1 -
LA STIRPE DI
ÞJAZI
era una volta un gigante chiamato
Ǫlvaldi. La sua amante era
Greip, figlia
del gigante Geirrøðr. Ǫlvaldi era molto
ricco, e possedeva ingenti quantità d'oro. Quando morì, i suoi tre figli vennero
a spartirsi l'eredità e, per stabilire l'esatto ammontare dell'oro che ciascuno
avrebbe ricevuto, decisero che a turno se ne sarebbero riempiti la
bocca, e così fecero. Il primo fra loro fu
Þjazi, il secondo Iði e il terzo
Gangr.
Da allora, «conto a bocca» di questi giganti è una kenning
che gli scaldi usano per indicare l'oro. Nella divinazione runica, l'oro è
invece chiamato «discorso», «parola» o «conto» di tali giganti.
Þjazi era un gigante
potente. Dimorava in Þrymheimr,
«casa del fastuono», fortezza posta tra imponenti montagne, e aveva due figlie:
Mǫrn e
Skaði. |
2 -
IL SEYÐIR CHE NON CUOCE
n giorno, tre æsir lasciarono
Ásgarðr e si misero in viaggio. Erano
Óðinn,
Loki ed Hǿnir.
S'inerpicarono per strade montane e percorsero lande desolate. Non era facile
rimediare da mangiare in quelle contrade, e ben presto i tre cominciarono ad
avvertire i morsi della fame. Giunsero infine in una valle dove pascolava una
mandria di buoi. Ne presero uno, lo uccisero e approntarono il seyðir per
metterlo a cuocere. Quando fu trascorso un tempo ragionevole, scoprirono
l'improvvisato forno campestre ma si accorsero, con stupore, che la carne non
era ancora cotta. Attesero ancora un po', impazienti, e
Loki soffiò a lungo sul fuoco per
ravvivarlo. Ma quando tornarono a guardare nel seyðir, il cibo non era
ancora pronto.
Allora i tre æsir discussero tra loro, cercando di
capire che cosa significasse quel portento, e compresero che delle forze maligne
erano all'opera. In quel momento udirono un mormorio provenire dalla quercia che
si levava proprio sopra di loro. Guardarono in su e, appollaiata tra i rami,
videro un'aquila, non certo piccola.
— Sono io a far sì che la carne nel vostro seyðir non
cuoce! — spiegò l'animale. — Ma se mi darete una porzione del bue, il vostro
cibo sarà subito pronto.
I tre æsir acconsentirono, e
Óðinn pregò
Loki di dividere il cibo in quattro parti.
Quest'ultimo acconsentì, seppure di malavoglia, e divise i quarti del bue.
Allora l'aquila calò giù dalla quercia, afferrò entrambe le cosce e tutt'e due
le spalle e, tornato ad appollaiarsi sull'albero, divorò l'intero animale.
Loki prese un lungo bastone e,
protendendosi verso l'alto, colpì il rapace tra le spalle.
L'aquila spiccò il volo, con il randello appiccicato al
dorso, e Loki non riuscì a staccare le mani
dall'altra estremità del bastone. In un attimo, l'áss fu sollevato dal
suolo e in breve si ritrovò così in alto che i suoi piedi urtavano le vette
rocciose delle montagne e le cime degli alberi. Ben presto le braccia
cominciarono a fargli talmente male che sembravano volessero staccarsi dal
tronco.
Loki gridava, e
scongiurava ripetutamente l'aquila di dargli tregua, permettendogli di tornare a
terra, ma il rapace volava ancora più in alto, irridendolo dei suoi sforzi. Alla
fine l'uccello gli disse che non lo avrebbe mai lasciato andare, a meno che lui
non le avesse giurato di consegnargli la dea
Iðunn e le sue mele. Loki dovette
acconsentire. Ottenuta la promessa, l'aquila tornò verso terra e lo lasciò
andare.
Loki tornò dai suoi
compagni e, tutti insieme, ripresero il cammino. |
3 - IL RAPIMENTO DI IÐUNN
empo dopo, una volta che i tre æsir furono
tornati in Ásgarðr,
Loki si recò da
Iðunn e le disse di aver trovato, in una
foresta, delle mele particolari, di cui tuttavia non era certo di indovinare le
proprietà. Le chiese dunque di andare con lui ad osservarle, e insistette perché
ella portasse con sé uno scrigno delle sue preziose mele, in modo da paragonarle
con quelle che egli aveva visto.
Iðunn non ebbe alcuna ragione di
dubitare delle buone intenzione di Loki. Lo
seguì fuori dall'Ásgarðr fino a una
foresta, e di qui attraversarono i ruscelli di Brunnakr, fino ad arrivare a un
recinto di pietra che era dominio di Þjazi.
Altri raccontano invece che un'aquila afferrò la dea tra gli artigli e scomparve con lei tra le nuvole. Il rapace era il gigante Þjazi il
quale, con un sol colpo, s'impadroniva della dea e delle mele della giovinezza
che ella custodiva.
I giganti, abitatori dei monti, furono assai lieti quando videro
Þjazi giungere dal sud, recando con sé
Iðunn e lo scrigno dei suoi preziosi
frutti.
|
4 - LOKI A ÞRIMHEIMR
|
Loki riporta Iðunn in Ásgarðr (✍
1875) |
Lorenz Frølich (1820-1908)
Illustrazione (particolare) (Oehlenschläger
1875-1877) |
Intera illustrazione: [Salvataggio
di Iðunn]► |
er gli Æsir, la perdita di
Iðunn fu un fatto grave perché, senza le
sue mele, cominciarono a invecchiare. I loro capelli divennero
bianchi, i loro riflessi lenti. Si riunirono nel þing e si chiesero l'un
l'altro che fine avesse fatto Iðunn.
Scoprirono che la dea era stata vista per l'ultima volta in compagnia di
Loki, e che era uscita da
Ásgarðr insieme a lui. Andarono a
prendere Loki e lo portarono nel þing.
Dopodiché lo minacciarono di torture e di morte se non avesse svelato i suoi
misfatti e detto quanto sapeva. Loki
confessò quanto era accaduto.
“I tuoi imbrogli, si torceranno contro di te!”
gli gridò Þórr, furibondo. “A meno che non riporti indietro la meravigliosa
fanciulla, colei che alimenta la gioia degli dèi!”
Spaventato, Loki accettò di recarsi
nello Jǫtunheimr alla ricerca di
Iðunn, se
Freyja gli avesse prestato il suo
travestimento da falco. Spiccò il volo e si recò a nord, nella terra degli
jǫtnar, alla ricerca della dea.
Dopo lungo peregrinare, egli capitò a Þrymheimr,
la dimora di Þjazi. Caso volle che quel
giorno il padrone di casa fosse uscito in mare, per pescare, e avesse lasciato
Iðunn da sola.
Loki poté entrò nella fortezza del gigante
e trovò la giovane ásynja.
Subito, trasformò
Iðunn in una noce e, stringendola bene
tra gli artigli, spiccò il volo, dirigendosi verso l'Ásgarðr.
Quando Þjazi tornò alla sua dimora e
si accorse della comparsa di Iðunn, non
impiegò molto a comprendere cosa fosse accaduto. Indossò il suo travestimento da
aquila e si gettò all'inseguimento di Loki.
Ma Þjazi era assai più abile nel volo, e
creava con le ali un gran frastuono e turbini di vento, nel tentativo di mettere
in difficoltà Loki.
Gli Æsir scorsero da lontani il
falco che si avvicinava più veloce che poteva, con la noce stretta tra gli
artigli. Lo inseguiva una grossa aquila e non era difficile capire che si
trattava del gigante che aveva rapito Iðunn.
Gli dèi ammucchiarono un gran mucchio di trucioli di legno sotto le mura dell'Ásgarðr, attesero che il falco penetrasse
nella fortezza, quindi diedero fuoco alla pira. Una vampa di fiamme si levò
verso il cielo. Altri dicono che gli dèi scagliarono contro
Þjazi delle frecce infuocate. Non
importa. Le piume dell'aquila presero fuoco, e il gigante precipitò
rovinosamente all'interno della mura dell'Ásgarðr. |
5 - L'UCCISIONE DI ÞJAZI
li Æsir uccisero
Þjazi dentro ai cancelli di
Ásgarðr, e questa è una vicenda molto
famosa. Ma chi fu precisamente a dargli il colpo mortale non è ben chiaro. Tempo
dopo, Þórr affermò, parlando con
Hárbarðr, di essere stato lui ad farlo
fuori.
— Io uccisi
Þjazi |
|
quell'impavido
gigante... |
E perché bisognerebbe mettere in dubbio le sue parole?
Þórr, si sa, è piuttosto aduso a ammazzar
giganti.
Ma nel corso del festino di Ægir,
Loki si vantò della stessa cosa, dicendo:
— Primo e ultimo fui io a dar morte
quando mettemmo le mani su
Þjazi. |
Smargiassata che gli sarebbe costata l'eterno odio di
Skaði. Ma stiamo precorrendo i tempi, ché
la figlia di Þjazi stava
giungendo in Ásgarðr proprio in quel
momento. |
6
- LA RICHIESTA DI SKAÐI
uando
Skaði, la figlia di
Þjazi, seppe che gli
Æsir avevano ucciso suo padre, indossò
elmo e armatura e, armata di tutto punto, si recò in
Ásgarðr, decisa a ottenere vendetta. Ma
gli Æsir, non volendo scendere in
faida con stirpe di Þjazi, le proposero
di riconciliarsi con loro e le offrirono un risarcimento. Per cominciare,
dissero, ella poteva prendersi uno sposo tra gli dèi. Ma le fu richiesto di
scegliere il suo uomo giudicandolo dai piedi.
Skaði esaminò a lungo i
piedi nudi degli dèi, e quando ne vide un paio straordinariamente belli, pensò
fossero quelli di Baldr e disse: — Io
scelgo quest'uomo! Poco c'è di brutto in lui! — Ma quei piedi appartenevano a
Njǫrðr, levigati dal mare e dalle onde.
Un'altra condizione che Skaði
richiese per stipulare la pace, fu che gli
Æsir riuscissero a farla ridere, cosa che ella reputava impossibile.
Intervenne Loki, che legò una corda alla
barba di una capretta e l'altra estremità al proprio scroto, poi lui e la
capretta tirarono un po' da una parte e un po' dall'altra, urlando entrambi.
Infine Loki si lasciò cadere ai piedi di
Skaði, ed ella rise. Così fu stipulata la
pace tra lei e gli Æsir. |
7
- GLI OCCHI DI ÞJAZI i narra che Óðinn,
per riparare Skaði dell'uccisione del
padre, prese gli occhi di Þjazi e li
gettò nel firmamento, trasformandoli in due stelle. Da allora, quella
costellazione è visibile nel cielo a tutti gli uomini.
È pur vero che anche Þórr si
vantò di aver compiuto lui quell'atto di riparazione, dicendo:
— In alto gettai gli occhi del figlio di Ǫlvaldi
nella chiara sfera celeste.
Sono i due segni maggiori delle mie imprese
che tutti gli uomini scorgono da allora. |
|
8 - MATRIMONIO DI SKAÐI E NJǪRÐR unque
Skaði sposò Njǫrðr, ma il loro
matrimonio non si rivelò molto azzeccato. La donna amava le montagne e voleva
abitare nelle dimore un tempo appartenute a suo padre, a
Þrymheimr.
Njǫrðr invece voleva vivere nella sua
casa presso il mare, a Nóatún.
Così decisero di rimanere nove notti a
Þrymheimr e le altre nove a Nóatún, ma mai con soddisfazione di entrambi.
Quando Njǫrðr tornò a
Nóatún dalle montagne, recitò
questi versi:
— Sgraditi mi sono i monti non vi rimasi a lungo:
nove sole notti.
L'ululato dei lupi soave non mi parve
come il canto dei cigni. |
E tornando a Þrymheimr dalla riva
del mare, Skaði disse:
— Dormire non posso su guanciali di mare:
per lo stridor degli uccelli;
sveglia mi tiene chi da lungi vola,
il gabbiano, ogni mattino. |
Da allora, Skaði, la pura sposa degli
dèi, visse in Þrymheimr, nelle dimore
del suo vecchio padre Þjazi. In quei
luoghi, ella è felice. Scia per lunghi tratti, sulla neve intatta, e va a caccia
di animali selvatici.
|
Fonti
|
|
|
Loki e Þjazi
(✍ 1911) |
Dorothy Hardy. Illustrazione
(Guerber 1911) |
I - ANATOMIA DI UN
RAPIMENTO
La nostra conoscenza della dea
Iðunn ruota attorno all'unico mito che
conosciamo su di lei, quello del suo rapimento da parte del gigante
Þjazi. A tramandarlo è Snorri Sturluson,
nella seconda parte della sua
Prose Edda. Nello stesso testo,
Snorri riporta anche una composizione di Þjóðólfr ór
Hvíni (scaldo attivo tra la fine del IX e l'inizio del X secolo), il Haustlǫng, «lungo
come un autunno», nel quale il medesimo mito è narrato nello stile ellittico
e involuto tipico della poesia scaldica.
È palese che, senza le spiegazioni di Snorri, il Haustlǫng
ci sarebbe del tutto incomprensibile; ma Þjóðólfr
fornisce anche piccoli dettagli che permettono di comprendere meglio alcune
affermazioni di Snorri, oltre ad alcune preziose varianti. Mettiamo
ora le due versioni in parallelo.
Entrambe vengono introdotte da un prologo che sembra essere
un mito indipendente, di cui altrove abbiamo suggerito le possibili correlazioni
con il mito greco del sacrificio di Mēkṓnē e del sequestro del fuoco. ①②
Nel corso di un difficile viaggio, racconta Snorri,
Óðinn,
Loki ed Hǿnir
uccidono un bue e lo mettono a cuocere in un seyðir, ma la carne
non è mai pronta. Un'aquila, appollaiata su una vicina quercia, afferma che
permetterà al cibo di cuocere solo se le daranno una parte anche a lei. I tre
æsir accettano ma l'aquila afferra entrambe le cosce e tutt'e due le spalle
del bue e vola via.
Ma lasciamo il racconto alle parole di Snorri:
Þá heyra þeir mál í eikina upp yfir sik,
at sá, er þar sat, kvazk ráða því er eigi soðnaði á seyðinum. Þeir litu til ok
sat þar ǫrn ok eigi lítill. |
Udirono allora una voce proveniente dalla
quercia sopra di loro e chi stava lassù disse di essere la causa per cui nulla
si cuoceva nel seyðir. Essi si volsero e videro un'aquila, non certo
piccola. |
Þá mælti ǫrninn: «Vilið þér gefa mér
fylli mína af oxanum, þá mun soðna á seyðinum». |
Disse allora l'aquila: «Se vorrete darmi la
mia parte di bue, allora il seyðir si cuocerà». |
Þeir játa því. Þá lætr hann sígast ór
trénu ok sezt á seyðinn ok leggr upp þegar it fyrsta lær oxans tvau ok báða
bógana. |
Essi acconsentirono, perciò l'aquila scese
dall'albero, si posò sul seyðir da cui prese come prima porzione le due
cosce del bue ed entrambe le spalle. |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál [2] |
La versione di Þjóðólfr ór Hvíni prosegue per accenni, sapientemente
nascosti dietro complessi giochi di metafore, come accade sempre nella poesia
scaldica. La «balena dei monti» è la quercia; il «padre di Meili»
è Óðinn; lo «splendido
signore della terra» e
la «balena dell'arco di Vǫr» sono due
metafore per
il bue; il «rǫgnir alato» è il gigante in forma d'aquila; il
«compagno dell'áss dei corvi» è probabilmente
Loki (ma potrebbe anche essere Hǿnir); l'«orso del giogo» è parimenti il
bue; il «padre di Mǫrn» è Þjazi,
e via dicendo.
Fjallgylðir bað fyllar
fet-Meila sér deila
(hlaut) af helgum skutli
(hrafnásar vinr blása);
ving-rǫgnir lét vagna
vígfrekr ofan sígask,
þars vélsparir vö́ru
varnendr goða farnir. |
Pretese, il lupo dei monti,
dal padre di Meili di farlo saziare
del pasto divino (e insisteva a soffiare
sul fuoco, il compagno dell'áss dei corvi).
Il rǫgnir alato (cercava uno scontro)
della balena dei monti dall'alto
scivolò in basso, accanto ai difensori
degli dèi, incapaci di inganni. |
Fljótt bað foldar dróttinn
Fárbauta mǫg Várar
þekkiligr með þegnum
þrymseilar hval deila,
en af breiðu bjóði
bragðvíss at þat lagði
ósvífrandi ása
upp þjórhluti fjóra. |
Lo splendido signore della terra
pregò il figlio di Fárbauti
di dividere in fretta fra tutti
la balena dell'arco di Vǫr.
Ma dalla larga mensa,
ingegno fertile, tolse
l'avversario degli æsir,
i quattro quarti del bue. |
Ok slíðrliga síðan
svangr (vas þat fyr lǫngu)
át af eikirótum
okbjǫrn faðir Marnar. |
E dopo, divorò voracemente,
da famelico (fatti di altri tempi),
l'orso del giogo, sopra le radici
della sua quercia, il padre di Mǫrn. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [4-6] |
Þjóðólfr fornisce dettagli che mancano in
Snorri, alcuni piacevolmente quotidiani, come la scenetta del dio (Hǿnir o, più probabilmente,
Loki) che insiste a
soffiare sul fuoco per far cuocere il bue. Alla preghiera dell'aquila, è
Óðinn a chiedere a
Loki di dividere il bue in quattro parti.
Ma il rapace, afferrando «le due cosce ed entrambe le spalle», si piglia in
pratica l'intero bue e lo divora in cima all'albero, lasciando gli altri tre a
bocca asciutta. Comprensibile la reazione di
Loki il quale, afferrato un lungo randello, comincia a colpire l'aquila dal
basso. Il bastone rimane però magicamente appiccicato al dorso del rapace, la
quale spicca il volo e si porta via Loki.
Narra Snorri:
Ǫrninn flýgr hátt svá at fœtr taka niðr
grjótit ok urðir ok viðu, en hendr hans hyggr hann at slitna munu ór ǫxlum. Hann
kallar ok biðr allþarfliga ǫrninn friðar, en hann segir at Loki skal aldri lauss
verða nema hann veiti honum svardaga at koma Iðunni út of Ásgarð með epli sín,
en Loki vill þat. |
L'aquila volò così in alto che i piedi di
Loki prendevano contro a rocce, sassi e
alberi, mentre le sue braccia gli pareva che si dovessero staccare dal tronco.
Egli gridava e supplicava ripetutamente l'aquila di lasciarlo, ma ella disse che
mai avrebbe lasciato andare Loki, se prima
egli non le avesse giurato di portare Iðunn
fuori da Ásgarðr insieme alle sue mele;
Loki acconsentì. |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál [2] |
La versione di Þjóðólfr non aggiunge quasi nulla a Snorri. Si noti, nella
strofa [7], l'inciso «ora lo guardano in
catene, tutti i potenti», che mette in prospettiva l'intera vicenda
riferendola a una sorta di presente storico in cui
Loki è prigioniero nella sua caverna. Ma
leggiamo:
Þá varð fastr við fóstra
farmr Sigvinjar arma,
sás ǫll regin eygja,
ǫndurgoðs, í bǫndum;
loddi rö́ við ramman
reimuð Jǫtunheima,
en holls vinar Hǿnis
hendr við stangar enda. |
Ma rimase attaccato, il fardello
delle braccia di Sigyn, al padre
della dea degli sci (ora lo guardano
in catene, tutti i potenti).
Il bastone si appiccica al robusto
tiranno del paese dei giganti,
e in fondo alla stanga, le mani
dell'amico affettuoso di Hǿnir. |
Fló með fróðgum tívi
fangsæll of veg langan
sveita nagr, svát slitna
sundr ulfs faðir mundi;
þá varð Þórs of-rúni
(þungr vas Loptr of sprunginn)
mö́lunaut, hvat's mátti,
miðjungs friðar biðja. |
Col dio ingegnoso se ne volò via,
fiero della cattura, un lungo tratto
l'uccello di sangue, e credeva
di cadere a pezzi, il padre del lupo.
Allora fu costretto, non aveva
scelte diverse il consigliere di Þórr,
(sul punto, Loptr, di squartarsi dal
peso)
a chiedere tregua al gigante. |
Sér bað sagna hrœri
sorgœran mey fœra,
þás ellilyf ása,
áttrunnr Hymis, kunni... |
Pretese, dal contastorie
fuori di sé dal dolore, il parente
di Hymir, che gli desse la ragazza
capace di guarire gli Æsir dalla
vecchiaia... |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng
[7-9] |
Loki accetta
e, con una menzogna, porta Iðunn fuori
dalle mura dell'Ásgarðr. A questo punto
compare l'aquila e la rapisce. È qui che, per la prima volta, Snorri rivela
l'identità del rapace chiamandolo per nome: è infatti il gigante
Þjazi, magicamente travestito.
En at ákveðinni stundu teygir Loki
Iðunni út um Ásgarð í skóg nǫkkvorn, ok segir at hann hefir fundit epli þau er
henni munu gripir í þykkja, ok bað at hon skal hafa með sér sín epli ok bera
saman ok hin. Þá kemr þar Þjazi jǫtunn í arnarham ok tekr Iðunni ok flýgr braut
með ok í Þrymheim til bús síns. |
Al tempo stabilito, comunque,
Loki attirò
Iðunn fuori da
Ásgarðr presso una certa foresta e le
disse di aver trovato delle mele che a lei sarebbero parse preziose e le chiese
anche di portare con sé le sue mele e di paragonarle con le altre. Giunse allora
il gigante Þjazi in forma d'aquila, prese
Iðunn e volò rapido nella sua casa a
Þrymheimr. |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál [3] |
Nella narrazione di Þjóðólfr, invece, manca del tutto l'atto del rapimento
della dea da parte dell'aquila. È lo stesso Loki
che conduce Iðunn, qui definita «dísa degli dèi»
[goða dísi], alla dimora di Þjazi.
Brunnakrs of kom bekkjar
Brísings goða dísi
girðiþjófr í garða
grjót-Níðaðar síðan. |
Guidò allora la dísa degli dèi
oltre i ruscelli di Brunnakr, il ladro
del collare di Brísingr, al recinto
del Níðaðr delle rocce. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng
[9] |
|
Sedeva Iðunn con i capelli sciolti (1914) |
Rona F. Hart, illustrazione
(Young ~ Field 1914) |
Dov'è che Loki
conduce Iðunn?
«Per una certa foresta» [í skóg nǫkkvorn] dice Snorri,
ma secondo Þjóðólfr i due affrontano
un percorso assai più complesso. Che cosa sono i «ruscelli di Brunnakr» [Brunnakrs
bekkjar]? A meno che non siano le «panche di Brunnakr», visto che in
norreno bekkr ha entrambi i significati e la letteratura presenta
entrambe le soluzioni. Duecento anni fa Jacob Grimm traduceva con «ruscelli»
(Grimm 1835); molti autori recenti traducono con
«panche» (Koch 1984). Il senso rimane comunque
oscuro, e in molti hanno creduto di identificare con Brunnakr la dimora di
Bragi e
Iðunn, il cui salone sarebbe appunto occupato da lunghe panche.
Non c'è
tuttavia bisogno, a nostro avviso, di arrivare a tanto, anche perché una Brunnakr non è mai citata tra le dimore degli
Æsir. «Ruscelli» è forse la
traduzione più ragionevole, visto che Brunnakr vuol dire «campo della
sorgente» e l'impressione è che i due stiano attraversando i fiumi cosmici,
diretti allo Jǫtunheimr. In
quel luogo si trova il «recinto del Níðaðr
delle rocce», che sembra essere appunto la dimora di Þjazi (Níðaðr è il re che imprigionò
Vǫlunðr: il nome è qui utilizzato con il senso generico di «sovrano»).
Con grande delicatezza, Þjóðólfr descrive la gioia dei giganti quando vedono la dea
Iðunn giungere dal sud, come un raggio di
sole, al gelido settentrione.
Urðut brattra barða
byggvendr at þat hryggvir;
þá vas Ið með jǫtnum
unnr nýkomin sunnan... |
Non fu certo un momento di tristezza
per gli abitanti delle rupi ripide
l'arrivo, dalle vie del mezzogiorno,
di Iðunn nel paese dei giganti... |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [10] |
Entrambe le versioni mostrano a questo punto,
seppure in negativo, quale sia il ruolo di
Iðunn nella teologia scandinava. È una scena in qualche modo antitetica alla
precedente. Se Iðunn porta luce e
bellezza allo Jǫtunheimr, la sua
sparizione da Ásgarðr ha effetti
devastanti. Non appena ella sparisce, infatti, tutti gli dèi invecchiano
improvvisamente:
Gættusk allar áttir
Ingvifreys at þingi
(vö́ru heldr) ok hárar
(hamljót regin) gamlar. |
Invecchiate di colpo,
le famiglie di Yngvi-Freyr incanutite
si riunirono in assemblea:
malconci assai, i Potenti. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [10] |
Anche Snorri scrive:
En æsir urðu illa við hvarf Iðunnar, ok
gerðust þeir brátt hárir ok gamlir. Þá áttu þeir æsir þing, ok spyrr hverr
annan, hvat síðast vissi til Iðunnar... |
Per gli
Æsir fu grave la perdita di
Iðunn, poiché incanutirono e divennero
vecchi. Si riunirono dunque nel þing e si chiesero l'un l'altro quali
fossero le ultime nuove su Iðunn... |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál [3] |
Gli Æsir
si riuniscono in assemblea e s'interrogano sulla sorte della dea.
Loki confessa la sua responsabilità e gli
dèi lo minacciano di morte, costringendolo a recuperare, come dice Þjóðólfr,
«la ragazza meravigliosa che alimenta la gioia negli dèi». Lo scaldo, a
differenza di Snorri, non fa alcun riferimento alle mele d'oro. Se non avessimo
avuto la
Prose Edda, avremmo dedotto che la
giovinezza degli Æsir dipendesse
soltanto da Iðunn. Forse in una versione
anteriore del mito era davvero così.
Nella narrazione di Snorri,
Loki trova
Iðunn sola a
Þrymheimr. La trasforma in una noce,
la stringe tra gli artigli e vola via.
En er Þjazi kom heim ok
saknar Iðunnar, tekr hann arnarharminn ok flýgr eftir Loka, ok dró arnsúg í
flugnum. En er æsirnir sá, er valrinn flaug með hnotina ok hvar ǫrninn flaug, þá
gengu þeir út undir Ásgarð ok báru þannig byrðar af lokarspánum. Ok þá er
valrinn flaug inn of borgina, lét hann fallast niðr við borgarvegginn. Þá slógu
æsirnir eldi í lokarspánuna, en ǫrninn mátti eigi stǫðva sik, er hann missti
valsins. Laust þá eldinum í fiðri arnarins, ok tók þá af fluginn. |
Quando
Þjazi giunse a casa e non trovò Iðunn,
si mise il suo travestimento da aquila e inseguì
Loki, muovendo l'aria come fanno le aquile
in volo. Quando gli Æsir videro che
il falco volava con la noce e anche quale aquila fosse in volo, allora uscirono
sotto Ásgarðr e accumularono trucioli
di legno. Quando il falco giunse alla fortezza, si lasciò cadere fra le mura.
Gli Æsir appiccarono allora fuoco
ai trucioli, mentre l'aquila non poté frenare il suo volo quando perse di vista
il falco. Le sue piume presero fuoco e dunque il suo volo terminò. |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál [3] |
La versione di Þjóðólfr è assai interessante. Dice innanzitutto:
Heyrðak svá, þat (síðan
sveik opt ǫ́su leikum)
hugreynandi Hǿnis
hauks fló bjalfa aukinn,
ok lómhugaðr lagði
leikblaðs reginn fjaðrar
ern at ǫglis barni
arnsúg faðir Marnar. |
Mi hanno detto che allora si alzò in volo
(ingannò spesso, poi, con trucchi gli Æsir)
l'indagatore della mente di Hǿnir,
ingoffato di penne di sparviero.
Ma, menteastuta, sovrano nel gioco
delle piume, scatenò un violento
vento d'aquila, il padre di Mǫrn,
contro il figlio del falco. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [12] |
Nello
Skáldskaparmál,
Þjazi insegue
Loki «muovendo l'aria come fanno le aquile
in volo» [dró arnsúg í flugnum]. La parola
arnsúg, «frastuono d'aquila», sembra indicare i fragorosi turbini di vento
causati dal battito di un paio d'enormi ali. Questo dettaglio, all'apparenza
inutile, acquista però un senso in Þjóðólfr.
Þjazi, assai più esperto di
Loki nell'arte del volo («sovrano nel
gioco delle piume»), suscita intenzionalmente turbini e frastuono con il battito
delle sue ali, allo scopo di< mettere Loki
in difficoltà. A questo punto, però, il falco è ormai quasi arrivato alle
mura di Ásgarðr, e allora...
Hófu skjótt, en skófu,
skǫpt, ginnregin, brinna,
en sonr biðils sviðnar
(sveipr varð í fǫr) Greipar. |
Allora, divamparono le frecce
con la magia intagliate dagli dèi,
e si ustiona il figlio dell'amante
di Greipr; stroncato il suo slancio. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [13] |
Mentre in Snorri, le piume dell'aquila erano state
incendiate da una vampata del fuoco che gli dèi hanno appiccato a un mucchio di
trucioli, in Þjóðólfr gli Æsir
scoccano contro il gigante delle frecce infuocate, fabbricate con
appositi incantesimi. /p>
Pare di capire che Snorri non avesse ben
compreso molti dettagli del testo di Þjóðólfr, che
pure conosceva, avendolo riportato integralmente nello
Skáldskaparmál.
Ma forse è troppo presuntuoso, da parte nostra, accusare d'ignoranza un
letterato che scrisse dall'interno della cultura a cui apparteneva la medesima
poesia che egli stesso tramanda. Può darsi che Snorri avesse sottomano altre
versioni del testo, o che coscientemente decise di semplificarne dei passaggi,
per semplicità. Come sia, mettendo insieme le due versioni, compare sotto i
nostri occhi una vicenda assai variegata e interessante.
|
Iðunn, Loki, Heimdallr e Bragi (✍
1875) |
Lorenz Frølich (1820-1908).
Illustrazione (particolare) (Oehlenschläger
1875-1877) |
Intera illustrazione: [Iðunn, Loki, Heimdallr e Bragi]► |
|
II - IL MITO
DELL'OCCULTAMENTO DI IÐUNN Il mito del rapimento di
Iðunn sembra essere, a una visione
frettolosa, una versione scandinava del mitema dell'occultamento negli inferi
della dea della primavera, e così infatti è stato variamente interpretato da
molti studiosi. L'archetipo, in questo caso, sembrerebbe essere la vicenda del
rapimento di Persephónē da parte di
Háidēs. Alle spalle di quest'ultimo racconto c'è a
sua volta uno dei miti fondamentali dell'antico Medio Oriente, esemplificato
dalla vicenda di Inanna/Ištâr
prigioniera degli inferi. Ma seguendo questa linea di ragionamento, si
finisce con il raccogliere insieme categorie eccessivamente vaste. Sia il
racconto di Inanna/Ištâr
che quello di Persephónē sono infatti dei
miti stagionali. L'occultamento negli inferi della giovane dea e, quindi, la sua
liberazione e il suo ritorno alla luce del sole, sono eventi destinati a
ripetersi – nel mito e nel culto – anno dopo anno, segnando la dicotomia tra
l'inverno e l'estate.
Nel caso del mito di Iðunn, però, non
vi è alcun significato stagionale. L'unica indicazione in tal senso, se proprio
gli si vuole dare un tale significato, potrebbe trovarsi in una strofa di
Þjóðólfr ór Hvíni, dove l'arrivo della dea viene salutato con gioia dai giganti:
Urðut brattra barða
byggvendr at þat hryggvir;
þá vas Ið með jǫtnum
unnr nýkomin sunnan... |
Non fu certo un momento di tristezza
per gli abitanti delle rupi ripide
l'arrivo, dalle vie del mezzogiorno,
di Iðunn nel paese dei giganti... |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [10] |
Lo
Jǫtunheimr si trova nel profondo
nord: è un paese freddo, aspro, brullo.
Iðunn viene dal sud: direzione del sole e della luce. È dunque un raggio di
tepore quello che, con la giovane ásynja, viene a rischiarare il gelido
mondo dei giganti. In questi versi non va però vista alcuna dicotomia estate
↔ inverno, ma piuttosto sud
↔ nord. Il raffronto sembra esclusivamente poetico
e non ha, probabilmente, alcun significato mitologico.
|
Il rapimento di Iðunn (✍
1920) |
Harry George Theaker
(1873-1954).
Illustrazione (Belgrave ~ Hart 1920) |
Come abbiamo detto nel capitolo a lei dedicato ①,
Iðunn non è una dea della fertilità,
né la troviamo mai legata a motivi stagionali. Al contrario, il suo ruolo sembra
essere quello dell'enofora, della coppiera divina, e se dovessimo cercare un
personaggio analogo nel mondo classico non lo troveremmo certamente in
Persephónē, bensì in Hḗbē,
la coppiera che mesce agli dèi la bevanda dell'immortalità, l'ambrosía.
Riguardo a Hḗbē, tuttavia, non si
racconta in Grecia alcun mito di rapimento. Il motivo, per qualche ragione,
risulta spostato su Ganymḗdēs, il
ragazzo che
Zeús rapisce – anch'egli in forma d'aquila! – e conduce in Ólympos
affinché si affianchi a Hḗbē come divino
coppiere. Ci si può chiedere, a questo punto, come mai i coppieri, maschi o
femmine, tendano ad essere rapiti dalle aquile, ma spostiamoci un istante in
Irlanda, e scopriremo che, all'occasione, il rapitore può anche assumere
l'aspetto di un cigno.
In Irlanda, la bevanda dell'immortalità – equivalente all'ambrosía
greca – è la birra di Goibniu,
che le Túatha Dé Danann
consumano nei loro banchetti per mantenere la vita e la giovinezza eterna.
Particolarmente interessante, al nostro riguardo, è il mito irlandese di
Mídir ed
Étaín, riferito nel
Tochmarc Étaine.
Étaín, sposa di re
Eochaid Airem, era stata in un'altra vita la donna
del dio Mídir. Un giorno, costui
si presenta alla reggia del re e, vincendolo sulla scacchiera del fidchell,
chiede di poter abbracciare e baciare la regina. Il re deve acconsentire ma,
insospettivo, fa circondare la reggia. Del tutto sicuro di sé,
Mídir stringe la donna tra le
sue braccia e subito vola via con lei dal foro del tetto, trasformati in una
coppia di cigni. Per riprendersi la sposa, re Eochaid
è costretto ad assediare Brí Léith, il síd di
Mídir. Al fine di confonderlo, costui
gli manda incontro delle donne perfettamente uguali alla sua sposa. Il sovrano
chiede che le donne gli versino l'idromele nella coppa e, dal modo in cui esse
lo servono, egli riconosce Étaín,
la quale fungeva appunto da coppiera alla dimora reale. Nel
mondo celtico, come in quello germanico, infatti, era solitamente la padrona di
casa a preparare la birra e a mescerla agli ospiti nel corso dei banchetti:
nella funzione di coppiera era insito un riconoscimento regale, il
ristabilimento del rapporto tra il sovrano e la dea della terra, rappresentata
in questo caso dalla regina (Étaín).
Un esito del medesimo mito, nel mondo britannico, sembra essere quello del ratto di Gwenhỽyfar, moglie di Arthur,
la quale viene rapita dal perfido Melỽas e
rinchiusa nella fortezza di Ynys Ỽydrin, altra trasparente rappresentazione
dell'oltremondo. Il rapimento, in questo caso, ha anche il valore di
un'usurpazione regale, in quanto la regina simboleggia ancora una volta il
legame tra il re e la sua terra. Recuperare Gwenhỽyfar
significa dunque, per Arthur, ristabilire la
propria sovranità su Ynys Prydein. Egli si accinge a sostenere un lungo
assedio di cui non conosciamo l'esatto svolgimento, anche se ne indoviniamo
facilmente l'esito. Le fonti, al riguardo, sono piuttosto tarde e sospette (la
Vita Gildae di Caradaỽg di Ỻancarfan, che
identifica Ynys Ỽydrin con il sito di Glastonbury, fa intervenire come paciere
lo stesso San Gildas, fondatore dell'abbazia).
Ora, il mito britannico è piuttosto corrotto e non vi è alcun riferimento
al motivo della bevanda d'immortalità. Quello irlandese può però servire da traît-d'union con il racconto scandinavo, e
possiamo anche chiederci se vi sia qualche collegamento tra i nomi di
Étaín e di
Iðunn, foneticamente assai simili,
pronunciandosi rispettivamente ['eːdiːɲ]
e ['iðuːn]. Si potrebbe pensare
a un legame tra la narrazione irlandese e quella scandinava, ma manca una
conferma etimologica. Il lavoro di ricerca è appena iniziato.
|
III
- IL «GIALLO»
DELL'OMICIDIO DI ÞJAZI Una volta precipitato, con le ali in fiamme,
all'interno delle mura dell'Ásgarðr,
Þjazi viene ucciso. Il nostro
testimone-chiave, Snorri Sturluson, non è molto circostanziato e attribuisce
l'omicidio, in maniera piuttosto generica, a tutti gli
Æsir.
Ma in un canto della
Ljóða Edda,
è Þórr ad assumersi la responsabilità
della morte del gigante:
Ek drap Þjaza,
inn þrúðmóðga jǫtun.... |
Io uccisi Þjazi,
quell'impavido gigante.... |
Ljóða Edda >
Hárbarðsljóð
[19] |
In un altro canto, invece, è Loki stesso
a vantarsi con Skaði di aver ucciso
Þjazi.
Hfyrstr ok efstr
var ek at fjǫrlagi,
þars vér á Þjaza þrifum. |
Primo ed ultimo
fui io a dar morte
quando mettemmo le mani su Þjazi. |
Ljóða Edda >
Lokasenna [50] |
Chi fu, dunque, ad eliminare il gigante? Difficile dirlo, viste le
dichiarazioni poco attendibili dei testimoni e dei personaggi coinvolti. Nel
mondo scandinavo, l'uccisione di un nemico potente è impresa di cui vantarsi,
non da nascondere, e un eventuale investigatore non avrebbe alcuna difficoltà
nell'estorcere confessioni dagli indiziati, ma troverebbe assai distinguere la
verità dalle inevitabili vanterie. Certamente tutti gli dèi furono complici tra
loro, moralmente coinvolti nell'omicidio di
Þjazi. E in quanto all'esecutore materiale, nessuno negherà che
Þórr è ben conosciuto ai caselli
giudiziari come recidivo nel massacro dei giganti. La livorosa autoaccusa di
Loki suona come la falsa dichiarazione di
un mitomane. Ma lo fu davvero? Non ne abbiamo le prove. L'unica cosa certa è che
l'orgogliosa smargiassata procurerà a Loki
l'eterno odio di Skaði.
|
IV -
SKAÐI E NJǪRÐR: UN
MATRIMONIO MAL COMBINATO Il racconto, riferito da Snorri, della
complicata vita matrimoniale di Njǫrðr e
Skaði, riporta uno scambio di versi dove
il primo afferma di non sopportare le montagne, tanto care alla sua sposa, e la
seconda di detestare la vita marinaresca del marito.
Þau sættusk á þat at þau skyldu vera níu
vetr í Þrymheimi, en þá aðra níu at Nóatúnum. En er Njǫrðr kom aptr til Nóatúna
af fjallinu, þá kvað hann þetta: |
Essi stabilirono che sarebbero stati per
nove notti a Þrimheimr e altre nove
in Nóatún. Ma quando Njǫrðr tornò a
Nóatún dai monti, allora cantò queste strofe: |
“Leið erumk fjǫll,
varka ek lengi á:
nætr einar níu.
Úlfa þytr
mér þótti illr vera
hjá sǫngvi svana”. |
“Sgraditi mi sono i monti
non vi rimasi a lungo:
nove sole notti.
L'ululato dei lupi
soave non mi parve
come il canto dei cigni”. |
Þá kvað Skaði þetta: |
Quindi
Skaði cantò questo: |
“Sofa ek ne máttak
sævar beðjum á
fugls jarmi fyrir.
Sá mik vekr
er af víði kømr
morgun hverjan már”. |
“Dormire non posso
su guanciali di mare
per lo stridor d'uccelli;
sveglia mi tiene
chi da lungi vola
il gabbiano ogni mattino”. |
Þá fór Skaði upp á fjallit ok bygði í
Þrymheimi, ok ferr hon mjǫk á skíðum ok með boga ok skýtr dýr. |
In seguito
Skaði tornò sui monti, abitò in
Þrimheimr e per la maggior parte del
tempo va sugli sci e abbatte le fiere |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Gylfaginning [23] |
Le due strofe appartengono a un carme andato perduto. Per
quanto null'altro sia sopravvissuto di questa composizione, ne ritroviamo
l'identico motivo in due strofe citate da Saxo Grammaticus,
dove i due coniugi sono l'eroe danese Hadingus,
amante del mare e delle imprese marinaresche, e la sua sposa
Rognilda, innamorata delle montagne:
Cumque sublato iam æmulo complures annos per
summam armorum desuetudinem rerum agitatione vacuus exegisset, tandem diutinum
ruris cultum nimiamque maritimarum rerum abstinentiam causatus et quasi bellum
pace iucundius ratus talibus se ipsum culpare desidiæ modis aggreditur: |
Hadingus, una volta ucciso il
rivale, trascorse molti anni nell'inazione più completa, lontano dalla pratica
militare. Finì per darne la colpa al molto tempo dedicato alla coltivazione
della terra e alla troppo lunga rinuncia alle imprese marinaresche; e, come se
la guerra fosse per lui più piacevole della pace, se la prese con sé stesso per
quest'ozio, dicendo così: |
“Quid moror in latebris opacis, collibus implicitus scruposis, nec mare more sequor priori?
Eripit ex oculis quietem agminis increpitans lupini stridor et usque polum levatus
questus inutilium ferarum impatiensque rigor leonum. Tristia sunt iuga vastitasque
pectoribus truciora fisis. Officiunt scopuli rigentes difficilisque situs locorum
mentibus æquor amare suetis. Nam freta remigiis probare, mercibus ac spoliis ovare,
æra aliena sequi locello, æquoreis inhiare lucris officii potioris esset
quam salebras nemorumque flexus et steriles habitare saltus. |
“Perché m'attardo in queste tane buie,
stretto in mezzo a montagne aspre, e non seguo più,
come ho sempre fatto, il mare? Agli occhi
mi strappa, minaccioso, ogni riposo
l'urlo dei lupi in branco, e fino al cielo
s'alza feroce il grido delle belve,
la crudele impazienza dei leoni.
Tristi sono i deserti delle vette,
e più orribili a cuori risoluti.
Rocce dure, paesaggi ostili affliggono
le menti innamorate dell'oceano.
Sperimentare con i remi i flutti,
esultare dei frutti del saccheggio,
inseguire per sé il denaro d'altri,
smaniare per guadagni tolti al mare
sarebbe una missione più attraente
che abitare meandri e precipizi
delle foreste, e sterili montagne”. |
Cuius uxor ruralis vitæ studio maritimarum
avium matutinos pertæsa concentus, quantum in silvestrium locorum usu voluptatis
reponeret, hac voce detexit: |
Sua moglie [Rognilda],
che amava la vita rurale, era infastidita dal canto mattutino degli uccelli
marini. Con questi versi rivelò il suo piacere nel frequentare le foreste: |
“Me canorus angit ales immorantem litori
et soporis indigentem garriendo concitat.
Hinc sonorus æstuosa motionis impetus
ex ocello dormientis mite demit otium,
nec sinit pausare noctu mergus alte garrulus,
auribus fastidiosa delicatis inserens,
nec volentem decubare recreari sustinet,
tristiore flexione diræ vocis obstrepens.
Tutius silvis fruendum dulciusque censeo.
Quis minor quietis usus luce, nocte carpitur
quam marinis immorari fluctuando motibus?” |
“Gli uccelli, cantando, mi straziano ogni volta che
vivo sul mare,
mi scuote il loro garrito, se appena provo a dormire.
La furia, e l'urlo violento della marea che si frange
strappano il dolce abbandono agli occhi assonnati, e il gabbiano
a forza di grida incessanti la notte mi toglie la pace
trafiggendo di odioso fracasso le orecchie sensibili,
e appena mi stendo sul letto non lascia che trovi riposo
l'orribile voce che strepita in toni sempre più lugubri.
Di giorno e di notte, chi coglie una messe di pace più scarsa
di chi sia costretto ad abitare il riflusso dei moti marini?” |
Saxo
Grammaticus: Gesta Danorum
[I: viii: 18-19] |
Georges Dumézil, che ha dedicato ad Hadingus un
lungo studio, mostra molti punti di contatto tra Hadingus
e Njǫrðr e, analogamente tra
Rognilda e Skaði,
e conclude che si tratta di due esiti diversi degli stessi personaggi
(Dumézil 1970). Snorri si sarebbe affidato, per il
ritratto che qui fa alle due divinità, a un poema perduto (di cui forse una
parafrasi in prosa è presente nel
Skáldskaparmál [3]). Sassone Grammatico avrebbe invece usato in maniera massiccia il
metodo evemeristico «cucendo» le gesta delle antiche divinità addosso a re ed
eroi danesi.
|
Bibliografia
- BRANSTON 1955. Brian Branston, Gods of the North. Thames & Hudson,
London 1955.
→ ID., Gli dèi del nord.
Mondadori, Milano 1991.
- CLEASBY ~ VIGFÚSSON 1874. Cleasby, Guðbrandur Vigfússon, An
Icelandic-English Dictionary. Oxford, 1874.
- DOLFINI 1975. Snorri Sturluson, Edda, a
cura di Giorgio Dolfini. Adelphi, Milano 1975.
- ISNARDI 1975. Snorri Sturluson,
Edda di Snorri, a cura di Gianna Chiesa Isnardi. Rusconi, Milano 1975.
- ISNARDI 1991. Gianna Chiesa Isnardi, I miti nordici.
Longanesi, Milano 1991.
- KOCH 1984. Ludovica Koch,
Gli scaldi. Poesia cortese d'epoca vichinga. Einaudi, Torino
1984.
- RYDBERG 1886. Viktor Rydberg, Undersökningar i germanisk
mythologi. Adolf Bonnier, Stockholm 1886. → ID., Teutonic
Mythology. Gods and Goddesses of the Northland. Norrœna Society,
London 1889.
Iconografia
- BELGRAVE ~ HART 1920. M. Dorothy Belgrave, Hilda Hart, Children's
Stories from the Northern Legends, illustrazioni di Harry George
Theaker. Raphael Tuck & Sons, London 1920.
- BRANSTON 1978. Brian Branston, Gods & Heroes from Viking Mythology,
illustrazioni di Giovanni Caselli. Eurobook,
London 1978.
→ ID., Dèi e eroi della mitologia
vichinga. Mondadori, Milano 1981.
- GUERBER 1908- Hélène Adeline Guerber, Myths of
Norsemen. From the Eddas and Sagas, illustrazioni di Dorothy Hardy. George G. Harrap and Co., London 1908.
- OEHLENSCHLÄGER 1875-1877. Adam Oehlenschläger, Nordens Guder,
illustrazioni di Lorenz Frølich.
København 1875-1877.
- YOUNG ~ FIELD 1914. Ella Flag Young, Walter Taylor Field, Young and
Field Literary Readers, vol III: Stories of
the Northland, illustrazioni di Rona F. Hart. Ginn and Company, Boston 1914.
|
BIBLIOGRAFIA ► |
|