrebbe spiegare il titolo di ollathair «padre di tutti» attribuito al Dagda, anche se le fonti irlandesi non lo presentano come progenitore ma piuttosto come una sorta di padre spirituale. È tuttavia probabile che i redattori dei testi irlandesi abbiano modificato le genealogie divine, allo scopo di censurare qualsiasi riferimento a miti antropogonici incompatibili con il dato biblico.

Poiché è a sua volta probabile che il Dis Pater cesariano vada identificato nelle immagini gallo-romane del Dio del Mazzuolo, il cui nome gallico è Sucellos, ne deriva che il Dagda può essere messo in correlazione con questo spettro di figure. La clava del Dagda potrebbe corrispondere al mazzuolo-scettro impugnato da Sucellos, il suo calderone con l'olla che Sucellos regge nell'altra mano e che, accessoriamente, è un vero e proprio tino. Ricordiamo ancora che in rare figurazioni il Dio del Mazzuolo veste una pelle di lupo ed è chiamato Dis Pater.

L'identificazione tra il Dagda e Sucellos ha messo d'accordo la maggioranza degli studiosi. Purtroppo riguardo a Sucellos non abbiamo molte informazioni a quel poco che si è ottenuto dall'epigrafia e dall'iconografia gallo-romane, oltre a qualche laconica informazione desumibile dalle fonti classiche. Ma del resto anche la figura irlandese del Dagda non emerge sempre in modo chiaro. Tutto ciò che ci è pervenuto di quest'ultimo è il prodotto di una lunga evoluzione locale, filtrata per di più attraverso le interpretazioni dei monaci che ci hanno tramandato le fonti. Quanto abbiamo riferito, sono soltanto ipotesi e supposizioni.

IX — ESITI FOLKLORICISTICI E LETTERARI: DAL DAGDA A GARGANTUA

Gargantua

Illustrazione di Gustavo Doré per il romanzo di Rabelais,

Il gigantismo che caratterizza il Dagda Mór, i suoi eccessi alimentari e sessuali, meriterebbero di essere analizzati alla luce di certi loci della tradizione popolaresca, quel «realismo grottesco» materiale e corporeo, esagerato e non di rado triviale, di certe rappresentazioni medievali, di cui Michail Bachtin ha sottolineato la forte valenza positiva (Bachtin 1965). Al proposito, Jean Markale ha notato come molti degli elementi presenti nell'immagine eccessiva che i testi irlandesi ci dànno del Dagda, li ritroviamo pari pari in un popolare personaggio della letteratura francese, il gigante Gargantua (Markale 1985).

Gargantua fa la sua comparsa nella letteratura – a quanto ne sappiamo – nel 1532, col racconto anonimo Les grandes et inestimables croniques du grant et enorme geant Gargantua, erroneamente attribuito a François Rabelais, dove si dice tra l'altro che il padre e la madre di Gargantua furono creati dal mago Merlino grazie ai suoi incantesimi. È però proprio di Rabelais il romanzo a cui Gargantua e suo figlio Pantagruel devono la loro fama universale, Gargantua et Pantagruel, la cui edizione definitiva fu pubblicata a Lione nel 1542.

Ma quando erano approdati sulle pagine dei romanzi cinquecenteschi, Gargantua e Pantagruel avevano già alle spalle una lunga carriera come personaggi delle tradizioni popolari francesi. Rabelais e il suo anonimo predecessore non li avevano inventati, ma soltanto recuperati e aggiornati alla mentalità rinascimentale. Ironicamente, l'eroe che nelle intenzioni di Rabelais doveva rappresentare l'homo novus dell'Umanesimo, era una grottesca figura del folklore medievale.

Purtroppo sappiamo ben poco dell'antico Gargantua. Dovette essere un personaggio di una certa importanza se, come nota Markale, la toponimia francese presenta una gran quantità di luoghi detti «passo di Gargantua», «poggio di Gargantua» e simili. Ritroviamo inoltre questo nome in toponimi quali il Mont Gargan nel Limousin, il Livry-Gargan nella regione parigina e persino nel nome del Monte Gargano in Italia (Markale 1985).

Se Pantagruel era in origine una sorta di dèmone maligno delle credenze medievali, Gargantua, secondo l'idea di Henri Dontenville, ripresa da Markale, sarebbe stato un'antica divinità gallica, il cui ricordo si sarebbe conservato nella memoria popolare malgrado tutti i tentativi di rimozione o di cristianizzazione (Donteville 1973 | Markale 1985). Il dio originale, caratterizzato da forme gigantesche e da una voracità proporzionata alla mole, sarebbe stato legato alle nozioni di abbondanza, forza e potenza sessuale. Markale ritiene possa essere possibile che proprio in questo antico dio (da lui identificato con lo Iuppiter cesariano) si debba vedere l'esito celtico continentale del Dagda Mór irlandese (Markale 1985).

Una traccia letteraria di questo personaggio la ritroviamo nella Historia regum Britanniae di Gaufridus Monemutensis, dove il personaggio viene recuperato come re di Bretagna con il nome di Gwrgant Barba-di-porco, il quale, nel corso di una spedizione navale, si incontra con un certo Partholwn (il Parthólon dei miti irlandesi!), chiaro segno di una tradizione comune che sottintende gli esiti dei personaggi e delle situazioni mitologiche nei vari paesi del dominio celtico.

Il nome stesso del gigante, Gargantua, andrebbe collegato al francese gueule «fauci, gola» (cfr. gargouille «doccione»), termine derivato da una radice che avrebbe dato il latino gurgem, da cui parole come «ingurgitare» o di significato affine. Anche i nomi dei genitori di Gargantua, Grandgousier e Gargamelle, insistono sulla medesima radice. Appartiene alla stessa area semantica anche il nome della moglie del gigante, Badebec, che sembra derivare da bouche «bocca». Markale ammette che tale etimologia sia stata costruita tenendo conto del carattere «rabelesiano» del personaggio e non dell'effettiva origine del personaggio, che sarebbe celtica continentale. Si tratterebbe dunque di una paraetimologia, costruita a posteriori, mentre l'originario nome celtico del personaggio (che Markale ritiene fosse *Gargan), doveva avere ben altro significato. È anche vero che Rabelais aveva fatto di tutto per valorizzare l'aspetto grande gueule di Gargantua, cosa che non era in contraddizione con uno degli aspetti del Dagda, ma lo fece soprattutto a causa della chiave di lettura imposta al personaggio, la cui «voracità» doveva simboleggiare la curiosità intellettuale dell'umanista del Cinquecento (Markale 1985).

X - IL DAGDA E LA MÓRRÍGAN

La Mórrígan è la furia guerriera, una sorta di dea filatrice del destino, che – come le valchirie del mito germanico – prefigura e in certa misura stabilisce l'andamento delle battaglie. Tramite l'atto sessuale con la Mórrígan, il Dagda Mór ne ottiene l'appoggio contro i Fomóire. È indicativo è il fatto che l'unione avviene nel giorno di Samain, particolare che le dà un carattere di eternità, poiché tutto ciò che avviene in questo giorno di transizione è «per sempre».

La scena della Mórrígan presentata nel Cath Maige Tuired, che si bagna nel fiume Uinnius tenendo un piede su una sponda e l'altro sull'altra, ricorda irresistibilmente una scena della Prose Edda di Snorri, in cui Þórr, recandosi alla dimora del gigante Geirrøðr, incontrò la figlia di questi, Gjálp, posta a cavalcioni sulle sponde del fiume Vimur, e intenta a ingrossarlo orinandovi dentro. Allora Þórr prese dal fiume una grossa pietra e la lanciò contro la gigantessa dicendo: «Un fiume dev'essere arginato alla sorgente!» E non mancò il bersaglio. (Skáldskaparmál [4])

Detto questo, bisogna però aggiungere che, anche se è possibile sottolineare l'affinità formale tra la gigantessa germanica e la dea celtica, entrambe ritte a cavalcioni di fiume, il significato che è alla base dei due miti è completamente differente.

XI — IL DAGDA PRESSO I FOMÓIRE

La scena in cui il Dagda Mór arriva presso i Fomóire ed è costretto a ingurgitare una impressionante quantità di cibo, e ancora, la scena successiva del suo accoppiamento con la figlia di Indech, sono descritte con accenti così grotteschi che più di uno studioso ha proposto si trattasse di invenzioni della fantasia dei monaci che hanno compilato il Cath Maige Tuired, forse allo scopo di screditare quella che in definitiva era un'antica divinità pagana. Abbiamo già sottolineato come questa idea non regga. È tuttavia probabile che la grande voracità del Dagda, nonché il violento appetito sessuale che dimostra subito dopo per la figlia di Indech, siano elementi di un mito molto antico, come si può scorgere dal confronto con scene provenienti da tradizioni molto diverse.

Per l'esattezza ritroviamo una scena simile nella Prose Edda di Snorri. Durante uno dei suoi vagabondaggi, Þórr giunge nella dimora del gigante Útgarðaloki, dove lui e i suoi compagni sono sottoposti a gare e giochi di abilità. In particolare, Þórr viene sfidato a vuotare in tre sorsi un corno gigantesco. Þórr ci prova, ma per quanto beva, il corno sembra inesauribile. Dopo che egli crede di aver fallito la prova, i giganti gli rivelano che il corno attingeva direttamente al mare e che con soli tre sorsi egli era riuscito ad abbassarne sensibilmente il livello (Gylfaginning [46-47]). Questa sfida ricorda – anche se con esito diverso – il geis che i Fomóire lanciano sul Dagda Mór, obbligandolo a trangugiare un'enorme quantità di porridge, cosa che il Dagda fa agevolmente, per poi cadere addormentato.

Melita Cataldi interpreta questa scena come un tentativo da parte dei Fomóire di indurre il Dagda Mór a infrangere le consuetudini formali legate al suo ruolo di ambasciatore. In altre parole, poiché in qualità di araldo il Dagda Mór ha garanzie di incolumità, i Fomóire per ucciderlo cercano un cavillo legale: escogitano di offrirgli da mangiare una quantità enorme di cibo in modo che egli sia costretto a rifiutarne una parte. La speranza dei Fomóire era che il Dagda reagisse lamentando l'eccessiva quantità di cibo lanciando loro una satira. La difesa da un satireggiamento ingiusto avrebbe autorizzato i Fomóire a ucciderlo. Invece il Dagda Mór trangugia tutto il porridge e può così allontanarsi disturbato. (Cataldi 1985)

De Vries ritiene che alla base del racconto possa celarsi una leggenda cultuale e ricorda che i partecipanti a certi banchetti sacri dovessero mangiare tutto il cibo e le bevande, senza lasciar avanzare nulla. In qualità dio-druido, il Dagda presiedeva infatti a ogni sorta di sacrificio. Il racconto del Dagda costretto a divorare il pasto fino all'ultimo boccone avrebbe appunto offerto una base mitica all'usanza in questione (De Vries 1961). Per quanto ingegnosa, tuttavia, l'ipotesi di De Vries ha il difetto dei ragionamenti circolari: spiega il mito tramite un'usanza (non attestata) di cui il mito sarebbe a sua volta una giustificazione a priori.

In seguito, il Dagda, dopo essersi allontanato barcollando per la gran pancia, viene sfidato a battersi con una ragazza fomoriana, la figlia di Indech; incapace di combattere, viene pesantemente sconfitto e umiliato. Ma poi i due diventano amanti e, possedendola, il Dagda la obbliga a usare i suoi poteri contro gli stessi Fomóire. Anche nel mito eddico avviene qualcosa di simile: subito dopo essersi cimentato con la prova del corno, Þórr viene sfidato a combattere con la matrigna di Útgarðaloki, una vecchia male in arnese, che Þórr, nonostante i suoi sforzi, non riesce ad atterrare, finendo lui stesso per piegare un ginocchio. In seguito si scopre che la vecchia non è altro che Elli, la vecchiaia stessa, contro cui nessun uomo l'ha mai spuntata, e che, nonostante tutto, Þórr è riuscito a resisterle.

Il mito scandinavo può forse gettare un po' di luce sulla sostanza soprannaturale della ragazza che sfida il Dagda. La figlia di Indech è una figura caotica, che sovverte i tradizionali ruoli dell'uomo e della donna: deride il Dagda, si mostra più forte di lui, gli impone di portarla sulla schiena dopo essere riuscita a ripetere senza alcun errore il lunghissimo nome del Dagda. Ma dopo essere stata posseduta dal Dagda, ovvero ricondotta al ruolo tradizionale della donna nei confronti dell'uomo, la ragazza acconsente ad aiutare le Túatha Dé Danann contro le schiere fomóire. È probabile che l'episodio in cui il Dagda si unisce con la figlia di Indech non sia che una diversa versione della scena con la Mórrígan. In effetti il Cath Maige Tuired sembra essere un collage di narrazioni indipendenti.

Il particolare della caduta dei tre sassi dalla cintura del Dagda Mór o, come «altri dicono», dei suoi testicoli, rimane incomprensibile. Ci si può chiedere perché il Dagda abbia dovuto mettere dei sassi nella cintura, e perché proprio tre. Nel caso si fosse invece trattato dei testicoli (in questo caso due), la perplessità aumenta, considerando che ci troviamo all'inizio di una scena d'amore e non ha senso privare della propria virilità chi, tra poco, dovrà fare un'efficiente dimostrazione di ars amatoria.

Una possibile indicazione sul senso di questa scena ci potrebbe venire da una scena del Rāmayāṇa avente per protagonista il dio-tuono indiano, Indra. Il saggio Gautama viveva in un eremo assieme alla sua compagna Ahalyā, con la quale praticava l'ascesi. Un giorno in cui Gautama era assente, Indra ne prese l'aspetto, si recò da Ahalyā e la sedusse. Ma proprio mentre Indra usciva dall'eremo, Gautama lo scorse e lo maledì. Istantaneamente, i testicoli del dio dai mille occhi caddero a terra. In seguito, però, Indra li sostituì con quelli di un ariete.

Bibliografia

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BIBLIOGRAFIA
Intersezione Aree: Holger Danske
Sezione Miti: Asteríōn
Area Celtica: Óengus Óc
Ricerche e testi di Dario Giansanti e Oliviero Canetti.
Ha collaborato: Mara Ricci.
Creazione pagina: 22.04.2004
Ultima modifica: 25.08.2014
 
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