I - IL CICLO DI GEIRRØÐR: FONTI EDDICHE E SCALDICHE
Il mito del viaggio di
Þórr al recinto di Geirrøðr
e del suo scontro con il padrone di casa e le sue figlie è stato tramandato da
un certo numero di fonti,
di carattere assai differente, che presentano tuttavia, nelle loro affinità e
discordanze, un quadro piuttosto variegato di questa importante narrazione.
Fonte principale è considerato, di solito, un racconto riportato da Snorri Sturluson nella seconda parte della sua
Prose Edda, lo
Skáldskaparmál.
Snorri cita anche dei brani da due composizioni più antiche: (a) un poema in stile eddico dal titolo sconosciuto, in ljóðaháttr, di cui
riporta due strofe in cui
Þórr parla in prima persona (la seconda
strofa è
assente nei mss. Rs,
T e W della
Prose Edda ed è presente solo nel ms. U); (b)
una composizione di diciannove strofe, la
Þórsdrápa («Eulogia
per
Þórr»), dello scaldo Eilífr
Goðrúnarson (x secolo),
disposta subito dopo il racconto prosastico. La
Þórsdrápa è
attestata solo nei mss. Rs,
T e W, ma è assente in U: vi è dunque la possibilità che
non fosse
inclusa nel testo originale dello
Skáldskaparmál
ma vi sia stata aggiunta in seguito. Questo potrebbe spiegare le profonde
differenze tra le due versioni della vicenda.
In Snorri il «ciclo di Geirrøðr»
connette cinque
scene:
-
Geirrøðr strappa a
Loki, trasformato in falco, la promessa
di consegnargli
Þórr senza il suo martello;
-
Þórr viene ospitato dalla gigantessa
Gríðr, la quale gli fornisce un equipaggiamento
sostitutivo;
- il guado del fiume Vimur, con
Gjálp che ne ingrossa le acque;
- a casa di Geirrøðr: nella scena della
sedia, Gjálp
e Greip vengono uccise da
Þórr;
-
lo scontro finale tra
Þórr e Geirrøðr.
L'andamento è piuttosto maldestro: le scene 1 e
2 vengono giustapposte senza alcun raccordo; il finale è sbrigativo
e affrettato. Il racconto ha tuttavia il pregio di una certa chiarezza e serve di solito
come base per i riassunti divulgativi, sebbene sia forte il
sospetto di pesanti interventi da parte dello stesso Snorri.
Tanto Snorri è chiaro, tanto la
Þórsdrápa è ostica. Il
poema di Eilífr
Goðrúnarson è considerato il più intricato
di tutta la lirica scaldica: è talmente irto di kenningar e di loci obscuri da
renderne la comprensione particolarmente ardua. Neppure il confronto con il
racconto prosastico dell'Edda
aiuta a far luce sul poema: al contrario, vi sono tra il
testo di Snorri e quello di Eilífr delle importanti differenze.
Innanzitutto la Þórsdrápa
manca completamente delle scene 1 e 2. Vi si dice che fu Loki
a convincere
Þórr ad andare ad affrontare
Geirrøðr, ma non ne viene svelata la ragione e manca qualsiasi accenno al fatto –
fondamentale in Snorri – che il
dio abbia intrapreso il viaggio disarmato.
Un'altra differenza importante tra i due testi è che nella Þórsdrápa
è Þjálfi ad accompagnare il dio del
tuono nel suo viaggio; egli si aggrappa alla cinghia dello scudo di
Þórr durante il guado e in seguito dà
manforte al compagno nella lotta contro gli jǫtnar. Nel testo di Snorri,
invece,
Þórr si muove e agisce completamente da solo, tranne nella breve
scena dell'attraversamento del fiume Vimur,
dov'è detto che Loki è aggrappato alla sua cintura.
Questi è però citato soltanto in questo punto e scompare nel
resto della narrazione. L'assenza di Þjálfi
nel racconto di Snorri e la sua maldestra sostituzione con
Loki costituiscono una crux comparativa per la quale non è ancora stata data una spiegazione
convincente.
In Snorri,
Þórr giunge alla terra di Geirrøðr
guadando il Vimur, il «più grande di tutti i
fiumi». Eilífr si sofferma a lungo sulla scena del guado, che descrive con
molte aggrovigliate immagini poetiche, ma non parla di fiumi, né cita mai il Vimur.
Piuttosto, nella
Þórsdrápa il guado sembra venire compiuto attraverso un tratto di mare:
presumibilmente quello che separa Miðgarðr da Jǫtunheimr.
La
Þórsdrápa non fa nessun accenno al fatto
che la piena sia stata causata dall'intervento di Gjálp.
I nomi di Gjálp
e Greip non sono mai citati nel testo di Eilífr.
Questi descrive però due scontri di
Þórr con gli jǫtnar
del tutto ignorati in Snorri: uno subito dopo la scena del
guado, l'altro dopo l'uccisione di Geirrøðr.
Tra le altre fonti scaldiche, segnaliamo una strofa
attribuita a Þjóðólfr Arnórsson, poeta di corte di Haraldr harðráði
(inizio xi secolo), e contenuta
nel Flateyjarbók, si riferisce al «gioco» tra
Þórr e Geirrøðr,
che si tirano l'un l'altro un proiettile incandescente.
Il suo contenuto è tuttavia imitativo dello stile di Eilífr:
Varp úr þrætu þorpi
Þórr smiðbelgja stórra
hvápteldingum hǫldnum
hafra kjǫts at jǫtni.
Hljóðgreipum tók húða
hrǫkkviskafls úr afli
glaðr við galdra smiðju
Geirrǫðr síu þeirri. |
|
Þjóðólfr Arnórsson |
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II - UNA VERSIONE LEGGENDARIA: IL ÞORSTEINS ÞÁTTR BÆJARMAGNS
Un'analisi del ciclo di Geirrøðr non sarebbe
completa senza uno sguardo alla versione del
Þorsteins þáttr bæjarmagns, una saga breve di argomento leggendario,
risalente alla fine del
xiii secolo e tradita in una
quarantina di manoscritti, tra cui cinque vellum del
xiv-xv secolo (Lindow 2014 | Isnardi 1991).
La vicenda, svolta in maniera fiabesca, presenta paralleli molto evidenti con la
versione di Snorri.
Protagonista è qui un certo Þorsteinn
bæjarmagn, campione di re Óláfr Tryggvason. Pur essendo un
mortale, Þorsteinn sembra essere un'ipostasi dello
stesso
Þórr. È descritto
come un uomo «grande e forte, caparbio e privo di esitazioni, non importa con
chi avesse a che fare» [Hann var mikill ok sterkr, harðúðigr ok óaflátssamr
við hvern, sem eiga var], «l'uomo più grosso che vi fosse in
Norvegia, così grosso che in tutto il paese non c'era quasi una porta che egli
potesse attraversare senza qualche difficoltà» [engi var jafnstórr í Noregi,
ok trautt fengust þær dyrr, at honum væri hægt um at ganga]. Lo stesso nome, Þorsteinn,
è composto su quello di
Þórr; e il suo heiti, bæjarmagn,
«potere del palazzo», sembra un calco semantico di
Þrúðheimr, «casa della
forza», o Þrúðvangar,
«campi della forza», nomi del territorio di
Þórr.
Il «declassamento» di una divinità in un personaggio eroico è un
fenomeno comune nel tardo sviluppo letterario di molti miti. Venuto meno il
contesto pagano che ne sorreggeva l'ideologia originaria, il racconto viene
recuperato e riadattato alla nuova sensibilità storica: così l'antico mito diviene
leggenda o fiaba.
Ma diamo ora un riassunto del þáttr, soffermandoci sui punti più
significativi ai fini del nostro lavoro (Pálsson ~ Edwards 1985).
Þorsteinn
bæjarmagn è un individuo di notevole stazza e anche di pessimo
carattere. Il padre, per toglierselo di torno, gli dà una nave e una
ciurma, e Þorsteinn si arricchisce tanto con il
commercio quanto con il saccheggio. Óláfr Tryggvason, re del Nóregr (♔
995-1000), ne fa infine uno dei suoi uomini di fiducia e a lui assegna le missioni più pericolose.
Nel corso di una delle sue spedizioni, la nave di Þorsteinn si
ritrova arenata sulle sponde del Bálagarðr (sulla costa finlandese?). Una mattina
Þorsteinn vede un ragazzo fermarsi presso un tumulo, dicendo: «Madre, mandami
il krókstaf («bastone ricurvo») e i guanti. Voglio partire per una cavalcata: c'è
una celebrazione nel mondo inferiore [heimr neðan]». Subito un bastone e un paio di guanti
vengono gettati fuori dal tumulo: il ragazzo li prende e, infilato il bastone tra
le gambe a mo' di cavalcatura, parte. Allora
Þorsteinn si avvicina a sua volta al tumulo e ripete le parole del
ragazzo: un bastone e dei guanti gli piovono subito tra le mani.
Þorsteinn infila il krókstaf tra le gambe e insegue il ragazzo. I due oltrepassano un fiume impetuoso come fosse stato
fumo, e giungono in una ricca e popolosa città. Entrano nel palazzo principale
e
Þorsteinn si accorge che entrambi sono invisibili
agli occhi dei presenti. Il re e la regina della città stanno seduti a banchetto: il ragazzo
ruba una gran quantità di cibo dal desco e ne riempie il suo sacco;
Þorsteinn s'impossessa invece del prezioso anello
che il re porta al dito. Ma mentre guadagna la porta, gli cade di mano il krókstaf:
subito tutti i presenti si accorgono della sua intrusione e si gettano su di lui. Recuperato il krókstaf,
Þorsteinn riusce a fuggire per il rotto della
cuffia.
Tornato
al tumulo, il ragazzo vi salta dentro. Þorsteinn vi
si affaccia e vede due donne: una tesse una stoffa preziosa, l'altra culla un bambino. Alla domanda di chi
abbia preso l'altro krókstaf, il
ragazzo dice alla donna: «È stato Þorsteinn bæjarmagn.
È venuto insieme a me e per poco non siamo stati uccisi entrambi.
Þorsteinn ha rubato i tesori del mondo inferiore,
di cui non vi è pari nel Nóregr».
In un viaggio successivo, Þorsteinn arriva nel
Rísaland, la terra dei giganti. È questo un paese
sconosciuto, silenzioso, dove non si ode né il canto degli uccelli né i versi di alcuna
altra bestia. Lasciata la nave in fondo a un fiordo,
Þorsteinn si mette in cammino verso l'interno. Più tardi, vede arrivare tre cavalieri di gigantesca statura, in
groppa a enormi destrieri grigi. Interrogato,
Þorsteinn rivela il suo nome, si presenta come il
più forte e coraggioso degli uomini di re Óláfr e non nasconde di essere
conosciuto come bæjarmagn. «Assai
poco ragguardevole deve essere questo sovrano se non ha ai suoi ordini nessuno
più robusto di te» ride il più possente dei tre giganti. «A mio parere bisognerebbe chiamarti bæjarbarn [«bimbo
del palazzo»], non bæjarmagn [«potere del palazzo»]».
Dopodiché il gigante si presenta a sua volta: «Io mi chiamo
Goðmundr e regno su Glæsisvellir, nel
Rísaland. I miei compagni si chiamano
Fullsterkr e Allsterkr.
Noi siamo tributari di
Geirrøðr, re del confinante paese di
Jǫtunheimr, anche se non siamo certo felici di
essere governati dagli jǫtnar. Mio padre, Úlfheðinn
trausti, si stava recando a Geirrøðargarðr
per consegnare il tributo annuale quando è morto. Geirrøðr
ha imbandito un banchetto funebre in suo onore e noi stiamo andando là».
Þorsteinn si unisce volentieri a
Goðmundr e la compagnia si mette in viaggio. Giungono al fiume
Hemra, che divide Rísaland
da Jǫtunheimr. La sua corrente è così impetuosa
che soltanto dei destrieri particolarmente robusti possono guadarlo e le
sue acque talmente gelide che basta il semplice contatto per provocare
un'immediata cancrena. I quattro indossano abiti speciali, di cui rivestono
sé stessi e i cavalli, e scendono al fiume.
Ma il destriero di Goðmundr incespica e, nel tentativo
di salvare il compagno, Þorsteinn non può evitare
di bagnarsi l'alluce. Giunti sull'altra sponda, il dito
del piede è congelato. Il norvegese se lo mozza con il coltello e i suoi compagni
rimangono impressionati dalla sua
durezza.
Goðmundr e i suoi compagni giungono così a
Geirrøðargarðr. Re
Geirrøðr dà loro una
buona accoglienza, e li conduce in una casa rocciosa [steinhús]
destinata a ospitarli per il tempo della loro permanenza.
Þorsteinn li segue di nascosto: si è infatti reso invisibile
grazie al potere del krókstaf. Più tardi, nella hǫll del sovrano,
Goðmundr presta giuramento di vassallaggio a
Geirrøðr. Vicino gli siede
Agdi di Gnipalundr, jarl del regno di Grundir.
Costui è un fjǫkunnigr, uno stregone, e i suoi uomini Jǫkull e
Frosti sono più simili a trǫll che a esseri
umani. Roso dalla gelosia, Jǫkull prende un osso di
bue dal tavolo e lo scaglia contro gli uomini di Goðmundr.
Ma Þorsteinn lo afferra al volo e lo rispedisce al mittente,
senza che nessuno si accorga della sua presenza. L'osso centra Jǫkull in pieno viso, rompendogli il naso e
tutti i denti.
Irritato, re
Geirrøðr convoca i suoi uomini,
Drǫtt e Hǫsvir:
«Andate a prendere la mia palla d'oro». I due portano una testa di foca
incandescente, dal peso di duecento libbre, da cui sprizzano scintille e
gocciola grasso bollente. «E ora palleggiate con questa» ordina il re. «Chi si
rifiuta sarà bollato come vigliacco, e chi la lascia cadere sarà considerato un
fuorilegge e i suoi beni confiscati.» Così i presenti cominciano a
tirarsi l'un l'altro la sfera incandescente e Þorsteinn,
sempre invisibile, aggiunge la propria forza a quella dei suoi compagni. Ben
presto Frosti si spacca uno zigomo e Agdi
si brucia la barba col grasso bollente. Poi Goðmundr rilancia
la sfera a re
Geirrøðr, ma il proiettile colpisce
Drǫtt e Hǫsvir,
uccidendoli entrambi. La palla sfonda poi una finestra e cade nel fossato
sottostante, sollevando scintille e fiammate.
Il giorno successivo,
Geirrøðr convoca i suoi ospiti e propone loro un
incontro di glíma. Con l'aiuto dell'invisibile
Þorsteinn,
Fullsterkr e Allsterkr affrontano
rispettivamente Frosti e
Jǫkull: il primo ha la nuca spaccata contro il pavimento e si frattura i gomiti, il secondo si
sloga una gamba. Toccò allora ad Agdi lottare
contro Goðmundr: i due si spogliano e il primo
è nero come la morte, mentre il secondo ha la pelle chiara e pallida.
Agdi afferra il suo avversario tra le braccia e sta quasi per frantumargli le costole, quando Goðmundr
– con l'aiuto di Þorsteinn – lo scaraventa al suolo
rompendogli il naso e i denti.
Mentre
Geirrøðr va proponendo altre difficili prove, tra cui vuotare due corni giganteschi detti Hvítingar, Goðmundr
conduce Þorsteinn, ora tornato visibile, dal re, presentandolo come un servitore
mandatogli da Óðinn. «Cosa è in grado di fare
questo ragazzino?» chiede con disprezzo
Geirrøðr. Þorsteinn
gli mostra una pietra magica che, tempo prima, aveva ricevuto in dono da un
nano, avendogli salvato il figlio. Stringendo gli angoli della pietra, è
possibile suscitare tempeste o tormente, oppure sollevare fiamme e scintille.
Così fa Þorsteinn: scatena un turbine di
vento attraverso la hǫll, poi fa brillare di nuovo il sole. «Vuoi che
continui il mio gioco?» chiede allora al re. «Fammi vedere dell'altro» ordina
Geirrøðr. Allora Þorsteinn
serra la pietra e fa schizzare un fiotto di scintille negli occhi di
Geirrøðr, quindi gliela scaglia in volto.
Geirrøðr cade morto. In tal modo, Goðmundr prende il controllo di
Geirrøðargarðr e diviene re dell'intero territorio.
Þorsteinn torna nel Nóregr e porta un ricco bottino
in dono a re Óláfr.
|
III - LA TESTIMONIANZA DI SAXO GRAMMATICUS
Alla vicenda fa pure riferimento un interessantissimo episodio riportato da Saxo Grammaticus nell'ottavo libro del suo Gesta Danorum (inizio
xii sec.), il cui protagonista, il
marinaio Thorkillus [Þorketill
aðalfari] è anch'esso un'ipostasi eroica di
Þórr.
|
Geruthus |
Alan Lee, illustrazione. |
Il re danese Gormo [Gormr], venuto
a conoscenza delle leggendarie ricchezze ammassate da
Geruthus [Geirrøðr], un malvagio
sovrano che dimora ai confini del mondo, prepara una grande spedizione cui
partecipano trecento uomini. Come dux sceglie
Thorkillus, un marinaio esperto delle rotte
settentrionali.
Le navi salpano dal Hálogaland, il porto più
settentrionale della Norvegia e, puntate le prue a est, solcano il
mar glaciale Artico fino a raggiungere il Bjarmaland
(Gesta Danorum [viii,
xiv, 2-6]). Le navi
arrivano infine in una terra selvaggia, percorsa da fiumi fragorosi e spumeggianti.
I marinai scendono a riva e macellano le bestie. A questo punto
arriva loro incontro un individuo gigantesco: è
Guthmundus [Goðmundr], fratello di
Geruthus, il quale invita i danesi
a fermarsi nella sua dimora.
Guidati da
Guthmundus,
Thorkillus e i suoi arrivano a un ponte d'oro che
scavalca un fiume: i danesi vorrebbero attraversarlo ma
Guthmundus li informa che quel fiume è
il limite che separa il mondo degli uomini da ciò che si trova oltre e che non è
concesso ai mortali superarlo. Quindi, condotti i
danesi nella sua reggia, Guthmundus
imbandisce un ricco banchetto e offre loro la compagnia delle sue
figlie. Ma
Thorkillus avverte i suoi uomini di non
accettare né cibo né donne: chi avrebbe condiviso quel cibo avrebbe
perduto la memoria e sarebbe stato costretto a passare il
resto della sua vita insieme a quei turpi esseri (Gesta Danorum [viii,
xiv, 7-9]).
Visti inutili i suoi sforzi di ingannare i
danesi, Guthmundus
dà loro il permesso di oltrepassare il fiume: al di là si trova il
regno di
Geruthus.
Thorkillus e i suoi giungono in una città lugubre e
desolata, circondata da una palizzata: teste umane sono infilzate sulle
picche e cani feroci ne vigilano l'ingresso. Solo con difficoltà
riescono a varcarne le porte. All'interno è un groviglio di
ricchezze ineguagliabili abbandonate in mezzo al più orribile
sudiciume, mentre spettri esangui li guatano dai loro seggi. Al
centro della sala si presenta loro un'immagine grottesca:
Procedentes perfractam
scopuli partem nec procul in editiore quodam suggestu senem pertuso corpore
discissae rupis plagae adversum residere conspiciunt. Praeterea feminas tres
corporeis oneratas strumis ac veluti dorsi firmitate defectas iunctos occupasse
discubitus. Cupientes cognoscere socios Thorkillus, qui probe rerum causas
noverat, docet Thor divum, gigantea quondam insolentia lacessitum, per
obluctantis Geruthi praecordia torridam egisse chalybem eademque ulterius lapsa
convulsi montis latera pertudisse; feminas vero vi fulminum tactas infracti
corporis damno eiusdem numinis attentati poenas pependisse firmabat. |
Avanzando nella sala, scorgono una fenditura nella roccia e non molto distante,
seduto su una piattaforma sopraelevata di fronte alla rupe spaccata, un vecchio
con il corpo squarciato. Lì vicino vedono anche tre donne, con il corpo
ricoperto di scrofole, che sembravano senza forza nella spina dorsale. I suoi
compagni bruciavano dalla voglia di sapere, perciò
Thorkillus, che conosceva bene la ragione di quelle cose, raccontò loro
che il dio Thor era stato una volta sfidato
dall'arroganza dei giganti e, mentre lottava contro
Geruthus, gli aveva cacciato nelle viscere una verga di ferro
incandescente che, attraversandogli il corpo e scivolando più in basso, era
arrivata a spaccare i fianchi della montagna, squarciandola. Disse che le donne
erano state colpite dai potenti fulmini di Thor e
avevano pagato con il corpo spezzato la colpa di avere provocato la divinità. |
Saxo
Grammaticus: Gesta Danorum [viii,
xiv, 15] |
Ma i viaggiatori trovano anche quel tesoro di cui hanno tanto
sentito parlare. Vedono sette bacili bordati d’oro contenenti una grande
quantità di anelli d’argento, un corno potorio impreziosito da pietre preziose,
una zanna magnificamente intagliata, un pesante bracciale d'oro.
La cupidigia degli uomini è difficile da tenere a freno, ma il pericolo è in
agguato:
Cuius immodica quidam
cupiditate succensus, avaras auro manus applicuit, ignarus excellentis metalli
splendore extremam occultari perniciem nitentique praedae fatalem subesse pestem.
Alter quoque, parum cohibendae avaritiae potens, instabiles ad cornu manus
porrexit. Tertius, priorum fiduciam aemulatus nec satis digitis temperans, osse
humeros onerare sustinuit. Quae quidem praeda uti visu iucunda, ita usu
prodigialis exstitit; illices enim formas subiecta oculis species exhibebat.
Armilla siquidem anguem induens venenato dentium acumine eum, a quo gerebatur,
appetiit; cornu in draconem extractum sui spiritum latoris eripuit; os ensem
fabricans aciem praecordiis gestantis immersit. |
Uno degli uomini, infiammato dalla cupidigia, mise avidamente le mani su
quell’oro, senza sapere che dietro lo scintillio del nobile metallo si celava
una mortale sventura e che, nella sala luccicante, aleggiavano morte e rovina.
Pure un altro non seppe trattenere l’avidità e allungò la mano per afferrare il
corno. Il terzo non fu meno temerario degli altri: le dita smaniose, prese la
zanna. Ma la ricchezza del bottino era solo inganno per gli occhi: efficace
quanto l’effetto terrificante che era in grado di esercitare. Il bracciale
divenne un serpente velenoso che morse chi lo aveva afferrato, il corno si
trasformò in un drago che uccise chi lo aveva trafugato e il dente si mutò in
una spada che conficcò la propria punta nel petto di chi la reggeva. |
Saxo
Grammaticus: Gesta Danorum [viii,
xiv, 16] |
Assistendo alla fine dei loro compagni, gli altri si guardano dal
toccare i preziosi. Giungono poi a un uscio che, attraverso uno stretto
passaggio, conduce in un altro locale: un forziere segreto straripante di nuovi
tesori. Si scorgono armature più grandi della normale statura umana, un mantello regale, uno splendido copricapo e una cintura altrettanto
sgargiante. Gli oggetti seducono gli occhi di Thorkillus
che, alla fine, cede al desiderio di appropriarsene, nonostante abbia
comandato ai suoi uomini di tenere le mani a posto. Afferra il mantello e subito tutti gli altri si lanciano sui tesori. In quel momento
l’edificio comincia a tremare. Le figure umbratili,
fino a quel momento incoscienti, tornano in vita e aggrediscono
gli intrusi. I danesi rispondono alle lamiae con le armi e
tengono lontano quel branco di mostri con frecce e lance. Ma solo venti tra gli
uomini del hirð sono abbastanza abili da salvare la pelle: gli altri
finiscono sbranati dalle orride creature. I danesi scappano a gambe levate e
tornano al fiume.
Più tardi, Guthmundus
li accompagna sull’altra riva con una chiatta. Con gentilezza li
invita più volte a sostare nella sua dimora ma, non potendo costringerli a
fermarsi, li lascia andare con il loro ricco bottino (Gesta Danorum [viii,
xiv, 12-18]). |
IV - IL REGNO DI GEIRRØÐR: UNA GEOGRAFIA IPERBOREA
Snorri colloca il regno di
Geirrøðr in maniera piuttosto vaga, nello
Jǫtunheimr. Non fornisce altre informazioni, tranne una: che
Þórr, per arrivarvi, deve guadare il
Vimur, il «più grande di tutti i fiumi» [allra á
mest] (Skáldskaparmál
[26]). Sebbene il nome del Vimur
appaia in una delle due strofe dell'anonimo poema eddico citato da Snorri, esso
non è presente in nessun'altra fonte: non compare neppure nel lungo elenco idronomastico di
Grímnismál [27-29],
a meno che non lo si debba considerare una forma alternativa del nome del fiume
Vina
(Grímnismál
[28a]). Nessun idronimo è citato nella
Þórsdrápa, dove il guado di Þórr,
descritto con notevole ricchezza di immagini poetiche, sembra piuttosto
svolgersi attraverso un tratto di mare, almeno a giudicare dalle numerose
kenningar, più o meno oscure, che costellano il brano: Endils mó («brughiere di Endill»),
Gangs dreyri
(«sangue di Gangr»), háfmǫrk («selva della rete»), stopvǫll hnísu («terra
sconnessa delle focene»?), e via dicendo. Certamente le due interpretazioni
(fiume o mare) non sono tra loro contraddittorie: se ci proiettiamo in una
cosmologia mitica, il «più grande di tutti i fiumi» può benissimo essere un
tratto dell'oceano che circonda il mondo.
Ci aiuta il fatto che numerose fonti descrivano il regno di
Geirrøðr come confinante a quello di re
Goðmundr. Nel
Þorsteins þáttr bæjarmagns, il regno di
Goðmundr si trova nel Rísaland e il regno di
Geirrøðr nello
Jǫtunheimr, entrambe mitiche terre di giganti, e tra i due regni scorre il
mortale fiume Hemra. Come Saxo, anche la Bósa saga
colloca il regno di Goðmundr a oriente
del Bjarmaland. Si comprende il ragionamento di Martti Haavio, il quale ha interpretato il guado della
Þórsdrápa
come un percorso attraverso il mar Artico: secondo l'autore, il
Vimur
altro non sarebbe che la Dvina Settentrionale, fiume a cui viene di
solito associata la
Vina citata nel
Grímnismál (Haavio 1965). Il lettore tuttavia non ce ne vorrà se le interpretazioni
geografiche ci convincono poco, soprattutto se stiamo trattando di
reami mitologici.
Nel racconto di Saxo Grammaticus, il marinaio
Thorkillus sa bene che, per raggiungere il regno di
Geruthus e impadronirsi delle sue immense ricchezze, dovrà affrontare un
viaggio «quasi inaccessibile per dei mortali»: bisogna attraversare
l'oceano che circonda il mondo, lasciandosi alle spalle sole e stelle, e
viaggiare in un regno caotico, immerso in una perenne oscurità
(Gesta Danorum [viii,
xiv, 1]). È un percorso
assolutamente mitologico, sebbene Saxo finisca per fissarlo nella geografia
delle spedizioni vichinghe della sua epoca: dopo essersi immesso nel mar
glaciale Artico, Thorkillus costeggia la costa
settentrionale della Scandinavia e arriva nella parte più lontana del Bjarmaland.
Questa regione –
estrema propaggine nord-orientale delle spedizioni vichinghe – si
trovava sulla costa settentrionale dell'odierna Russia, oltre la
penisola di Kola. In Saxo è però descritta come un luogo mitologico,
avvolto da una notte perenne e abitato da orribili mostri. Qui egli
colloca i regni di Guthmundus e
Geruthus. Tra i due si registra la presenza di
un fiume assai pericoloso:
Procedentibus amnis aureo ponte
permeabilis cernitur. Cuius transeundi cupidos a proposito revocavit, docens eo
alveo humana a monstruosis secrevisse naturam nec mortalibus ultra fas esse
vestigiis. |
Durante il tragitto, [gli uomini di
Thorkillus] scorgono un fiume scavalcato da un ponte fatto d'oro. Gli
uomini volevano attraversarlo, ma
Gurthmundus li invitò a desistere dal loro
proposito, dicendo che il letto di quel fiume era il limite che la natura aveva
creato per separare il mondo degli uomini da quello non umano e che non era
concesso ai mortali di spingere i passi al di là. |
Saxo
Grammaticus:
Gesta Danorum [viii,
xiv, 7] |
Il ponte d'oro
rimanda al Gjallarbrú
dell'Edda,
che scavalca uno dei fiumi inferi (ganga of Gjallarbrú è metafora
scaldica per «morire»). I regni di Geirrøðr e
di
Goðmundr appaiono essere delle espressioni del mitema del
Tartarus septentrionalis.
|
Hafs-botn |
Il mar Artico come «golfo».
(Nansen 1911) |
Il contesto è dunque oltremondano. Che nelle fonti i regni di
Geirrøðr e Goðmundr
appaiano collocati oltre il Bjarmaland, e quindi nei termini di una geografia
reale, è il risultato delle interpretazioni
razionalizzanti eseguite da Saxo Grammaticus e dagli altri autori di epoca
tarda. La concezione cosmografica sottesa a questi testi, cui è rimasta traccia
nelle ballate e nelle saghe, si muoveva tuttavia lungo traiettorie piuttosto
diverse da quelle a noi abituali. Secondo Liestøl e Moe, questa remota terra era
immaginata oltre un vastissimo golfo che collegava la Groenlandia alla Norvegia.
(Liestøl ~ Moe 1920-1924)
Il territorio situato dall'altra parte del golfo (formato dal mar
glaciale Artico), viene chiamato Hafsbotn nella
Landnámabók e nelle fornaldarsǫgur,
Norðrbotn [Sinus septentrionalis] nella
Historia Norwegiae,
Trollebotten o Trollabotnar nelle
ballate, o semplicemente Botnar. Il termine botn indica il
«fondo» di un fiordo o di una valle; cfr. inglese bottom
(Taglianetti 2016). È in questo paese iperboreo
che si recano gli eroi delle saghe e delle ballate a conquistare tesori,
abbattere mostri e rapire splendide fanciulle. Ma questo luogo non appartiene alla
geografia, bensì alla cosmologia. Luca Taglianetti ricorda che nella ballata
Jomfrua Ingebjørg
il toponimo Trollebotten indica l'inferno
(Taglianetti 2016).
La terra di
Goðmundr e di
Geirrøðr va parimenti collocata in questi remote plaghe iperboree.
|
V - L'EQUIPAGGIAMENTO DI GRÍÐR Un
motivo interessante, nello
Skáldskaparmál, sta nella panoplia che la
gýgr
Gríðr fornisce a Þórr per la sua
spedizione. Nella versione di Snorri, infatti, Þórr è disarmato:
Loki lo ha convinto a
recarsi da
Geirrøðr senza il suo martello e il dio sta per
cadere in una trappola mortale.
Gríðr ospita Þórr nella sua dimora
e, prima di lasciarlo andare, gli fornisce degli strumenti sostitutivi del
Mjǫllnir, che gli
permettano di
superare l'impresa.
Hon léði honum megingjarða
ok járngreipr er hon átti ok staf sinn er heitir Gríðarvǫlr. |
Ella gli prestò anche la cintura di potere e i guanti di ferro che possedeva,
insieme alla sua verga, chiamata Gríðarvǫlr. |
Snorri
Sturluson:
Skáldskaparmál
[26] |
Su
Gríðr non sappiamo molto.
Skáldskaparmál [26]
è l'unica fonte che ci fornisca delle notizie su di lei. Era madre di Víðarr, da cui si
deduce che sia stata amante di
Óðinn. Questo dettaglio sembra essere
confermato da Snorri, il quale definisce Frigg
<elju Gerðar>, espressione di solito emendata in elju Griðar,
«rivale di
Gríðr»
(Skáldskaparmál [27]).
Il nome della gigantessa deriva dal norreno gríðr, «ira» (cfr. inglese greed),
termine che compare in senso apparentemente generico in un verso della
Ljoða Edda,
dove l'espressione gránstóð gríðar, «cavalcature grigie della strega», è
kenning per «lupo» (Helgakviða Hundingsbana ǫnnor
[25]). Altre occorrenze del nome (ad esempio nella
Illuga saga Gríðarfóstra) si riferiscono a personaggi non
direttamente rapportabili alla Gríðr snorriana.
Così Grytha, sposa di re
Dan di Danimarca, definita da Saxo summae inter Theutones dignitatis matrona (Gesta Danorum [I,
i, 3]).
Gli oggetti prestati da
Gríðr a Þórr sono:
- la cintura del potere [megingjarðar],
- i guanti di ferro [járngreipr],
- la verga Gríðarvǫlr.
Di questi oggetti, i primi due fanno già parte dell'usuale panoplia di
Þórr: la cintura di potere [megingjarðar],
in grado di moltiplicare le forze del dio, e i guanti di ferro [járngreipr], che
Þórr usa per impugnare il suo
incandescente martello.
Gríðr sembra dunque fornire a Þórr
degli strumenti analoghi, se non identici, a quelli che il dio ha lasciato a
casa. Entrambi gli strumenti saranno funzionali al seguito del racconto di Snorri: Loki si aggrappa alla megingjarðar nel
corso del guado del Vimur, mentre i guanti serviranno a Þórr per
afferrare il pezzo di metallo incandescente scagliatogli addosso da Geirrøðr. Nonostante
ciò, la duplicazione di oggetti così particolari sembra un dato ridondante.
Il forte sospetto è che l'episodio di Gríðr sia
stato, in origine, il mito che spiegava come Þórr fosse
venuto in possesso per la prima volta della cintura della forza e/o
dei suoi guanti di ferro. Diverso il caso del bastone [stafr] detto Gríðarvǫlr, «verga di
Gríðr», che non appartiene alla tradizionale panoplia del dio del tuono. Il termine vǫlr
indica una sorta di bacchetta magica, ma nel
seguito del racconto lo strumento è defunzionalizzato.
Þórr
se ne serve per puntellarsi durante il guado del Vimur e quindi per
evitare di venire schiacciato
contro il soffitto della casa di Geirrøðr: due azioni per cui
non sono necessari particolari poteri o virtù.
L'impressione è che Snorri si limiti a registrare la presenza del Gríðarvǫlr
più che la sua funzione. Si noti che la sosta di Þórr
presso
Gríðr è presente soltanto nel testo di Snorri: la Þórsdrápa
non conosce affatto l'episodio e non entra mai nel merito dell'equipaggiamento
del dio. Nel poema di Eilífr Goðrúnarson manca anche qualsiasi accenno al fatto
che Þórr abbia intrapreso il viaggio
disarmato: al contrario, un verso ci informa che il dio
abbia compiuto un massacro tra gli jǫtnar utilizzando il suo «martello insanguinato» [dreyrgum
hamarr] (Þórsdrápa
[18]).
In quanto alla cintura, la Þórsdrápa
sembra citarla in una
kenning, dove Þórr è definito
njótr njarðgjarðar, «colui che beneficiò della cintura chiusa» (Þórsdrápa
[7: 4]). Non è
affatto scontato che njarðgjǫrð («cintura chiusa») sia il
megingjarðar, e val la pena ricordare che la cintura del potere è
del tutto sconosciuta nei poemi eddici: primo e unico a testimoniarne
l'esistenza è proprio Snorri. Ma pure ammettendo che la kenning si
riferisca alla megingjarðar, l'espressione va vista come una circonlocuzione
poetica e non dimostra che Þórr indossasse
la cintura nel corso del racconto. Più contestualizzata è la scena del guado, dove Eilífr afferma che
Þjálfi sia aggrappato «alla cinghia
dello scudo del signore del cielo» [skaunar á seil himinsjóla]
(Þórsdrápa [9:
1-2]),
ma anche qui non vi è alcuna evidenza che ci si riferisca a megingjarðar. È
Snorri a effettuare tale identificazione, peraltro sostituendo
Loki a Þjálfi.
Leggiamo infatti nella
Prose Edda che, mentre Þórr era impegnato ad avanzare a
guado lungo la corrente impetuosa del Vimur, «Loki
stava dietro, stretto alla cintura del potere» [Loki helt undir megingjarðar]
(Skáldskaparmál [26]).
I guanti di ferro [járngreipr] sono analogamente ignorati da Eilífr
Goðrúnarson. Nella Þórsdrápa
Þórr
sembra piuttosto afferrare a mani nude il frammento di ferro incandescente
lanciatogli da Geirrøðr.
Svá at hraðskyndir handa
hrapmunnum svalg gunnar
lyptisylg á lopti
langvinr síu Þrǫngvar... |
E quindi colui che si affretta alla battaglia,
afferrandola in aria con la rapida bocca delle mani,
avidamente bevve la bevanda del grumo di ferro fuso,
il vecchio amico di Þrǫng... |
Eilífr
Goðrúnarson: Þórsdrápa [16: 1-4] |
Sebbene il brano non sia dei più semplici, l'espressione hrapmunnr handa,
la «rapida bocca delle mani», indica lo spazio tra il pollice e l'indice: la metafora per cui la mano diviene una bocca trova affinità semantica
con l'immagine del «bere» il metallo incandescente che Geirrøðr
ha scagliato contro Þórr (definito «vecchio
amico di Þrǫng [Freyja]»).
Nella scena non si fa alcuna menzione di guanti: anzi, l'affinità mano ≈
bocca suggerisce un'idea di nudità che porta a
escludere la presenza di un'armatura.
Anche per quanto riguarda la verga Gríðarvǫlr,
Eilífr non ne registra mai l'uso. Nella scena del
guado,
Þórr resiste alla corrente impetuosa
puntellandosi con delle «lance» [skotnaðrar]. Nella scena
della sedia,
si limita a dire che le gigantesse cercano di uccidere
Þórr spaccandogli la testa contro il
soffitto ma si ritrovano schiacciate al suolo con la schiena spezzata. Anche qui
nessun riferimento all'uso di una verga:
Ok hám loga himni,
hall- fylvingum vallar
tráðusk þær, við tróði
-tungls brá- salar þrungu... |
Spinsero l’alto cielo della fiamma…
verso le travi della sala
e vennero schiacciate
…della luna delle ciglia, contro il suolo roccioso. |
Eilífr
Goðrúnarson: Þórsdrápa [14: 1-4] |
È anche possibile che Snorri abbia inserito nel testo la verga
Gríðarvǫlr a partire da un arduo distico del poema
di Eilífr, che Eysteinn Björnsson normalizza e traduce nel modo seguente:
Stop- hnísu fór steypir
stríðlund með -vǫll Gríðar |
Oltre la sconnessa terra delle focene,
l’abbattitore di Gríðr portò l’albero di battaglia. |
Eilífr
Goðrúnarson: Þórsdrápa [9: 7-8] |
Questa coppia di versi, che il Codex Wormianus fornisce nella
lezione <stophnisv for steyp stríðlvndr með vꜹl griþar>, è stata
tradizionalmente ricostruita dagli studiosi nella forma <stríðlundr steypir
stophnísu fór með Gríðarvǫl>, «il furioso abbattitore delle focene delle
montagne portò Gríðarvǫlr». Si presume che
stophnísa, «focene delle montagne», sia una kenning per
indicare le gigantesse; il loro «furioso abbattitore» è dunque
Þórr. La parola <vꜹl>,
opportunamente normalizzata in vǫlr, «verga», viene connessa al genitivo
Gríðar e fornisce la base per la creazione della verga Gríðarvǫlr.
Tale ricostruzione poggia però sull'autorità di Snorri. Ma se lo stesso Snorri avesse mal
interpretato il testo? Eysteinn sottolinea una serie di difficoltà
che renderebbero ardua la suddetta interpretazione e suggerisce una diversa
ricombinazione del distico: <Stopvǫll hnísu fór steypir
Gríðar með stríðlund>, «Oltre la sconnessa terra delle focene, l’abbattitore
di Gríðr portò l’albero di battaglia».
|
Þórr e le figlie di Geirrøðr |
Gottfried F. Carl Ehrenberg (1840-1914), illustrazione. |
Qui la parola <vꜹl> non è più intesa come vǫlr, «verga», ma come vǫllr,
«terra, campo», e viene combinata in stopvǫllr, «terra sconnessa»;
stopvoll hnísu, «terra sconnessa delle focene», diviene ora una kenning per «mare, oceano». In questa ricostruzione,
Þórr è indicato
come steypir Gríðar,
«l'abbattitore di Gríðr».
(Eysteinn 2010). Quest'ultima
kenning presenta però una difficoltà non da poco, in quanto contraddice
il testo di Snorri, dove
Gríðr è presentata come amica e soccorritrice di
Þórr. È piuttosto difficile ritenere che Snorri abbia alterato il mito
fino a rovesciare i rapporti tra il dio del tuono e la gigantessa. Una possibilità,
non così remota, è che Eilífr usi il nome Gríðr come
kenning per indicare i giganti, o le gigantesse, in generale.
Queste note dànno un'idea di quanto sia arduo dare un senso
a certi passaggi della poesia scaldica. È presumibile che, nel combinare le fonti
che aveva sottomano, Snorri abbia adattato il racconto del viaggio di
Þórr presso Geirrøðr
a quello del suo incontro con Gríðr, mito dove si
spiegava come la gigantessa avesse dato al dio del tuono i guanti di ferro e la
cintura della forza. In tal caso, possiamo pensare che Snorri abbia aggiunto a tale panoplia anche una verga «Gríðarvǫlr»,
citata o forse mal inferita dal testo della Þórsdrápa.
Ciò spiegherebbe i maldestri tentativi di Snorri di trovare una collocazione o un uso
più o meno appropriato al nuovo equipaggiamento posseduto da Þórr.
Le cose sono andate veramente così?
Un interessante indizio riguardo a questo problema ci viene dal
Þorsteins þáttr bæjarmagns, dove entrambi gli episodi trovano una
loro logica connessione. Dapprima Þorsteinn
ottiene, ingannando le donne soprannaturali che vivono all'interno del
cumulo, un krókstaf («bastone ricurvo») in grado di renderlo
invisibile; in seguito, raggiunto il regno di Geirrøðr,
utilizzerà le proprietà del bastone nei momenti culminanti della vicenda.
Questa trama in due tempi, in cui l'eroe si procura dapprima un talismano o
un oggetto magico che in seguito utilizza per sconfiggere i suoi nemici, fa parte dei più collaudati
meccanismi fiabeschi. Il tema viene sviluppato dal
Þorsteins þáttr bæjarmagns in modo assai più rigoroso
che non nel racconto di Snorri. In
Skáldskaparmál [26] la verga Gríðarvǫlr
non ha un uso specifico:
Þórr la utilizza più o meno come potrebbe
fare con un comune bastone. Al contrario le proprietà magiche del krókstaf
vengono utilizzate da
Þorsteinn in modo appropriato, dando un aiuto
ai propri compagni nel corso delle sfide imposte loro da Geirrøðr.
Confrontando lo
Skáldskaparmál
con il
Þorsteins þáttr si deduce che l'incontro di
Þórr con Gríðr,
o con un personaggio affine, fosse un fondamentale ingranaggio nel meccanismo
del racconto originale. La soluzione più ragionevole è che Snorri abbia combinato
tra loro dei racconti simili. Come detto, il tema della
consegna della cintura della forza [megingjarðar]e dei guanti di
ferro [járngreipr] faceva probabilmente parte di un mito separato, nel quale si narrava come Þórr
fosse venuto in possesso del suo tradizionale equipaggiamento. A questo
motivo è però venuto ad associarsi quello della consegna a Þórr,
da parte di una soccorrevole donna soprannaturale, di uno strumento
necessario a sconfiggere Geirrøðr. Questo
strumento è il krókstaf nel
Þorsteins þáttr e la verga Gríðarvǫlr
nel testo di Snorri. |
VI - LE FIGLIE DI GEIRRØÐR Le figlie di Geirrøðr,
le gýgr Gjálp e Greip,
celano più di quanto non traspaia dal semplice racconto di Snorri. Forzando le fonti
è però possibile portare alla luce qualche dettaglio interessante sulla natura
di questa sgradevole coppia di gigantesse. I due nomi, allitterati tra loro,
vanno necessariamente in coppia: Gjálp, «gemito»
(cfr. gjálpa, «guaire»), e Greip, forse
«[colei che] afferra» (cfr. greipa, «agguantare»; greip è lo
spazio tra il pollice e le altre dita) (Cleasby ~
Vigfússon 1874), appaiono citate insieme in una coppia di semiversi del
Hyndluljóð, dove sono due delle nove madri
ancestrali di Óttar heimski, il «semplice»,
protetto della dea Freyja:
Hann Gjalp of bar,
hann Greip of bar,
bar hann Eistla
ok Eyrgjafa,
hann bar Ulfrún
ok Angeyja,
Imdr ok Atla
ok Járnsaxa. |
Gjálp lo generò.
Greip lo generò,
lo generò Eistla
ed Eyrgjafa,
lo generò Úlfrún
e Angeyja,
Imðr e Atla
e Járnsaxa. |
Ljóða Edda >
Hyndluljóð [8] |
Poco si può dire sugli altri nomi, che sembrano appartenere a delle gigantesse:
sicuramente è una gigantessa Járnsaxa, amante di
Þórr e madre di
Magni.
Snorri fa intervenire le figlie di Geirrøðr
in due occasioni:
|
Þórr e le figlie di Geirrøðr (✍ 1885) |
Lorenz Frølich (1820-1908), illustrazione
(Oehlenschläger 1885). |
(1) Nella prima, compare la sola
Gjálp, la quale ingrossa la corrente del fiume
Vimur per rendere difficoltoso il guado di
Þórr: il dio le scaglia contro una pietra,
e «non mancò il bersaglio». Questa scena è assai curiosa: come ricorda Gianna Chiesa Isnardi, nelle saghe leggendarie erano ricordati esseri
chiamati brunnmigi, i quali insozzavano le sorgenti orinandovi dentro
(Isnardi 1991). D'altra parte, la scena di
Gjálp a cavalcioni del fiume
Vimur ricorda irresistibilmente un episodio della leggenda irlandese, dove la Mórrígan si fa
trovare dal Dagda Mór con i piedi sulle due sponde
del fiume Uinnius. Il mito ibernico si muove però in un contesto
completamente diverso, visto che il Dagda sedurrà
la Mórrígan ottenendo il suo favore nel corso della
battaglia contro i Fomóire. Sostenere un'omologia tra il mito germanico e quello celtico
può essere piuttosto arduo, a meno di non
ipotizzare un complesso scambio di valenze tra Gríðr
e Gjálp. Come la Mórrígan,
sedotta dal Dagda, sarà al fianco delle
Túatha Dé Danann nello scontro contro i
Fomóire, altrettanto
Gríðr si mostra soccorrevole nei confronti di
Þórr, fornendogli la necessaria
attrezzatura per ottenere la vittoria. Un confronto più serrato tra i due miti,
però, si rivela irrimediabilmente fragile.
(2) Nella seconda ricorrenza,Snorri fa comparire
Gjálp e Greip in
coppia. Sollevano di colpo la sedia dove si è seduto
Þórr, nel
tentativo di fracassargli la testa contro il soffitto; ma il dio, facendo pressione in senso
contrario, schiaccia le due gýgr sotto la sedia, spezzando loro la
schiena
(Skáldskaparmál [26]). Eilífr
Goðrúnarson, che conosce soltanto questo secondo episodio, non dice il nome delle
due gigantesse morte sotto la sedia di
Þórr:
Ok hám loga himni,
hall- fylvingum vallar
tráðusk þær, við tróði
-tungls brá- salar þrungu;
húfstjóri braut hváru
hreggs váfreiðar tveggja
hlátr-elliða hellis
hundfornan kjǫl sprundi. |
Spinsero l’alto cielo della fiamma…
verso le travi della sala
e vennero schiacciate
…della luna delle ciglia, contro il suolo roccioso.
Il timoniere del carro volante della tempesta
spezzò l’antica chiglia
della nave delle risate
di entrambe le femmine della caverna. |
Eilífr
Goðrúnarson: Þórsdrápa [14] |
I due nomi appaiono però nella seconda strofa del poema eddico citato da
Snorri (presente solo nel ms. U).
Einu sinni
neytta ek alls megins
jǫtna gǫrðum í
þá er Gjálp ok Gneip
dǿtr Geirraðar
vildu hefja mik til himins. |
Usai una volta
la mia forza tutta
nel recinto degli jǫtnar,
quando Gjálp e Greip
figlie di Geirrøðr
tentarono di portarmi fino al cielo. |
Snorri
Sturluson:
Skáldskaparmál [26 {72²}] |
Nel capitolo dedicato alle Þórskenningar («kenningar per
Þórr»), Snorri cita una strofa di Úlfr Uggason
dove
Þórr viene definito jǫtunn
Vimrar vaðs, «gigante del guado del Vimur»,
con esplicito riferimento – asserisce il mitografo – al racconto del
viaggio di Þórr verso Geirrøðargarðar
(Skáldskaparmál [11]). Per meglio
spiegare nel dettaglio l'argomento, Snorri cita altre strofe dove si
elencano dei giganti sconfitti da
Þórr. La prima,
attribuita allo scaldo Vetrliði Sumarliðason, così si rivolge allo stesso
Þórr:
Leggi brauzt þú Leiknar,
lamðir
Þrívalda,
steyptir Starkeði,
stóttu of Gjálp dauða. |
Hai rotto le ossa a Leiknar,
hai pestato Þrívaldi,
hai abbattuto Starkaðr,
hai sovrastato il cadavere di Gjálp. |
Vetrliði Sumarliðason
apud Snorri
Sturluson:
Skáldskaparmál [11] |
Non conosciamo il mito di Leiknar; riguardo a Þrívaldi,
è pervenuta una kenning dello scaldo Bragi dove
Þórr è definito «colui che ha mozzato le
nove teste di Þrívaldi» [sundrkljúfr níu haufða Þrívalda]
(Skáldskaparmál [11]); all'uccisione del
gigante Starkaðr Áludrengr accenna la versione
lunga della Hervarar saga [1]. In quanto a Gjálp,
è curioso che Vetrliði la citi da sola, senza
la compagnia della sorella. Difficile dire se l'immagine abbia qualche
riferimento alla scena della sedia, dove Gjálp e
Greip giacciono al suolo con la schiena rotta, o si riferisca a
un'ulteriore variante del mito. A questo punto bisogna notare che nel testo di Saxo
Grammaticus sono tre le donne con la spina dorsale fratturata:
Praeterea feminas tres
corporeis oneratas strumis ac veluti dorsi firmitate defectas iunctos occupasse
discubitus. [,,,] feminas vero vi fulminum tactas infracti
corporis damno eiusdem numinis attentati poenas pependisse firmabat. |
Lì vicino vedono anche tre donne, con il corpo ricoperto di scrofole, che
sembravano senza forza nella spina dorsale. [...][Thorkillus]
disse che le donne
erano state colpite dai potenti fulmini di Thor e
avevano pagato con il corpo spezzato la colpa di avere provocato la divinità. |
Saxo
Grammaticus: Gesta Danorum [viii,
xiv, 15] |
Sebbene nella versione saxoniana
Þórr abbia ucciso le gýgr fulminandole, e
non schiacciandole sotto la sedia, non c'è dubbio che ci si riferisca allo
stesso mito: non solo il contesto è identico ma ritorna puntuale il motivo
della schiena spezzata. Il fatto che le donne siano qui tre dipende forse da un
computo differente delle vittorie di
Þórr contro le figlie di Geirrøðr,
contando forse come personaggi separati la gigantessa a cavalcioni sul fiume e le due
donne schiacciate sotto la sedia.
Effettivamente, il testo di Snorri è abbastanza laconico riguardo al destino
della gigantessa del fiume Vimur:
Þá sér Þórr uppi í
gljúfrum nǫkkurum at Gjálp, dóttir Geirrøðar, stóð þar tveim megin árinnar ok
gerði hon árvǫxtinn. Þá tók Þórr upp ór ánni stein mikinn ok kastaði at henni ok
mælti svá: “At ósi skal á stemma”. Eigi misti hann þar
er hann kastaði til. |
In seguito
Þórr vide che Gjálp, figlia di
Geirrøðr,
stava sull'alto di un burrone, poggiando a gambe divaricate su entrambe le rive
del fiume ed era lei la causa della piena.
Þórr prese allora una grossa pietra dal fiume e glielo lanciò contro, dicendo:
“Un fiume va arginato alla sorgente”. Non mancò di colpire il bersaglio. |
Snorri
Sturluson:
Skáldskaparmál [11] |
Nel suo modo abrupto, il testo asserisce esplicitamente che
Þórr abbia colpito Gjálp
con una violenta sassata. Nonostante ciò, la gigantessa ricompare, apparentemente
illesa, nella scena della sedia. Si obietterà che le due scene non sono
inconciliabili: si presume che Gjálp sia
sopravvissuta al colpo, magari con un livido o un bel bernoccolo. Se
contraddizione vi è, essa è soltanto formale: è strano che il colpo scagliato da
Þórr, in un contesto così significativo, non
abbia sortito alcun effetto, tanto più che da esso è sorto un detto proverbiale: at ósi skal á stemma («un
fiume va arginato alla sorgente»). Inoltre la stretta associazione tra le due
sorelle rende piuttosto curiosa la singola apparizione di Gjálp,
così come la duplicazione di costei in due episodi distinti e fondamentali, dove viene sconfitta
da
Þórr, peraltro in due modi tanto
peculiari. L'impressione è che Snorri abbia attribuito a Gjálp
una scena precedentemente incentrata su un altro personaggio.
|
Þórr prende la mira (✍ 1885) |
Lorenz Frølich
(1820-1908), illustrazione (Oehlenschläger 1885). |
|
VII - «IL SORBO È LA SALVEZZA DI ÞÓRR»
Un motivo interessante, nell'episodio del guado del fiume
Vimur, è legato a un altro detto proverbiale [orðtak]. Snorri lo sbriga
in poche parole:
Ok í því bili bar hann at landi ok fekk tekit reynirunn
nǫkkvorn ok steig svá ór ánni. Því er þat orðtak haft at reynir er bjǫrg Þórs. |
E quando giunse all'altra riva, [Þórr] afferrò un ramo di sorbo e
uscì dal fiume. Da qui ebbe origine il detto: «il sorbo è la salvezza di
Þórr». |
Snorri
Sturluson:
Skáldskaparmál [11] |
Il detto reynir er bjorg Þórs non compare nella Þórsdrápa.
Come ha osservato Hermann Schneider, Snorri lo aggiunse alla sua versione del
racconto desumendolo probabilmente da una tradizione popolare
(Schneider 1936). Il dettaglio sembra però essere
stato piuttosto significativo, sebbene Snorri ce lo consegni in maniera quasi
defunzionalizzata. Gli studiosi hanno avanzato molte ipotesi nel
tentativo di dargli una lettura ai fini di un'interpretazione mitologica.
Secondo Jan de Vries, il salvataggio di Þórr aggrappato al sorbo troverebbe
immediati riscontri in analoghi episodi del mito ellenico:
Akhilleús si salva dai vortici dello Skámandros aggrappandosi a un olmo e
Odysseús, trascinato dal gorgo di
Khárybdis, si aggrappa a un fico selvatico [erineós]
(De Vries 1957).
Il norreno reynir (svedese rönn, danese rönne) si
riferisce a tutti gli alberi e gli arbusti del genere Sorbus, famiglia
delle Rosaceae. Si trattava forse, in origine, una pianta sacra a
Þórr? Presentava relazioni mitologiche o
cultuali con il dio-tuono? La Isnardi ricorda che il sorbo selvatico era
ritenuto una pianta dotata di particolari virtù magiche, quali la capacità di
allontanare gli spiriti malvagi o di aumentare la fecondità, e il carattere
apotropaico potrebbe facilmente spiegare la sua affinità con
Þórr (Isnardi 1991).
Nella Sturlunga saga si narra che il capo
norvego-islandese Geirmundr heljarskinn («pelle d'inferno») vedeva gli
alberi di sorbo selvatico risplendere di una luce soprannaturale: per tale ragione picchiò
un servo che aveva pungolato il bestiame con un ramo di sorbo e buttò
il latte prodotto nel corso della giornata (Sturlunga
saga [II, i, 6]). Un pezzo di ramo di sorbo selvatico è stato
rinvenuto in un recipiente di bronzo insieme ad altri resti di oggetti magici in
una tomba danese dell'età del bronzo, a Maglehøj, presso Frederikssund, nel
Sjælland. (Isnardi 1991)
Martti Haavio ha indirizzato la propria attenzione a un passo con cui Mikael
Agricola, primo vescovo della Riforma in Finlandia, presenta la coppia del
dio-cielo finnico e della sua sposa presso le popolazioni della Carelia:
Rauni, sposa di Ukko,
il vecchio del cielo nel pántheon finnico, è conosciuta quasi unicamente
attraverso la lista di Agricola: Ganander la equipara analogicamente a
Rhéa o Iuno
(Ganander 1789). Oltretutto il distico non è
neppure tanto chiaro e la coppia di termini haͤrsky e paͤrsky ha
causato non pochi problemi di interpretazione. Alcuni studiosi presumono che Agricola accenni a
un’accesa discussione tra Rauni e
Ukko; altri interpretano il testo in senso
sessuale: quando Rauni si eccita, arriva la
pioggia. È stato Eemil N. Setälä a suggerire che il nome di
Rauni sarebbe derivato dal norreno reynir,
«sorbo», pianta di cui la dea sarebbe stata la personificazione
(Haavio 1965; cfr. Giansanti ~ Di Luzio 2014).
Si ricorda che anche presso i sámi il dio-tuono
Dierbmes o Horagalles
(< svedese Thor karle) aveva una sposa a nome
Rávdná.
Il parallelo finnico non ci aiuta molto. Al contrario, è
la possibile etimologia del nome di
Rauni/Rávdná
da reynir che, attraverso il parallelo con il mito
scandinavo, offre qualche appiglio all'interpretazione della
dea careliana o lappone, nella quale si è voluto vedere – a
seconda del capriccio dello studioso – una forma
finnicizzata di Sif,
Rán o
Skáði. Si ritiene peraltro che il nome
Rauni/Rávdná
sia la forma finnica dell'antroponimo femminile
norreno Ragnhildr.
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VIII - IL CADAVERE DI GEIRRØÐR, I VIAGGI DI ESKANDAR E IL REGNO IPERBOREO DI ÁTLAS Il
«ciclo di Geirrøðr» non lascia particolari appigli
per un rigoroso lavoro di comparazione. Vero: traspaiono molti mitemi ben
evidenti, che i folkloristi hanno puntualmente indicato.
Il nostro scopo, tuttavia, non è tanto individuare i singoli motivi, quanto
cercare di mettere a fuoco la classe di miti omologhi in cui inquadrare questo
gruppo di racconti, dandogli una collocazione ben precisa nell'ambito della
mitologia universale. Compito non facile, tanto più che il «ciclo di Geirrøðr»
è arrivato a noi in diverse versioni e varianti, le quali testimoniano livelli
di rielaborazione piuttosto invasivi. Bisognerà attingere
da tutti i testimoni a nostra disposizione.
Come abbiamo cercato di dimostrare altrove, alcuni dei miti di
Þórr possono essere inquadrati nello
schema delle avventure del dio-tuono indoeuropeo: in particolare abbiamo
riconosciuto alcune interessanti omologie con alcuni dei miti del ciclo ellenico
di Hērakls. Nella cosmologia sottesa
dal «ciclo di Geirrøðr»,
tuttavia, si riconoscono elementi di un isomitema diffuso anche fuori dal dominio
indoeuropeo: il mito della ricerca della vita eterna. I medesimi elementi si
presentano puntualmente nell'epopea di Gilgameš,
nel ciclo ellenico di Hērakls, nella
leggenda araba di Bulūqiyā, nei
racconti arabo-persiani su al-Iskandar/Eskandar,
nel mito cinese dell'arciere
Yì. Tutti questi eroi intraprendono viaggi verso terre o isole
lontanissime, nel tentativo di arrivare al giardino meraviglioso dove sgorga
l'acqua della giovinezza o spuntano i frutti dell'immortalità. Tutti questi miti
si basano su una cosmologia comune dove l'oceano cosmico separa la terra abitata dagli uomini da altri «continenti» extramondani,
irraggiungibili, dove il tempo è immobile all'età aurea. Abbiamo trattato altrove questo affascinantissimo
tema in uno studio apposito, a cui rimandiamo per maggiori approfondimenti. Ⓐ
L'antichissima cosmografia sottesa in questa classe di miti
presenta una serie di elementi ricorrenti:
- oltre l'oceano esterno si trovano «continenti» extramondani,
irraggiungibili dai comuni mortali;
- per arrivarvi bisogna attraversare una terra di tenebre, priva di luce e
di stelle;
- bisogna oltrepassare un corso d'acqua infernale, non di rado mortale.
Le terre d'immortalità, nei miti suddetti, sono a volte localizzate nel
lontano occidente, ma si presenta anche, regolarmente, l'idea di un pericoloso
viaggio verso l'estremo nord. È in questa direzione che vediamo muoversi
Eskandar nella versione
persiana della leggenda (ad esempio, nello
Šarāfnāmè di
Neẓāmī). Il
mito greco colloca di solito il
Kpos Hesperídōn, il
favoloso giardino dei frutti dell'immortalità, custodito dalle figlie di Átlas,
nell'estremo occidente: ma è ben nota la variante in cui Hērakls
trovò il kpos nella terra degli
Hyperboreoí, dove parimenti era localizzato
un monte Átlas:
[I frutti delle Hesperídes] non si trovavano, come alcuni hanno detto, in Libýē, ma sull'Átlas tra gli Hyperbóreoi, ed erano i doni che G aveva fatto a Zeús quando aveva sposato Hḗra. | Apollódōros: Bibliothḗkē [II:
5, 11] |
L'estremo nord è il luogo dove il cielo
rotea attorno all'asse cosmico, il quale è rappresentato infatti come
un'immensa montagna che sorregge il cielo e intorno alla quale roteano il sole,
la luna e tutto il firmamento: la sua ombra crea un'immensa regione di eterna
oscurità. Così nei vari esiti del mito. Dopo aver ricevuto dagli
uomini-scorpione il permesso di attraversare le porte del monte
Māšu, Gilgameš arranca
un'intera giornata nella totale oscurità. Quando Eskandar
si avvicina alla montagna polare, l'oscurità diviene assoluta. Quando Hērakls
giunge nella terra degli Hyperboreoí,
nell'estremo settentrione del mondo, incontra il titano Átlas
che regge il cielo sulle spalle, fungendo egli stesso da perno per la
rotazione del firmamento. E Átlas, lo sappiamo, è destinato a
trasformarsi in una montagna:
Quantus erat, mons factus Atlas; nam barba comaeque in silvals abeunt, iuga sunt umerique manusque, quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen, ossa lepis fiunt: tum partes auctus in omnes crevis in inmsum (sic, di, statuistis) et omne cum tot sideribus caelum requievit in illo. | Grande quant'era, Átlas diventò un monte. La barba e i capelli passarono infatti in selve, le spalle e le mani sono balze, quello che prima era
il capo è il più alto cocuzzolo della montagna, le ossa divennero sasso. Poi, gonfiandosi dappertutto, crebbe smisuratamente in altezza (così decideste, o dèi), e tutto il cielo con le sue tante stelle poggiò su di lui. | Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [IV: -] |
Ma il viaggio dei nostri inesausti esploratori dei confini del
mondo riserva ancora molte sorprese. Uscito dalle viscere del
Māšu, Gilgameš, imbarcatosi sul
vascello del dio-sole Šamaš, affronta
l'oceano esterno, nel quale scorrono le mê mūti, le
«acque della morte». Anche Hērakls attraverso il fiume Ōkeanós
sulla navicella del dio-sole Hḗlios: e
noi sappiamo che in quelle acque la fatale corrente di Stýx si mescolava a quella di Ōkeanós.
Anche in alcune versioni del mito di Eskandar
compare il baḥr-i-mard, il «mare della
morte».
Tutti questi elementi sono ben presenti negli esiti del ciclo dei viaggi di
Þórr/Þorsteinn/Thorkillus. Saxo Grammaticus è molto chiaro nella
sua descrizione del viaggio verso l'Extramondanum clima:
Ambitorem namque terrarum Oceanum navigandum, solem postponendum ac sidera,
sub Chao peregrinandum ac demum in loca lucis expertia iugibusque tenebris
obnoxia transeundum expertorum assertione constabat. |
Secondo quanto affermavano gli esperti di
quella rotta, si doveva attraversare l'oceano che circonda la terra, lasciandosi
alle spalle sole e stelle, viaggiare nel regno del caos e infine passare in
luoghi esclusi dalla luce e immersi nell'oscurità perenne. |
Saxo
Grammaticus:
Gesta Danorum [viii,
xiv, 1] |
È un passo
che potremmo trovare, parola per parola, nei racconti dei viaggi di Eskandar
ai confini del mondo. Analogamente, il fiume
Vimur guadato da
Þórr, o ancor meglio, il fiume
Hemra del
Þorsteins þáttr bæjarmagns, talmente gelido che il semplice contatto
provoca immediata cancrena, non ha nulla da invidiare alle mê mūti
(le «acque della morte»)
dell'epopea di Gilgameš. L'immagine del fiume è
ben presente anche in Saxo, dove ha un carattere liminare assai più
spiccato: «Durante il tragitto, [gli uomini di
Thorkillus] scorgono un fiume scavalcato da un ponte fatto d'oro. Gli
uomini volevano attraversarlo, ma
Gurthmundus li invitò a desistere dal loro
proposito, dicendo che il letto di quel fiume era il limite che la natura aveva
creato per separare il mondo degli uomini da quello non umano e che non era
concesso ai mortali di spingere i passi al di là» [Procedentibus amnis aureo
ponte permeabilis cernitur. Cuius transeundi cupidos a proposito revocavit,
docens eo alveo humana a monstruosis secrevisse naturam nec mortalibus ultra fas
esse vestigiis] (Gesta Danorum [viii,
xiv, 7]).
Come la misteriosa pû-nārāti («confluenza dei fiumi»)
dell'epopea di Gilgameš, il
Kpos Hesperídōn del
mito ellenico, l'isola di al-Ḫiḍr nelle
fiaba araba di
Bulūqiyā o le meravigliose
terre extraoceaniche dei viaggi di al-Iskandar/Eskandar,
anche la regione iperboreale del mito nordico era
considerata una favolosa terra d'immortalità. Nella redazione
lunga della Hervarar saga ok Heiðreks
leggiamo quanto segue:
Svá er sagt, at í fyrndinni
var kallat Jötunheimar norðr í Finnmörk, [...]. Guðmundr hét konúngr í
Jötunheimum; hann var blótmaðr mikill; bær hans hét á Grund, en héraðit á
Glasisvöllum; hann var vitr ok ríkr; hann ok menn hans lifðu marga mannsaldra,
ok því trúa menn, at í hans ríki sé Ódáinsakr, en hverr, er þar kemr, hverfr af
sótt ok elli, ok má eigi deyja. Eptir dauða Guðmundar blótuðu menn hann, ok
kölluðu hann goð sitt. |
Si tramanda che anticamente la regione a nord del Finnland fosse chiamata
Jǫtunheimr [...]. Nello
Jǫtunheimr viveva allora un re di
nome Guðmundr, un pagano dalle ferme convinzioni.
Risiedeva in una città chiamata Grund, mentre la regione aveva nome
Glæsisvellir. Era un re forte e saggio. Insieme ai
suoi sudditi, vivevano numerosi stranieri, poiché i pagani credevano che nel suo
regno si trovasse il [campo di] Ódáinsakr e che,
chiunque riuscisse a giungervi, scampasse alla malattia e alla vecchiaia, e non
morisse. Dopo la morte di Guðmundr, i suoi
celebrarono un sacrificio e lo proclamarono loro dio. |
Hervarar
saga ok Heiðreks [1] |
Glæsisvellir, la
«pianura splendente», reminiscente della Glesaria di Plinius,
e Ódáinsakr, il «campo degli immortali»
(da ó-, prefisso negativo, e dáinn, «morto»), sono due
nomi di questa nordica terra d'immortalità. Guðmundr è
quindi il signore del felice oltremondo, il guardiano dei passaggi
che conducono al di là dello spazio. Le figlie di
Goðmundr rassomigliano forse alle Hesperídes
del mito ellenico, o alle donne dei fatati síde oltremarini delle leggende
irlandesi. Nelle leggende nordiche, tuttavia, il mito appare defunzionalizzato.
Nella versione di Saxo, l'incontro dei danesi con
Guthmundus viene svolto nei termini di
una tentazione da superare: Thorkillus
e i suoi uomini devono resistere all'allettamento del cibo imbandito
e alle grazie delle bellissime fanciulle che si offrono loro, se
vogliono conservare la memoria e la propria integrità.
Ma che dire di Geirrøðr? C'è modo di integrarlo
in questo isomitema, oppure si tratta di un elemento esterno al complesso di
miti di cui ci stiamo occupando? Il mito del suo incontro/scontro con
Þórr, centrale nella vicenda, sembra indicare
in realtà che lo
jǫtunn rappresenti un elemento significativo in questa classe di miti, sebbene non sia facile capire come
collocarlo all'interno del nostro schema. Forse, tuttavia, non è il mito della
lotta tra il dio-tuono e Geirrøðr a essere
illustrativo in tal senso, ma quello dove
Thorkillus e i suoi compagni trovano il cadavere di
Geruthus seduto sul suo trono.
Ebbene: un'analoga scena è presente, mutatis mutandis, in alcuni
degli esiti del mito alla ricerca dell'immortalità. Nel versione di Ferdowsī
del racconto di
Eskandar, tornato dai confini del mondo, il grande
condottiero, sale in cima a una montagna e ha la visione di un uomo morto
ancora assiso sul suo trono: è re Sulaymān.
Tale scena, che compare nel racconto persiano come un frammento erratico privo
di una funzione comprensibile, è pure presente nella leggenda araba di
Bulūqiyā: l'eroe, nel corso
del suo viaggio verso la lontana terra dell'immortalità, arriva in una
caverna dove trova il cadavere di Sulaymān
seduto su un trono. Il suo compagno ʿAffān
cerca di rubare il portentoso anello dal dito del re ma tosto compare un
serpente e lo incenerisce, mentre Bulūqiyā si
salva per il rotto della cuffia. Il racconto di Saxo
Grammaticus sembra strettamente correlato alla leggenda araba:
subito dopo aver ammirato il cadavere di
Geruthus, ancora assiso sul suo seggio, gli uomini di Thorkillus
cominciano a razziarne i tesori, ma il bracciale rubato da uno di essi si
trasforma in un serpente e lo uccide. Che il puntuale ripetersi di questo episodio in due
miti tanto distanti tra loro (l'uno arabo-persiano, l'altro scandinavo) non
possa essere considerata casuale, lo dimostra il fatto che lo troviamo
regolarmente incastonato nel
comune schema del mito di un viaggio ai confini del mondo, verso una meravigliosa
terra d'immortalità.
Nel mito ellenico questa nicchia funzionale sembra essere occupata
dall'episodio dell'incontro di Hērakls
con Átlas, narrato da
Apollódōros (Bibliothḗkē [II:
5, 11]), dove il drákōn hespérios assale
Hērakls nel momento in cui questi
cerca di rubare i frutti del Kpos Hesperídōn. E quando Hērakls
abbandona la terra
degli Hyperboreoí, portando con sé i
preziosi frutti, Átlas rimane imprigionato nella sua posizione assiale, condannato per l'eternità a reggere il cielo,
pietrificato – metaforicamente o di fatto – come l'omonima montagna.
Analogamente, quando
Þórr parte da Geirrøðargarðar,
lascia alle sue spalle il cadavere di Geirrøðr, il
quale – nella versione di Saxo – rimarrà in quel luogo a eterna memoria
della sua impresa. Ma se la condanna di Átlas
e/o la sua trasformazione nel monte Átlas ha una funzione cosmologica, l'analogo
motivo, nel mito nordico, appare ridotto alla sua forma esteriore. È probabile
che il rimodellarsi di nuove concezioni cosmologiche, dovute forse alle idee che
filtravano dal mondo classico-cristiano, avessero ridisegnato la forma del
mondo, così come la conoscevano nel x
secolo i navigatori vichinghi. Ma è ancora più probabile che tale mutamento di
prospettiva cosmologica risalga a tempi ancora più antichi, forse all'epoca
stessa dell'etnogenesi germanica. Come il cadavere di Sulaymān,
assiso in trono in cima alla sua montagna, nelle leggenda araba e persiana, anche
il corpo di Geirrøðr riaffiora, nel mito nordico, come un elemento ormai privo di significato, ultimo
esito di un mito antichissimo ormai irrimediabilmente scisso dalla sua funzione originaria.
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