MITI

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MITI GERMANICI
ÞÓRR CONTRO HRUNGNIR
IL MARTELLO E LA COTE
Il dio del tuono viene sfidato a un einvígi da Hrungnir, il più tracotante e possente degli jǫtnar. Ma è un duello che impensierisce tanto gli dèi quanto i giganti, chiunque sia a vincere. Non sarà facile neppure per Þórr, uscire illeso da questo scontro.

1 - LA SFIDA DI ÓÐINN

i narra che, una volta, mentre Þórr era in oriente, a combattere i trǫll, Oðinn cavalcava in groppa a Sleipnir in Jǫtunheimr.

Giunse così presso quello jǫtunn di nome Hrungnir. Questi giudicò straordinario quel cavallo che galoppava tanto nell'aria quanto nell'acqua, e domandò chi fosse l'uomo con l'elmo dorato che lo cavalcava. Per tutta risposta, e senza palesarsi, Oðinn si disse pronto a scommettere la testa che in tutto Jǫtunheimr non si trovava un destriero uguale al suo.

— Il tuo è davvero un buon cavallo — concesse Hrungnir, — ma io ne uno ho che fa balzi molto più lunghi, e si chiama Gullfaxi [«criniera dorata»].

E accecato dallo jǫtunmóðr, balzò in sella a Gullfaxi e galoppò dietro a Oðinn, ben deciso di fargli rimangiare le sue superbe parole. Ma Oðinn cavalcava così veloce che, in un istante, scomparve oltre una collina. Ma Hrunginr era talmente preso dalla furia dell'inseguimento, che non si accorse neppure di aver oltrepassato i cancelli di Ásgrindr e che si trovava ora in Ásgarðr, nella rocca degli Æsir.

2 - UNO JǪTUNN NELLA VALHǪLL

uando Hrungnir giunse alle porte della Valhǫll, gli Æsir lo invitarono a bere. Egli entrò nella hǫll e ordinò che gli fosse portata della ǫl. Gli furono quindi recati gli enormi boccali da cui di solito beveva Þórr, e Hrungnir li seccò tutti.

Quando lo jǫtunn fu ubriaco, non risparmiò le sbruffonate. Disse che avrebbe sollevato Valhǫll e se la sarebbe portata nello Jǫtunheimr; che avrebbe sprofondato Ásgarðr, ucciso tutti gli dèi e portato con sé, nella sua dimora, Freyja e Sif.

E mentre Freyja gli versava da bere, giurò che avrebbe bevuto tutta la birra degli Æsir.

Oðinn e Hrungnir | Hrungnir invitato nella Valhǫll (✍ 1875)
Lorenz Frølich (1820-1908), ilustrazione (particolare). (Oehlenschläger 1875-1877)
3 - L'ARRIVO DI ÞÓRR

en presto gli Æsir si stancarono delle smargiassate di Hrungnir e invocarono Þórr. Il dio comparve subito nella nella hǫll, brandendo il martello Mjǫllnir. Si guardò intorno, furibondo, e chiese: — Chi ha permesso agli jǫtnar dalla mente contorta di bere nella Valhǫll? E perché mai Freyja sta mescendo la birra a Hrungnir, come se fosse a un banchetto degli Æsir?

Hrungnir fissò Þórr con occhi tutt'altro che amichevoli. — È stato Óðinn ad avermi invitato a bere, e sono sotto la sua protezione.

— È un invito di cui ti pentirai prima di andartene! — rispose Þórr.

— Non compirai certo un'impresa memorabile, Ásaþórr, e sarai tacciato di vigliaccheria, se mi ucciderai mentre sono disarmato — ribatté Hrungnir. — È stato davvero sciocco, da parte mia, aver lasciato a casa il mio scudo e la mia cote. Se avessi qui le mie armi, potremmo batterci. Credo che sarebbe una prova di maggior valore se tu combattessi con me ai confini dei Grjótúngarðar.

E detto questo, Hrungnir se ne tornò nello Jǫtunheimr, galoppando impetuosamente.

Hrungnir invitato nella Valhǫll | Hrungnir e Þórr  (✍ 1875)
Lorenz Frølich (1820-1908), ilustrazione (particolare). (Oehlenschläger 1875-1877)
4 - IL RAPIMENTO DI ÞRÚÐR

a precipitosa partenza di Hrungnir da Ásgarðr lasciò Þórr oltremodo infuriato. Lo jǫtnar lo aveva offeso personalmente, minacciando di rapire sua moglie Sif. E per di più, stando a quanto affermano certi scaldi, pare che Hrungnir se ne fosse andato portandosi via Þrúðr, la figlia di Þórr.

Ma alla furia si univa anche una singolare eccitazione. Era la prima volta che Þórr veniva sfidato a un einvígi, a un duello. Aveva dunque tutte le ragioni per affrettarsi ai Grjótúngarðar e far rimangiare a Hrungnir le sue smargiassate.

5 - MǪKKURKÁLFI E IL HRUNGNISHJARTR

ra gli jǫtnar si parlò molto del viaggio di Hrungnir in Ásgarðr e, soprattutto, del fatto che avesse stabilito di scontrarsi con Þórr.

Agli abitanti di Jǫtunheimr non sfuggiva che quell'einvígi tra i due massimi campioni avrebbe avuto delle importanti conseguenze, a seconda di chi avesse vinto; erano certi che avrebbero subito grandi mali, se Þórr avesse ucciso Hrungnir, dal momento che costui era il più forte di tutti loro. Fu così che gli jǫtnar plasmarono un uomo d'argilla e lo posero ai confini dei Grjótúngarðar. Mǫkkurkálfi – così venne chiamato – era alto nove rastar e ampio tre rastar di torace. Non trovarono però un cuore abbastanza grande per lui, finché non ne strapparono uno da una giumenta, e non gli stava ancora ben saldo quando Þórr arrivò.

In quanto a Hrungnir, si pose accanto all'uomo d'argilla, in attesa del suo avversario. Il suo cuore, com'è noto, era fatto di pietra dura e dotato di tre punte affilate di corno, da cui è originato il simbolo che si chiama Hrungnishjartr. Di pietra era anche la sua testa, così come il suo scudo, ampio e spesso, che teneva davanti a sé, mentre aspettava Þórr ai confini dei Grjótúnagarðar. Come arma aveva una cote, un'enorme pietra per affilare: la brandiva sopra le spalle e non era certo rassicurante da vedere.

L'arrivo di Þórr (✍ 1930)
Max Koch (1859-1930), illustrazione. (Schalk 1930)
 6 - HOLMGANGA!

órr non lasciò tempo in mezzo, tale era il suo desiderio di battersi con Hrungnir. Balzò sul suo carro e si affrettò a hólmganga, ad «andare sull'isola», come si dice quando ci si sfida a duello. Þjálfi era con lui.

Il suo arrivo non passò certo inosservato. Tremò addirittura il Ginnungagap, quando Þórr lasciò Ásgarðr, fremente per l'ásmóðr, e il firmamento s'infiammò, rimbombando di tuoni, sferzato dalla grandine, mentre scendeva sulla terra. Dopo di che, le montagne si spaccarono e la terra stessa fu prossima a squarciarsi, quand'egli entrò in Jǫtunheimr, senza riguardi, sul suo carro trainato dai caproni.

Þórr giunse a Grjótúngarðar assai prima di quanto gli jǫtnar si aspettassero. Nel vedere arrivare l'áss, accigliato e temibile, Hrungnir si pose subito a difesa. E il Mǫkkurkálfi, si dice, alla sola vista di Þórr, si pisciò addosso.

7 - LA COTE E IL MARTELLO

Þjálfi corse da Hrungnir e gli disse: — Non sei al sicuro, jǫtunn, se reggi lo scudo davanti. Sappi che Þórr ti ha veduto. Andrà sottoterra e ti colpirà dal basso.

Più svelto di mano che di cervello, Hrungnir infilò il chiaro scudo sotto i piedi – era il volere di tutti gli dèi e delle dísir – e rimase immobile, sollevando con due mani la cote. Subito dopo, tra lampi e tuoni, vide Þórr che avanzava, in preda all'ásmóðr. L'áss roteò il Mjǫllnir e lo scagliò da lontano contro Hrungnir. Hrungnir sollevò la cote e gliela ritorse contro. Il martello intercettò la cote a metà della traiettoria e la frantumò. I frammenti si sparpagliarono sulla terra, e da essi hanno origine le pietre da cui gli uomini traggono le coti. Ma una scheggia durissima di selce colpì Þórr alla fronte ed egli rovinò a terra.

Il Mjǫllnir colpì in pieno la testa di Hrungnir, fracassandogli il cranio in mille pezzi. Lo jǫtunn crollò addosso a Þórr, e un piede gli si abbatté di traverso sul collo.

Nel frattempo il Mǫkkurkálfi, colpito da Þjálfi, cadeva con ben poca dignità.

8 - «PECCATO CHE IO SIA GIUNTO COSÌ TARDI!»

ubito, Þjálfi si recò da Þórr per togliergli di dosso il piede di Hrungnir, ma non aveva abbastanza forza. Giunsero tutti gli Æsir e provarono a liberarlo, ma nessuno vi riuscì.

Si fece allora avanti il piccolo Magni, figlio di Þórr e della gýgr Járnsaxa. Nonostante avesse soltanto tre inverni (o addirittura tre notti), sollevò senza sforzo il piede di Hrungnir e liberò Þórr. — Peccato, padre, che io sia giunto così tardi! — si vantò, candido. — Avrei colpito a morte questo gigante con un pugno, se lo avessi avuto tra le mani!

Þórr si alzò, dando il benvenuto a suo figlio. — Di certo diverrai davvero possente — gli disse compiaciuto. — Ecco, ti regalo il cavallo Gullfaxi, che prima d'ora era appartenuto a Hrungnir.

— Avresti fatto meglio a donare quel cavallo a tuo padre, non al figlio di una gýgr — ebbe però a rimproverarlo Óðinn.

Magni aiuta Þórr  ( 1875)
Lorenz Frølich (1820-1908), ilustrazione (particolare). (Oehlenschläger 1875-1877)
9 - L'INCANTESIMO DI GRÓA

oncluso l'einvígi, Þórr tornò a casa, nelle Þrúðvangar, ad assaporare la vittoria. In futuro si sarebbe vantato di aver sconfitto Hrungnir: — Combattemmo insieme, io e quel superbo gigante. Di roccia era la sua testa e, ciò nonostante, lo abbattei e mi giacque davanti!

 Ma intanto il frammento di cote gli era rimasto conficcato in testa, provocandogli dolore e fastidio. Si recò allora da quella vǫlva che si chiamava Gróa, moglie di Aurvandill inn frǿkni, il «valoroso».

Ella recitò i suoi galdrar finché Þórr sentì che il frammento di cote iniziava a smuoversi dalla sua testa. Sicuro che se ne sarebbe liberato, volle ricompensare Gróa e renderla felice. — Sappi questo, vǫlva. Non da molto sono giunto da nord, guadando gli Élivágar, e ho portato il tuo sposo Aurvandill fuori dallo Jǫtunheimr, dentro una gerla sulla schiena. — A prova di ciò, disse che un alluce di Aurvandill spuntava fuori dalla gerla e si era congelato, cosicché lo aveva spezzato e lo aveva lanciato nel cielo. — Puoi vederlo. È la stella che si chiama Aurvandilstá.

E quando disse a Gróa: — Non passerà molto tempo, vedrai, prima che Aurvandill torni a casa —, lei ne fu così felice che si dimenticò i suoi galdrar e non terminò mai di estrarre il frammento di cote dalla testa di Þórr, e quello si trova ancora lì.

È per questo che non bisogna lanciare una cote attraverso una stanza. Ogni volta che una cote cade in terra, si scuote il frammento dentro la testa di Þórr, provocandogli grande dolore.

Fonti

1-3

Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

4 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]
Bragi Bodasson: Ragnarsdrápa [1]
5 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [14-16]
6 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [14-16]
7 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [17-19]
Ljóða Edda > Hárbarðsljóð  [14-15]
Cfr. Ljóða Edda > Lokasenna [61 | 63]
8 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]
9 Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [25]
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [20]
Ljóða Edda > Hárbarðsljóð  [14-15]

I - ÞÓRR TIL EINVÍGIS, LE FONTI

Þórr e Hrungnir ( 1905)
Emil Doepler der Jüngere (1855-1922)
MUSEO: [Doepler. Walhall II]

Il mito del duello (einvígi) di Þórr contro Hrungnir è riferito innanzitutto da Snorri Sturluson in un racconto di ampio respiro contenuto nella seconda parte della sua Prose Edda, lo Skáldskaparmál. Il racconto è presente nei manoscritti Rs, W e T (Codices Regius, Wormianus, Trajectinus), e manca del tutto nel U (Codex Upsaliensis). Subito dopo, nel testo, Snorri riporta anche alcune strofe da una composizione di Þjóðólfr ór Hvíni (scaldo attivo tra la fine del ix e l'inizio del x secolo), il Haustlǫng, «lungo come un autunno», nel quale il medesimo mito è narrato nello stile ellittico e involuto tipico della poesia scaldica.

Il cosiddetto «ciclo di Hrungnir» è, in Snorri, piuttosto ampio e articolato e connette sei scene distinte:

  1. la gara di corsa tra Óðinn e Hrungnir;
  2. Hrungnir, invitato a bere nella Valhǫll, si ubriaca e minaccia gli Æsir;
  3. preparativi del duello: creazione del Mǫkkurkálfi;
  4. il duello tra Þórr e Hrungnir;
    il combattimento parallelo tra Þjálfi e il Mǫkkurkálfi;
  5. Þórr schiacciato dal piede del gigante;
  6. il tema dell'estrazione del frammento di cote dalla testa di Þórr.

Nella versione di Þjóðólfr l'equilibrio della vicenda è affatto diverso. Mancano infatti del tutto le scene nn. 1, 2 e 3 del resoconto di Snorri. Þjóðólfr si dilunga inoltre nel trattare i dettagli apocalittici del tragitto celeste di Þórr verso il sito del duello, scena che Snorri sbrigava invece in poche parole. In Þjóðólfr manca del tutto l'intervento di Þjálfi, così come la presenza del Mǫkkurkálfi. Manca anche la scena n. 5: nulla si dice di Þórr schiacciato dal piede di Hrungnir e dell'intervento risolutore di Magni. È però presente il tentativo di estrazione del frammento di cote dalla testa di Þórr.

Il fatto che Þjóðólfr narri soltanto la quarta e la sesta scena, ci dà una certa fiducia sul fatto che il nucleo originario del mito ruotasse forse attorno al tema del frammento di pietra conficcato nella testa di Þórr. In tal caso, il combattimento contro Hrungnir è probabilmente il mito eziologico destinato a spiegare la presenza di questa scheggia nel cranio dell'áss. Il tema sembra avesse in origine un significato importante, almeno a giudicare dalle flebili tracce che ha lasciato in altri sistemi mitici, sebbene sia oggi difficile cercare di ricostruirne la natura. Se è così, è possibile che le prime due scene scena facciano parte di un racconto distinto e siano state apposte dallo stesso Snorri, o da qualche suo antigrafo, al racconto dell'einvígi e della fallita estrazione della scheggia di pietra dalla testa del dio.

D'altra parte, Snorri presenta l'intero «ciclo di Hrungnir» come un complesso mitico unitario riguardante tanto Þórr tanto Óðinn, sebbene possa trattarsi di un escamotage letterario:

...svá sem Bragi sagði Ægi at Þórr var farinn í Austrvega at berja troll, en Óðinn reið Sleipni í Jǫtunheima ok kom til þess jǫtuns er Hrungnir hét. Come quella volta in cui Bragi raccontò ad Ægir di quando Þórr si era recato sulle vie dell'oriente a combattere i troll, mentre Óðinn cavalcava con Sleipnir in Jǫtunheimr, e giunse presso quel gigante chiamato Hrungnir.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

Oltre alle opere di Snorri e a Þjóðólfr, al mito accennano due poemi eddici. Nel Lokasenna, Þórr, nel minacciare Loki, definisce due volte il martello Mjǫllnir con la kenning «uccisore di Hrungnir» [Hrungnis bani] (Lokasenna [61 | 63]); nell'Hárbarðsljóð, Hárbarðr (cioè Óðinn) e Þórr ricordano l'einvígi con un ironico scambio di battute:

Hárbarðr kvað: Disse Hárbarðr:
“Hér mun ek standa
ok þín heðan bíða; 
fannt-a þú mann in harðara
at Hrungni dauðan”.
Starò qui
in tua attesa;
non hai incontrato uomo più irremovibile
da quando morì Hrungnir”.
Þórr kvað: Disse Þórr:
“Hins viltu nú geta,
er vit Hrungnir deildum,
sá inn stórúðgi jǫtunn,
er ór steini var hǫfuðit á;
þó lét ek hann falla ok fyrir hníga.
Hvat vanntu þá meðan, Hárbarðr?”.
“Ora questo vuoi rammentare,
che combattemmo, io e Hrungnir,
quel superbo gigante,
la sua testa era di pietra;
tuttavia lo abbattei e mi cadde davanti.
E nel frattempo tu che facevi, Hárbarðr?”.
Ljóða Edda > Hárbarðsljóð [14-15]

Un testo piuttosto laconico, nel quale Þórr sembra andare per le spicce, sottolineando la sua vittoria. Ma poiché è il dio del tuono che sta raccontando la sua versione dei fatti, è possibile che non voglia ricordare certi dettagli poco onorevoli.

II - LA MIA TESTA PER UN CAVALLO

In Snorri, il «ciclo di Hrungnir» prende l'avvio con una scena inusuale: Óðinn cavalca in sella a Sleipnir e, giunto in Jǫtunheimr, incontra lo jǫtunn Hrungnir. I due hanno una schermaglia verbale relativamente alle capacità delle rispettive cavalcature, schermaglia che si trasforma quasi subito in una gara di corsa in cui Óðinn scommette la testa che il suo destriero sia più veloce di quello del gigante, detto Gullfaxi.

Come nota John Lindow, Óðinn si sposta di solito a piedi, in qualità di viandante (uno dei suoi heiti è Vegtamr), ed è piuttosto raro trovarlo in sella a Sleipnir. Questo accade soltanto nei Baldrs draumar, e sia può anche presumere che Óðinn sia in sella a Sleipnir nella scena in cui si reca al funerale di Baldr, in Úlfr Uggason (Húsdrápa [8]). Ma queste sono le uniche evenienze: la famosa vicenda della cavalcata di Sleipnir sulla via per Hel ha infatti, come protagonista, Hermóðr (Gylfaginning, [49]) (Lindow 1996). Per tali ragioni, la scena dove Óðinn arriva in Jǫtunheimr in groppa a Sleipnir è piuttosto sospetta.

Gli altri casi in cui troviamo Óðinn a cavallo di Sleipnir sono motivati da ricerche sapienziali o da difficili problemi escatologici, in cui il dio, o il suo alter ego Hermóðr, trattano con esseri oltremondani, che non riconoscono la sua autorità. Il dialogo tra Óðinn e Hrungnir è invece incentrato su un argomento insignificante, la qualità dei rispettivi cavalli. Ciò nonostante, Óðinn arriva al punto di scommettere la proprio testa che Sleipnir sia più veloce di Gullfaxi. Una scommessa sproporzionata rispetto alla materia del contendere, che però richiama il certamen di sapienza con il gigante Vafþrúðnir, argomento del Vafþrúðnismál. Secondo Lindow, questa sfida nasconderebbe un significato cosmologico. (Lindow 1996)

Ma qual è esattamente la posta in gioco? Il cavallo Gullfaxi, ha un nome, «criniera d'oro», assai poco adatto al destriero di uno jǫtunn. Rimanda piuttosto alle cavalcature degli Æsir, i cui nomi sono a volte caratterizzati da un prefisso gull[in]-, «oro», quale Gulltoppr (cavallo di Heimdallr) o Gullinbursti (cinghiale di Freyr). Una possibilità è che Óðinn, sfidando Hrungnir a una gara di corsa, cerchi di creare una situazione di contrasto in cui lo jǫtunn finirà per essere ucciso, come infatti accadrà di lì a poco per mano di Þórr. Il fine di questa trappola sembra essre quello di impadronirsi del cavallo Gullfaxi, strapparlo agli jǫtnar e trasportarlo ad Ásgarðr.

Ciò potrebbe appunto spiegare un altro dei punti poco chiari della narrazione: il disappunto di Óðinn allorché Þórr, alla fine della vicenda, regala Gullfaxi al figlio Magni, e non a lui, disappunto in cui si vede, forse, il timore che tale destriero ritorni agli jǫtnar, visto che madre di Magni è la gýgr Járnsaxa.

Þá mælir Óðinn ok sagði at Þórr gerði rangt, er hann gaf þann inn góða hest gýgjarsyni en eigi fǫður sínum. Parlò quindi Óðinn e disse che Þórr aveva fatto male a dare quel buon cavallo al figlio di una gýgr, anziché al proprio padre.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

Il timore di Óðinn è d'altra parte infondato, visto che Magni rimarrà fedele agli Æsir e sarà, anzi, erede di Þórr, dopo il ragnarǫk, ed erediterà il martello Mjǫllnir, insieme al fratellastro Móði. In quanto al destriero, entrerà nel novero delle cavalcature degli  Æsir, come attesta un verso della cosiddetta Þórgrímsþula, «Gullfaxi e Jór tra gli dèi» [Gollfaxi ok Jór ned goðum] (Lindow 1996).

III - HRUNGNIR, OVVERO, IL FRASTUONO DELLE ROCCE

Il nome Hrungnir vuol dire «risonante», forse con riferimento al frastuono causato dalla sua voce, dai suoi passi, dalla sua stessa mole. Ma il nostro jǫtunn sembra particolarmente legato al mondo litico. È significativo, in tal senso, il nome della sua dimora: Grjótúnagarðar, i «recinti dei campi di pietra», dove l'elemento roccioso è presente nel suo aspetto negativo, simbolo di sterilità e di aridità (Isnardi 1991).

Snorri ci informa che la testa di Hrungnir era di pietra, dettaglio ribadito in Hárbarðsljóð [15]. Di pietra erano anche le sue armi: uno scudo rotondo, fatto di dura roccia, a cui si associava, come arma da lancio, una cote (hein): una pietra dalla superficie levigata, normalmente utilizzata per affilare le lame di spade e coltelli. Ma è dubbio che l'arma utilizzata da Hrungnir sia stata mai usata come cote, nonostante Snorri la definisca tale: ci si può infatti chiedere quali tipo di lame vi affilasse sopra Hrungnir, il quale non sembra facesse uso di strumenti che non fossero di pietra. L'arma brandita dal gigante non era esattamente una cote, ma l'archetipo originario di tutte le pietre che in futuro sarebbero state utilizzate per l'affilatura, che derivano infatti dai frammenti della hein di Hrungnir.

Ma anche il cuore di Hrungnir era fatto di pietra, ed era un cuore assai particolare:

Hrungnir átti hjarta þat, er frægt er, af hǫrðum steini ok tindótt með þrimr hornum, svá sem síðan er gert ristubragð þar er Hrungnis hjarta heitir. Hrungnir aveva quel cuore, che è famoso, fatto di pietra dura e dotato di tre punte affilate di corno, da cui è originato il simbolo che si chiama Hrungnishjartr.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

Il simbolo qui detto Hrungnishjartr, «cuore di Hrungnir», è menzionato soltanto nell'Edda di Snorri. Non esistono altre fonti che descrivano la sua esatta forma e significato, ed è unicamente il riferimento al numero tre a far pensare a qualche tipo di trischele. Secondo alcuni, sarebbe da assimilare al cosiddetto *valknútr, il «nodo dei caduti», neologismo attribuito alla trischele visibile su alcune incisioni rupestri rinvenute in Svezia, soprattutto nell'isola di Gotland, in Danimarca e in Inghilterra. Tale simbolo compare anche nel corredo della nave funeraria di Oseberg (ix secolo) in Norvegia. (Isnardi 1991). Si tratta tuttavia di semplici congetture.

Alcune raffigurazioni nordiche della trischele (✍ viii-ix secolo)

(a) e (b) pietra di Lillbjärs iii, Gotland (Svezia); (c) pietra di Fride, Gotland (Svezia); (d) pietra runica di Snoldelev, Sjælland (Danimarca); tutte risalenti all'viii-ix secolo. (Isnardi 1991)

IV - I TORMENTI DEL TRAGITTO

Il «ciclo di Hrungnir» è caratterizzato da una serie di spostamenti da Jǫtunheimr ad Ásgarðr, e viceversa. Abbiamo già parlato della gara di corsa di Óðinn e Hrungnir, che si conclude in maniera del tutto inaspettata, per lo jǫtunn, una volta oltrepassati i cancelli di Ásgrindr. Ma sono assai più interessanti i tragitti di ritorno allo Jǫtunheimr: sia quello di Hrungnir, ma ancor più il viaggio di Þórr, che si affretta all'einvígi con il gigante. Al riguardo, le due fonti (Snorri e Þjóðólfr) sono piuttosto asimmetriche.

Snorri accenna in poche parole al ritorno di Hrungnir ai Grjótúnagarðar, ovviamente in groppa a Gullfaxi:

Fór þá Hrungnir braut leið sína ok hleypði ákafliga, þar til er hann kom í Jǫtunheima, ok varð fǫr hans allfræg með jǫtnum ok þat at stefnulag var komit á með þeim Þór. Hrungnir quindi se ne andò, galoppando impetuosamente, finché non tornò nello Jǫtunheimr e fra gli jǫtnar si parlò molto del suo viaggio e dello scontro con Þórr che era stato stabilito.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

Che Snorri ignori del tutto il viaggio Þórr è cosa piuttosto curiosa, in quanto a esso Þjóðólfr dedica, nel suo Haustlǫng, ben due quartine e mezza delle sette complessive dell'episodio. Le riportiamo qui nella bella traduzione di Ludovica Koch (Koch 1984), con qualche nostra variazione esplicativa:

Eðr of sér er jǫtna
ótti lét of sóttan
hellis bǫrr á hyrjar
haug Grjótúna baugi;
ók at ísarnleiki
Jarðar sunr, en dunði
(móðr svall Meila bróður)
mána vegr und hnum.
Più oltre, vedo sull'anello di fuoco
nel tumulo di Grjótún andare a caccia
il terrore degli jǫtnar
dell'abitante delle caverne.
Andava a giocare un gioco di ferro
il figlio di Jǫrð, e rintronava
(si gonfiava il coraggio, nel fratello di Meili),
la strada di Máni sotto i passi di lui.
Knáttu ǫll, en Ullar
endilg fyr mági
grund var grápi hrundin,
ginnunga vé brinna
þás [er] hafregin hafrar
hógreiðar fram drógu
(seðr gekk Svǫlnis ekkja
sundr) at Hrungnis fundi.
Prese ad avvampare tutto, in faccia al parente
di Ullr, mentre sferzavano la terra,
in basso, raffiche di grandine,
lo sconfinato santuario del Ginnunga[gap].
E intanto, i capri trainavano
il comodo carro del dio,
(era prossima a squartarsi, la vedova
di Svǫlnir), contro Hrungnir.
Þyrmðit Baldrs of barmi,
berg, sólgnum þar dólgi
hristusk, bjǫrg ok brustu,
brann upphiminn, manna...
Non mostrò gran riguardi, (le montagne
si scossero spaccandosi, s'infiamma
il cielo in alto), il fratello di Baldr
verso il duro nemico degli uomini.
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [14-16]

Þjóðólfr mette molta enfasi nel tema del viaggio di Þórr, descrivendo il suo arrivo tra tuoni e grandine, tra il fiammeggiare del cielo e lo squarciarsi della terra. È un viaggio compiuto dall'alto verso il basso: è infatti la «strada di Máni» [mána vegr], che rintrona sotto i passi dell'áss, ovvero la regione astronomica percorsa dalla luna nella sua orbita celeste. Þjóðólfr utilizza termini cosmologici, citando la Vǫluspá. Ad esempio, il ginnunga al verso Haustlǫng [15d] rimanda al Ginnungagap, il vuoto spalancato delle origini (gap vas ginnunga, in Vǫluspá [3g]); mentre il grund del verso Haustlǫng [15c] è reminiscente del primo inverdirsi del suolo terrestre (þá vas grund gróin / grænum lauki, in Vǫluspá [4g-h]). Piuttosto cervellotica la strofa Haustlǫng [16], dove il costrutto upphiminn, «cielo in alto», tipico dei racconti germanici delle origini («non c'era terra, né cielo in alto» [jǫrð fansk æva / né upphiminn] in Vǫluspá [3e-f] e [dat ero ni uuas noh ufhimil] in Wessobrunner Gebet), è invece usato in un contesto dove si spaccano montagne e s'infiamma il cielo, formulae che invece accompagnano la distruzione del mondo, nelle scene escatologiche e nelle descrizioin del ragnarǫk. Il linguaggio apocalittico di Þjóðólfr sottolinea la natura cosmologica dello scontro tra Þórr e Hrungnir.

L'impressione è che Þjóðólfr utilizzi formule poetiche antichissime, ereditate dal repertorio mitologico indoeuropeo. Anche nella Theogonía di Hēsíodos, la scena in cui Zeús scende da Ólympos per combattere i Titânes, è caratterizzata da immagini analoghe: mentre il dio percorre verticalmente lo spazio, dal cielo alla terra, una sorta di sommovimento scuote tutto l'universo: in alto il cielo s'infiamma e in basso la terra che si squarcia. E come nel testo di Þjóðólfr lo sconvolgimento arriva addirittura agli abissi del Ginnungagap, in quello di Hēsíodos a bruciare è il Kháos stesso:

...ámydis d’ ár’ ap’ ouranoû ēd’ ap’ Olýmpou
astráptōn ésteikhe synōkhadón; hoi dè keraunoì
íktar háma bront te kaì asterop potéonto
kheiròs ápo stibars, hierḕn phlóga eilyphóōntes
tarphées; amphì dè gaîa pherésbios esmarágize
kaioménē, láke d’ amphì pyrì megál’ áspetos hýlē.
Ézee dè khthṑn pâsa kaì Ōkeanoîo hréethra
póntos t’ atrýgetos; toùs d’ ámphepe thermòs aytmḕ
Titnas khthoníous, phlòx d’ aithéra dîan híkanen
áspetos, ósse d’ ámerde kaì iphthímōn per eóntōn
augḕ marmaírousa keraunoû te sterops te.
Kaûma dè thespésion kátekhen Kháos; eísato d’ ánta
ophthalmoîsin ideîn ēd’ oúasi óssan akoûsai
aútōs, ōs ei Gaîa kaì Ouranòs eurỳs hýperthe
pílnato; toîos gár ke mégas hypò doûpos orṓrei
ts mèn ereipoménēs, toû d’ hypsóthen exeripóntos;
tóssos doûpos égento then éridi xynióntōn.
...dal cielo e da Ólympos
scagliava i lampi senza mai fermarsi,
lanciava tuoni e fulmini con le sue forti mani
che roteavano più volte la fiamma divina;
e attorno la terra feconda bruciava,
gemevano nel fuoco i boschi infiniti;
ardeva la terra, i flutti di Ōkeanós
e il mare infecondo; una nebbia rovente avvolgeva
i Titânes figli di G e giungeva alle nubi divine;
il bagliore dei fulmini e dei lampi
li accecava (per quanto forti essi fossero).
Un incendio infinito avviluppava il Kháos:
per la vista delle pupille e l'udito delle orecchie
come quando G e il vasto Ouranós di sopra
si accostavano: tanto si alzava il frastuono
a causa della guerra tra gli dèi
che pareva la terra franasse e il cielo crollasse.
Hēsíodos: Theogonía [8-]

Temi e immagini analoghe sono anche presenti nei testi mitologici indiani. Rimandiamo ad altra sede per un confronto diretto con queste classi di miti. ①

V - IL RAPIMENTO DI ÞRÚÐR E LE RAGIONI DI ÞÓRR

La Ragnarsdrápa è il primo testo scaldico in assoluto che ci sia pervenuto. La composizione, pure citata da Snorri nel suo Skáldskaparmál, viene attribuita al semimitico scaldo Bragi Boddason (viii sec.) e, come il testo di Þjóðólfr ór Hvíni, è anch'essa incentrata sulla descrizione delle immagini dipinte su uno scudo (Koch 1984). La strofa di esordio è piuttosto interessante:

Vilið Hrafnketill heyra,
hvé hrengróit steini
Þrúðar skalk ok þengil
þjófs ilja blað leyfa.
Vuoi sentirmi, Hrafnketill,
esaltare – dipinta con colori
fulgenti – la foglia dei calcagni
del ladro di Þrúðr, e il principe?
Bragi Boddason: Ragnarsdrápa [1]

«Foglia dei calcagni del ladro di Þrúðr» [blað ilja þjófs Þrúðar] è una complessa kenning che, apparentemente, introduce lo scudo le cui immagini saranno oggetto della drápa in questione. Se partiamo dal presupposto che l'espressione «foglia dei calcagni» si riferisca al nostro mito, dove Hrungnir mette lo scudo sotto i piedi, in modo da difendersi da un eventuale attacco sotterraneo di Þórr, se ne deduce che il «ladro di Þrúðr» [þjófs Þrúðar] sia lo stesso Hrungnir.

Þrúðr, «forza», è la figlia di Þórr, citata da Snorri in Skáldskaparmál [11 | 29], nonché oggetto delle sgradite attenzioni del nano Alvíss nel poema eddico Alvíssmál, e forse identificabile con l'omonima valkyrja (Grímnismál [36]; Gylfaginning [36]). Ora, la kenning di Bragi, se correttamente interpretata, suggerisce l'esistenza di un mito perduto in cui Hrungnir avrebbe rapito Þrúðr. Di tale mito non c'è traccia in Snorri, né in altre fonti.

Questo elemento getta una luce diversa sulle motivazioni di Þórr. Il dio è infuriato perché sia stato permesso a Hrungnir di bere ǫl nella Valhǫll, per di più nella sua coppa personale, e per il suo atteggiamento strafottente nei confronti di Sif e di Freyja, oppure c'è qualcos'altro? Nel rileggere attentamente la scena di Skáldskaparmál [24], si nota che soltanto Freyja serve da bere allo jǫtunn e sale il dubbio che Sif sia stata citata da Snorri per giustificare ulteriormente l'ásmóðr di Þórr. L'eventuale rapimento di Þrúðr aggiungerebbe un'ulteriore motivazione alla rabbia del dio-tuono.

Ma anche se fosse effettivamente esistito un mito del rapimento di Þrúðr, non ne conosciamo le modalità. Fa parte di un mito separato, e quindi Hrungnir avrebbe rapito Þrúðr in altra occasione, oppure è un episodio del presente racconto? Ad esempio, nulla ci vieta di immaginare – benché Snorri non lo dica – che, nel lasciare Ásgarðr, Hrungnir abbia agguantato Þrúðr e l'abbia portata come ostaggio ai Grjótúnagarðar; un po' per proteggersi la ritirata, un po' per accertarsi che Þórr si presentasse all'einvígi. Tutto questo potrebbe spiegare la rabbia e il livore con cui l'áss si precipita al duello contro lo jǫtunn.

Ma è andata così o si tratta soltanto di una fragile ipotesi basata su una ancor più fragile interpretazione di Ragnarsdrápa [1]? Difficile dirlo. Non mancano studiosi che abbiano sostenuto questa idea (Ross 1994).

VI - UNO SCUDO SOTTO I PIEDI

La scena dell'einvígi tra Þórr e Hrungnir ha posto agli esegeti un bel numero di problemi, resi ancora più difficoltosi dal confronto tra il testo di Snorri e quello di Þjóðólfr ór Hvíni, le cui versioni non combaciano tra loro.

Tra le questioni rimaste inspiegate, due sono legate allo Skáldskaparmál, e riguardano: (a) il ruolo di Þjálfi, che è il «secondo» di Þórr nel corso del duello, e (b) il ruolo del Mǫkkurkálfi, imponente manichino d'argilla che gli jǫtnar pongono al fianco di Hrungnir affinché lo sostenga durante il combattimento. Ma Þjóðólfr non accenna né all'uno né all'altro personaggio.

La dinamica dello scontro tra Þórr e Hrungnir ruota inoltre attorno a un motivo peculiare: il fatto che lo jǫtunn metta il suo immane scudo di pietra sotto i piedi, salendoci sopra; questa sua bizzarra «guardia» permette a Þórr di centrarlo al cranio con un colpo di Mjǫllnir. Qual è la ragione per cui Hrungnir agisce in modo tanto illogico? La spiegazione di Snorri verte su un inganno ordito da Þjálfi:

Þá rann Þjálfi fram at þar er Hrungnir stóð, ok mælti til hans: “Þú stendr óvarliga, jǫtunn, hefir skjǫldinn fyrir þér, en Þórr hefir sét þik, ok ferr hann it neðra í jǫrðu, ok mun hann koma neðan at þér”. Þjálfi corse fin dove stava Hrungnir e gli disse: “Non sei al sicuro, gigante, se resti con lo scudo davanti a te. Poiché Þórr ti ha veduto, andrà sottoterra e ti raggiungerà dal basso”.
Þá skaut Hrungnir skildinum undir fǿtr sér ok stóð á, en tvíhendi heinina. Því næst sá hann eldingar ok heyrði þrumur stórar. Sá hann þá Þór í ásmóði, fór hann ákafliga ok reiddi hamarinn ok kastaði um langa leið at Hrungni. Hrungnir fǿrir upp heinina báðum hǫndum, ok kastar í mót. Mǿtir hon hamrinum á flugi, heinin, ok brotnar sundr heinin [...]. En hamarrinn Mjǫllnir kom í mitt hǫfuð Hrungni ok lamði hausinn í smán mola... Hrungnir si mise allora lo scudo sotto i piedi e rimase fermo, tenendo con due mani la cote. Subito dopo vide un lampo e udì forti rombi di tuono. Vide quindi Þórr in preda all'ásmóðr che avanzava furiosamente. [Þórr] roteò il martello e lo scagliò da lontano contro Hrungnir. Hrungnir sollevò la cote con le due mani e gliela lanciò contro. Essa incontrò il martello a mezz'aria e si frantumò. [...] Il martello Mjǫllnir invece colpì in pieno la testa di Hrungnir, distruggendogli il cranio in mille pezzi...
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

Þjóðólfr dedica all'einvígi due strofe e mezzo del Haustlǫng, al solito laconiche ed ermetiche. Qui vi sono, uno contro l'altro, soltanto Þórr e Hrungnir, e la ragione per cui lo jǫtunn infila lo scudo sotto i calcagni sembra avere una giustificazione diversa:

Mjǫk frá ek móti hrøkkva
myrkbeins Haka reinar,
þá er vígligan, vagna
vátt, sinn bana þátti.
Mi hanno detto che a forte resistenza
si dispose il sostegno alle balene
delle ossa scure delle vie di Haki,
vedendo il suo uccisore in assetto di guerra.
Brátt fló bjarga gæti
– bǫnd ollu því – randa
ímunfǫlr und iljar
íss; vildu svá dísir.
Varðat hǫggs frá hǫrðum
hraundrengr þaðan lengi
trjónu trǫlls of rúna
tíðs fjǫllama at bíða.
Volò veloce, di sotto i calcagni
del custode dei monti (fu intervento
di tutti i potenti e volere delle dísir),
il chiaro ghiaccio del bordo di guerra.
E non dovette, dopo, troppo attendere,
il guerriero rupestre, un colpo spietato
del confidente dei trǫll
dalla grinta assassina.
Fjǫrspillir lét falla
fjálfrs ólágra gjálfra
bǫlverðungar Belja
bólm á randar hólmi.
Þar hné grundar gilja
gramr fyrir skǫrpum hamri
en berg-Dana bægði
brjótr við jǫrmunþrjóti.
Fece cadere, il massacratore
del seguito malefico di Beli,
l'orso della caverna altoecheggiante
sopra l'isola del bordo.
Sotto il martello che lo strazia, il principe
delle zolle del suolo si abbatte,
e infierisce sul grande rivale
che fa a pezzi i Danir dei monti.
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [16-18]
Þórr abbatte Hrungnir (✍ 1874)
Ludwig Pietsch (1824-1911), illustrazione. (Murray 1874)

È dunque per intervento di «tutti i potenti» [bǫnd ollu því] e per «volere delle dísir» [vildu svá dísir], se Hrungnir, a dispetto di ogni logica, mette lo scudo sotto i piedi. Il passo sembra suggerire che la sconfitta dello jǫtunn richieda, in qualche modo, l'intervento di tutti gli æsir e le dísir come corpo unitario. Un passo forse non chiaro neppure allo stesso Snorri, se vi introduce l'intervento di Þjálfi al fine di trovargli una spiegazione comprensibile.

Il testo di Þjóðólfr è molto ambiguo. Ci si può chiedere se l'espressione randa íss (o ímunfǫlr randa íss) indichi davvero uno scudo: questa interpretazione viene infatti accettata soprattutto sul confronto con il testo di Snorri, ma gli stessi filologi non sono affatto concordi nel definire il significato dell'espressione. In ogni caso, íss è «ghiaccio» (fǫlr íss, «chiaro ghiaccio»), parola a volte utilizzata per indicare lame di spada, sebbene Snorri non citi alcuna arma di metallo nel mondo litico di Hrungnir; mentre rǫnd, «orlo, bordo», è una frequente metafora poetica per «scudo» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). La parola ímunfǫlr vuol dire letteralmente «chiaro-guerresco», espressione dal senso oscuro, tanto che molti interpreti scindono ímun- per associarlo al termine dísir, formando un composto ímun-dísir, «dísir di guerra» (Jónnson 1912 | Koch 1981). Ciò che risulta da queste costruzioin artificiose è un «chiaro ghiaccio del bordo» (o un «chiaro-guerresco ghiaccio del bordo»). Espressione che, come suggerisce Lindow, potrebbe anche indicare una sdrucciolevole superficie di ghiaccio, che offre una presa poco salda ai piedi di Hrungnir.

D'altra parte, il citato verso di Bragi Boddason, blað ilja þjófs Þrúðar («foglia dei calcagni del ladro di Þrúðr») (Ragnarsdrápa [1]), a sua volta molto ermetico, è posto indubbiamente nella prima strofa di una drápa dove viene descritto uno scudo: elemento che rafforza l'idea che Hrungnir (sempre che sia lui il þjófr Þrúðar di Bragi ) fosse appunto in piedi su uno scudo.

Inoltre, in un episodio della saga di cui è protagonista, lo scaldo e avventuriero Kormákr Ǫgmundarsson entra nella hǫll della dimora di Steingerðr, la donna da lui amata; ai lati della porta, i fratelli di lei, Þorkell e Narfi, hanno appoggiato una spada e uno scudo. All'ingresso di Kormákr, i due oggetti cadono a terra, e la spada, colpendo lo scudo, produce un'intaccatura. Kormákr recita allora questa lausavísa:

Hneit við Hrungnis fóta
hallvitjǫndum stalli,
inn vask Ilmi at finna,
engisax, of genginn;
vita skal hitt ef hœtir
handviðris mér grandi
né Yggs fyr lið leggjum
lítils meira vítis.
La spada colpì sul piedistallo
di Hrungnir l'ospite
nella hǫll, spesso venuto
a trovare l'Ilm galante;
la pagherà, se minaccia
di farmi del danno,
assai più cara: la birra
di Yggr a me non verrà meno.
Kormákr Ǫgmundarsson: Lausavísa [15], apud Kormáks saga [5]

Sebbene anche questo brano mantenga tutta una serie di ambiguità (Lindow 1996), sembra non vi sia dubbio che il verso stallr Hrungnis fóta («base dei piedi di Hrungnir») indichi anche qui uno scudo (Kormáks saga [5]).

Se torniamo tuttavia al testo di Þjóðólfr ór Hvíni, vediamo che, al verso Haustlǫng [18d], Þórr abbatte Hrungnir á randar hólmi, «sopra l'isola del bordo». In questa metafora, il «bordo» = «scudo» viene di fatto interpretato come un hólm, un isolotto deputato ai duelli. Nel diritto scandinavo, gli scontri singolari avvenivano infatti negli spazi chiusi di questi minuscoli scogli. Due o quattro uomini venivano lasciati, armati, su un isolotto non lontano dalla costa e, dopo un po', si tornava in barca per raccogliere i sopravvissuti. Questa pratica veniva indicata con il termine tecnico hólmganga, «andare sull'isola». Il termine era un'espressione norreno-occidentale sviluppatasi durante l'epoca vichinga, a cui si confrontava la forma più antica, pan-scandinava, einvígi. Detto questo, bisogna ammettere che non è così agevole interpretare la direzione del gioco linguistico di Þjóðólfr. È lo scudo [rǫnd] che viene equiparato a un'isola [hólm], o l'isola a uno scudo? In quale direzione si è mossa la metafora e come è stata riletta dagli autori successivi?

Se ammettiamo una lettura dove effettivamente Hrungnir fosse in attesa, in piedi, su un'isola [hólm] a forma di scudo [rǫnd], luogo deputato all'einvígi con Þórr, la prima helming di Haustlǫng [17a-d] avrebbe allora un tale significato: «Volò veloce, di sotto i calcagni dello jǫtunn, il chiaro-guerresco ghiaccio dell'isola». Gli æsir e le dísir avrebbero dunque fatto perdere l'equilibrio a Hrungnir, così che Þórr, approfittando della sua difficoltà, «fece cadere, [...] l'orso della caverna altoecheggiante sopra l'isola circolare, simile a uno scudo» (Haustlǫng [18a-d]). In seguito, gli interpreti di Þjóðólfr, malinterpretando la kenning, avrebbero trasformato l'«isola» in un vero e proprio «scudo», e Snorri avrebbe completato la bizzarra rilettura introducendo l'intervento di Þjálfi, per spiegare a sé stesso e ai suoi lettori cosa diavolo stesse facendo Hrungnir in piedi sopra uno scudo. (Lindow 1996)

Non sappiamo se sia andata proprio così. È l'ipotesi che, sebbene con qualche dubbio, propone John Lindow. Ambiguità nel testo ve ne sono a bizzeffe, ma possiamo anche chiederci se la vicenda dell'einvígi tra Þórr e Hrungnir potesse aver assunto, in qualche versione perduta del racconto, un aspetto così... realisticamente vichingo. Il mito ha, forse, esigenze assai diverse.

VII - IL MǪKKURKÁLFI, UN PROBLEMA DAVVERO... INGOMBRANTE

Nella versione di Snorri, gli jǫtnar, preoccupati per l'esito del duello, plasmano un gigante d'argilla, «alto nove rastar e largo tre intorno al petto», che piazzano accanto a Hrungnir, affinché lo affianchi nel combattimento. Il rǫst, o «miglio vichingo», misurava poco più di 11 km e, sebbene tale distanza variasse probabilmente a seconda dei luoghi e dei tempi, la statura di questo pupazzo d'argilla rimane davvero considerevole. Snorri racconta anche che gli jǫtnar, non trovando un cuore abbastanza grande per un essere di tale stazza, gli misero il petto il cuore di una giumenta, il quale «non gli stava ancora ben saldo quando Þórr arrivò» (Skáldskaparmál [24]). Reazione ovvia: nel mondo nordico il cuore era considerato la sede del coraggio e, fornendo al gigante d'argilla il cuore di una cavalla, non c'era certo da aspettarsi da lui chissà quale valore.

Þórr, Hrungnir e il Mǫkkurkálfi (✍ 1858)
Carl Emil Doepler der Ältere (1824-1911), illustrazione.
MUSEO: [Götter und Helden]

Ma a dispetto della complessità dei preparativi, il Mǫkkurkálfi (nome interpretabile come «polpaccio di nuvola») non fornisce il minimo contributo nell'einvígi. È un essere stolido, statico, pauroso, incontinente. Si limita a farsela addosso alla vista di Þórr e, quando viene impegnato da Þjálfi in combattimento, crolla «con ben poca dignità» [við lítinn orðstír] (Skáldskaparmál [24]).

Þjóðólfr ór Hvíni non fa alcun accenno al Mǫkkurkálfi nel suo Haustlǫng; a quel che sappiamo, esso compare per la prima volta nel testo da Snorri. Possiamo però chiederci che senso abbia inserire nel racconto un gōlẹm di altezza letteralmente stratosferica, per poi lasciarlo del tutto privo di una funzione narrativa. A questa domanda non è mai stata data una risposta convincente.

Giustamente accantonate le interpretazioni atmosferiche dei primi del novecento, dove tutta la vicenda di Þórr e Hrungnir veniva letta come un vecchio «mito di tempesta», opportunamente ornato da secondarie infiorettature letterarie, il primo a cercare di dare una lettura complessiva del racconto di Snorri è stato Georges Dumézil. Allo scopo, il comparatista francese ha osservato come diversi racconti di iniziazione guerriera seguano uno schema in cui, al combattimento dell'eroe, corrisponda un finto combattimento di un allievo contro un fantoccio. (Dumézil 1959 | Dumézil 1985)

Dumézil propone un accostamento con una vicenda del ciclo di Bǫðvarr bjarki, narrata nella Hrólfssaga kraka. Eroe itinerante, Bǫðvarr prende sotto la sua protezione il giovane Hǫttr, vittima degli scherzi e delle bravate degli hirðmenn di Hrólfr kraki, konungr del Danmǫrk. La notte di jól, un enorme mostro alato, «più grande di un trǫll», terrorizza i migliori campioni del re, che non osano uscire dalla reggia. Ma Bǫðvarr esce di nascosto, trascinandosi dietro il terrorizzatissimo Hǫttr e, dinanzi ai suoi occhi, uccide l'orrenda creatura. Poi gli strappa il cuore dal petto e costringe Hǫttr a mangiarne un pezzo, facendogli poi bere due sorsi del sangue del mostro, in modo che il giovane pusillanime acquisti fierezza e coraggio (nella versione storicizzata di Saxo Grammaticus, <Biarcus> fa bere al suo protetto il sangue che sgorga dalla ferita di un orso gigantesco, che ha appena ucciso (Gesta Danorum [II, vi, 9])). Ma torniamo alla saga: a questo punto, Bǫðvarr bjarki, con l'aiuto di Hǫttr, rimette in piedi la carcassa del mostro ucciso, in modo che sembri ancora vivo. L'indomani, quando le pattuglie di Hrólfr konungr tornano a riferire che la bestia si aggira ancora intorno alla reggia, Bǫðvarr propone che vada ad affrontarlo Hǫttr. Il giovane accetta, con grande sorpresa del sovrano e dei suoi hirðmenn; poi, impugnata la spada stessa del re, Gullinhjalti, si avvicina al cadavere-fantoccio del mostro e lo «uccide». Hrólfr konungr sospetta la verità, ma è comunque ammirato per come Bǫðvarr sia riuscito a trasformare un ragazzino tremante in un eroe; e, per consacrare la metamorfosi, conferisce a Hǫttr il nuovo nome di Hjalti, dal nome della propria spada (Hrólfssaga kraka [23]).

Secondo Axel Olrik questa scena del manichino sarebbe stata una semplice astuzia letteraria dell'autore della saga. Dumézil è però scettico: sottolinea che la sceneggiata non ha ingannato Hrólfr konungr e, per questo, vi vede un antico schema iniziatico che «conserva quell'ingenuità apparente che [...] hanno le imprese con cui l'uomo pretende di dirigere le forze invisibili, di agire sul sacro» (Dumézil 1985). Tornando al nostro mito, la vicenda dell'einvígi tra Þórr e Hrungnir, a cui corrisponde il combattimento parallelo tra Þjálfi e il «manichino» Mǫkkurkálfi, rientrerebbe, secondo Dumézil, in questo ordine di idee. Þjálfi rappresenterebbe l'«allievo» di Þórr; dunque il suo combattimento contro il Mǫkkurkálfi potrebbe essere semplicemente il doppione del duello del suo signore, «così come ogni rituale è il doppione del mito che lo giustifica» (Dumézil 1939 | Dumézil 1985).

L'ipotesi di Dumézil, che risale al 1939, ha certamente fatto scuola, ma anche provocato dissensi. La critica principale è che, se Dumézil avesse ragione, la versione di Snorri sarebbe più antica di quella di Þjóðólfr, il quale però non fa alcun accenno alla presenza di Þjálfi al fianco di Þórr e, tantomeno, del Mǫkkurkálfi (Lincoln 1981). In tempi più recenti, John Lindow ha suggerito di vedere, nella scena del doppio combattimento, i rituali dei duelli giurisdizionali o einvígi. Sebbene questi siano state tramandate in saghe e testi scritti almeno due o tre secoli dopo l'abolizione della pratica del holmgánga, alcuni documenti fanno pensare che i duellanti fossero appoggiati dai loro «secondi», i quali avevano il compito di ripararli con gli scudi mentre essi si battevano. Tuttavia, nota perplesso Lindow, è piuttosto arduo vedere tali pratiche nel doppio combattimento raccontato da Snorri: l'unico dei quattro duellanti che dispone di uno scudo... se lo mette sotto i piedi. (Lindow 1996)

VIII - MAGNI, UN PROVVIDENZIALE USO DELLA «FORZA»

Il «ciclo di Hrungnir» contiene in sé un gran numero di episodi a dir poco enigmatici, sui quali non è stata ancora data una spiegazione convincente. Piuttosto curioso quello in cui Þórr, schiacciato dal piede di Hrungnir, che gli è crollato addosso, non riesce in alcun modo a liberarsi. Nessuno degli æsir riesce a scuotere l'enorme gamba dello jǫtunn, finché non interviene Magni, il figlioletto di Þórr che, a dispetto della sua tenerissima età, scuote via l'arto senza nessuna apparente fatica, liberando il padre. L'episodio è deliziosamente ironico:

...ok fell hann fram yfir Þór, svá at fótr hans lá of háls Þór [...]. Þá gekk Þjálfi til Þórs ok skyldu taka fótinn af honum ok gat hvergi valdit. Þá gengu til Æsir allir er þeir spurðu at Þórr var fallinn, ok skyldu taka fótinn af honum ok fengu hvergi komit. [Hrungnir] cadde addosso a Þórr in modo tale che un suo piede giacque sul collo dell'áss. [...] Þjálfi si recò da Þórr per togliergli di dosso il piede di Hrungnir, ma non aveva abbastanza forza. Giunsero quindi tutti gli Æsir quando seppero che Þórr era caduto e provarono a liberarlo del piede, ma nessuno vi riuscì.
Þá kom til Magni, sonr Þórs ok Járnsǫxu. Hann var þá þrívetr. Hann kastaði fǿti Hrungnis af Þór ok mælir: “Sé þar ljótan harm, faðir, er ek kom svá síð. Ek hygg at jǫtun þenna mundak hafa lostit í hel með hnefa mér ef ek hefða fundit hann”. Si fece quindi avanti Magni, figlio di Þórr e Járnsaxa, che aveva allora tre inverni. Egli gettò il piede di Hrungnir via da Þórr e disse: “Che peccato, padre, che io sia giunto così tardi! Avrei colpito a morte questo gigante con un pugno, penso, se l'avessi trovato”.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [24]

L'età di Magni è di tre inverni nella versione dello Skáldskaparmál tradita dal manoscritto R (Codex Regius), ma di soli tre notti in quella dei manoscritti W (Codex Wormianus) e T (Codex Traiectinus). Lindow ha suggerito la presenza di qualche particolare significato del numero «tre» negli schemi di questo racconto, così come il cuore di Hrungnir era a sua volta formato da tre corni (Lindow 1996). Ma è un molto molto vago e ambiguo di affrontare il problema, tanto più che gli elementi triplici sono praticamente onnipresenti in questo tipo di letteratura.

Inaspettatamente, un po' di luce ci giunge dal mondo caucasico. Lo studioso franco-georgiano Georges Charachidzé che ha analizzato, in un'affascinante serie di studi, il ciclo di Amirani, esito georgiano del prometeo caucasico, ha puntato l'attenzione su un episodio della carriera eroica di quest'ultimo. Amirani è presentato come un campione solitario e irresistibile, il quale ha praticamente fatto il vuoto intorno a sé, sgominando tutti i possibili nemici che gli si paravano davanti. Un giorno, egli si imbatte su un carro trainato a gran fatica da dodici paia di bufali. Su questo, giace morto un gigante, Ambri Arabi. La sua gamba penzola giù dal carro e scava un solco nel terreno. La madre del gigante chiede ad Amirani di rimettere la gamba di Ambri sul carro. L'eroe ci prova, ma non è in grado di smuoverla, né di sollevarla. Quest'inaspettata défaillance getta Amirani nel più cupo sconforto. Prega allora il dio supremo Morige Ḡmerṫi, il quale gli accorda una forza supplementare, quanto gli basta per portare a termine l'impresa, ma lo avverte: «Io so bene che non farai buon uso di questa forza: la userai per fini malvagi e sarai ancora umiliato». E sarà infatti così che accadrà. (Charachidzé 1986)

Sia Amirani che Þórr, dopo aver trionfato contro i più possenti avversari, cedono in maniera inaspettata contro una «cosa» inerte, priva di vita, che in entrambe le tradizioni assume l'aspetto della gamba di un gigante morto. L'acquisto di una forza supplementare da parte di Amirani si concretizza, nel mito scandinavo, nel personaggio del figlioletto Magni. Il fatto che costui abbia solo tre inverni (o tre notti) è solo un paradossale gioco di contrasti, perché il bambino, come dice il suo stesso nome, è magni, la «forza», un principio astratto personificato. Il motivo è analogo: nel mito caucasico, Amirani riesce a scuotere la gamba di Ambri Arabi tramite una sorta di incremento astratto della propria «forza», laddove, nella tradizione nordica, questa «forza» interviene metaforizzata nell'allegoria del piccolo Magni.

C'è forse un rapporto diretto tra il mito caucasico e quello scandinavo? La risposta è probabilmente sì. Non solo Amirani, come abbiamo sottolineato nel nostro apposito studio, ha assorbito una serie di mitemi legati alla tradizionale figura del dio-tuono indoeuropeo, ma sono attestati molteplici collegamenti tra i miti nordici e le leggende slave e caucasiche.

IX - PER UNA SCHEGGIA NEL CRANIO

Nel combattimento contro Hrungnir, la cote (hein) del gigante è esplosa in minuti frammenti dopo essere stata colpita dal martello Mjǫllnir, e stesso destino avrebbe seguito la testa dello stesso Hrungnir un istante dopo. Una scheggia di selce della cote, però, si è conficcata nella testa di Þórr. Questo tema, così come l'episodio del fallito tentativo di Gróa di estrarre il frammento dal cranio di Þórr, fanno probabilmente parte dello strato più antico del mito, visto che a essi Þjóðólfr ór Hvíni dedica le due strofe finali del suo Haustlǫng:

Ok hǫrð brotin herju
heimþinguðar Vingnis
hvein í hjarna mǿni
hein at grundar sveini,
þar svát, eðr í Óðins
ólaus burar hausi
stála vikr of stokkin
stóð Eindriða blóði.
Ma una scheggia durissima di selce
vola fischiando al sommo del cervello
del figlio di Jǫrð, dall'amante
della parente di Vingnir,
perché s'infila, ed è confitta ancora,
nella fronte del figlio di Óðinn,
l'affilaacciaio, macchiata
del sangue dell'Eindriðr [«solitario»].
Áðr ór hneigihlíðum
hárs ǫl-Gefjun sára
reiði-týs et rauða
ryðs hǿlibǫl gǿli.
Gǫrla lít ek á Geitis
garði þær of farðir.
Baugs þá ek bifum fáða
bifkleif at Þórleifi.
Attende che col canto, dal colle curvo
dei capelli del Týr apriferite,
la Gefjun della birra estragga, rossa,
l'orgogliosa sterminaruggine.
Vedo nitidamente, nel recinto
di Geitir, raccontati questi fatti.
Da Þórleifr ho ricevuto una roccia tremula
dell'anello, dipinta di storie tremende.
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [19-20]

Il tema sembra essere molto antico. Gianna Chiesa Isnardi ricorda i reginnaglar, o «chiodi divini», piantati in un'immagine di Þórr presente nel tempio che un certo Þórólfr Mostrarskegg aveva dedicato al dio, a Hofstaðir, in Islanda (Eyrbyggja saga [4]).

Dierbmes o Horagalles ( 1727-1733)
Bernard Picart (1673-1733), incisione.

Sámi fanno offerte all'idolo di Dierbmes o Horagalles. Si notino il chiodo conficcato in cima alla testa e il martello.

L'umanista svedese Johannes Scheffer (1621-1679), nel suo libro Laponia, riporta un curioso uso cultuale dei Sámi: le immagini del loro dio-tuono, Dierbmes/Tiermes, avevano un pezzo di selce piantato sul capo con un chiodo. «Gli conficcano in testa un chiodo di ferro, con una scheggia di selce, come vedono cadere un fulmine» [in capite infigunt clauum ferreum, cum silicis particula, ut si uideatur ignem Thor excutiat] (Dumézil 1985 | Isnardi 1991). L'identificazione di questo dio sámi con lo scandinavo Þórr è testimoniato, sebbene in epoca tarda, da uno dei nomi attribuiti al dio: Horagalles (derivato da uno svedese Thor karle).

Quale che sia l'origine o il significato di quest'uso, non è affatto chiaro. Dumézil parla, vagamente di un «segno iniziatico» posto sull'eroe a seguito della vittoria. Ricorda che anche Cú Chulainn, nei combattimenti, manifestava delle orribili trasformazioni trasfiguranti (ríastrad), spesso caratterizzate da un'escrescenza che spuntava dalla cima del cranio: «La luna dell'eroe usciva dalla sua fronte, lunga, spessa come la cote di un guerriero, lunga come il naso» (Macgnímrada Con Chulinn) (Dumézil 1985).

Altri, forse un po' più opportunamente, hanno piuttosto pensato alla particolare ferita del dell'Ulaid, Conchobor mac Nessa, a cui Cét mac Magach aveva fatto cadere sul sommo del capo il tathlum che il re aveva ottenuto impastando il cervello di suo padre con della calce. Il grottesco trofeo sfondò il cranio di Conchobor e vi s'incastrò dentro. Il re sopravvisse, ma non fu più possibile rimuovere il tathlum, senza danno per la sua vita (Aided Conchobair).

Queste analogie, pertinenti o meno, non ci illustrano però le ragioni e il significato della scheggia di selce rimasta conficcata nel cranio di Þórr. Snorri fornisce di questo mito una giustificazione a posteriori, definendolo eziologicamente come ragione dell'uso di non lasciar cadere la cote per terra.

...ok er þat boðit til varnanar at kasta hein of gólf þvert, þvíat þá hrǿrist heinin í hǫfði Þór. È per questo che è proibito lanciare una cote attraverso una stanza: poiché si scuote quella dentro la testa di Þórr.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [25]

L'arma brandita dal gigante era infatti l'archetipo di tutte le pietre che in futuro sarebbero state utilizzate per l'affilatura, le quali derivano infatti dai frammenti della hein di Hrungnir.

X - AURVANDILL, UN'OMBRA NELLA LETTERATURA GERMANICA

Se la scheggia di cote è ancora nella testa di Þórr è perché, dice Snorri, Gróa, la vǫlva a cui il dio si era rivolto perché gliela estraesse, proprio nel momento culminate aveva scordato il galdr, il canto magico necessario per portare a termine l'operazione. La ragione di questa tragica dimenticanza, racconta Snorri, era dovuto alla troppa felicità. Þórr le aveva infatti rivelato, per ricompensarla dei suoi servigi, di aver ritrovato suo marito, Aurvandill inn frǿkni, il «valoroso», che si era perso in qualche plaga dello Jǫtunheimr, «a nord degli Élivágar».

[Þórr] sagði henni þau tíðindi, at hann hafði vaðit norðan yfir Élivága ok hafði borit í meis á baki sér Aurvandil norðan ór Jǫtunheimum, ok þat til jartegna at ein tá hans hafði staðit ór meisinum ok var sú frerin svá at Þórr braut af ok kastaði upp á himin ok gerði af stjǫrnu þá, er heitir Aurvandilstá. [Þórr] le raccontò dunque di essere giunto da nord guadando gli Élivágar e di aver portato Aurvandill fuori dallo Jǫtunheimr, dentro una gerla sulla schiena. A prova di questo, disse che un alluce di Aurvandill spuntava fuori dalla gerla e si era congelato, cosicché Þórr lo aveva spezzato e lo aveva lanciato nel cielo, facendone la stella che si chiama Aurvandilstá.
Þórr sagði at eigi myndi langt til, at Aurvandill mundi heim koma, en Gróa varð svá fegin, at hon munði ønga galdra, ok varð heinin eigi lausari ok stendr enn í hǫfði Þór Þórr disse che non sarebbe passato molto tempo prima che Aurvandill fosse tornato a casa, e Gróa ne fu così felice che si dimenticò dei suoi galdrar e non terminò di estrarre la cote, che si trova ancora nella testa di Þórr.
Snorri Sturluson: Prose Edda > Skáldskaparmál [25]

Ma chi è esattamente questo Aurvandill? Il suo nome, a dire il vero, non è nuovo nella letteratura germanica.

Il Chronicon Lethrense (la «Cronaca dei re di Lejre»), composto in Danimarca nel sec. xii e tramandato all'interno degli Annales Lundenses, indica un certo Ǿrwændel quale padre di Ambløthæ (Amleth) e presenta lo stesso tema che Shakespeare renderà famoso in tutto il mondo mezzo millennio più tardi:

Han giorte Ǿrwændel oc Fæng formæn ī Iūtland. Konung gaf Ǿrwændel sīnæ systær for sin thriflēk. Han aflæthæ mæth henne ēn son, oc kallæthæs Ambløthæ. Sithæn drap Fæng Ǿrwændel for awnd oc tōk hans konæ sek til hūstrǿ.

[Re Rǿrik Slængeborræ] elesse Ǿrwændel e Fæng signori dello Jótland. Il re diede la propria sorella a Ǿrwændel per ricompensarlo del suo impegno. Questi ebbe con lei un figlio, che chiamò Ambløthæ. In seguito Fæng uccise Ǿrwændel per invidia e prese la sua donna in moglie.

Annales Lundenses > Chronicon Lethrense

Un'altra celeberrima opera danese del xii secolo, per certi versi derivata dal Chronicon Lethrense, sono le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, in cui Horwendillus è figlio di Gerwendillus e, di nuovo, fratello di Fengo e padre di Amlethus:

Eodem tempore Horwendillus et Fengo, quorum pater Gerwendillus Iutorum praefectus exstiterat, eidem a Rorico in Iutiae praesidium surrogantur.

Proprio a quell'epoca Horwendillus e Fengo, figli di Gerwendillus che era stato principe degli Juti, per volere di Roricus gli successero nel governo dello Jótland.

Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [III: vi: 1]

Triennium fortissimis militiae operibus emensus, opima spolia delectamque praedam Rorico destinat, quo sibi propiorem amicitiae eius gradum conscisceret. Cuius familiaritate fultus filiae eius Geruthae connubium impetravit, ex qua filium Amlethum sustulit. Trascorsi tre anni nelle più eroiche imprese, Horwendillus assegna a Roricus il ricco bottino e le prede migliori, per stringere ancora i vincoli d'amicizia. Poi, aiutato dall'intimità con lui, ne ottiene in moglie la figlia Gerutha, dalla quale ha un figlio, Amlethus.
Tantae felicitatis invidia accensus Fengo fratrem insidiis circumvenire constituit. Adeo ne a necessariis quidem secura est virtus. At ubi datus parricidio locus, cruenta manu funestam mentis libidinem satiavit. Trucidati quoque fratris uxore potitus incestum parricidio adiecit. Infiammato dall'invidia per tanta fortuna, Fengo decise di far cadere il fratello in un'imboscata. E così, la virtù non è al sicuro neppure dai consanguinei. Appena si presentò l'occasione del fratricidio, si insanguinò le mani e saziò il suo funesto desiderio. Poi fece sua la moglie del fratello ammazzato e aggiunse al fratricidio l'incesto.

Saxo Grammaticus: Gesta Danorum [III: vi: 4-5]

In realtà il medesimo nome compare anche in uno Spielmannsdichtung, un modesto poema giullaresco in medio alto tedesco, intitolato appunto Orendel e scritto tra il 1150 e il 1180. Il protagonista, Orendel, figlio di re Eigel di Trier, si imbarca con ventidue navi, diretto in Terrasanta. Naufragato nel corso del viaggio, viene salvato dal pescatore Eise. Catturata una balena, trova nel suo stomaco un sarcofago di marmo, gettato in mare da Erode tanto tempo prima, nel quale è custodita l'inconsuntile tunica di Gesù. Abbigliato della sacra veste, Orendel può riprendere il viaggio e giunge così in Terrasanta. La grigia tunica, macchiata del sangue del Redentore, ha la virtù di rendere invulnerabile chi la porta, e con quella indosso Orendel supera innumerevoli prove e combatte i Saraceni. Dopo aver preso in sposa Brida, la bellissima regina del Santo Sepolcro, Orendel riprende la strada del ritorno, esortato da un angelo. Giunto a Trier, depone la tunica in un reliquiario, che dona a una chiesa della città. Tempo dopo, un angelo avverte Orendel e Brida che si sta avvicinando l'ora della loro morte, e i due si preparano serenamente ad abbandonare il mondo. Nonostante il nome del protagonista, tuttavia, questo poema non ha nulla a che vedere con i personaggi sopra descritti. Mira semplicemente a stabilire il credito di una reliquia di Trier, in evidente concorrenza con altre vesti inconsuntili venerate a Straßburg e a Mainz. (Rydberg 1886 | Grimm 1835 | Grünanger 1967)

XI - «SALVE, ĒARENDEL!», DAGLI ALLUCI AGLI ANGELI

I dubbi che circondano la figura di Aurvandill e dei suoi ipotetici omologhi presenti nelle diverse culture non sono comunque al momento risolvibili: infatti se da un lato i diversi esiti del suo nome sono piuttosto riconoscibili nelle varie lingue germaniche, dall'altro però non sembrano sussistere sufficienti affinità per poter identificare con certezza i vari personaggi provenienti dalle diverse tradizioni .

Nell'episodio raccontato da Snorri viene nominata una stella chiamata Aurvandilstá, «alluce di Aurvandill», che Þórr aveva creato lanciando il cielo il dito spezzato dal piede di Aurvandill (Skáldskaparmál [25]). L'analogia astronomica è piuttosto con l'invocazione a Ēarendel, angelo «fulgido sopra le stelle», presente nel Crīst di Cyneƿulf, un poema anglosassone che si ritiene risalga al vii secolo.

Ēalā Ēarendel, enġla beorhtast,
ofer middanġeard monnum sended,
ond sōðfæsta sunnan lēoma,
torht ofer tunglas, þū tīda ġehƿane
of sylfum þē symle inlīhtes...
Salve, Ēarendel, più splendente fra gli angeli,
sulla terra di mezzo mandato fra gli uomini,
e fulgore veritiero del sole,
fulgido sopra le stelle, ogni stagione
da te stesso sempre sei illuminato...
Cyneƿulf: Crīst [I: -]

Orion e Sirio
Immagine creata con il programma Stellarium.

Il solenne saluto, «salve, Ēarendel» [Ēala, Ēarendel], non può non ricordare l'incipit di una nota preghiera cristiana, Ave, maris stella, dove la Vergine Maria viene salutata come la stella che, sorgendo sul mare, indica la strada ai naviganti. La paternità di questa preghiera viene solitamente fatta risalire, pur con notevoli incertezze, a Venantius Fortunatus (530-609) o a Paulus Diaconus (720-799), due autori latini di cultura germanica (il primo legato agli Ostrogoti ravennati, il secondo ai Longobardi). Nulla di più facile, dunque, che l'antica invocazione a una stella abbia ispirato sia i versi di Cyneƿulf che la suggestiva preghiera alla Vergine.

In tal caso, di quale stella si tratta? È probabilmente da scartare la vecchia ipotesi secondo la quale l'astronimo Aurvandilstá avrebbe indicato il pianeta Venere, la «stella del mattino».

Alcuni studiosi, ritenendo che gli antichi Germani vedessero Aurvandill nella costellazione di Orion, hanno ritenuto che Aurvandilstá fosse da identificare con Rigel (ß Orionis), sulla base del fatto che, nelle antiche rappresentazioni stellari, questa stella rappresentava il piede del mitico cacciatore celeste (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Ci sembra tuttavia più probabile che Aurvandilstá possa essere Sirio (α Canis Maioris), la stella più luminosa del cielo, caratterizzata – come Venere – da una levata eliaca. Da sempre, la piccola costellazione del Canis Maior «accompagna» il cacciatore Orion. Se dunque Orion è Aurvandill, non è improbabile che Sirio possa rappresentarne il ditone del piede. (De Santillana ~ Von Dechend 1969)

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BIBLIOGRAFIA
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Germanica - Brynhilldr
Ricerche e testi di Dario Giansanti, Stefano Mazza e Oliviero Canetti.
  ÞÓRR CONTRO GEIRRØĐR
Il dio disarmato
  MITOLOGIA GERMANICA - Sommario   ÞÓRR E HÁRBARĐR
Incontro al guado
 
Creazione pagina: 08.03.2016
Ultima modifica: 15.08.2022
 
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