1 -
DAL BUIO ALLA LUCE
ome
già Cesare testimoniava nei suoi commentari, i Galli affermavano di discendere
da Dis
Pater, il signore degli inferi, come era stato tramandato dalla sapienza dei druidi. Il loro mondo era dunque qualcosa che
procedeva dal basso all'alto, dal buio alla luce, dal gelo della
morte al calore della vita.
Su questa dicotomia
s'incentrava il calendario gallico che divideva i giorni, i mesi, gli anni, in
due metà, di cui una era caratterizzata dall'oscurità, dalla torpida
latenza, dall'assenza di vita; l'altra dalla luce, dal movimento, dal calore e dalla presenza
della vita.
Per questa ragione i Celti misuravano il tempo partendo
dal buio per risalire poi verso la luce. I giorni cominciavano al
tramonto del sole, e dunque la notte precedeva il dì.
Le date natalizie, il principio dei mesi e degli anni erano
contati facendo sempre cominciare il giorno dalla notte e questa è la ragione
per cui la celebrazione delle feste cominciava al tramonto del giorno precedente.
Analogamente, gli anni
iniziavano dall'inverno. Il capodanno celtico si celebrava a novembre quando il mondo
precipitava nelle tenebre invernali. L'anno moriva durante i mesi bui e freddi,
prima di rinascere a maggio, maturarsi nel lungo e caldo
semestre estivo per ancora morire
sul far dell'inverno.
L'idea celtica del
tempo era un'eterna e ripetuta sequenza di morte e rinascita, un continuo
evolversi dalle tenebre alla luce. Così la vita dell'uomo su questa terra era la
continuazione di una oscura pre-esistenza. Poiché discendevano da Dis
Pater, i Celti traevano origine dal mondo
infero. La morte precedeva la
vita. L'esistenza umana seguiva un ciclo non differente da quello del giorno o dell'anno: cominciava nell'oscura stagione
della morte e proseguiva nella stagione luminosa della vita: infanzia, giovinezza, maturità,
vecchiaia. L'attimo del trapasso era una sorta di tramonto: alla lunga notte
della morte sarebbe seguito il sorgere di un nuovo mattino.
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2 - LA NOTTE
E IL GIORNO
ei
molti
cicli del tempo, quello che immediatamente segna l'esperienza dell'uomo è
l'alternarsi della notte e del giorno, del buio e della luce. Per i Celti, il
tramonto e l'alba erano, come tutti i momenti di transizione, dei passaggi
delicati in cui a scambiarsi reciprocamente non erano soltanto la luce e le
tenebre, il sole e le stelle.
Giorno e notte, più che periodi del tempo, erano
due «mondi»
che sfumavano continuamente l'uno nell'altro.
Si narra
che quando Óengus Óc chiese in
prestito al padre, il Dagda Mór, la sua dimora del Bruig na Bóinne
per «un giorno e una notte», rifiutò poi di restituirgliela.
Prestandogliela per un giorno e una notte, infatti, il
Dagda Mór gliela aveva concessa per
sempre, perché, come osservò Óengus, «è in un giorno e in una notte che si consuma il mondo». Il tempo
è dunque formato di
un mondo diurno e un mondo notturno che si scambiano incessantemente l'uno con
l'altro.
Così, mentre il giorno
appartiene agli uomini, la notte appartiene agli esseri dell'«altro
mondo». È opportuno che dopo il tramonto gli uomini ritornino nelle loro abitazioni:
chi si attarda nella notte fuori casa rischia di disturbare il popolo
soprannaturale. È bene non restare in piedi fino a tardi, perché la nostra notte
è il loro giorno. Durante le ore più buie, i morti si avvicinano in
silenzio alle case e desiderano di trovarvi quiete e tranquillità; la maniera di
mostrare loro rispetto consiste nel ritirarsi presto, lasciando la casa ben pulita e
le sedie allineate attorno al focolare, dove le braci calde riposano sotto la
cenere. Quando arriva l'alba
a disperdere le tenebre, il canto del gallo rimanda gli spiriti e le
creature soprannaturali alle loro dimore.
Il giorno inizia con
il tramonto e le ore notturne precedono le ore di luce. Notte e giorno sono due
opposte realtà: il soprannaturale e il naturale che si scambiano eternamente
di posto, con il silenzio e la quiete delle tenebre che precedono le alacri
attività diurne dei mortali. Così come un piccolo seme a lungo conficcato nella
terra sorge infine un albero, dal mondo dei morti nasce quello dei vivi,
nella notte si matura il giorno.
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3 - LE
FESTE STAGIONALI
anno era una sorta di ruota che girava
incessantemente, trascorrendo sei mesi nelle profondità dell'inverno [geimrad]
e sei mesi nella luce dell'estate [samrad]. Solo queste due stagioni
formavano l'antico anno gaelico, il quale
era scandito da quattro importanti festività, che cadevano quarantacinque
giorni dopo i due equinozi e i due solstizi.
In
Ériu queste ricorrenze si chiamavano:
1° novembre. Samain
1° febbraio: Imbolc
1° maggio. Beltain
1° agosto. Lúgnasad
Samain e Beltain erano le due
feste più importanti, perché erano i punti di passaggio tra l'una e l'altra
stagione. Samain
segnava l'inizio del lungo inverno, il momento in cui l'anno moriva,
sprofondando nel gelo e nelle tenebre; Beltain segnava la fine
dell'inverno, il momento in cui l'anno rinasceva, risorgendo a nuova vita,
ascendendo verso la luce e il calore dell'estate.
Imbolc e Lúgnasad
erano invece il culmine delle due stagioni. In particolare, Imbolc
segnava il punto più profondo, buio e misterioso dell'inverno, ma era il momento
in cui la lunga discesa nelle tenebre si arrestava e cominciava la lenta risalita
verso la vita; Lúgnasad segnava invece l'apice dell'estate, il
momento in cui l'anno aveva raggiunto il culmine della maturità, prima
che entrasse nella fase calante.
Naturalmente i Gaeli conoscevano anche la primavera
[earrach] e l'autunno [fómar], ma questi erano considerati
soltanto dei periodi di transizione tra l'una e l'altra stagione.
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4 - LA RUOTA DELL'ANNO
anno cominciava nel momento stesso
in cui moriva, a Samain. Era la fine dell'estate e l'inizio del lungo
inverno, quando i giorni si facevano sempre più corti e il mondo sprofondava
nelle tenebre. Le bestie venivano condotte giù dai pascoli estivi,
radunate e chiuse nelle stalle per svernare; i capi in eccesso erano macellati,
perché non si poteva tenerli in vita durante i difficili mesi di freddo. Gli
uomini si ritiravano nelle case, facendo piccoli lavori e raccontandosi storie
alla luce del fuoco. Si chiudevano le spedizioni militari; le azioni di guerra e
le scorrerie venivano sospese. Gli orgogliosi fíanna
lasciavano la loro vita tra i boschi e le selve di Ériu, e tornavano
ad acquartierarsi presso la popolazione sedentaria.
A
un certo punto, arrivava Imbolc, la festa di mezzo inverno. Questo era il
momento in cui i lunghi sei mesi invernali giungevano al culmine. Eppure in
questo periodo buio nascevano gli agnellini e le pecore cominciavano a dare
latte. Questo tempo era dedicato alla dea
Brígit, che veniva celebrata accendendo
candele vergini e piccole fiammelle, che brillavano nel buio, come per
annunciare la speranza di una nuova primavera.
Si benedicevano i semi e si consacravano gli aratri e
gli strumenti agricoli, che tra non molto sarebbero stati usati ancora una
volta. Dopo aver raggiunto il suo punto più profondo, l'inverno cominciava a
risalire verso la luce. Donne e uomini uscivano dalle case per spiare, nei campi
bianchi di neve, i primi indizi della bella stagione.
Primo di
Maggio, che bella visione,
bella parte di stagione;
cantano i merli un'aria perfetta
quando il sole irraggia appena.
Cuculo canta gagliardo
e robusto:
«Benvenuta o bella Estate:
diminuisce la forza del vento
che spezzava i boschi frondosi».
S'aprono i bòccioli dei
biancospini,
il mare scorre tranquillo;
quando l'oceano vien messo a
dormire,
i fiori ricoprono il mondo.
Timido uccello dal
fischio costante
cinguetta gioioso lassù;
cantano a tutti le allodole chiare:
«Primo
Maggio, che bella visione!»
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Beltain segnava la rinascita, la
resurrezione, l'inizio dell'estate. Gli alberi avevano messo le foglie, i fiori
ricoprivano le brughiere e il cielo era pieno di ali e di canti. La fine
del lungo isolamento invernale veniva festeggiato con gioia sfrenata, e giovani
e fanciulle ornati di ghirlande danzavano intorno ai pali di maggio e i fuochi
di Beltain illuminavano la campagna. Si purificavano gli animali dopo la
loro lunga reclusione nelle stalle facendoli passare in mezzo ai fuochi, poi li
si portava su nei pascoli estivi. Con l'inizio della bella stagione, i guerrieri
si riunivano sotto i loro sovrani e riprendevano le incursioni e le battaglie. I
fíanna lasciavano i loro
acquartieramenti invernali e tornavano alla loro esistenza boschiva, dove
vivevano cacciando e pescando per tutta l'estate. È lo stesso
Finn mac Cumaill a cantare:
L'estate è
venuta, esuberante, libera,
fa incurvare il bosco ombroso;
salta la cerva, veloce, sottile,
e liscio è il percorso delle foche.
Dolce canzone canta il
cuculo,
induce a sonni lievi;
saltellano gli uccelli sulle placide colline
e balzano gli agili cervi grigi.
Il verde prorompe da ogni pianta,
frondosi i cespugli nel verde
querceto.
L'estate è venuta, l'inverno è
finito:
agrifogli contorti feriscono i
cani.
Il sole sorride su ogni
terra
allontanando il brutto tempo.
Latrano i cani, i cervi s'aggruppano,
s'addensano i corvi. L'estate è venuta.
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Al culmine dell'estate arrivava il
Lúgnasad, la festa dedicata al dio
Lúg. Le preoccupazioni per la raccolta del
fieno erano finite e si profilava la prospettiva della mietitura del frumento.
Si tenevano grandi fiere, con giochi e competizioni sportive, e la più
importante si svolgeva a Óenach Tailten nell'Ulaid: la festa iniziava due
settimane prima del Lúgnasad e finiva due settimane più tardi.
Ad Óenach Tailten si tenevano
gare di atletica, nel corso delle quali era possibile far mostra della velocità
dei cavalli, mostrare la propria abilità nel tirare con l'arco, nello scagliare
la lancia, nel nuoto e nella lotta; la sera i bardi, i cantastorie, i poeti, i
musici intrattenevano la gente con la loro abilità.
Ma Lúgnasad era anche il momento in cui si celebravano i matrimoni, perché i
giovani erano i primi ad esibirsi. C'erano matrimoni d'amore e
matrimoni combinati in cui, secondo la condizione del ragazzo o della fanciulla,
era in gioco l'interesse dei clanna. Ma erano i matrimoni in prova quelli che si
celebravano a Lúgnasad. Infilando le mani in una pietra perforata, i due
giovani s'impegnavano a vivere insieme per un anno e un giorno. Se
figli fossero venuti, sarebbero nati a Beltain, all'inizio della bella
stagione, quando avrebbero avuto davanti a loro i mesi più caldi. Se la coppia
avesse deciso di dividersi, al successivo Lúgnasad l'uomo e la donna sarebbero tornati sul luogo della fiera, si
sarebbero messi schiena contro schiena e sarebbero andati in
direzione opposte. Ma Lúgnasad era anche il momento in cui, raggiunto il massimo splendore,
l'estate entrava nella fase calante: seguivano i colori dorati dell'autunno a
segnare il declino della bella stagione.
Una storia per voi:
il cervo bramisce,
neve in inverno
l'estate è finita.
Il vento è gelato,
basso sta il sole,
breve il suo corso;
il mare in tempesta.
Si
arrossa la felce,
perdute le forme;
l'oca selvatica
riprende il suo grido.
Il
gelo ha stretto
le
ali degli uccelli,
regno di ghiaccio.
Questa è la mia storia.
|
Quando le giornate si erano ormai
visibilmente accorciate, con il brutto tempo e il freddo pungente dell'autunno,
si arrivava di nuovo a
Samain, la ricorrenza che celebrava la fine dell'estate, la morte dell'anno.
L'Ard Ríg, il re supremo di Ériu, indiceva la Feis Temra, la festa di Temáir: una
solenne assemblea della durata di sette giorni (tre prima e tre dopo Samain),
a cui partecipavano tutti i principi e i guerrieri a lui sottomessi. Nella sala
del banchetto ogni professione aveva il suo posto prestabilito: i membri
dell'aristocrazia, i guerrieri e i campioni riponevano le armi in vista del
lungo inverno, i poeti declamavano canti e antiche saghe. Così il re supremo
riconosceva il ruolo e le prerogative di ciascuno, e i sudditi riconoscevano la
supremazia del re.
Samain era la celebrazione di capodanno, l'ultima e la prima festa
dell'anno. I druidi provvedevano ad accendere un nuovo fuoco sacro, le cui
fiammelle venivano portate in tutte le case.
Ma se
Samain era un periodo delicato, la notte vigiliare lo era ancora di
più. Era il momento di transizione tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte, e come tale non
apparteneva al tempo, ma all'eternità. Tutto ciò che accadeva la notte di Samain
acquistava un significato profondo. I grandi momenti epocali del mito irlandese, gli incontri magici, le
solenni battaglie, gli amori e le metamorfosi,
si svolgevano a Samain. In questo giorno dileguavano i confini tra il nostro
e l'altro mondo, si aprivano le porte dei síde, gli esseri soprannaturali venivano nel
nostro mondo e gli
uomini cadevano senza accorgersene nell'aldilà. Pochi uscivano di casa, nella
notte di Samain. C'era sempre il rischio di imbattersi negli esseri
soprannaturali, nelle schiere del popolo dei morti. La gente lasciava piccole
offerte sulle soglie delle case per saziare gli spiriti, si evitava di
mettere le spranghe alle porte in modo che le anime dei defunti potessero
tornare alle loro case e si lasciavano per loro le panche allineate attorno al
focolare.
Ma Samain era anche un
momento di sfrenato disordine: i giovani si mascheravano essi stessi da spettri,
imbiancandosi o annerendosi il viso, indossando veli o coprendosi di paglia, e
all'imbrunire giravano nei villaggi combinando scherzi e monellerie, aprendo le
stalle, soffiando il fumo nei pertugi delle case e bombardando le abitazioni di
ortaggi strappati dai giardini. Nella notte di Samain lo spazio e il
tempo dileguavano e l'ordine sociale veniva sospeso.
Poi il tempo ricominciava a
scorrere e tutto tornava come prima. Il lungo inverno ricominciava...
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Fonti
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I - I CICLI E LA DUALITÀ DEL TEMPO
La concezione, a noi familiare, di un tempo
lineare, incentrato sul meccanismo della storia e dell'unicità dei singoli
eventi, sembra essere un'idea piuttosto recente. Al contrario, si ha ragione di credere
che, fin dagli albori della storia, l'uomo abbia concepito il tempo come qualcosa di circolare, di ciclico. D'altronde l'esperienza che l'uomo ha del
tempo appare costituita da cicli che si ripetono
incessantemente. Ogni giorno termina con un tramonto, ma ad ogni notte segue una
nuova alba. Ogni mese vediamo la luna crescere, divenire piena e poi calare, svanire,
per crescere
di nuovo il mese successivo. Anno dopo anno le stagioni si succedono con lo
stesso andamento, la natura fiorisce a primavera, raggiunge il suo culmine
sotto il sole dell'estate, declina in autunno e muore tra i rigori dell'inverno,
salvo poi sbocciare di nuovo a primavera. Ogni ciclo del tempo segue
incessantemente il suo corso, si chiude e ricomincia. Chiunque viva sotto il
cielo stellato e a contatto con i modi della natura sarà istintivamente portato a costruire una concezione
del tempo che sia circolare, regolare, ciclica.
Anche i Celti, come moltissimi altri popoli antichi, avevano un'idea circolare del tempo.
Ma per essi tale circolarità aveva una importante caratteristica: era duale.
Ogni manifestazione ciclica era formata da una parte oscura e da una
parte luminosa. Così come la giornata si distingueva naturalmente in notte e
dì, l'anno veniva diviso in due «stagioni» di sei mesi,
inverno ed estate. Allo stesso modo i mesi venivano divisi in due «settimane» di quindici giorni, legate
alla luna nuova ed alla luna piena.
Ma nei vari ritmi del tempo –
giorni, mesi, anni – il passaggio dall'una all'altra metà del ciclo, dalla metà
oscura a quella luminosa, non era visto come una progressione di periodi
temporali caratterizzati da qualità antitetiche, quanto piuttosto come il mutuo
avvicendarsi, in ogni manifestazione della realtà, di due opposte modalità di esistenza.
Da qui, nel racconto irlandese
Tochmarc Étaíne, il rifiuto di Óengus Óc di
restituire ad Elchmar a dimora che
questi gli aveva concesso in prestito per «un giorno e una notte» [laí
co n-aidchi], adducendo che è «in un giorno e in una notte che si consuma il
mondo» (Rees ~ Rees 1961 | Cataldi 1987). Non si tratta di un cavillo ma del riconoscimento della natura delle
cose, perché giorno e notte sono «stati» che non
appartengono al tempo ma all'essere. Lo stesso racconto compare in una vicenda
narrata nel
Lebor Laignech, ma qui è il
Dagda Mór
a venire estromesso da Óengus con
queste parole: «È evidente che notte e giorno sono tutto il mondo, ed è questo
ciò che mi hai concesso». Nel Ciclo dell'Ulaid, re Conchobar mac Nessa ottiene in modo analogo il regno sull'Ulaid:
Fergus mac Róich gli concede la sovranità per un
inverno e un estate, ma giunti alla fine dell'anno, si sente rispondere che il
regno gli era stato assegnato per sempre, in quanto «con le estati e con gli
inverni il mondo va avanti». Se, come hanno rilevato gli studiosi, re
Conchobar è la personificazione dell'anno, vi sono
elementi per considerare Óengus Óc la
personificazione del giorno: egli viene chiamato
Mac Óc «figlio giovane», in quanto è
concepito e partorito in un solo giorno, che il Dagda
aveva opportunamente, magicamente allungato.
L'opposizione tra stato
«oscuro» e stato
«luminoso» aveva
innanzitutto valore ontologico. Che poi tale opposizione si esprimesse nei cicli del
tempo era solo una conseguenza della natura duale della realtà. Dunque –
interpretando con parole nostre – non era tanto il tempo a scorrere, quanto piuttosto tutte le manifestazioni dell'esistenza (il cielo, il mondo, l'uomo) a fluire ciclicamente attraverso i due opposti
stati dell'essere. Un primo stato di immobilità e latenza, intriso di
soprannaturalità e del gelo sotterraneo della morte; e un secondo stato di manifestazione, contraddistinto
dal calore, dalla luce, dal pulsare e sbocciare della vita. Ogni ciclo duale aveva un significato simbolico quale microcosmo in cui
si riassumeva la totalità del tempo, la totalità dell'essere.
Infine – è un punto
molto importante – questa dualità non mancava di un preciso orientamento. Ogni
ciclo iniziava con la metà «oscura»
e si chiudeva con la metà «luminosa». Dunque,
la notte precedeva il giorno, l'inverno
precedeva l'estate. Il calendario celtico faceva
cominciare il giorno dal
tramonto, l'anno dall'inizio dell'inverno. I vari cicli si
riflettevano gli uni negli altri, seguendo tutti quanti uno stesso orientamento
che procedeva immancabilmente dal sottosuolo alla superficie, dal freddo al
caldo, dal buio alla luce e, in definitiva, dalla morte alla vita.
Tuttavia quest'orientamento buio
→ luce implicava, trattandosi di un ciclo,
anche il suo contrario: luce
→ buio. Così come la luce scaturisce dalle
tenebre, è essa stessa destinata a sprofondare nelle tenebre. Et in pulvis
reverteris. Come opportunamente notano Alwyn e Brinley Rees, le tenebre, equiparate al
caos primordiale che precede la creazione e alla gestazione che precede
la nascita, vengono prima della luce. Tuttavia, come simbolo di morte e
dissolvimento, esse ritornano immancabilmente dopo che la luce si è
spenta. (Rees ~ Rees 1961)
|
II
- TEMPO E SPAZIO, VITA E MORTE: ASPETTI DI UN UNICO
CICLO
Se consideriamo il flusso del
tempo o il ciclo della vita troviamo una stretta analogia. Il mondo nasce a primavera, raggiunge la maturità in estate, declina
in
autunno e muore nel freddo inverno. Ma l'inverno è anche il periodo di attesa che precede una nuova nascita. La morte dunque
non è non-esistenza, ma è esistenza in potenza, esistenza in attesa,
esistenza in boccio.
Così come l'inverno precedeva
l'estate e la notte precedeva il giorno, così dunque, per i Celti, la morte
precedeva la vita. Questo getta un po' di luce sul famoso passo di Caesar
secondo il quale i Galli ritenevano di discendere da
Dis Pater, il dio dell'oltretomba:
Galli se
omnes ab Dite patre
prognatos
praedicant idque ab
druidibus proditum
dicunt. ob eam causam
spatia omnis temporis
non numero dierum, sed
noctium finiunt; dies
natales et mensum et
annorum initia sic
obseruant ut noctem dies
subsequantur. |
I Galli
affermano di discendere
tutti da
Dis
pater e che
questa tradizione
è stata
tramandata dai druidi.
Per questo motivo
misurano la durata del
tempo contando le notti,
non i giorni; anche il
giorno natale, l'inizio
del mese o dell'anno
vengono calcolati come
se la notte precedesse
il giorno. |
Caius Iulius Caesar:
De bello Gallico [VI: 17] |
L'informazione, sempre di Caesar,
secondo
cui i Celti credevano alla reincarnazione
(De
bello Gallico [VI: 14]) è stata più volte messa in dubbio
dagli studiosi: eppure la metempsicosi è la concezione che si adatta più di ogni
altra allo schema del tempo circolare. L'esistenza umana passava continuamente
dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, in una continua sequenza di
esistenze. E questo perché «morte» e «vita» erano i due stati che
caratterizzavano la manifestazione umana. Lo stesso ciclo del tempo si applicava
anche all'uomo, la cui esistenza – come il giorno
passava dalle tenebre alla luce e l'anno dall'inverno all'estate – trascorreva
continuamente dall'uno all'altro stato: dallo stato
«oscuro» (sotterraneo, soprannaturale,
potenziale) a quello stato «luminoso»
(vitale, naturale, manifestato).
|
L'Ankou |
La tradizioni bretoni sono assai ricche di
riflessioni sulle tenebre notturne e sul loro collegamento con il mistero della
morte. Questo è l'Ankou, con la sua falce montata al contrario, che osserva
passare l'Anaon, il lugubre popolo delle anime. |
Un po' ostica da comprendere –
eppure logica – questa concezione della
morte che precede la vita. Ne derivano molte curiose simmetrie ed opposizioni,
tra cui quella, che tanto ha dato filo da torcere agli studiosi, dell'«altro
mondo», che i testi irlandesi chiamano con molti nomi, di cui il più noto è forse Tír na-nÓc
«terra della giovinezza». Come tratteremo più approfonditamente in uno
dei prossimi capitoli,
i Celti insulari ritenevano che al nostro mondo si affiancasse una sorta di mondo
parallelo, collocato vagamente sottoterra, sotto il
mare, oppure all'interno delle colline fatate [síde]. In tale mondo
vivevano
le creature soprannaturali, i Túatha Dé
Dánann, i daoine síde, che nel folklore popolare sarebbero divenuti il
Piccolo Popolo. Ma esso era insieme il paradiso terrestre e la dimora dei morti. Gli studiosi sono sempre stati imbarazzati nel
collocare esattamente questo «altro mondo» nell'ambito di una metafisica
coerente che coinvolgesse la natura del mondo e il destino delle anime, perché,
ragionando secondo le nostre categorie, i conti continuavano a non quadrare.
Ma s'intravede d'una tratto una sorta di logica se
solo esaminiamo l'antinomia tra il nostro
mondo e l'altro mondo alla luce di questa concezione dei cicli dell'essere che non solo oppongono il
giorno alla notte, l'estate all'inverno, la vita alla morte, ma che trasfigurano
continuamente dall'uno all'altro stato, portando la notte la notte a farsi giorno e il
giorno notte, l'inverno a trasformarsi in estate e l'estate in inverno, la vita
a cambiarsi in morte e
la morte a ritornare vita.
Questa serie di opposti creava
un gioco di simmetrie che era poi l'impalcatura della realtà nel pensiero celtico. Se ne possono vedere molte interessanti
applicazioni delle credenze popolari irlandesi. Ad esempio è noto che, mentre il giorno appartiene agli uomini, dopo il
tramonto entrano in attività gli spiriti e i folletti provenienti dall'«altro
mondo». Si crede che la notte (e ciò in senso molto reale) appartenga a loro; ed
è dunque opportuno che, dopo il tramonto, i mortali ritornino nelle loro
abitazioni. A restare in giro la notte si rischia di disturbare gli esseri soprannaturale e si corre il rischio di riconoscere,
tra fate e folletti,
gli spiriti dei parenti defunti. Come sorge l'alba a disperdere le tenebre, così
il canto del gallo rimanda gli spiriti e le creature soprannaturali al loro
mondo. In Irlanda, la gente di campagna fino a tempi
molto recenti riteneva inopportuno
restare in piedi fino a tardi, perché si credeva che a notte fonda i morti entrassero in casa, sperando di trovarla tranquilla, e la maniera di
mostrar loro rispetto consisteva nel ritirarsi presto, lasciando la casa pulita e
le sedie ben ordinate intorno al camino, dove le braci riposavano sotto la
cenere. (Rees ~ Rees 1961)
Avviene un
netto scambio di valenze. La notte è il giorno degli esseri
soprannaturali e il giorno è la loro notte. Il nostro mondo durante la notte acquista
caratteristiche magiche e soprannaturali. Afferma un proverbio
irlandese: «La Terra della Giovinezza è dietro la casa, una bella terra che
fluisce dentro sé stessa» [Tá Tír na-nÓg ar chul an tí, tír álainn trina
chéile]. Mondo eterno e mondo mortale fluiscono l'uno nell'altro,
compenetrandosi strettamente, come ben esprime l'espressione gaelica «intessuti l'un
l'altro». (O'Donoghue 1998)
Come il tempo è successione di
luce e di tenebre (notte ↔ giorno / inverno
↔ estate), così
lo spazio è un continuo ciclo di passaggio tra il mondo mortale e il mondo
eterno. I cicli dei giorni, dei mesi, degli anni, sono soltanto l'aspetto
temporale di quel continuo flusso ontologico che trasfigura i due stati della
realtà – il buio e la luce, la potenza e l'atto, la vita e la morte, il naturale
e il soprannaturale, il fisico e il metafisico – l'uno nell'altro, in un eterno
alternarsi da cui deriva l'essenza stessa del mondo in cui viviamo.
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III - LE QUATTRO FESTE
STAGIONALI
Le quattro feste stagionali erano gli avvenimenti più importanti del
calendario celtico. Feste sicuramente di origine antichissima, è probabile
fossero ben conosciute fin da un'epoca molto remota da tutti i popoli celtici,
anche se le indicazione al riguardo sono contrastanti. Per quanto riguarda i
Galli, sembra che almeno una delle quattro feste sia segnalata nel calendario
di Coligny, anche se non conosciamo le celebrazioni che vi erano
legate. Tutt'e quattro le feste erano però conosciute in Britannia e in
Irlanda, dove hanno dato origine a una ricca tradizione che non è ancora
tramontata.
Queste quattro feste, che in Irlanda si chiamavano
rispettivamente Imbolc (Oimelc),
Beltain, Lúgnasad e Samain, cadevano nei punti
intermedi tra gli equinozi ed i solstizi. Sembra infatti che gli antichi Celti non conoscessero ricorrenze legate direttamente agli equinozi ed ai
solstizi (anche se ancora oggi le sètte neodruidiche e molti gruppi pagani continuano imperterriti a celebrare tali date).
Samain e Beltain dividevano l'anno nelle due
«stagioni» semestrali, di cui segnavano gli inizi:
rispettivamente il momento in cui iniziava l'inverno, il tempo freddo e
oscuro della morte, e quello in cui iniziava l'estate, il tempo caldo e
luminoso della vita. Imbolc e Lúgnasad segnavano
invece i punti culminanti delle due stagioni: rispettivamente il momento in cui la ruota dell'anno si trovava nel
suo punto più buio e profondo, in cui la discesa si arrestava e
iniziava la lenta risalita alla luce, e il momento in cui la ruota dell'anno
arrivava all'apice della luce, in cui l'ascesa si fermava e
iniziava la discesa verso le tenebre.
Imbolc, 1° febbraio
Antico
irlandese Imbolc od Oimelc; irlandese
moderno Imbolg od Oimealg. Il secondo
termine significa «latte
ovino», a indicare che in origine si trattava
di una festa legata alle pecore da
latte.
La festa di Imbolc
cadeva tradizionalmente il 1° febbraio, nel punto
mediano tra il solstizio d'inverno e l'equinozio di
primavera. Imbolc segnava il culmine
dell'inverno, che però era anche il momento in cui la
discesa nelle tenebre si arrestava e la ruota
dell'anno ricominciava la sua lenta risalita verso la
luce. Si accendevano candele e fiammelle per
celebrare l'inizio del ritorno alla vita, la certezza
che presto le giornate si sarebbero fatte di nuovo lunghe
e luminose.
In questo periodo
venivano alla luce gli agnellini e le pecore
producevano latte. Nella nostra epoca, in cui il cibo è prodotto
artificialmente, è difficile immaginare che cosa potesse
essere l'inverno senza latte fresco a disposizione. Eppure, giova ricordarlo, né
pecore né mucche dànno latte se non hanno partorito. E il latte fresco, il formaggio, il burro e il siero di latte, per
non parlare dei pasticci fatti con le code mozzate degli agnelli,
costituivano spesso la differenza tra la vita e la morte per le
persone anziane e i bambini, durante il gelo pungente di febbraio. (Matthews 1989)
Le leggende legate alla festa di Imbolc sono
scarse. Una strana tradizione presente nel
Leabhar Mhic Cárthaigh Riabhaigh (anche detto
«Libro di Lismore»)
narra che i ragazzi di Roma, nel giorno di Imbolc,
erano soliti giocare su una strana scacchiera che
presentava la figura di una strega da un lato e
quella di una fanciulla dall'altra. La strega
lanciava un drago contro la sua avversaria, la quale
le lanciava a sua volta un agnello, e l'agnello
vinceva il drago. Allora la strega mandava un leone
contro la ragazza, e la ragazza provocava una
grandinata che sconfiggeva il leone. Papa Bonifacio
chiese ai ragazzi chi avesse insegnato loro questo
gioco. Gli fu risposto che glielo aveva insegnato la
Sibilla, come simbolo della lotta di Cristo contro il
diavolo. Il papa allora proibì il gioco perché la
venuta di Cristo era un fatto storico.
(Matthews 1989)
Il confronto tra la
fanciulla e la strega potrebbe in effetti avere un
significato inerente alle due metà dell'anno. La
fanciulla potrebbe essere la dea
Brígit, a cui
era dedicata la festa di Imbolc. Era a lei, la
signora che tutelava la nascita degli agnelli e
l'eterno rinnovellarsi della vita, a cui era affidata
la speranza dell'arrivo della luce e della bella
stagione. La strega è colei che nel folklore
irlandese si chiama
Cailleach, la strega
sotto i cui auspici l'anno muore e sprofonda nelle
tenebre invernali.
Brígit e la
Cailleach sembrano
essere i simboli della nascita e della morte
dell'anno, oltre che significative figure nei riti e
nei miti inerenti alla regalità (Matthews 1989).
In tali miti la strega e la fanciulla sembrano essere due aspetti interscambiabili di un medesimo
principio e, nei periodi di transizione, l'una
può trasformarsi nell'altra. Ricordiamo che
Niáll Noigiallach
divenne re di Ériu perché ebbe il coraggio di giacere
con un'orrenda strega, la quale si trasformò poi in
una splendida ragazza.
In epoca cristiana la festa di Imbolc venne
equiparata alla Candelora. Poiché la festa pagana era
sotto gli auspici della dea
Brígit, si
trasformò naturalmente nella ricorrenza di Santa
Brigida, il cui fuoco perpetuo acceso a Kildare era
certamente una continuazione delle fiammelle di Imbolc. Ancora oggi, nelle immagini popolari,
Santa Brigida viene raffigurata reggendo in mano un
piattino nel quale arde una fiammella, ed è sovente
accompagnata da agnelli e mucche. Fino a non molto
tempo fa era consuetudine nelle famiglie irlandesi –
ma ancora oggi negli asili e nelle scuole – giocare
con la cosiddetta «croce di Santa Brigida», una sorta
di croce di giunchi intrecciati che veniva usata per
piccoli giochi d'azzardo e si credeva permettesse di
trarre auspici per il futuro. La tradizionale forma a
svastika ne tradisce
l'antichissimo carattere solare.
Beltain, 1° maggio
Antico irlandese
Beltane/Beltain (< *Beletene),
irlandese moderno Bealtaine (nome del
mese di maggio), gaelico scozzese Bealtuinn,
mannese Shenn do Boaldyn. Da bel- «luce,
splendore» (a sua volta da un indoeuropeo *BʰEL- «splendore») e
tain «fuoco», dunque
festa del «bagliore dei
fuochi». In Galles la ricorrenza si chiama Calan Mai
«calendimaggio». Non si hanno indicazioni che i Celti
continentali celebrassero una festa analoga.
La festa di Beltain
cadeva il 1° maggio, a segnare punto
mediano tra l'equinozio di primavera e il solstizio
d'estate. L'esatta data astronomica è in realtà il
5 maggio, giorno in cui è probabile cadesse la
ricorrenza nei tempi antichi. Beltain segnava
l'inizio dell'estate. Era il tempo in cui gli animali
venivano fatti uscire dalle stalle, dopo la lunga
reclusione invernale, e
avevano luogo le riparazioni dei
recinti; i pastori portavano
le mandrie nei pascoli ed i guerrieri
iniziavano le loro campagne militari. A Beltain si
teneva il grande raduno di Uisnech Míde, nel quale
venivano conciliati i litigi e stabilite legalmente
le separazioni matrimoniali.
Il nome Beltain
è corradicale con quello del dio gallico
Belenos,
anch'esso costruito sulla radice bel-.
Seathrún Céitinn (Geoffrey Keating), nei suoi
Foras feasa ar Éirinn, afferma che in questa ricorrenza gli antichi Gaeli
«solevano offrire un sacrificio al principale dio che adoravano
e questo era chiamato Béil». Secondo quanto afferma Cormac
mac Culennáin nel suo famoso «Glossario»,
a Beltain i
druidi facevano passare il bestiame tra due fuochi
per purificarlo e preservarlo dalle malattie nel
corso dell'anno:
Belltaine .i. bil tene .i. tene ṡoinmech .i. dáthene dognítis druidhe triathaircedlu (no cotinchetlaib) móraib combertis nacethrai arthedmannaib cacha bliadna cusnaténdtibsin [l]eictis nacethra etarru. |
Beltain. Bil tene, cioè il «fuoco propizio»: i due fuochi che i druidi utilizzavano per praticare i loro grandi incantesimi; ogni anno, portavano tra questi fuochi le mandrie, per salvaguardarle dalle malattie. |
Cormac mac Culennáin:
Sanas Cormaic [122] |
Intorno a questi fuochi danzava la
gente, dando così il benvenuto alla bella stagione.
La celebrazione, per quanto non più officiata dai
druidi, si è conservata fino a tempi molto recenti in
Irlanda e Scozia.
Nel mito irlandese, il giorno di
Beltain è
tradizionalmente legato agli inizi. È in
Beltain che giungono in Ériu tre delle mitiche
invasioni: i
Muintir
Partholóin, le
Túatha Dé
Dánann e i
Clanna Míled.
In Galles la festa del Calan Mai aveva evidente riferimento al Calendimaggio.
La tradizione cimrica parla della notte del Calan Mai
come di un periodo delicato, soprannaturale, non
molto diverso di quello che la tradizione irlandese
afferma fosse Samain. I
Mabinogion raccontano molti di questi
eventi fatali: nella notte di Calan Mai un essere
soprannaturale rapì Pryderi, il figlio
appena nato di
Rhiannon
(Pwyll pendefig Dyfed);
Pryderi fu ritrovato
sempre a Calan Mai, quando
Teyrnon si batté con il
braccio mostruoso che gli rubava i puledri dalla
stalla e trovò così il bimbo rapito. Sempre in questa
notte risuonava su tutta la Britannia un
misterioso urlo di terrore in grado di far perdere il
coraggio agli uomini, provocare aborti alle donne,
far divenire sterile la terra (Llûdd
a Llefelys). Anche il bardo
Taliesin, rinato
dal ventre di Ceridwen,
venne trovato a Calan Mai:
Elphin lo rinvenne in un
sacco di cuoio nella pescaia, dove egli era andato a
cercare un magico salmone (Hanes
Taliesin).
Al
calendimaggio corrispondeva, nei paesi anglosassoni, il
May Day,
che nel Medioevo fu una festa gaia e allegra, come
ricorda Robert Graves, con le focacce, la birra
chiara, le ghirlande, le gare di tiro con l'arco, le
altalene [merry-totters] e i grandi tini di
cagliata con zucchero e vino [merrybowks] a
cui si poteva attingere liberamente. Ragazzi e
ragazze danzavano attorno ai tradizionali pali ornati
di nastri [may-pole], uso che ancora perdura
in diversi paesi del Nord Europa. A sera, lasciato lo
spiazzo mano nella mano, i giovani si
ritiravano nel bosco dove amoreggiavano per tutta la
notte attendendo il canto dell'usignolo
(Graves
1948-1961). La festa culminava, secondo un uso che risaliva probabilmente
ai riti precristiani degli antichi Britanni, con le nozze
rituali
tra l'Uomo Verde e la Regina di Maggio, una coppia di personaggi che vennero
recuperati nelle rappresentazioni popolari come
Robin Hood
e Maid Marion.
Sempre a questa ricorrenza è anche legata la famosa notte di Valpurga
[Walpurgisnacht], data del sabba delle
streghe, che cadeva nella notte del 30 aprile. Valpurga fu una mite principessa
inglese dell'VIII secolo, che si fece suora, fondò parecchi
monasteri in Germania e fu poi santificata. Non si vede quindi
perché proprio nel giorno a lei dedicato si celebri il sabba
delle streghe.
Lúgnasad,
1° agosto
Antico irlandese Lúgnasad,
irlandese moderno Lúghnasadh > Lúnasa,
gaelico scozzese Lùnastal,
mannese Luanistyn. La parola
è interpretata con «giochi di
Lúg»,
con riferimento al dio irlandese della luce e
dell'estate. L'altro
termine con cui la festa è conosciuta, Lammas,
deriva invece dall'anglosassone hlaf-mas
«messa del pane». In gallese la festa è
chiamata semplicemente Gwl
Awst «festa d'agosto, ferragosto».
La festa di Lúgnasad cadeva tradizionalmente il 1°
agosto, nel punto
mediano tra il solstizio d'estate e l'equinozio d'autunno,
a segnare il culmine dell'estate, il punto in cui
la bella stagione entra nella sua fase calante. Era la
festa del raccolto e dei frutti, dell'abbondanza e
della prosperità, che garantiva allo stesso tempo il buon governo del
sovrano.
In Irlanda, le
celebrazioni del Lúgnasad, che iniziavano a metà luglio e
si concludevano a metà agosto, si tenevano in diversi luoghi d'Irlanda: ad Emain
Macha nell'Ulaid, a Carman nel Laigin. Ma la ricorrenza principale era la Fiera Tailteana,
comune a tutta l'Irlanda, che si teneva ad Óenach Taillten,
una pianura presso Temáir dove
Lúg aveva fatto seppellire la sua madre
adottiva
Tailtiu, come narrato nelle
Dinnṡenchas. Questo luogo corrisponde all'odierna Teltown (contea
di Meath). Oggi non si può vedere niente di più di un vallo circolare mal
conservato, sebbene qui si tenesse una delle più
grandi assemblee celtiche d'Irlanda.
Alla Fiera Tailteana,
che col tempo si evolse in una grande assemblea
tribale, attendeva lo stesso Ard Ríg di Ériu.
Venivano prese decisioni legali, discussi problemi
politici, emessi giudizi. La
fiera era
caratterizzata da giochi sportivi; gare di atletica, equitazione, tiro della lancia duravano
per tutto il giorno fino al tramonto. La sera era
dedicata ad intrattenimenti sociali: musica, canto, danze, rappresentazioni.
Artisti, narratori e bardi facevano mostra del loro
talento. I mercanti si riunivano per vendere e
compare bestiame, oggetti di artigianato, stoffe e
abiti (Rhŷs 1901 | Graves
1965 | Ross 1967). Scrive Cormac mac
Culennáin:
Lugnasad .i. cluiche no œnach is do is ainm násad .i. aurtach no cluiche
Loga maic Ethne (no Ethlend) nofertha lais um thaide fogamair (in gach bliadhain
im thoidecht Lugnasad). |
Lúgnasad. Giochi e fiere, come dice la parola nasad, ovvero la competizione atletica di Lúg figlio di
Ethné (o
Ethlenn), da lui celebrata ogni anno, per
Lúgnasad, all'inizio dell'autunno. |
Cormac mac Culennáin:
Sanas Cormaic [797] |
Stando a una notizia di Céitinn, nel
corso delle fiere tailteane venivano celebrati i matrimoni
(Foras feasa ar Éirinn [I: 39]);
i bambini nati a Lúgnasad sarebbero venuti alla luce a Beltain, all'inizio della bella stagione. I matrimoni celebrati a
Lúgnasad duravano un
anno e un giorno, dopodiché la coppia avrebbe potuto dividersi se si fosse
rivelata incompatibile: uomo e donna dovevano semplicemente mettersi schiena
contro schiena al centro del vallo circolare e camminare in direzioni opposte;
ma giacché degli opuscoli di legge citano Beltain come il periodo dei divorzi, possiamo dedurre che la lunga reclusione
dell'inverno bastava abbondantemente perché la coppia si mettesse alla prova.
Che la Fiera Tailteana fosse legata al matrimonio è testimoniato da
molti dettagli:
ad esempio che la piana si trovasse accanto a una collina chiamata Tulach na coibche «prezzo della sposa». Secondo
un'etimologia alternativa fornita da Jan De Vries,
lo stesso termine Lúgnasad sembra significasse
«matrimonio di
Lúg»,
forse in riferimento a un
mito perduto (De Vries 1961).
Tenuta regolarmente
fin dai tempi più remoti, la Fiera Tailteana venne organizzata per l'ultima volta da
Ruaidrí ua Conchobair nel 1169 (De Vries 1961).
Ruaidrí fu l'ultimo Ard Ríg prima dell'invasione normanna. Da allora, per tutto il tempo della dominazione inglese, la fiera
venne bandita. Soltanto nel XX secolo, dopo che l'Irlanda ebbe proclamato la sua indipendenza, sull'entusiasmo suscitato dal
Celtic Revival, si pensò a far rivivere gli antichi giochi di
Lúg. Nel 1924 furono finalmente
indetti i Tailteann Games, i quali ancora oggi, per la
prima quindicina di agosto, sono un'occasione per tutto il paese di coniugare
sport e divertimento.
Tra i Celti continentali la ricorrenza coincideva
con i Concilia
Galliarum che si tenevano Lugdunum [Lione], capitale della Gallia, nelle
cosiddette Feriae
Augusti. Con queste festività, indette nel 12 a.C.,
l'imperatore Augusto aveva stabilito il culto imperiale, fissandolo volutamente il 1° agosto a
riconoscimento dell'importanza dell'antica ricorrenza celtica
(Green 1992). Dalle Feriae
Augusti deriva il nostro Ferragosto.
Samain, 1° novembre
Antico irlandese
Samain,
irlandese moderno Samhain, gaelico scozzese Samhuinn, mannese
Houney. L'etimologia più
semplice fa derivare la parola da un antico irlandese
sam
«estate» (< indoeuropeo *SEM(Ǝ)-
«estate», da cui
anglosassone sumor), forse nel senso di «fine dell'estate»
(secondo l'etimologia popolare che vuole la parola
composta da sam
«estate» e fuin
«fine»),
tanto più che nel Calendario di Coligny è attestato
un mese di Samonios posto a sei mesi di
distanza da un mese chiamato Giamonios (cfr. antico irlandese
geim
«inverno»). Tra gli studiosi si fa però strada l'ipotesi che la parola derivi una radice
indoeuropea *SEM-/*SOM-
(cfr. sanscrito sam, greco sýn, norreno
sam-, irlandese sam- «insieme»),
indicando le riunioni con le quali la festività
veniva celebrata. In gallese la festa
è chiamata Nos Calan Gaeaf «vigilia delle
calende d'inverno».
La festa di Samain, che segnava la fine del semestre
estivo e l'inizio di quello invernale, cadeva tradizionalmente il 1°
novembre, nel punto mediano tra l'equinozio d'autunno
e il solstizio d'inverno.
Tra le quattro ricorrenze stagionali,
Samain
aveva una particolare importanza in quanto
sanciva il passaggio tra il vecchio anno e
l'anno nuovo. In particolare, la Feis Temra,
la «festa di Temáir», durava sette giorni, iniziando tre giorni
prima di Samain e chiudendosi tre giorni dopo.
Samain, le calende d'inverno, era una feste solenne e
misteriosa, perché, sancendo soltanto il passaggio
dalla metà estiva alla metà invernale dell'anno, era
anche il momento in cui l'anno moriva.
Per questa ragione è tuttavia
improprio considerare
Samain
alla stregua delle nostre feste di capodanno. A
Samain, però,
non si celebrava la nascita del nuovo anno ma piuttosto
il momento della sua morte. Morte destinata a durare sei mesi, fino a
Beltain.
Samain
era la festa del passaggio dalla luce al buio, dalla vita alla morte, dal naturale al
soprannaturale. Si trattava di un
delicato momento di transizione, in cui il velo che
copriva il mondo diveniva più sottile e si sentiva
tangibile la potenza cosmica e si poteva venire in
contatto con la profonda magia dell'universo.
Il
punto più delicato di questa giornata cadeva ovviamente nella notte vigiliare,
quella tra il 31 ottobre e il 1° novembre. La notte
di Samain
[oíche
samna] era il momento più intenso, misterioso e
solenne dell'anno druidico. Quella notte le barriere
dei mondi cadevano, si
aprivano le porte dei síde, il nostro e
l'altro mondo si confondevano e gli esseri
soprannaturali si manifestavano in maniera molto più
intensa e reale che in qualsiasi altra notte
dell'anno. Le anime dei defunti ritornavano e si
rendevano visibili, tanto che in Irlanda, fino a
tempi molto recenti, la gente non lasciava le proprie
case quella notte se non assolutamente costretta, e
in quel caso si teneva accuratamente alla larga dai
cimiteri o dai luoghi misteriosi. Non bisognava
guardarsi alle spalle, qualora si udissero dei passi,
perché i morti seguivano le orme dei vivi. In Galles
si diceva vi fosse uno spirito su ogni paletto di
steccato. Gli uomini lasciavano una piccola offerta
di cibo (in gallese bwyd cennad i meirw)
fuori della porta di casa, in modo da saziare gli spiriti vaganti, le porte non
venivano sprangate e si prestava particolare
attenzione, prima di andare a letto, alla
preparazione del focolare per la visita dei parenti
defunti. (Rees ~ Rees
1961). In Irlanda gli spiriti malvagi che venivano pure allontanati
disponendo nei cortili lumini ricavati da braci
disposte all'interno delle cipolle svuotate.
Nel mito irlandese,
Samain
è il teatro dei fatti più strani, dei
momenti fatali, delle più inaudite trasformazioni.
È a Samain che avvengono gli eventi più
importanti che segnarono il conflitto tra le
Túatha Dé
Dánann e i
Fomóire:
a Samain
Lúg giunge a Temáir,
a Samain il
Dagda Mór e
la
Mórrígan si
incontrano al guado del fiume Uinnius, a Samain viene combattuta la seconda battaglia di Mág Tuired.
Inoltre, è sempre a Samain che
Caér
abbandona il suo aspetto di cigno per unirsi al suo
amante Óengus Óc.
A Samain,
Mídir ed
Étaín fuggono da Temáir trasformati in una coppia di cigni.
Nella notte di Samain, Nera si avventura fuori dalla fortezza di
Crúachan per provare il suo coraggio, vivendo le più
straordinarie avventure soprannaturali. Il racconto
Mesca Ulad
racconta come una compagnia di eroi ubriachi, guidata
da Cú Chulainn, vaghi
insensatamente per Ériu durante la notte di Samain,
confusa dal troppo bere e dai fantasmi dell'oscurità.
Samain è anche, evidentemente, un buon giorno
per morire: vi muore, legato alla sua pietra,
Cú
Chulainn, combattendo contro nemici
soverchianti; il popolo fatato vi architetta la fine
di Muirchertach mac Erca;
e tra un accumularsi di sinistri presagi re
Conaire Mór
incontra il suo destino nell'ostello di
Dá Derga.
Infine, Samain è il giorno in cui venivano praticati i cruenti
sacrifici a Cromm Crúaich,
l'antica divinità dei
Fir Bólg, il cui culto perdurò fino all'epoca di Patrizio.
Questi ricordati nei miti e nelle leggende, sono tutti eventi che
vedono un improvviso intensificarsi ed esplodere
della dimensione soprannaturale.
Il senso di timore legato alla notte di Samain
era accentuato dall'impersonazione degli spiriti da
parte di giovani che andavano in giro velati o con la
faccia annerita, vestiti di bianco o coperti di
paglia. Il confine tra i vivi e i morti veniva così
annullato, e lo stesso a quanto pare accadeva per la
differenza tra i sessi, perché i ragazzi indossavano
talora abiti femminili e a volte le ragazze si
mascheravano da uomini (Rees ~ Rees
1961). Gli scherzi cattivi intensificavano il senso di disordine, tanto
che in Scozia si diceva che Samain fosse
«una notte di cattiverie
e confusione». Aratri, carretti, cancelli venivano
portati via e gettati nei fossati e negli stagni; si
rubavano i cavalli e li si liberavano nei campi; si
bombardava la porta delle case con cavoli strappati a
caso da altri orti. Ma il momento di disordine, come
sappiamo, è una caratteristica comune ai riti di
inizio anno presso molte culture, subito seguito dal
ristabilimento dell'ordine sociale, che durerà per un
altro anno. In Irlanda, l'eliminazione dei confini
tra i vivi e i morti, tra i due sessi, tra le
proprietà terriere, simboleggiano un istantaneo
ritorno al caos. (Rees ~ Rees
1961)
Forse a questo ordine di
idee – un momento di istantanea confusione tra
passato e futuro – va ricondotta la pratica della
divinazione che proprio a Samain veniva
utilizzata per scoprire chi si sarebbe sposato nel
corso dell'anno, chi sarebbe stato il futuro
compagno e chi sarebbe morto. Il matrimonio o la
morte erano molto legati in queste pratiche: c'era
sempre il pericolo di vedere, invece del volto dello
sposo o della sposa, una tomba. Nel Galles chi era
abbastanza coraggioso da recarsi nel cortile di una
chiesa a mezzanotte, avrebbe udito una voce invocare
i nomi di coloro che sarebbero morti nel corso
dell'anno, ma avrebbe corso il rischio di udire anche
il proprio (Rees ~ Rees
1961).
Ancora viva e vegeta nel folklore
cristiano, la festa di Samain è in seguito confluita nella ricorrenza
cristiana di
Ognissanti, che una volta cadeva il 13 maggio ma che, nell'835, Papa Gregorio
spostò al 1° novembre. I Cattolici, il 2 novembre, visitano i cimiteri e accendono
candele sulle tombe dei loro morti e la tradizione
popolare di molti paesi vuole che in questa notte le
anime dei defunti tornino a visitare le case dei loro
parenti. Anche in
Inghilterra si conserva la medesima abitudine, ma
spostata di pochi giorni, alla Domenica delle
Rimembranze, oppure all'11 novembre, Giorno
dell'Armistizio, quando si onorano i caduti delle due
guerre. Attualmente in Inghilterra i falò di Samain
vengono accesi il 5 novembre, la Notte delle Polveri, a ricordare il mancato tentativo di Guy Fawkes far saltare in aria il
Parlamento inglese nel 1605, celebrazione che ha
tuttavia conservato l'aspetto sacrificale dell'antica festa
celtica.
La vigilia di Ognissanti,
nei paesi anglosassoni,
è diventata la ricorrenza di Hallowe'en. Ognissanti, che in
inglese è All Saints' Day, aveva infatti una
denominazione più antica: All Hallows' Day (la
parola hallow ha lo stesso significato di saint,
ma è derivata dall'anglosassone, mentre la secondadal latino). L'espressione
All Hallows' Eve «vigilia di Ognissanti»,
confondendosi con All Hallows' Even «sera di Ognissanti»,
venne poi abbreviato in Hallowe'en.
La festa giunse negli Stati Uniti insieme agli
immigrati irlandesi, nel XIX secolo, dove si trasformò ben presto in
una sorta di grottesco ma innocuo carnevale che
caratterizza tuttora la sera del 31 ottobre. L'usanza dei ragazzini americani di andare di
casa in casa (trick or treat?) mascherati da
fantasmi, streghe e diavoli, è un ricordo più o meno
deformato di quando, a Samain, cadevano le
barriere con l'altro mondo e le creature dell'aldilà
sciamavano nel mondo mortale, trovando le piccole
offerte che gli uomini deponevano sulle
soglie delle case. Nella fabbricazione dei
tradizionali lumini, le cipolle vennero sostituite
dalle zucche,
assai più facili da trovare in America e che si
prestavano meravigliosamente ad essere intagliate in forme
di volti ghignanti, che poi venivano illuminati da
braci o candele poste all'interno. Così è nata la
zucca di Hallowe'en. |
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Jack O' Lantern |
Illustrazioni di Nick Mayer |
IV-
LA STORIA DI JACK O' LANTERN
Val la pena di spendere due parole sul
personaggio di Jack O' Lantern (anche
conosciuto come Lantern Man, Hob
O'Lantern, Will O' The Wisp),
che fa parte del folklore legato alla notte di Hallowe'en.
C'era
una volta in Irlanda, un tale Stingy Jack,
un fabbro pigro e ubriacone, dotato tuttavia
di una spiccata furbizia. Una sera del 31
ottobre, Jack si trovava in un pub, dove
si scolava allegramente intere pinte di guinness,
quando arrivò a prenderlo il diavolo in
persona.
Per quanto spaventato, Jack escogitò
rapidamente il modo di trarsi d'impaccio.
Assunse un'aria rassegnata e disse
al diavolo che, avendo finito i soldi, gli
avrebbe dato volentieri la sua anima in
cambio di un'ultima bevuta. Il diavolo pensò
che lo scambio gli conveniva e si
trasformò in una moneta da sei pence.
Jack agguantò la moneta ma, invece di
offrirla al gestore del locale, se la cacciò in tasca, dove teneva
una croce d'argento. A contatto con il
metallo consacrato,
il diavolo non poté più riprendere le sue
sembianze e pregò Jack di lasciarlo libero.
Jack disse che lo avrebbe fatto, a patto che
il diavolo se ne fosse andato e non si fosse
fatto più vedere per almeno dieci anni.
Il
diavolo promise e Jack lo lasciò andare.
Dieci
anni dopo, sempre la sera del 31
ottobre, mentre Jack camminava lungo una
strada fredda e deserta, vide il diavolo
venirgli incontro.
«Va bene, ti seguirò»,
disse Jack, «ma
prima, vorresti essere così gentile da
cogliermi una mela dalla cima di
quell'albero?» Il diavolo salì destramente
sul melo, ma non appena fu arrivato in cima,
rapido, Jack
incise una croce alla base del tronco. A causa del simbolo sacro, il
diavolo rimase bloccato tra i rami
dell'albero, senza poter più scendere. A
questo punto Jack gli disse che avrebbe
cancellato la croce soltanto se il diavolo
gli avesse promesso di rinunciare per sempre
alla sua anima. Di nuovo, il diavolo
accettò.
Tempo dopo, quando Jack morì, le porte del Paradiso gli furono precluse a
causa della sua esistenza viziosa e Jack
dovette scendere all'inferno. Ma il diavolo,
indispettito dai tiri che Jack gli
aveva giocato, gli negò l'accesso
all'Inferno: «Ho promesso che avrei
rinunciato per sempre alla tua anima!» gli
ricordò.
«Ma allora dove posso andare?»
chiese Jack.
«Dovunque tu voglia, ma non
qui!» ribatté il diavolo. E poiché la strada
del ritorno era gelida e ventosa, diede a Jack un tizzone ardente per
illuminare il suo cammino nell'oscurità.
Jack mise il tizzone in una cipolla svuotata
per farlo durare più a lungo. Questa è la
ragione per cui ogni notte di Hallowe'en,
Jack vaga nelle tenebre reggendo la sua
strana lanterna nella quale ardono le braci
infernali. |
V - IL CALENDARIO DI COLIGNY
|
Calendario di Coligny |
(particolare) |
Fino ad ora abbiamo fatto riferimento a quattro festività
«stagionali» legate ai punti intermedi tra solstizi
ed equinozi. Anche se si ritiene che tali festività fossero conosciute
a tutto il mondo celtico, sono attestate in numero di quattro soltanto tra i
Celti insulari, quindi in Irlanda e in parte della Britannia. Il fatto di
essere calcolate tramite i solstizi e gli equinozi ci fa capire che tali
ricorrenze fossero legate a un qualche calendario solare. Tuttavia è
evidente che quattro date non fanno un calendario. Sarebbe dunque interessante
sapere quale tipo di calendario utilizzassero gli antichi popoli celtici.
Nel
novembre del 1897, a Coligny, nel Dipartimento dell'Ain (sud della Francia),
nell'antico territorio dei Galli Ambarri, fu rinvenuta sul fondo di un pozzo una
statua di Mars alta 175 cm. Insieme ad essa si trovavano circa centocinquanta frammenti di bronzo, le cui incisioni riproducevano sequenze
di giorni. Messi
scrupolosamente insieme, i frammenti rivelarono appartenere a una
grande tavola, di dimensioni 90 × 175 cm, su cui era inciso un calendario. Le
iscrizioni erano in alfabeto latino ma la lingua era gallica.
Le prime interpretazioni furono effettuate da Éoin MacNeill, Sir John Rhŷs e
Roger Daviet. Tuttavia fu solo nel 1960 che Paul-Marie Duval e Georges Pineult, ricostruendo
le parti mancanti del calendario, riuscirono a restituirne la struttura
originaria.
La decifrazione e l'analisi di
tale calendario è lontana dall'essere stata completata: molti punti
sono ancora al centro di accese controversie tra gli studiosi. Dopo numerosi studi, taluni dei quali ancora in atto, il calendario è stato
fatto risalire al II secolo d.C., in piena epoca gallo-romana, anche se gli
archeologi sono concordi nel ritenere che esso sia stato inciso prevalentemente
per scopi liturgici pagani e quindi riproduca il calendario
tradizionale celtico in uso alcuni secoli prima. Tra le varie
scritte che compaiono sui frammenti, di alcune delle quali non si conosce esattamente
il significato, compare anche un augurio significativamente azzeccato: Ciallos beis nonnocingos «Ti sia propizio il cammino del cielo».
Mentre gran parte
delle iscrizioni non si possono ancora interpretare con assoluta certezza, sia perché la lingua non è ben conosciuta, sia
per la difficile
ricostruzione delle parti mancanti (i frammenti pervenuti comprendono a malapena metà della
tavola), la struttura generale del calendario celtico di Coligny rivela un'applicazione assoluta e radicale del principio dualistico
alla base della misurazione del tempo.
Il Calendario
contiene la rappresentazione di una sequenza di un lustro composto da cinque anni lunari
completi, cioè da cinque sequenze di dodici mesi sinodici, lunghi ventinove o
trenta giorni, più due mesi intercalari di trenta giorni, per
un totale di sessantadue mesi. I mesi intercalari sono disposti uno all'inizio
del lustro e uno a metà, cosicché dividono il lustro in
due parti di due anni e mezzo ciascuna. Si presume che i due mesi intercalari
servissero per rendere il calendario lunisolare: conciliavano il
tempo misurato basandosi esclusivamente sulla successione delle fasi della Luna
con quello misurato tenendo conto del moto apparente del Sole sulla sfera
celeste durante l'anno.
Nel seguente schema del Calendario di Coligny le due metà del
lustro sono state poste separatamente l'una sopra l'altra: il calendario
originale è in realtà composto di sedici colonne che andrebbero lette di seguito: i
semestri «invernali» sono evidenziati dal colore scuro, quelli «estivi» dal
colore chiaro. I due mesi intercalari (che anche nel calendario originale
occupano due linee) sono in marroncino.
M
QVIMON
intercalare
MAT |
M
RIVROS
MAT |
M
GIAMON
ANM |
M
AEDRIN
MAT |
M
RIVROS
MAT |
M
GIAMON
ANM |
M
AEDRIN
MAT |
M
RIVROS
MAT |
M
ANAGANTIOS
ANM |
M
SIMIVISONN
MAT |
M
CANTIOS
ANM |
M
ANAGANTIOS
ANM |
M
SIMIVISONN
MAT |
M
CANTIOS
ANM |
M
ANAGANTIOS
ANM |
M
SAMON
MAT |
M
OGRON
MAT |
M
EQVOS
ANM |
M
SAMON
MAT |
M
OGRON
MAT |
M
EQVOS
ANM |
M
SAMON
MAT |
M
OGRON
MAT |
M
DVMANN
ANM |
M
CVTIOS
MAT |
M
ELEMBIV
ANM |
M
DVMANN
ANM |
M
CVTIOS
MAT |
M
ELEMBIV
ANM |
M
DVMANN
ANM |
M
CVTIOS
MAT |
|
M
CIALLOS
intercalare
MAT |
M
EQVOS
ANM |
M
SAMON
MAT |
M
OGRON
MAT |
M
EQVOS
ANM |
M
SAMON
MAT |
M
OGRON
MAT |
M
EQVOS
ANM |
M
ELEMBIV
ANM |
M
DVMANN
ANM |
M
CVTIOS
MAT |
M
ELEMBIV
ANM |
M
DVMANN
ANM |
M
CVTIOS
MAT |
M
ELEMBIV
ANM |
M
GIAMON
ANM |
M
AEDRIN
MAT |
M
RIVROS
MAT |
M
GIAMON
ANM |
M
AEDRIN
MAT |
M
RIVROS
MAT |
M
GIAMON
ANM |
M
AEDRIN
MAT |
M
SIMIVISONN
MAT |
M
CANTIOS
ANM |
M
ANAGANTIOS
ANM |
M
SIMIVISONN
MAT |
M
CANTIOS
ANM |
M
ANAGANTIOS
ANM |
M
SIMIVISONN
MAT |
M
CANTIOS
ANM |
|
Ogni nome di mese è preceduto
dalla lettera M, che sta per il gallico mid «mese». Alla fine di
ogni mese difettivo, cioè di ventinove giorni, al posto del trentesimo giorno,
compare sul calendario la parola DIVERTOMV
«ricominciamo» (cfr. latino divertimus).
Nell'elenco successivo riportiamo i nomi
di ciascun mese nella
lettura originale sulle tavole di bronzo del Calendario di Coligny sia nella
cauta restituzione ottenuta aggiungendo, ove assente, una desinenza -(i)os.
L'etimologia dei nomi dei mesi è lungi dall'essere chiarita, anche se in alcune
pubblicazioni (Matthews
1989) si propongono i significati che, fatte le dovute cautele,
elenchiamo qui di seguito. Anche il periodo in cui i mesi cadono è ipotetico, come vedremo
meglio tra poco. Segue il numero di giorni di cui è formato ciascun mese e
infine una parola (matu o anmatu) legata a ciascun mese,
che poi chiariremo.
SAMON
DVMANN
RIVROS
ANAGANTIOS
OGRON
CVTIOS
GIAMON
SIMIVISONN
EQVOS
ELEMBIV
EDRIN
CANTIOS |
Samonios
Dumannios
Riuros
Anagantios
Ogronios
Cutios
Giamonios
Simivisonios
Equos
Elembiuos
AEdrinios
Cantios |
«[Fine] dell'estate» (o «Tempo dell'assemblea»)
«Tempo del fumo»
«Tempo del freddo»
«Tempo del riposo» (?)
«Tempo del ghiaccio»
«Tempo delle invocazioni»
«Fine dell'inverno»
«Metà di primavera»
«Tempo di cavalli»
«Tempo di cervi» (o «Tempo di reclami»)
«Tempo di arbitraggio» (?)
«Tempo dei canti»
|
Ottobre-novembre
Novembre-dicembre
Dicembre-gennaio
Gennaio-febbraio
Febbraio-marzo
Marzo-aprile
Aprile-maggio
Maggio-giugno
Giugno-luglio
Luglio-agosto
Agosto-settembre
Settembre-ottobre
|
30
29
30
29
30
30
29
30
30
29
30
29 |
matu
anmatu
matu
anmatu
matu
matu
anmatu
matu
anmatu
anmatu
matu
anmatu |
CIALLOS
QVIMON |
Ciallos
Quimonios |
|
Mese intercalare
Mese intercalare |
30
30 |
matu
matu |
Da un rapido esame del
calendario risulta subito che il primo
semestre cominciava con Samonios e il secondo con Giamonios,
due parole che si ricollegano a radici celtiche significanti rispettivamente
«estate» ed «inverno» (cfr. antico irlandese sam e geim). I primi
interpreti conclusero subito che Samonios era il mese di mezza estate e
Giamonios quello di mezzo inverno, oppure che questi fossero
rispettivamente i mesi con i
quali il calendario gallico faceva cominciare l'estate e
l'inverno. Senonché si è visto che in Irlanda, sebbene sam significhi
«estate», Samain è la ricorrenza del primo novembre, l'inizio della metà
invernale, la stagione dei raccolti. Questo dovrebbe invitare alla cautela
quando si propongono ipotesi con tanti pochi dati a disposizione. Ma se consideriamo che
il Calendario di Coligny era una sorta di tavola dei «rituali», notiamo che la
maggior parte delle sigle apposte accanto ai numeri dei giorni, e che si ritiene
indichino le varie ricorrenze, era concentrata
nella metà dell'anno introdotta da Samonios. Questo suggerisce che Samonios fosse appunto il primo mese di inverno e
Giamonios
il primo mese d'estate (Rees ~ Rees
1961). A favore di questa ipotesi gioca la notazione TRINVXAMO presente sul secondo giorno della
seconda quindicina di Samonios, che è interpretata come abbreviazione di
trinox samoni «le tre notti di Samonios» e che sarebbe da mettere
in correlazione con la Feis Temra irlandese, che si teneva
appunto a Samain, ai primi di novembre. Una tale disposizione delle stagioni concorderebbe col
principio secondo il quale i cicli celtici iniziavano preferibilmente dalla metà
«oscura».
I mesi erano di due
tipi: sei avevano trenta giorni ed erano contraddistinti dalla scritta
MAT, gli altri sei avevano ventinove giorni ed erano
segnati come ANM. Faceva
eccezione il mese di Equos che, pur essendo segnato con ANM,
era costituito da trenta giorni. Ora MAT è sicuramente da interpretare col gallico
matu «buono» (cfr. irlandese maith
e gallese mad). Dunque, supponendo che an- sia una particella
privativa, ANM significherebbe forse anmatu «non buono».
Se la sequenza tra mesi matu
e anmatu fosse stata assolutamente rispettata, sia Samonios che Giamonios sarebbero stati mesi matu di trenta giorni, ma sembra che
sia stata fatta una deliberata distribuzione affinché ogni prima metà di ogni
anno e la prima metà dell'intero quinquennio cominciassero e terminassero
con un mese matu e ogni seconda metà dell'anno e la seconda metà del quinquennio
iniziassero e terminassero con un mese anmatu. Dunque, dividendo
l'anno nelle due stagioni semestrali, scopriamo che la distribuzione di mesi matu e
anmatu è la seguente:
- matu - anmatu -
matu - anmatu - matu - matu
- anmatu - matu - anmatu - anmatu - matu - anmatu
La prima metà dell'anno, introdotta da Samonios,
era formata da quattro mesi matu più due mesi anmatu, la seconda
metà dell'anno, introdotta da Giamonios, era formata da due mesi matu
più quattro mesi anmatu. Dunque il primo semestre è a prevalenza matu,
il secondo a
prevalenza anmatu.
Se escludiamo i mesi
intercalari, entrambe le metà del quinquennio erano formate di trenta mesi – un
mese di mesi – e, come i due semestri nel corso dell'anno, anche queste due metà
di quinquennio erano l'una matu e l'altra anmatu.
Il medesimo schema duale appare nella struttura degli stessi mesi. Ciascuna
lunazione è
composta di due parti, nella prima delle quali i giorni sono numerati con cifre
romane da uno fino a
quindici, mentre nella seconda parte il conto dei giorni riparte da uno per
arrivare a quattordici o quindici, a seconda che il mese sia difettivo o
completo.
Si potrebbe presumere che anche il mese, come ogni
altro ciclo celtico, subisse la medesima suddivisione in una metà «oscura» e una
metà «luminosa». Da quanto sappiamo sulla natura dei cicli celtici, che
cominciavano dalla metà «oscura» per progredire nella metà «luminosa», ai
potrebbe presumere che la prima quindicina del mese fosse appunto quella
«oscura», centrata sulla luna nuova, mentre la seconda quindicina fosse quella
«luminosa», centrata sulla luna piena. Se così fosse, il ciclo annuale e quello
mensile potrebbero essere direttamente confrontabili:
In realtà è arduo stabilire, sulla base del
calendario di Coligny, se il mese iniziasse con la metà «oscura» o con quella «luminosa».
A metà di ogni mese compare sul calendario la parola ATENOVX,
la cui ardua interpretazione ha suggerito una ridda di ipotesi. All'inizio la si
interpretava come «notte del ritorno», ma se
il prefisso ate- è ben conosciuto, indicando iterazione e ripetizione, è probabile che il termine
noux non possa essere letto come
«notte» (in quanto la parola per «notte» sembra
essere nox e non noux, come dimostra l'espressione trinox «tre notti» attestata
sempre nel calendario di Coligny).
Si è dunque pensato che noux derivasse da una radice indoeuropea
*NEKʷ(T)-
«oscurità» la quale, unita al prefisso ate-, darebbe alla parola il
significato di «ritorno all'oscurità». Secondo un'altra interpretazione, la
parola sarebbe in relazione con l'irlandese antico athnugud
«rinnovamento» (cfr. irlandese moderno athnuaigh «rinnovare» e athnuachan
«rinnovamento»), dalla radice indoeuropea *Nʷ-
«nuovo». Altri hanno proposto di sciogliere la parola ATENOVX
in ate-en-oux/oups, da tradursi con «di nuovo in ascesa».
L'ambiguità delle possibili traduzioni della
parola ATENOVX («rinnovamento»
o «notte del ritorno»?) non ci illumina molto su quel che succede a metà mese. Secondo lo schema da noi proposto,
ATENOVX cadrebbe quando la luna è al primo quarto
(in questo caso giustificando la traduzione «di nuovo in ascesa»). Alla maggior
parte degli studiosi, però, sembra più ovvio che il culmine del mese debba
coincidere con la luna piena (e sarebbe allora giustificata la traduzione «notte del ritorno») o, al perfetto contrario, con la luna nuova (giustificando
la traduzione «ritorno dell'oscurità» o «rinnovamento»). In questi casi non
vi sarebbe più coincidenza tra lo schema mensile e lo schema annuale.
Il fatto è che non sappiamo quale delle fasi della
luna segnasse l'inizio del mese. L'unica indicazione in tal senso ci arriva da un passo della
Naturalis historia di Plinius Maior, il quale afferma che i
druidi erano soliti raccogliere il vischio calcolando i giorni con la luna e ci informa che i Celti
facevano iniziare il mese, l'anno
e persino una sorta di «secolo» trentennale, al «sesto giorno della luna»:
Est autem id rarum amodum inventu
et repertum magna religione peritur
et ante omnia sexta luna, quae
principia mensum annorumque hif
facit et saeculi post tricesimum
annum, quia iam virium abunde
habeat nec sit sui dimidia. |
Peraltro il vischio di rovere è
molto raro a trovarsi e quando
viene scoperto lo si raccoglie con
grande devozione: innanzitutto al
sesto giorno della luna - che segna
per loro l'inizio del mese e
dell'anno e del secolo, ogni trent'anni
-
e questo perché in tale giorno la
luna ha già abbastanza forza e non
è a mezzo. |
Gaius Plinius Secundus:
Naturalis historia [XVI:
95] |
Gli studiosi sono generalmente concordi sul fatto
che nell'antichità le lunazioni venissero calcolate contando i giorni a partire dalla luna
nuova. Dunque questo «sesto giorno della luna» corrisponderebbe a un punto in
cui la luna è vicina al primo quarto. Se
Plinius avesse ragione, il mese gallico – al perfetto contrario di tutti
gli altri cicli del tempo – inizierebbe con la metà «luminosa» e si chiuderebbe
con la metà «oscura». La possibilità di questa strana inversione del ciclo buio
→ luce, ha dato filo da torcere agli
studiosi, che hanno trovato molte possibili giustificazione nel tentativo di
spiegarla (Rees ~ Rees
1961), ma senza argomenti decisivi. In realtà il
problema è ancora più radicale, poiché non sappiamo nemmeno se l'informazione di
Plinio sia attendibile. La
Naturalis historia, per quanto sia stata compilata esaminando attentamente
circa duemila fonti (è Plinius stesso ad affermarlo),
abbonda di notizie non verificate, infondate o platealmente false. Inoltre
non abbiamo la certezza che effettivamente i druidi citati da Plinio contassero i giorni
partendo dalla luna
nuova e non – come in realtà sarebbe più agevole – dalla luna piena. Infine il sistema calendariale degli Ambarri non è necessariamente
estendibile a tutte le tribù galliche.
Nel tentativo di stabilire
il punto d'inizio del mese gli studiosi hanno proposto tutte le possibili
combinazioni con le fasi lunari e vi sono buone ragioni per preferire l'una o
l'altra delle varie soluzioni. La cosa migliore, a questo punto, è non insistere
nel tentativo di far «quadrare» i vari cicli in funzione delle nostre idee, e
soffermarci su quanto rimane evidente: che ogni ciclo celtico del tempo –
giorno, mese, anno – era diviso in due parti, una «oscura» ed una «luminosa».
Questa dicotomia valeva anche per
tempi più lunghi. Si è visto che i lustri
(i cicli quinquennali) erano a loro volta suddivisi in
due parti dai mesi intercalari.
Anche qui dovremmo aspettarci una dicotomia tra metà «oscura» e metà
«luminosa» ma di nuovo, sulla base del Calendario di Coligny, è rintracciabile
soltanto la divisione, senza alcuna indicazione che una delle due parti fosse
considerata più «oscura» o «luminosa» dell'altra. Tuttavia è stato notato che le due metà del lustro, entrambe
lunghe due anni e mezzo e ciascuna formata da cinque stagioni, presentano una
sorta di polarità: la prima metà del lustro inizia e finisce con la stagione
introdotta dal mese di Samonios (che è quasi certamente l'inverno); la seconda metà
inizia e finisce con la stagione introdotta dal mese di Giamonios (quasi
certamente l'estate). Dunque ciascuna delle due metà del lustro è caratterizzata
da una successione di cinque stagioni, di cui la prima conta tre inverni e due estati, la seconda tre
estati e due inverni:
- Inverno - Estate -
Inverno - Estate - Inverno
- Estate - Inverno - Estate - Inverno - Estate
Si ha così, nell'opposizione
tra le due metà del lustro, lo stesso tipo di opposizione che avevamo
ritrovato nelle due metà dell'anno tramite la successione dei mesi matu e
anmatu. La prima metà del lustro è a prevalenza invernale, la
seconda a prevalenza estiva. Abbiamo insomma una sorta di «inverno di inverni» e
una specie di «estate di estati». Sembra di poter asserire, con una certa
fiducia, che anche il lustro iniziasse con la metà «oscura» e si chiudesse con
la metà «luminosa».
Troviamo così nel Calendario di Coligny uno schema che
conferma quanto abbiamo detto a proposito della dualità dei cicli del tempo
presso i Celti. Ogni piccolo o grande ciclo temporale si divide in due
metà, una «oscura» ed una «luminosa». Ed in ogni
ciclo - con la possibile eccezione del mese - la metà oscura «oscura»
precede quella «luminosa»:
Metà oscura del giorno (notte) |
↔ |
Metà luminosa del giorno (giorno) |
Metà oscura del mese (luna nuova) |
↔ |
Metà luminosa del mese (luna piena) |
Metà Samonios
dell'anno (inverno) |
↔ |
Metà Giamonios dell'anno (estate) |
Metà Samonios del
lustro (inverno - estate -
inverno - estate - inverno) |
↔ |
Metà Giamonios del lustro (estate - inverno - estate
- inverno - estate) |
Ma cosa dire dire della validità astronomica del Calendario di Coligny?
Ricordiamo che l'anno tropico (solare) dura 365,2422 giorni. Un anno, nel
Calendario di Coligny, sembra comportare 355 giorni, ciò che porta la durata del
lustro a (355 giorni × 5) + (30 giorni × 2) = 1835 giorni. Ma 62 lunazioni fanno soltanto 1830,89
giorni. Éoin MacNeill, che ha studiato
il Calendario di Coligny fin dalla sua scoperta, ha avanzato un'ipotesi assai
interessante per spiegare come potesse essere compensata questa differenza. Si è
visto come il nono mese Equos comportasse trenta giorni pur essendo
annoverato tra i mesi difettivi anmatu. Poiché i frammenti della tavola
permettono di ricostruire soltanto tre mesi Equoi, tutti di trenta
giorni, MacNeill ha avanzato l'ipotesi che i due mesi Equoi mancanti
(quelli del secondo e del quarto anno) comportassero soltanto ventotto giorni.
Se così fosse, si arriverebbe a un lustro di 1831 giorni, assai vicino alle 62
lunazioni, la cui durata è, come abbiamo detto, di 1830,89 giorni. Se si accetta questa
ipotesi, la differenza del calendario è rettificata nella sua parte «lunare».
(MacNeill 1926 | Gaspani ~ Cernuti 1997)
Esaminiamo adesso la parte «solare».
È evidente che i due mesi intercalari del lustro
sono stati inseriti per correggere il calendario rispetto all'anno tropico. Lo
proverebbe la presenza dell'iscrizione SONNOCINGOS
posta
dopo il nome del secondo mese intercalare, che si tradurrebbe con «il sole è nuovamente al suo
posto». Ma ritorniamo ai nostri calcoli: cinque anni tropici fanno 365,2422
giorni × 5 =
1826,211 giorni, da cui una deriva di cinque giorni rispetto al calendario
lunare di MacNeill. Questo divario potrebbe tuttavia spiegare il significato del
saeculum di trent'anni di cui parlava Plinius. Trenta anni tropici contengono
371 lunazioni. Un saeculum di trent'anni contiene 372 lunazioni (6 lustri
× 62 lunazioni/lustro = 372 lunazioni). Basterebbe dunque, ogni trenta anni, cominciare il
primo lustro del nuovo saeculum per Samonios senza introdurre il
mese intercalare perché il nostro calendario resti in fase con il sole.
(MacNeill 1926 | Gaspani ~ Cernuti 1997)
Non sappiamo se fosse stata questa la
soluzione escogitata dai Galli. Il Calendario di Coligny presenta
ancora molti segreti e solleva tutta una serie di interrogativi che, nel corso
di questa breve esposizione, abbiamo dovuto necessariamente trascurare. Certo è
che il Calendario di Coligny è straordinariamente complesso ed elegante, preciso
dal punto di vista astronomico e significativamente in linea con la metafisica
del tempo ciclico e duale degli antichi Celti.
|
VI
- IL CALENDARIO ARBOREO: STORIA DI UNA PRESUNTA SAPIENZA
DRUIDICA
Robert Graves (1895-1985), poeta, romanziere, mitografo,
deve la sua fama a un'ispirata ricostruzione del
pensiero religioso pre-indoeuropeo, basato sul culto di una ipotetica «Dea
Bianca» che egli pretendeva di porre a base della religione «dionisiaca»
neolitica, poi soppiantata dalla cultura «apollinea» degli invasori
indoeuropei. Nel suo libro The White Goddess,
scritto tra il 1920 e il 1935, Graves propose, tra
l'altro, l'idea di un calendario arboreo, che i Celti
avrebbero derivato dai popoli preindoeuropei, le cui
tracce si troverebbero nascoste nell'alfabeto ogamico e, in maniera
più criptica, nella poesia sapienziale dei Celti insulari, come
l'Am
gáeth i m-muir (il «Canto di Amairgin») o il
Câd Goddeu (la «Battaglia degli alberi»).
(Graves
1948-1961)
L'idea di un calendario arboreo risale in realtà un certo Edward
Davies, un antiquario del XIX secolo, che derivò l'idea dall'Ogygia
di Ruairí Ó Flaitheartaigh. Si trattava di una sorta di storia d'Irlanda scritta nel XVI
secolo, nel quale si riportavano alcune informazioni relative alla scrittura ogamica
– perlopiù desunte dall'Auraicept na n-Éces
– e
si stabiliva una relazione tra le varie lettere di quella scrittura e una serie
di alberi e arbusti da cui quelle lettere avrebbero tratto i nomi.
L'Ogygia di Ó Flaitheartaigh non faceva alcuna
menzione ad eventuali calendari: fu Edward Davies a stabilire che quei nomi di
alberi, presi secondo la successione alfabetica, implicassero
l'esistenza di un antico calendario celtico basato sulla loro successiva
fioritura.
Dunque il calendario arboreo fu né più né meno
un'invenzione di Edward Davies. Questi era un sostenitore del famigerato
antiquario gallese Iolo Morgannwg
(Edward Williams, 1747-1826), il quale, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX
secolo, aveva praticamente creato una presunta «scienza
druidica» basandosi su fonti e documenti
contraffatti (Morgan 1983). In seguito Robert Graves fece del calendario arboreo di Davies il
nucleo attorno al quale costruì, con The White Goddess,
le sue riflessioni sul significato del mito e la natura della poesia. Il libro
di Graves offrì una gran quantità di profonde intuizioni alla moderna rinascita
celtica e rese popolarissima l'idea di tale calendario arboreo.
La struttura del calendario arboreo di Davies e
Graves è basata sulle tredici consonanti e le cinque vocali che, secondo Ó Flaitheartaigh, avrebbero costituito l'alfabeto ogamico (in realtà l'alfabeto
ogamico constava di venti lettere più cinque aggiuntive per le parole
straniere). A tali lettere – a cui però viene dato un ordine lievemente diverso da quello «canonico»,
essendo stata recuperata per l'occasione una forma tradita dello stesso
alfabeto – corrisponderebbe un calendario formato da tredici mesi lunari (simboleggiati dalle consonanti) più cinque
giorni intercalari (le vocali). (Graves
1948-1961)
Calendario |
Lettera
ogamica |
Albero o arbusto corrispondente |
24 dicembre - 20
gennaio |
B |
Beth - Betulla
(Betula pendula) |
21 gennaio - 17
febbraio |
L |
Luis - Sorbo selvatico
(Sorbus aucuparia) |
18 febbraio - 17
marzo |
N |
Nion - Frassino
(Fraxinus excelsior) |
18 marzo - 14
aprile |
F |
Fearn - Ontano
(Alnus glutinosa) |
15 aprile - 12
maggio |
S |
Saille - Salice
(Salix alba o Salix fragilis) |
13 maggio - 9
giugno |
H |
Uath - Biancospino
(Crataegus monogyna
o Crataegus laevigata) |
10 giugno - 7
luglio |
D |
Duir - Quercia
(Quercus robur) |
8 luglio - 4 agosto |
T |
Tinne - Agrifoglio
(Ilex aquifolium) |
5 agosto - 1
settembre |
C |
Coll - Nocciolo
(Corylus avellana) |
2 settembre - 29
settembre |
M |
Muin - Vite
(Vitis vinifera) |
30 settembre - 27
ottobre |
G |
Gort - Edera
(Hedera helix) |
28 ottobre - 24
novembre |
Ng |
Ngétal - Giunco
(Phragmites australis) |
25 novembre - 23
dicembre |
R |
Ruis - Sambuco
(Sambucus nigra) |
Giorni
Intercalari |
A |
Ailm - Abete argentato
(Abies alba) |
O |
Onn - Ginestrone
(Ulex europaeus) |
U |
Úr - Erica
(Calluna vulgaris) |
E |
Eadad - Pioppo bianco
(Populus tremula) |
I |
Ibor - Tasso
(Taxus baccata) |
Nonostante la sua popolarità tra gli appassionati
di cultura celtica,
il calendario arboreo rimane un perfetto esempio di reinvenzione pseudo-esoterica, da
riferirsi per curiosità, o per completezza di esposizione, non certo
con la pretesa di rivelare qualche presunta sapienza druidica. La suggestione esercitata da tali arcane «conoscenze» ha
indotto molte persone – tra cui anche studiosi di una certa levatura – ad una grande quantità di asserzioni folli riguardo al
calendario arboreo, ancora oggi popolarissimo presso celtofili, romanzieri, neodruidi,
neopagani e newagers,
e tuttora seriamente trattato in un gran numero di pubblicazioni più o meno
serie, per non parlare dei siti internet. Per rimettere le cose a posto dobbiamo riportare
l'alfabeto ogamico a quello che effettivamente fu: un semplice metodo di
scrittura dei Celti insulari, le cui lettere erano forse legate ai nomi degli
alberi, ma senza alcun riferimento a calendari o simili. (Matthews
1989)
Trattando di miti, è doveroso sfatare
quelli falsi. Robert Graves, l'affascinante autore di I, Claudius e
King Jesus, fu un ottimo scrittore, un
valido poeta e un profondo conoscitore della tradizione antica.
The White Goddess è un viaggio affascinante nel
cuore del mito e della poesia, una lettura che sicuramente consigliamo a tutti
gli amanti del mondo celtico, con la semplice accortezza di tener presente che si tratta
della riflessione del poeta e non quella del filologo.
L'idea del
calendario arboreo, per quanto pittoresca e affascinante, è assolutamente
e totalmente infondata.
|
Bibliografia
-
BOTHEROYD Sylvia ~
BOTHEROYD Paul:
Lexikon der Keltischen Mythologie. Eugen
Diederichs Verlag, Monaco 1992, 1996. → ID.
Mitologia
Celtica: Lessico su miti, dèi ed eroi. Keltia, Aosta 2000.
-
CATALDI Melita:
Antiche storie e fiabe
irlandesi. Torino 1985.
-
CATALDI Melita:
Antica lirica
irlandese. Torino 1981.
- DE VRIES Jan: Keltische Religion. In:
SCHRÖDER Matthias. «Die Religionen der Menschheit». Kohlhammer, Stoccarda 1961.
→ ID.
I Celti: Etnia, religiosità,
visione del mondo. Jaca Book, Milano 1981.
-
GASPANI Adriano ~ CERNUTI Silvia:
Il calendario di Coligny e la
misura del tempo presso i Celti. In:
«L'Astronomia», 181. 1997.
-
GIUSTI Giovanni:
Antiche liriche irlandesi.
Roma,
1991.
-
GRAVES Robert: The
White Goddess. Londra 1948.
→ ID.
La Dea
Bianca. Adelphi, Milano 1992.
-
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