MITI

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Greci

MITI ELLENICI
TITANOMACHIA
GUERRA TRA GENERAZIONI DIVINE
Dopo aver raccolto molti validi alleati, Zeús si oppone finalmente a Krónos e al dominio dei Titânes. È l'inizio di una lunga guerra tra due modi contrapposti di regnare, e potrà essere risolta solo liberando le potenze che Ouranós aveva confinato nel Tártaros...
Krónos ingurgita il phármakon
Illustrazione di Piero Cattaneo
(Benna Rolandi 2005)

1 - LA MTIS E IL PHÁRMAKON

on il passare del tempo, Zeús crebbe sano e robusto, sull'isola di Krḗtē, finché giudicò venuto il momento di muoversi contro il padre Krónos. Il dominio dei Titânes era contrassegnato dalla brutalità e dalla violenza, ma l'oracolo della dea-terra G, colei che ha molti nomi e una sola forma, aveva dichiarato:

— Non servono né forza né potenza; il più astuto sarà re.

L'astuzia non mancava certo a Zeús. Egli poteva anche contare sull'aiuto di Mtis, figlia di Ōkeanós, la più accorta e sapiente tra tutti gli dèi e i mortali, che sarebbe divenuta la sua prima compagna. Fu proprio lei, dicono, a propinare a Krónos un phármakon, per effetto del quale il re dei Titânes fu costretto a vomitare quanto aveva divorato.

Secondo altri fu la stessa G a ingannare Krónos, inducendolo a restituire alla vita i propri figli.

Comunque stiano le cose, Krónos dapprima rigettò la pietra che era stata inghiottita per ultima, al posto di Zeús neonato. Poi, Krónos rigettò, uno dopo l'altro, Poseidn, Háidēs, Hḗra, Dēmḗtēr ed Hestía. Ed essi emersero vivi, e adulti, dallo stomaco di loro padre.

2 - GLI SCHIERAMENTI

Krónos si prepara alla battaglia
Giovanni Caselli (1939-). Illustrazione (Caselli 1996)

l fianco dei suoi fratelli e sorelle, Zeús si arroccò sulla cima del monte Ólympos, nel nord della Thessalía. E annunciò che chiunque avrebbe combattuto, insieme a lui, contro Krónos e i Titânes, avrebbe mantenuto gli onori di cui già godeva. E aggiunse che coloro che Krónos aveva spogliato dei loro privilegi, avrebbero da lui ricevuto quegli onori che la giustizia esigeva.

Gli immortali si divisero allora tra coloro che sostenevano Krónos e quanti appoggiavano la sovranità di Zeús. Prima a giungere sull'Ólympos, fu la dea fluviale Stýx, l'ultima figlia di Ōkeanós, e con lei vi erano due dei suoi figli, Krátos, il «potere», e Bía, la «forza». Zeús si pose a fianco i due giovani, che da quel giorno divennero le sue fedeli guardie del corpo. Non c'è strada che Zeús non percorra, senza che Krátos e Bía non procedano al suo fianco; e i loro seggi sono sempre accanto al suo trono. Alla stessa Stýx, Zeús elargì splendidi doni e istituì sulle sue sacre acque il gran giuramento degli dèi.

Krónos si schierò con i suoi fratelli Koîos, Kreîos, Hyperíōn e Iapetós sul monte Óthrys, nel meridione della Thessalía. Solo Ōkeanós rimase neutrale nella sua sede, ai confini del mondo. La tattica dei Titânes si basava sull'esercizio della cruda violenza, ma il figlio di Iapetós, l'accorto Promētheús, cercò di indurli alla ragione. Ricordò loro che G aveva decretato la vittoria non già del più forte, ma del più astuto e intelligente.

I Titânes spregiarono però i suoi consigli e Promētheús decise allora di passare dalla parte di Zeús.

3 - LIBERAZIONE DEGLI OURANÍDAI

er dieci anni le due generazioni divine si affrontarono in tremende battaglie.

Sembrava non esserci, all'aspra contesa, né fine né soluzione. Né gli scontri portavano qualche vantaggio per l'una parte o per l'altra. La conclusione della guerra si profilava lontana e incerta.

L'oracolo della dea-terra G predisse allora a Zeús la vittoria, a patto che egli prendesse come alleati coloro che Ouranós, nella sua scelleratezza, aveva imprigionato nel Tártaros.

Invidioso della forza e dell'aspetto degli Ekatóŋkheires, i giganti dalle cento braccia, Ouranós li aveva infatti incatenati nel profondo della terra, ai confini del mondo, e da molto tempo Kóttos, Briáreōs e Gýgēs soffrivano pene e dolori nella loro prigione. Stessa sorte avevano subito i Kýklōpes dal cuore violento: Bróntēs, Sterópēs ed Árgēs stavano rinchiusi sotto la terra dai vasti cammini, crucciati nel cuore.

Zeús si recò allora nel Tártaros e, dopo avere ucciso Kámpē, il mostro difforme, dall'alta testa, che custodiva i prigionieri di Ouranós, sciolse gli Ekatóŋkheires e i Kýklōpes dai lacci funesti che il padre aveva loro imposto.

4 - IL DISCORSO DI KÓTTOS

opo essere stati condotti sul monte Ólympos, Ekatóŋkheires e Kýklōpes vennero fatti rifocillare con néktar e ambrosía, lo stesso cibo che consumavano gli dèi. Quel nutrimento infuse nei loro animi coraggio e valore.

Allora Zeús si rivolse loro: — Ascoltatemi, splendidi figli di G e Ouranós, affinché io dica quanto il cuore mi suggerisce nel petto. Già da tempo contendiamo ogni giorno, i Titânes e noi nati da Krónos, per il dominio sul kósmos. E voi, risaliti alla luce per mia volontà, dopo che tanto a lungo avete sofferto nella tenebra oscura, potete ora mostrare ora ai Titânes di quale forza sono capaci le vostre braccia invincibili.

A lui rispose Kóttos, a nome dei suoi fratelli: — Signore, non ci racconti cose sconosciute, ma anche noi sappiamo che in te albergano saggezza e intelligenza. Sappiamo che salvasti i tuoi stessi fratelli dalla furia divoratrice di Krónos. E siamo consci di essere stati liberati dalle tenebre per tua scelta. Perciò, con mente inflessibile e accorto pensiero, combatteremo ora al vostro fianco contro i Titânes, appoggiando il vostro potere nelle aspre battaglie.

Tutti gli dèi lodarono il suo discorso e tutti i cuori, ancor più di prima, bramarono di tornare a combattere. I Kýklōpes si misero al lavoro e consegnarono a Zeús il tuono, la folgore ardente e il fulmine che, prima, celava in seno l'immane G. A Poseidn donarono il tridente, ad Háidēs l'elmo che rende invisibili.

Titanomachia
Giovanni Caselli (1939-). Illustrazione (Caselli 1996)
5 - LA DISFATTA DEI TITÂNES

Zeús scende in battaglia
Illustrazione di Libico Maraja. (Martelli 2006)

a battaglia riprese con inaudita ferocia. Da un lato i Titânes, dall'altra quanti erano stati generati da Krónos e i loro alleati.

I possenti Ekatóŋkheires si schierarono dinanzi al nemico e, roteando le cento braccia che si protendevano dalle loro spalle, presero a scagliare contro di loro una gragnola di enormi macigni. Dall'altra parte, i Titânes rinforzarono subito le schiere e mostrarono a loro volta di quale forza e arroganza fossero capaci.

Così tremenda era la battaglia, che ne risuonava il mare infinito, rimbombava sotto i piedi la terra, gemeva il vasto cielo. Lo stesso monte Ólympos tremava sotto l'assalto dei Titânes, e le scosse di quell'indicibile tumulto giungevano fino al Tártaros. I due eserciti si scontravano con indicibile strepito e le loro grida giungevano fino al cielo stellato

Zeús trattenne oltre il suo furore. Colmatosi il suo cuore di rabbia, manifestò tutta la sua furia e violenza. Agguantando tra le mani i fulmini forgiati dai Kýklōpes, scese dall'Ólympos in un incessante bagliore di lampi. Le folgori piovevano fitte giù dal cielo, la terra rimbombava, i boschi crepitavano tra le fiamme, bollivano le correnti di Ōkeanós e il mare infecondo.

Il tuono, il fulmine e la folgore, scagliati come dardi, suscitavano grida e clamore da entrambi i fronti, ed era tale il fragore che sembrava che il cielo fosse sul punto di precipitare sulla terra, o la terra si stesse sollevando per abbattersi contro il cielo. Era come se Ouranós e Ge stessero per unirsi ancora una volta nel loro abbraccio, ma tale immane frastuono era provocato unicamente dagli immortali in lotta gli uni contro gli altri.

Poi la battaglia volse al declino. Accecati dai fulmini, travolti dai venti infuocati, schiacciati dai macigni scagliati giù dal cielo, i Titânes vennero sbaragliati.

6 - PUNIZIONE DEGLI SCONFITTI

inalmente abbattuti, i Titânes vennero avvinti da terribili catene. Furono gli Ekatóŋkheires a trascinarli sotto la terra dai vasti cammini, in un luogo così lontano dalla superficie terrestre quanto questa è distante dal cielo. Si dice che un'incudine di bronzo, lasciata cadere dal cielo, precipiti per nove notti e nove giorni, prima di toccare terra nel decimo. Ebbene, la stessa incudine, cadendo dalla terra, precipiterebbe per nove notti e nove giorni, prima di giungere al Tártaros.

Luogo oscuro e penoso, che persino gli dèi hanno in odio, vi sono nel Tártaros le sorgenti e i confini del kósmos. Venti furiosi si impadronirebbero subito di chiunque oltrepassi quelle porte, trascinandolo via da una tempesta all'altra, e non basterebbe un anno intero per riuscire ad arrivare sul fondo di quell'abisso.

Lì, nella caligine oscura, vennero rinchiusi i Titânes, in una cupa terra ai confini del mondo. Circonda quel luogo un muro di bronzo e la notte lo cinge in triplice fascia, quasi una collana, mentre al di sopra di esso sorgono le radici della terra e del mare scintillante. Su quel muro, Poseidn ha imposto delle porte di bronzo, ma ai Titânes non è dato di passarle. Lì posero dimora Gýgēs, Kóttos e il magnanimo Briáreōs, fedeli guardiani di Zeús.

Non lontano, a occidente, s'innalza la casa terribile di Nýx, la notte oscura, avvolta da nuvole livide. Nei pressi, sono soliti incontrarsi Nýx ed Hēméra, la notte e il giorno, che si alternano nel passare attraverso un portale di bronzo, l'una per scendere in basso, l'altra per percorrere la terra e il mare. Qui hanno dimora anche i figli di Nýx: Hýpnos, il sonno, e Thánatos, la morte funesta. Di loro, l'uno percorre la terra e l'ampio dorso del mare, pacifico e lieve per gli uomini; l'altra, con cuore ferrigno e animo di bronzo, tiene per sempre in suo potere chiunque ghermisca. Qui dimora anche Stýx, nell'illustre casa, ricoperta di roccia, che s'appoggia su colonne d'argento rizzate verso il cielo. Di fronte alberga la dimora degli inferi, dove un giorno siederà Háidēs con la sua sposa.

Ma furono i figli di Iapetós a subire la sorte peggiore. Átlas, che alcuni dicono abbia guidato i Titânes nel corso della battaglia, venne esiliato nel remoto occidente, presso le isole delle Hesperídes, proprio di fronte alla casa di Nýx. E lì, ritto con testa e braccia instancabili, fu condannato a reggere la volta del cielo. Suo fratello, il tracotante Menoítios, venne colpito dal fulmine e precipitato nell'Érebos tenebroso. L'astuto Promētheús, che pure aveva aiutato Zeús nel corso della battaglia, venne incatenato – ma per altre ragioni – alle rupi del Kaúkasos. In quanto al malaccorto Epimētheús, non soffrì punizioni, ma sarebbe stato lui stesso causa di eterna condanna per l'intero genere umano...

Più lieve il destino delle titanídes Theía, Thémis, Mnēmosýnē e Phoíbē –, che Zeús graziò per intercessione di Mtis e Rhéa.

La caduta dei Titânes ( 1588)

Cornelis Corneliszoon van Haarlem (1562-1638), dipinto.

7 - LA SORTE DI KRÓNOS

icono, altri, che Krónos venne esiliato nelle Makárōn Nsoi, le «Isole dei Beati», che si trovano nell'estremo occidente, presso Ōkeanós dai gorghi profondi. È una terra ferace, che tre volte l'anno produce frutti abbondanti, e lì, assiso in trono, al fianco di Rhéa, Krónos regna sulla stirpe eroica dell'età del bronzo.

Altri dicono che Krónos venne esiliato nell'isola di Ōgygía, a cinque giorni di navigazione al largo della Brettanía, e giace addormentato in una caverna profonda, dentro una roccia color dell'oro, e che Briáreōs risiede accanto a lui. Il sonno, dicono, fu la sola catena che Zeús gli impose. E mentre uccelli scendono in volo sulla cima della roccia per recargli l'ambrosía, l'isola è pervasa da un profumo che si spande come da una fonte. I daímones assistono e servono Krónos, dopo essergli stati compagni nel tempo in cui egli era stato signore dell'età aurea. Dotati di virtù profetiche, essi traggono innumerevoli vaticini. Ma quelli sulle questioni più gravi vengono ad annunciarli come sogni di Krónos, poiché ciò che Zeús premedita, Krónos vede in sogno.

Orpheús afferma invece che Krónos fu preso in trappola con il miele. Tale inganno sarebbe stato suggerito a Zeús da Nýx. A quel tempo, infatti, non esisteva ancora il vino e, sazio del biondo prodotto delle api, Krónos si addormentò. A quel punto, Zeús legò il padre e lo evirò, come questi aveva fatto con Ouranós.

I Latini asseriscono invece che Krónos riparò nel Latium e lo identificano con il loro più antico sovrano, Saturnus, dio dell'agricoltura e signore dell'età felice.

L'omphalós
Museo Archeologico di Delfi (Grecia)
8 - L'OMBELICO DEL MONDO

n quanto alla pietra vomitata da Krónos, Zeús la pose nelle valli sotto i gioghi del Parnassós, perché fosse un segno per il futuro, prodigio per i mortali. Quel luogo era il centro del mondo: due aquile (o due cigni), partite dagli estremi confini della terra e dirette verso il suo centro, si erano incontrate proprio lì, nella divina Pythṓ, dove presto sarebbe sorto il santuario di Delphoí.

Quel luogo divenne il più sacro di tutta l'Hellás, e lì la pietra disposta da Zeús venne ammirata e venerata per secoli quale omphalós, ombelico del mondo. Ai suoi lati erano disposte due aquile d'oro in ricordo dell'impresa compiuta dai due rapaci.

Delphoí divenne la sede di un famoso oracolo. Fu la stessa G, la dea-terra, la prima a profetare in quel santuario (erano infatti suoi gli oracoli che avevano guidato l'ascesa di Zeús verso la sovranità). Dopo di lei, fu la titanís Thémis, sua figlia, a reggere l'oracolo. E nel terzo turno del destino, per volontà di Thémis e senza alcun conflitto, fu un'altra titanís, Phoíbē, a insediarsi a Delphoí.

E sarebbe stata proprio quest'ultima, infine, a offrire l'oracolo, quale dono di nascita, a Phoîbos Apóllōn.

Fonti

1 Hēsíodos: Theogonía [-]
Apollódōros: Bibliothḗkē [I: 2]
Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [I]
2 Hēsíodos: Theogonía [- | -]
Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [I]
3 Hēsíodos: Theogonía [- | -]
Apollódōros: Bibliothḗkē [I: 2]
Nónnos Panopolítēs: Dionysiaká [XXVIII: ]
4 Hēsíodos: Theogonía [-]
Apollódōros: Bibliothḗkē [I: 2]
5 Hēsíodos: Theogonía [-]
Apollódōros: Bibliothḗkē [I: 2]
Cfr. Hyginus: Fabulae [150]
6 Hēsíodos: Theogonía [- | -]
Apollódōros: Bibliothḗkē [I: 2]
Hómēros: Odýsseia [I: -]
Píndaros: Pythiónikoi [IV: -]
Hyginus: Fabulae [150]
7 Hēsíodos: Érga kaì hēmérai [-]
Píndaros: Epiníkoi Olympioníkais [II: -]
Ploútarkhos: De facie quae in orbe lunae apparet [26]
Ploútarkhos: De defectu oraculorum [18]
Porphýrios: De antro Nympharum [16] = Orphicorum Phragmenta [K154.1]
Próklos ho Diadókhos: Commentarius in Plátōn: Tímaios [35b] = Orphicorum Phragmenta [K154.2]
8 Hēsíodos: Theogonía [-]
Pausanías: Periḗgēsis [X: 24, ]
Ploútarkhos: De defectu oraculorum [1]
Aiskhýlos: Eumenídes [1-8]

I - LE FONTI DELLA TITANOMACHIA

La fonte principale per la nostra conoscenza del mito della titanomachia è la Theogonía di Hēsíodos. Composta in epoca arcaica, tra l'VIII e il VII sec. a.C., essa ha nella battaglia tra Olýmpioi e Titânes uno dei suoi culmini narrativi. Ma per quanto Hēsíodos faccia spesso esibizione di erudizione mitologica, quando arriva al racconto della battaglia si limita ad accennare, seppure con accenti lirici, una materia che doveva essere ben nota ai suoi ascoltatori. La parte relativa al titanico scontro tra Zeús e Krónos occupa poco più di cento versi (circa un decimo del poema) e sono molti i punti su cui il poeta evita di entrare in dettagli o di dare spiegazioni.

Si ha l'impressione che, in molti punti, Hēsíodos si sia limitato ad affastellare episodi ereditati da una tradizione precedente, senza comprenderli appieno. A volte l'interpretazione dell'autore si sovrappone alla materia e il mitografo è costretto a estrapolare il significato del racconto dalle griglie ideologiche e teologiche imposte dal poeta.

Detto questo, la Theogonía è l'unica composizione, a noi pervenuta, che presenti il mito della titanomachia in maniera organica e completa, per quanto non sia purtroppo una fonte esaustiva. Sappiamo che la Grecia arcaica conosceva un cospicuo numero di racconti delle origini, e conosciamo i titoli di altre opere, come la Titanomakhía di Eúmēlos di Kórinthos, contemporaneo di Hēsíodos, nel quale si forniva un'altra versione del racconto cosmogonico; o come le Genealogíes di Akousílaos (VI sec. a.C.), che prendeva l'avvio da una teogonia prosastica dipendente, a quanto pare, da quella di Hēsíodos. Di queste opere rimangono solo pochi frammenti, di scarsa utilità e difficili da contestualizzare.

La battaglia tra Olýmpioi e Titânes è citata anche da altri autori, ma non con l'organicità e la coscienza artistica di Hēsíodos. Un sunto ci viene fornito dà Apollódōros nella sua Bibliothḗkē [I: 2]. Seppure precipitoso e avaro di dettagli, Apollódōros aggiunge qualche variante interessante al mito esiodeo, come la presenza di Mtis, figlia di Ōkeanós, che fa bere il pharmakós a Krónos. Apollódōros ci informa anche che i Kýklōpes non solo fornirono i fulmini a Zeús, ma anche il tridente a Poseidn e l'elmo dell'invisibilità ad Háidēs.

I particolari sul ruolo di Promētheús, riportati da Aiskhýlos nel Promētheús desmṓtēs, potrebbero essere solo una elaborazione teatrale, splendida dal punto di vista letterario, ma forse del tutto priva di valore mitologico.

Le altre fonti forniscono soltanto piccoli dettagli aggiuntivi. Vi sono anche alcune versioni che divergono dal canone esiodeo, come il racconto fornito da Hyginus Astronomus (Fabulae [150]), il quale confonde la titanomachia con la gigantomachia, o il mito orfico trasmessoci da Porphýrios (De antro Nympharum [16]).

II - IL MITO DELLA REGALITÀ NEL POEMA ESIODEO

La Theogonía di Hēsíodos è una storia di successioni regali. Vi è dapprima il regno del dio-cielo Ouranós, rinchiuso nell'eterna stasi di un coito infinito con la dea-terra G. Dopo aver evirato il padre, Krónos assume a sua volta il potere, ma la sua sovranità si fonda su un atto di violenza nei confronti del genitore. Non dovrà allora subire anch'egli, da parte del proprio figlio, lo stesso trattamento inflitto al padre?

Se l'instaurarsi della supremazia è segnata da un'imposizione ottenuta per mezzo dell'ingiustizia e della brutalità, non può forse avvenire che la lotta per il dominio si ripresenti a ogni generazione e che la sovranità sia sempre vincolata a quell'ingranaggio della colpa e del castigo messo in moto da Krónos? In questo caso, l'ordine cosmico che ogni sovrano istituisce con la propria ascesa al trono rischia di essere messo continuamente in discussione.

Per mantenere il proprio regno, Krónos – lo abbiamo visto – divora la propria prole [-]. Quello di ingoiarlo è l'unico modo per liberarsi di un avversario immortale: l'esilio nel Tártaros appare una soluzione più incerta e c'è sempre la possibilità che il reietto riesca a ritornare. Rhéa, afflitta dalla perdita dei figli, supplica allora i genitori, che escogitino un piano, una mtis, per salvare il suo ultimogenito, affinché «vendichi le Erinýes del padre suo» [], cioè renda giustizia al delitto perpetrato nei confronti di Ouranós. Segue la liberatoria fuga notturna di G a Krḗtē, con in braccio il piccolo Zeús [-], e l'inganno di Rhéa che fa ingoiare al marito, al posto del figlio, una pietra avvolta dalle fasce [-].

Hēsíodos si sofferma pochissimo sull'infanzia di Zeús, limitandosi a dire che si fece presto adulto [-]. In lui sono riposte le speranze per abbattere il dominio di Krónos. Ma come? Tra Zeús e Krónos, la rivalità si traduce inevitabilmente in una prova di forza, ma il segreto del successo è ben diverso. Nella tragedia di Aiskhýlos, G dichiara che in questo scontro «non la forza, avrebbe avuto la meglio, ma l'astuzia», ma i Titânes rifiutano di ascoltare le parole di Promētheús, che li esorta ad abbandonare un forma di dominio basato unicamente sulla violenza e la brutalità (Promētheús desmṓtēs [-]). Il cammino di Zeús verso il potere si pone infatti sotto il segno di un'abilità superiore. Hēsíodos è conscio di una profonda differenza nella regalità incarnata da Krónos e Zeús, e tale differenza si riflette anche nella scelta delle parole: Krónos è basileús, ma Zeús è ánax: due parole diverse per dire «re», a indicare una progressione nel principio regale. Zeús incarna un tipo di regalità superiore a quella di Krónos, basata sulla forza, inevitabilmente, ma anche sulla ragione e sulla giustizia. Non è un caso che, da subito, si pongano a fianco di Zeús gli attendenti Krátos e Bía («forza» e «violenza»), figli di Stýx; ma dopo la vittoria, il trionfo verrà consacrato dalle sue nozze con Mtis, che «sa più cose di tutti gli dèi e degli uomini mortali» [pleîsta te iduîan idè thnētn anthrṓpōn] [].

Quello della mtis, il «senno», è un tema costante dei miti greci della sovranità. Solo una mtis superiore è in grado di conferire universalità e stabilità a una supremazia già acquisita. La brutalità non basta: il re del kósmos deve avere un'intelligenza lungimirante, in grado di prevedere il futuro, di predisporre tutto in anticipo e di mettere a punto, nei minimi dettagli, tutta le possibili contromisure (Vernant 1981). Hēsíodos lo sottolinea più volte, definendo Zeús «sapiente di immortali consigli» [áphthita mḗdea eidṓs] [ |  | ] e sottolinenando che «non è possibile ingannare la mente di Zeús, né sfuggirle» [hṓs ouk ésti Diòs klépsai nóon oudè pareltheîn] [].

È Mtis, nella versione di Apollódōros, a far bere a Krónos il pharmakós che gli fa rivomitare la pietra e i figli da lui divorati, i quali escono vivi e adulti dallo stomaco paterno e saranno di appoggio al fratello nella lotta contro i Titânes (Bibliothḗkē [I: 2]). In Hēsíodos era invece stata G a ingannare Krónos [-], ma non conosciamo i dettagli dell'impresa.

Dopo, Zeús scende nel Tártaros per liberare i Kýklōpes [-] e gli Ekatóŋkheires [-]. La ragione è narrata poi, con la tecnica – usuale in Hēsíodos – dell'hýsteron-próteron narrativo. Ci viene detto che la guerra si trascina da dieci anni [], senza né vinti né vincitori. Le due fazioni si fronteggiano dalla cima di due montagne: Zeús e i suoi alleati sono arroccati sul monte Ólympos, Krónos e i Titânes sul monte Óthrys. Da queste due vette, poste rispettivamente a nord e a sud della Tessalía, le due generazioni divine si combattono con alterne vicende, senza che l'una riesca a prevalere sull'altra.

Dēròn gar márnanto pónon thymalgé’ ékhontes
antíon allḗloisi dia krateras hysmínas,
Titnés te theoì kaì hósoi Krónou exegénonto;
hoì mèn aph’ hypsēls Óthryos Titnes agauoí,
hoì d’ ár’ ap’ Oulýmpoio theoí, dōtres eáōn,
hoùs téken ēúkomos Rheíē Krónōı eunētheîsa.
hoí hra tót’ allḗloisi khólon thymalgé’ ékhontes
synekhéōs emákhonto déka pleíous eniautoús;
oudé tis n éridos khaleps lýsis oudè teleytḕ
oudetérois, îson dè télos tétato ptolémoio.

Da tempo lottavano gli uni contro gli altri
i Titânes e quanti erano figli di Krónos,
soffrendo pene dolorose in tremende battaglie,
gli uni dall'alto del monte Óthrys (i gloriosi Titânes)
gli altri dalle cime dell'Ólympos (gli dèi donatori di beni,
generati da Rhéa dalle belle chiome, la sposa di Krónos).
Costoro si facevano guerra da dieci anni interi,
gli uni contro gli altri, con animo sofferente:
non vi era termine o conclusione per l'aspra contesa,
a favore degli uni o degli altri: incerta era la sorte della guerra.
Hēsíodos: Theogonía [-]

È in questa situazione che arriva l'oracolo di G: la vittoria sarebbe toccata a chi avrebbe preso come alleati coloro che Ouranós aveva esiliato nel Tártaros [-]. Ciò significa che i Titânes potranno essere sconfitti solo se i nuovi dèi otterranno l'alleanza di esseri simili al nemico per filiazione e natura, e che Zeús potrà sperare di vincere solo grazie all'aiuto di coloro che incarnano quello stesso vigore primordiale che egli cerca di domare. Per istituire un nuovo ordine cosmico, occorre un potere in grado di imporsi ai Titânes. Il nuovo re deve far proprie le stesse potenze da cui ha tratto forza, alle origini, il governo titanico della violenza e della brutalità. (Vernant 1981 | Vernant 1999)

Condotti sull'Ólympos, Kýklōpes ed Ekatóŋkheires vengono rifocillati con néktar e ambrosía. È un atto politico in cui i fratelli dei Titânes, associati al banchetto degli dèi, vengono innalzati agli onori divini e trasformati in theoí olýmpikoi, divinità olimpiche. Hēsíodos riporta qui due discorsi: il primo da parte di Zeús che invita i nuovi alleati a combattere per lui [-], e l'altro, dove Kóttos, parlando a nome dei fratelli, promette lealtà alla causa del nuovo sovrano [-]:

Daimóni’, ouk adáēta piphaúskeai; alla kaì autoì
ídmen, hó toi perì mèn prapídes, perì d’ estì nóēma,
alktḕr d’ athanátoisin ars géneo kryeroîo.
Ssi d’ epiphrosýnēısin hypò zóphou ēeróentos
ápsorhron deûr’ aûtis ameilíktōn hypò desmn
ēlýthomen, Krónou hyiè ánax, anáelpta pathóntes.
Tōı kaì nûn ateneî te nóōı kaì epíphroni boul
hrysómetha krátos hymòn en ain dēiotti
marnámenoi Titsin ana krateras hysmínas.

“O divino, quanto dici non ci è ignoto;
anche noi sappiamo che in te è senno e saggezza,
tu che fosti per gli immortali riparo dal male;
siamo giunti qui dalla caligine oscura,
liberi da catene, godendo di benefici insperati,
per tuo volere, signore [ánax], figlio di Krónos.
Per questo ora, con animo inflessibile e volontà cosciente
difenderemo il vostro potere nella terribile lotta,
combattendo contro i Titânes nelle aspre battaglie.”
Hēsíodos: Theogonía [-]

«Saggezza» [prapís] e «intelligenza» [nóēma], le qualità che Kóttos riconosce a Zeús, indicano ancora una volta che il nuovo re stabilirà un governo basato su valori razionali. Sì, Zeús ha salvato gli altri dèi dalla follia divoratrice di Krónos, e ha salvato Kýklōpes ed Ekatóŋkheires dalla prigionia, ma la gratitudine di costoro nasce anche dalla consapevolezza che un potere giusto e legale sta per subentrare alla tirannide dei Titânes. (Cingano ~ Vasta 2004)

A questo punto gli avvenimenti precipitano. Gli Ekatóŋkheires, con la forza delle loro cento braccia, scagliano una fitta gragnola di macigni contro i Titânes, mentre i Kýklōpes forniscono a Zeús una nuova arma: il fulmine. Con questi due assi nella manica, la forza del braccio che soggioga, e la potenza del fuoco primordiale liberato dai recessi della terra, Zeús diviene invincibile.

Entrano prima in azione gli Ekatóŋkheires:

Tn hekatòn mèn kheîres ap’ ṓmōn aíssonto
pâsin homs, kephalaì dè hekástōı pentḗkonta
ex ṓmōn epéphykon epì stibaroîsi mélessin.
Ohì tóte Titḗnessi katéstathen en daï̀ lygr
pétras ēlibátous stibars en khersìn ékhontes.

Cento braccia si alzavano dalle loro spalle,
allo stesso modo per tutti, e cinquanta teste
crescevano dalle spalle di ciascuno, sulle forti membra.
Essi diedero battaglia contro i Titânes,
stringendo rocce scoscese nelle forti mani.
Hēsíodos: Theogonía [-]

La battaglia sconvolge il mondo intero, l'intero kósmos ne è dilaniato, sembra regredire a uno stato caotico.

...deinòn dè períakhe póntos apeírōn,
g dè még’ esmarágēsen, epéstene d’ ouranòs eurỳs
seiómenos, pedóthen dè tinásseto makròs Ólympos
hrip hýp’ athanátōn, énosis d’ híkane bareîa
Tártaron ēeróenta, podn t’ aipeîa iōḕ
aspétou iōkhmoîo boláōn te krateráōn;
Hṓs ár’ ep’ allḗlois híesan bélea stonóenta.
Phōnḕ d’ amphotérōn híket’ ouranòn asteróenta
kekloménōn; hoì dè xýnisan megálōı alalētōı.

...terribilmente riecheggiava il mare infinito,
la terra rimbombava e il cielo ampio squassato gemeva;
il grande Ólympos tremava sin dalle radici
sotto la furia dei numi, il tremore e il rimbombo
dei colpi violenti e della grande battaglia
giungeva sino al Tártaros oscuro.
Gli uni scagliavano contro gli altri colpi luttuosi
E giungeva al cielo il grido di entrambi i contendenti,
che si urtavano con grande fragore.
Hēsíodos: Theogonía [-]

E quando la battaglia arriva al suo apice, Zeús scende dall'Ólympos, annunciato da una balenare di lampi. Allo sconquasso di terra, cielo e mare, si aggiunge ora l'elemento igneo. Il fuoco purificatore e liberatore è l'unica forza capace di contrapporsi al mondo di tenebre e oscurità dei Titânes, con tutte le ovvie metafore che la scena comporta, puntualmente sottolineate dagli studiosi (Clay 1992 | Vernant 1999 | Cingano ~ Vasta 2004). La scena diviene apocalittica:

Oud’ ár’ éti Zeùs ískhen heòn ménos, allá ny toû ge
eîthar mèn méneos plnto phrénes, ek dé te pâsan
phaîne bíēn; ámydis d’ ár’ ap’ ouranoû ēd’ ap’ Olýmpou
astráptōn ésteikhe synōkhadón; hoi dè keraunoì
íktar háma bront te kaì asterop potéonto
kheiròs ápo stibars, hierḕn phlóga eilyphóōntes
tarphées; amphì dè gaîa pherésbios esmarágize
kaioménē, láke d’ amphì pyrì megál’ áspetos hýlē.
Ézee dè khthṑn pâsa kaì Ōkeanoîo hréethra
póntos t’ atrýgetos; toùs d’ ámphepe thermòs aytmḕ
Titnas khthoníous, phlòx d’ aithéra dîan híkanen
áspetos, ósse d’ ámerde kaì iphthímōn per eóntōn
augḕ marmaírousa keraunoû te sterops te.
Kaûma dè thespésion kátekhen Kháos; eísato d’ ánta
ophthalmoîsin ideîn ēd’ oúasi óssan akoûsai
aútōs, ōs ei Gaîa kaì Ouranòs eurỳs hýperthe
pílnato; toîos gár ke mégas hypò doûpos orṓrei
ts mèn ereipoménēs, toû d’ hypsóthen exeripóntos;
tóssos doûpos égento then éridi xynióntōn.

Ma Zeús non trattenne la sua furia,
il suo cuore si riempì di forza, manifestò tutto
il suo vigore; dal cielo e dall'Ólympos
scagliava i lampi senza mai fermarsi,
lanciava tuoni e fulmini con le sue forti mani
che roteavano più volte la fiamma divina;
e attorno la terra feconda bruciava,
gemevano nel fuoco i boschi infiniti;
ardeva la terra, i flutti di Ōkeanós
e il mare infecondo; una nebbia rovente avvolgeva
i Titânes figli di G e giungeva alle nubi divine;
il bagliore dei fulmini e dei lampi
li accecava (per quanto forti essi fossero).
Un incendio infinito avviluppava il Kháos:
per la vista delle pupille e l'udito delle orecchie
come quando G e il vasto Ouranós di sopra
si accostavano: tanto si alzava il frastuono
a causa della guerra tra gli dèi
che pareva la terra franasse e il cielo crollasse.
Hēsíodos: Theogonía [8-]

L'immagine del cielo che precipita sulla terra non è casuale: indica un ritorno allo stato primordiale, all'epoca in cui Ouranós e G erano uniti l'uno all'altra, e il processo creativo era immobilizzato. Nella furia della battaglia, la creazione è annullata e Zeús, una volta ottenuta la vittoria, dovrà istituire un nuovo kósmos. (Vernant 1999)

Sconfitti, i Titânes sono incatenati e precipitati nel Tártaros, un luogo che Hēsíodos descrive lontano dalla terra quanto questa è distante dal cielo. Vengono rinchiusi all'interno di un recinto di bronzo, a cui Poseidn pone porte, anch'esse bronzee, e gli Ekatóŋkheires vengono messi a loro eterna guardia [-]. Zeús e i suoi alleati sono i vincitori, i nuovi signori dell'universo.

La guerra dei Titânes (1638)

Dipinto di Pieter Pul Rubens (1577-1640)

III - SCONTRO DI TITANI: CONFRONTI, ANALOGIE E DIFFERENZE

Il motivo della teomachia (o piuttosto della titanomachia) è comune in molti sistemi mitologici, dove gli dèi scendono in guerra contro altre classi di divinità, esseri titanici, giganti. Presentare delle analogie tra miti affini è facile e banale. Un po' più difficile – e interessante – è cercare di individuare delle omologie significative, valide dal punto di vista funzionale, o serie ben definite di dettagli coincidenti, tali da far pensare a una trasmissione o a una tradizione comune.

Il materiale greco è piuttosto laconico: l'unica fonte di un certo spessore è rappresentata da Hēsíodos. A livello generale, la titanomachia non ha un significato cosmogonico: quando Zeús e Krónos si scontrano, l'universo è già stato creato e organizzato. Ciò basta ad escludere l'ipotesi di un possibile legame con l'Enûma Elîš babilonese, dove lo scontro tra gli dèi guidati da Marduk e i mostri agli ordini di Tiâmat è combattuto al fine di ammansire le acque primordiali e organizzare l'universo. La titanomachia greca è piuttosto una lotta per la sovranità combattuta tra due generazioni divine: una composta da una stirpe più antica, quella dei Titânes, e l'altra da divinità più giovani, gli Olýmpioi. Il passaggio dal regno degli uni a quello degli altri è dipinto come una progressione da una civiltà primitiva, basata sulla brutalità e la violenza, a una più sofisticata e completa, in cui hanno il loro posto il diritto e la ragione.

Il confronto con la mitologia ḫittita, in questo caso, ci è di scarso aiuto. Il Kumarbis, che fino ad ora ha rappresentato un testo parallelo alla Theogonía esiodea, s'interrompe con il titanico re Kumarbis che «partorisce» i figli di cui è stato ingravidato dal seme di Anus, e uno di questi è appunto il dio della tempesta Tarḫunta. Purtroppo il seguito del mito è andato perduto. Visto che Tarḫunta era il dio principale del pantheon ḫittita, si può inferire che abbia strappato la regalità a Kumarbis. I dettagli di questo «passaggio di consegne» ci sono però sconosciuti, ed è impossibile cercare di individuare dei possibili paralleli con il mito esiodeo.

Se abbandoniamo il Medio Oriente e ci muoviamo in ambito europeo, noteremo la presenza di sistemi analoghi nelle mitologie germanica e celtica, dove gli dèi appaiono impegnati in due scontri distinti: (1) un conflitto «verticale» (titanomachia) tra i giganteschi esseri della vecchia generazione e gli dèi della nuova generazione, che si conclude con la sconfitta delle creature primordiali e la conquista della sovranità da parte delle nuove divinità; e (2) un conflitto «orizzontale» (teomachia) tra gli dèi appartenenti alla prima e seconda funzione duméziliana (sapienza, diritto, regalità e forza) e gli dèi della terza funzione (fecondità, ricchezza), che si risolve con la riconciliazione e l'unione delle tre funzioni.

Nel mito nordico, gli AEsir combattono dapprima la battaglia «orizzontale» contro i Vanir, mentre il conflitto «verticale» contro gli Jǫtnar, antenati e progenitori degli dèi, si conclude con la temporanea sconfitta e l'esilio dei giganti. Nel mito irlandese, le Túatha Dé Danann vincono dapprima la battaglia «orizzontale» contro i loro fratelli maggiori Fir Bolg; poi la battaglia «verticale» contro i loro progenitori Fomóire, con la riconciliazione funzionale che sembra essersi spostata qui al conflitto «verticale». Che questi due complessi di miti siano strettamente correlati, lo abbiamo già dimostrato alla pagina apposita. ①

Ma il sistema mitologico greco è piuttosto distante dal modello indoeuropeo, tanto che lo stesso Dumézil ha evitato saggiamente di includerlo nelle sue ingegnose comparazioni. Effettivamente, il pantheon ellenico è difficilmente riconducibile alla griglia trifunzionale, e forse è proprio questo il motivo per cui la tradizione greca manca completamente del mitema del «conflitto orizzontale». Rimane tuttavia un ottimo esempio di «conflitto verticale»: la titanomachia.

Un confronto la titanomachia ellenica e il sistema celtico mostra diverse affinità:

  1. Lo scontro vede impegnate due generazioni divine
    In Grecia, la guerra è tra Krónos, signore della stirpe primordiale dei Titânes, e i suoi discendenti, gli Olýmpioi, guidati dal figlio Zeús; la posta in gioco è la regalità universale. In Irlanda, è tra gli spietati Fomóire e il popolo delle Túatha Dé Danann, composto in parte dai loro stessi discendenti, che vogliono mantenere la regalità su Ériu.
     

  2. Gli dèi vengono aiutati sotto il profilo tecnico
    Nel mito greco, Kýklōpes ed Ekatóŋkheires forniscono un contributo necessario alla vittoria di Zeús. Anche le Túatha Dé Danann, nella tradizione irlandese, possono contare su una serie assai nutrita di aiuti: un passo del Cath Maige Tuired elenca tutti i contributi che gli dèi di Ériu riceveranno dai loro campioni, druidi e alleati. In particolare, ai tre Kýklōpes sembra corrispondere la triade di dèi artigiani, Goibniu, Crédne e Luchta, i quali si impegnano a fornire armi efficienti e inesauribili ai guerrieri danann. I druidi, d'altra parte, affermano che rovesceranno scrosci di fuoco sui volti dei Fomóire. Attinenze assai vaghe per quanto riguarda gli Ekatóŋkheires, ma nel complesso, i sodali danann si impegnano a schiacciare i Fomóire in ogni modo possibile: rivoltando contro di loro gli alberi e le zolle di terra, nascondendo sorgenti e laghi in modo da farli morire di sete, beffeggiandoli fino a privarli del loro onore, e via dicendo. Il Dagda Mór conclude dichiarando: «Là dove si scontreranno entrambe le schiere, sul campo di battaglia di Mag Tuired, le ossa dei nemici sotto la mia mazza saranno come chicchi di grandine sotto gli zoccoli di un branco di cavalli».
     

  3. Gli dèi vengono guidati sotto il profilo tattico
    Nel mito irlandese, i Túatha Dé Danann dispongono della guida di Lúg, loro re ad interim, che è in realtà nipote di Balor, uno dei capi fómoir. Chiamato samildánach, il politecnico, Lúg è in grado di dominare tutte le tecniche e le arti, ed è appunto questa sua capacità sinfunzionale a renderlo la perfetta guida nella titanomachia irlandese. Il materiale greco è troppo laconico, ma Aiskhýlos afferma che Promētheús, per quanto di stirpe titanica, si mise dalla parte di Zeús, fornendogli un aiuto decisivo nella battaglia. Il parallelo è piuttosto labile, sia perché rimane il sospetto che Aiskhýlos abbia elaborato il mito originale, sia perché Promētheús è un personaggio ambivalente: ingegnoso come Lúg, non è altrettanto trasparente e leale. Sul ruolo di Promētheús, si veda [infra].
     
  4. Gli dèi dispongono di un rimedio terapeutico o di immortalità
    Una volta condotti sull'Ólympos, Kýklōpes ed Ekatóŋkheires vengono invitati al banchetto divino e rifocillati con néktar e ambrosía affinché riprendano le forze. Nel mito irlandese, il guaritore Dían Cécht dichiara: «Curerò nel giro di un giorno qualsiasi ferito, in modo che sia pronto a combattere per il mattino seguente». La sua sorgente di Sláine sarà di vitale importanza nel corso della seconda battaglia di Mag Tuired. I Fomóire, preoccupati per la soprannaturale capacità delle Túatha Dé Danann di guarire i feriti e resuscitare gli uccisi, riescono però a prosciugare la sorgente. Sul motivo dell'immortalità nella titanomachia, si veda [infra].
     

  5. Con la vittoria degli dèi, i nemici vengono esiliati o respinti ai confini del kósmos
    In Grecia, i Titânes vengono incatenati e spediti nel Tártaros; in Irlanda, i Fomóire vengono rispediti alle loro isole o respinti dei síde sottomarini. La tradizione parallela, per cui Krónos diviene signore delle isole dei beati, corrisponde al mitema dei síde: in molti testi i Fomóire sono infatti legati al gioioso oltremondo.

Detto questo, non si può nascondere che le analogie tra il sistema ellenico e quello celto-irlandese siano generiche e fragili, e vi sono anche molti punti di divergenza. Il mito ibernico, narrato nel Cath Maige Tuired e nei testi correlati, è assai più particolareggiato e ricco di quanto non sia quello greco, ed è difficile trovare delle relazioni puntuali. Infine, i monaci irlandesi, a cui dobbiamo la trasmissione del materiale mitologico, conoscevano senz'altro la letteratura classica e non si può escludere che vi si siano ispirati.

Il mito germanico del «conflitto verticale» si stacca ancora di più da quello ellenico. Anche qui gli AEsir discendono dagli Jǫtnar, ma non si può parlare di una vera e propria battaglia: gli dèi scandinavi distruggono proditoriamente i giganti, loro progenitori, annegandoli nel sangue di Ymir, per poi organizzare l'universo. I giganti superstiti vengono respinti nello Jǫtunheimr, l'aspro mondo di ghiacci posto sulle rive dell'oceano cosmico, nel lontano oriente o a settentrione. La battaglia tra AEsir e Jǫtnar, più che combattuta, viene eternamente dilazionata: l'inimicizia tra dèi e giganti è destinata a protrarsi lungo tutta la storia del cosmo per concludersi alla fine del mondo, nel giorno di Ragnarǫk.

IV - DAIVĀSURA, LA GUERRA DELL'IMMORTALITÀ

Anche l'India conosce il mitema dello scontro tra classi di dèi. Ma Deva e Asura non sono direttamente comparabili a Titânes e Olýmpioi. A dirla tutta, le relazioni reciproche tra le due classi di divinità indiane sono non ben definibili. Nella tradizione vedica, Deva e Asura sono posti a un medesimo livello, due gruppi di divinità ugualmente discesi da Prajāpati. Nel Ṛgveda, la differenza è funzionale: gli Asura presiedono al principi morali e sociali (Varuṇa è il guardiano della ṛta, l'ordine cosmico, Aryaman dei matrimoni, etc.), mentre i Deva presiedono perlopiù alle forze e ai fenomeni naturali (Indra personifica il tuono, Vāyu il vento, Uṣas l'alba, etc.).

Amṛtamanthana
Antica immagine indiana

È solo nelle speculazioni successive che gli Asura acquistano qualità negative. La tendenza si intravede già nei Brāhmaṇa. Nella Bhagavadgītā, gli Asura vengono descritti come esseri presuntuosi, rissosi e ignoranti. Nei Purāṇa divengono del tutto malvagi, affini ai dèmoni.

Nel corso della sterminata letteratura indiana, la competizione tra Deva e Asura – definita in sanscrito daivāsura – assume una moltitudine di aspetti divergenti (Doniger 1975 | Panikkar 1977). Nei testi epici è descritta nei termini di uno scontro apocalittico. Non si può parlare tuttavia di un «conflitto verticale», in quanto Deva e Asura appartengono a una medesima generazione. Ma nemmeno di un «conflitto orizzontale», sul modello celto-germanico: pur essendo distinti funzionalmente, Deva e Asura non sono destinati a riunirsi. La loro opposizione è definitiva e insanabile.

La versione più pittoresca dello scontro tra Deva e Asura prende l'avvio dal mito dell'Amṛtamanthana, la frullatura dell'oceano di latte. Deva e Asura capovolgono il monte Mandara e poi, tirando a turno la testa e la coda del serpente Vāsukī, arrotolato intorno al monte, frullano l'oceano per mille anni. Dalla schiuma escono via via il dio Soma, il dio-luna Candra e il dio-sole Sūrya. Dopodiché sorge Śrī Lakṣmī, dea della fortuna e della prosperità, che diviene sposa di Viṣṇu. Infine, dopo la produzione di diversi altri «tesori» [ratna], viene fuori il dio Dhanvantari, il quale regge un vaso nel quale è contenuta l'amṛta, il cibo d'immortalità (Mahābhārata [I: 17]).

Non appena l'amṛta appare dinanzi ai loro occhi, Deva e Asura si lanciano alla sua conquista. Ma Viṣṇu, assunta la forma della sensuale incantatrice Mohinī, acquieta gli animi, assicurando gli Asura che avrebbe diviso il cibo d'immortalità in modo equo tra i due schieramenti. Ma, messi tutti in fila, elargisce l'amṛta solo ai Deva, che bevono con tumultuosa eccitazione. Ciò scatena la furia degli Asura, i quali, rivestiti delle loro superbe armature e muniti di svariate armi, attaccano i Deva.

La descrizione della battaglia indiana è assai vicina al racconto di Hēsíodos, seppure da un punto di vista strettamente formale. I leit-motiv sono gli stessi del poema esiodeo, con poche ma significative differenze. Ad esempio, nel Mahābhārata sono gli Asura a bombardare i Deva con una pioggia di macigni, anzi, di vere e proprie montagne, mentre in Hēsíodos erano gli Ekatóŋkheires a rivolgere il loro attacco roccioso contro gli stessi Titânes. Si confronti l'episodio del poema indiano (Doniger 1975) con il testo del poema esiodeo:

 

Ma i possenti Asura ancora intrepidi, salendo fino al cielo a migliaia, come nuvole la cui pioggia sia stata dispersa, continuavano a molestare le schiere dei Deva scagliando montagne contro di loro. E dal cielo cadevano montagne spaventosamente grandi, simili a nubi multiformi, ancora coperte di alberi, con le cime dei picchi spezzate, roboando con gran forza mentre si colpivano l'una con l'altra. La terra con tutte le sue foreste tremava colpita da ogni lato dalla caduta di quelle enormi montagne...
Mahābhārata [I]

L'attacco degli Olýmpioi, nel testo di Hēsíodos, è rappresentato dal solo Zeús, che con i suoi fulmini fa strage di nemici. Nel testo indiano, la parte è sostenuta da Viṣṇu. La sua arma è un cakra (un disco con il bordo affilato) chiamato Sudarśana, la cui descrizione presenta frequenti metafore ignee, e in un caso viene addirittura paragonato al fuoco ecpirotico destinato a mettere fine all'universo.

 

[Il cakra] risplendeva come il sole, la curva del suo filo non era smussata in alcun punto; esso era terrificante, invincibile, supremo, risplendente come un fuoco che divori l'oblazione, spaventoso, agile, glorioso, distruttore delle città nemiche. L'invitto Viṣṇu dalle braccia simili a proboscidi di elefante lo scagliò all'improvviso con gran forza. Risplendendo come fuoco ecpirotico, cadde giù più e più volte, a gran velocità, lanciato dalla mano del migliore dei maschi, falciando a centinaia gli Asura nella battaglia. Talvolta risplendeva come il fuoco, lambendo con le sue lingue le armate asuriche...
Mahābhārata [I]

I parallelismi tra la Theogonía e il Mahābhārata sono però unicamente formali. Hēsíodos e Vyāsa, gli autori tradizionali dei due poemi, devono aver utilizzato, nella composizione delle loro opere, del materiale risalente alla comune eredità indoeuropea, seppure rielaborato nel modo peculiare a ciascuna cultura. Il rapporto tra Asura e Deva è profondamente diverso da quello tra Titânes e Olýmpioi; e la battaglia indiana non viene compiuta per imporre la propria regalità universale, ma per ottenere il cibo di immortalità, l'amṛta (parola composta in sanscrito da a- privativo + mṛta «morte»).

E troviamo qui un altro ordine di mitemi comuni tra il poema indiano e quello greco. Ricordiamo l'episodio del néktar e dell'ambrosía offerti da Zeús ai suoi nuovi alleati, i Kýklōpes e gli Ekatóŋkheires, appena arrivati sul monte Ólympos.

All’ hóte dḕ keínoisi paréskhethen ármena pánta,
néktar t’ ambrosíēn te, tá per theoì autoì édousi,
pántōn en stḗthessin aéxeto thymòs agḗnōr,
[hōs néktar t’ epásanto kaì ambrosíēn erateinḗn]...

Ma quando fu loro fornito tutto il nutrimento,
néktar e ambrosía, ciò che mangiano gli dèi stessi,
nei petti di tutti cresceva l'animo valoroso,
[come si furono cibati del néktar e dell'amabile ambrosía]...
Hēsíodos: Theogonía [-]

Ci piacerebbe sapere perché il cibo d'immortalità appaia essere un privilegio che Zeús concede a Kýklōpes e gli Ekatóŋkheires, sebbene tutti quanti, Titânes e Olýmpioi, dovessero essere ugualmente immortali. Hēsíodos dice che l'offerta sia stata fatta con il semplice intento per rifocillare Kýklōpes ed Ekatóŋkheires dopo le pene patite durante la loro prigionia tartarea. Ma questa ha tutta l'aria di essere una spiegazione a posteriori: néktar e ambrosía non erano dei semplici ricostituenti, ma un elisir d'immortalità (la parola ambrosía è composta in greco da a(m)- privativo + brotós «mortale», con perfetto calco semantico del sanscrito amṛta). Il parallelismo con la tradizione indiana, dove Deva e Asura si affrontano proprio per la conquista dell'amṛta, suggerisce che il cibo d'immortalità avesse originariamente un'importanza assai maggiore anche nell'economia della titanomachia.

Sebbene la tradizione greca sembri aver dimenticato il mito d'origine dell'ambrosía, si ricorderà che un esito del mitema dell'Amṛtamanthana è presente anche in Hēsíodos, seppure in una versione diversamente elaborata. La nascita di Aphrodítē dalla schiuma marina «fecondata» dal pene mozzato di Krónos, è perfettamente omologa al sorgere della dea Lakṣmī dalla schiuma dell'oceano di latte frullato dal monte Mandara ①. Ma se nel Mahābhārata la guerra tra Deva e Asura è scatenata dalla conquista del cibo d'immortalità creato nell'Amṛtamanthana, nella Theogonía la scena della nascita di Aphrodítē e il motivo della titanomachia risultano del tutto separati.

L'impressione è che Hēsíodos utilizzi del materiale antichissimo e ne metta insieme i motivi secondo un ordine ereditato da una tradizione precedente, pur senza comprenderne a fondo il significato originale, ma rielaborandolo secondo il proprio genio poetico. Fermo stando la differenza funzionale tra i due miti (la relazione tra i contendenti e la ragione primaria della battaglia), i motivi formali del Mahābhārata e della Theogonía possono essere agevolmente messi in parallelo. Non sempre il loro senso è equivalente ma, pur nella continua rielaborazione dei particolari, hanno conservato lo schema generale:

 

Mahābhārata

Theogonía di Hēsíodos

I Deva e Asura capovolgono il monte Mandara, ne immergono la cima nell'oceano di latte e, frullando per mille anni, ottengono vari tesori, tra cui la dea Lakṣmī. Il fallo di Ouranós, mozzato e gettato in mare da Krónos, «feconda» le onde e produce una schiuma dalla quale sorge la dea Aphrodítē.
II La frullatura dell'oceano di latte produce l'amṛta, cibo di immortalità conquistato e consumato dai Deva. Gli dèi Olýmpioi si nutrono di néktar e ambrosía, cibi di immortalità di cui non viene detta l'origine.
III I Deva si rifiutano di dividere l'amṛta con gli Asura, e questa è la causa della guerra tra le due classi di divinità. Zeús divide néktar e ambrosía con Ekatóŋkheires e Kýklōpes, suoi alleati nella lotta contro i Titânes.
IV Nel corso della battaglia, gli Asura lasciano cadere dal cielo intere montagne contro i Deva. Con la forza delle loro cento braccia, gli Ekatóŋkheires scagliano enormi macigni contro i Titânes.
V Viṣṇu scende sul campo di battaglia e stermina i nemici con la sua arma: il cakra Sudarśana, la cui descrizione presenta metafore ignee. Zeús scende sul campo di battaglia e stermina i nemici con la sua arma: i fulmini forniti dai Kýklōpes. Questi ardono la terra, bruciano le foreste, fanno bollire i mari.
VI La battaglia produce uno sconquasso cosmico. Il frastuono e le grida arrivano fino al cielo. La battaglia produce uno sconquasso cosmico. Il frastuono e le grida arrivano fino al cielo.
VII Lo scontro termina con la sconfitta degli Asura. I Deva ottengono l'immortalità. Lo scontro termina con la sconfitta dei Titânes. Gli Olýmpioi ottengono la regalità.

La battaglia tra Deva e Asura

Immagine devozionale indù

V - IL RUOLO DI PROMĒTHEÚS

Il tragediografo Aiskhýlos, nel suo Promētheús desmṓtēs, il «Prometeo incatenato», riporta un lungo monologo in cui lo stesso Promētheús lamenta che Zeús lo abbia assicurato, con lacci indissolubili, alle rocce del Caucaso, a dispetto del fatto che egli fosse passato dalla sua parte nel corso della titanomachia, e abbia aiutato il figlio di Krónos con i suoi astuti consigli, portandolo alla vittoria.

Algeinà mén moi kaì légein estìn táde,
álgos dè sigân, pantakhi dè dýspotma.
epeì tákhist' ḗrxanto daímones khólou
stásis t' en allḗloisin ōrothýneto,
hoi mèn thélontes ekbaleîn hédras Krónon,
hōs Zeùs anássoi dthen, hoi dè toúmpalin
speúdontes, hōs Zeùs mḗpot' árxeien then,
entaûth' egṑ tà lista bouleúōn pitheîn
Titânas, Ouranoû te kaì Khthonòs tékna,
ouk ēdynḗthēn. haimýlas dè mēkhanàs
atimásantes karteroîs phronḗmasin
ṓont' amokhthì pròs bían te despósein.
emoì dè mḗtēr oukh hápax mónon Thémis
kaì Gaîa, polln onomátōn morphḕ mía,
tò méllon h kranoîto proutethespíkei,
hōs ou kat' iskhỳn oudè pròs tò karteròn
khreíē, dólōi dé, toùs hyperskhóntas krateîn.
toiaût' emoû lógoisin exēgouménou
ouk ēxíōsan oudè prosblépsai tò pân.
krátista dḗ moi tn parestṓtōn tóte
ephaínet' eînai proslabónta mētéra
hekónth' hekónti Zēnì symparastateîn.
emaîs dè boulaîs Tartárou melambathḕs
keuthmṑn kalýptei tòn palaigen Krónon
autoîsi symmákhoisi.

Come ebbe inizio l'ira degli dèi,
si volsero violenti gli uni agli altri,
s'accese tra loro la contesa,
tra chi voleva rovesciare Krónos
perché il re fosse Zeús, e chi lottava
perché Zeús tra gli dèi non fosse il primo.
E io volevo persuadere al meglio
i Titânes nati da Ouranós e G,
ma non potei. Spregiarono l'astuzia,
avevano pensieri di violenza,
credevano di ascendere al potere
con la violenza senza darsi pena.
G che ha molti nomi e una forma
profetava il futuro e mi diceva:
“Non di forza e potenza c'è bisogno,
ma il primo in astuzia sarà il re”.
Queste cose chiarivo argomentando,
ma quelli non degnarono guardarmi.
Di fronte a ciò mi parve dunque il meglio
conciliarmi alla madre ed affiancarmi
a Zeús, come io volevo e lui voleva.
Per il mio senno il Tártaros nasconde,
nelle tenebre fonde del suo abisso,
Krónos l'antico e chi lottò al suo fianco.
Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [I]

Figlio del titân Iapetós, Promētheús avrebbe dovuto trovarsi dalla parte di Krónos, come suo padre e i suoi fratelli. Ma i Titânes avevano un concetto della regalità basata unicamente sulla forza e sulla sopraffazione, e nessun interesse a governare un kósmos razionale, fondato sulla giustizia e sull'intelligenza. Questa è la ragione del dissidio tra Promētheús e i fratelli di suo padre. Nella prospettiva della tragedia eschilea, Promētheús è l'aiolomtis, colui che è fornito di un'astuzia prodigiosa, capace di trovare una via d'uscita anche nelle situazioni più complicate. Potrebbe aiutare i Titânes con la forza del suo intelletto, ma questi ultimi disprezzano il suo contributo. Perciò Promētheús lascia il campo titanico e si rivolge a Zeús. Tantopiù che l'oracolo di G ha dichiarato che l'astuzia, non la violenza, sarà decisiva della battaglia, e Promētheús non è tipo da schierarsi con la squadra perdente. Aiskhýlos non dice quali consigli Promētheús abbia fornito al figlio di Krónos, ma devono essere stati dei suggerimenti assai preziosi, se non è una vuota vanteria quell'affermazione conclusiva che gli mette in bocca: «Per il mio senno il Tártaros nasconde, nelle tenebre fonde del suo abisso, Krónos l'antico e chi lottò al suo fianco».

Hēsíodos non dice nulla sul ruolo di Promētheús nel corso della battaglia. Ma, ambiguamente, tratta della stirpe di Iapetós in una lunga digressione che, di fatto, interrompe il racconto della titanomachia [-]. La scena, anzi, si interpone tra la liberazione dei Kýklōpes e quella degli Ekatóŋkheires, separando due episodi logicamente contigui. Ma sovente Hēsíodos non rispetta la cronologia degli avvenimenti: la Theogonía non ha un andamento sempre consequenziale e gli eventi si affacciano a volte con la tecnica della libera associazione. Il poeta torna spesso indietro per ricapitolare genealogie parallele, o narra gli episodi a ritroso, partendo dalla loro conclusione. Anche per questo, i mitografi si sono sempre sentiti autorizzati a trattare separatamente il racconto di Promētheús, in genere collocandolo dopo la titanomachia, in un'epoca in cui Zeús è ormai saldamente assiso sull'Ólympos e sono nati gli dèi di seconda generazione.

Ma è davvero così? O forse dovremmo prestare più attenzione al fatto che Hēsíodos interpoli il complesso racconto dei figli di Iapetós proprio agli esordi della titanomachia? Egli ricapitola innanzitutto la sorte dei quattro Iapetídai: Átlas condannato a sorreggere il cielo, Menoítios fulminato per la sua arroganza, Promētheús incatenato alle rupi del Kaúkasos ed Epimētheús responsabile di una condanna toccata all'intero genere umano.

A questo punto, Hēsíodos narra il mito del sacrificio di Mēkṓnē. Nel bel mezzo di una non precisata contesa tra dèi e mortali, Promētheús riceve l'incarico di sacrificare un bue e distribuire le parti tra i due contendenti. Lo Iapetídes, con ingannevole intento, prepara due porzioni. Da un lato, ammucchia le ossa e le ricopre con una gustosa patina di grasso; dall'altro raccoglie la carne, nascondendola però all'interno dello stomaco in modo da dargli un aspetto poco appetitoso. Chiede infine a Zeús di scegliere la porzione che preferisce. Nella sua onniscienza, Zeús è perfettamente conscio dell'inganno e già avverte nel cuore le sciagure che è sul punto di infliggere ai mortali. Nonostante ciò, solleva il grasso rivelando le bianche ossa. Irato per l'inganno, Zeús toglie agli uomini il dono del fuoco. Ma Promētheús riesce a rubare una scintilla agli dèi e, nascondendola in una ferula, restituisce il fuoco al genere umano. Ecco la ragione per cui il figlio di Iapetós viene punito da Zeús.

Parleremo nella giusta sede dei dettagli del mito di Promētheús: per ora cercheremo di capire quale sia il suo significato nell'ambito del mito della titanomachia. Hēsíodos cerca di dare una giustificazione al comportamento contraddittorio degli attori, uscendone con un'interpretazione piuttosto cervellotica, ma è chiaro che il meccanismo non gira a dovere. Si avverte la presenza di motivi mitici che Hēsíodos non è in grado di interpretare correttamente, tanto che, nelle Érga kai hēmérai, fornisce una lettura ancora diversa, ma forse più vicina al significato originale:

 

Gli dèi avevano nascosto agli uomini la fonte del benessere; ché tu avresti anche potuto lavorare per lo spazio di un giorno, e mantenerti quindi per un anno libero dal lavoro: avresti potuto senza indubbio porre al fumo del focolare il timone, e far sparire il lavoro dei buoi e dei muli pazienti alla fatica! Invece Zeús nascose tutto ciò, sdegnato nell'animo suo, il giorno in cui lo trasse in inganno Promētheús dai tortuosi pensieri; per questa ragione egli riversò sugli uomini lacrimevoli affanni, e nascose il fuoco.
Hēsíodos: Érga kai hēmérai [-]

L'inganno di Promētheús, dunque, era costato agli uomini l'antica esistenza paradisiaca, condannandoli alla necessità del lavoro e della fatica. È un mitema dalle mille ramificazioni, ma Hēsíodos sembra ancora non notare alcuna relazione diretta con il significato del sacrificio di Mēkṓnē. Eppure, nel fare le parti del bue abbattuto, Promētheús aveva stabilito il comportamento da tenere nei riti religiosi. Da quel momento in poi, gli uomini avrebbero consumato la carne degli animali sacrificati e agli dèi sarebbero state bruciate le ossa unte di grasso. Potrebbe sembrare che agli immortali debba toccare la parte peggiore: invece la divisione, a dispetto delle intenzioni di Promētheús, è stata a tutto vantaggio degli dèi. Le ossa sono infatti la parte indeperibile degli animali e, com'è noto, gli dèi non hanno alcun bisogno di nutrimento per vivere in eterno. Al contrario, gli uomini sono costretti a procurarsi e consumare continuamente cibo per poter sopravvivere.

Puntualizza Hómēros:

Ou gàr sîton édous', ou pínous' aíthopa oînon,
toúnek' anaímonés eisi kaì athánatoi kaleontai.
Essi [gli dèi] non mangiano pane, non bevono vino di fiamma,
non hanno sangue perciò, e son chiamati immortali.

Hómēros: Ilías [V: -]

Il pane e il vino sono il cibo degli uomini: l'alimentazione, a cui Promētheús condanna il genere umano, è la ragione della loro mortalità. Questo dà una nuova profondità all'espressione con cui Hēsíodos indica gli esseri umani: «uomini che mangiano pane» [andrói alphēsteîs] (Theogonía []). Tale espressione non è una banale specificazione alimentare, ma oppone gli esseri umani agli dèi, i mortali che consumano pane agli immortali che non hanno tale necessità. Ploútarkhos spiega il distico omerico sottolineando la relazione tra l'alimentazione e la mortalità: «[Il pane] non è solo un mezzo che contribuisce alla vita, ma è anche uno strumento di morte...» (Moralia: Tn heptà sophn sympósion [16]).

Dèi e uomini, da allora, sono eternamente divisi: gli uni mortali, gli altri immortali, legati tra loro dal patto vicendevole per il quale gli esseri umani dovranno contribuire al mantenimento dell'immortalità divina con i loro sacrifici, mentre gli dèi si impegnano a rinnovellare le sorgenti dell'essere e mantenere la continuità dell'esistenza. La posta in gioco, nel sacrificio di Mēkṓnē, era l'immortalità. L'inganno imbastito da Promētheús avrebbe dovuto favorire gli uomini, invece Zeús lo inganna a sua volta.

Ci stiamo muovendo su un ghiaccio molto sottile, ma ancora una volta ci vengono in aiuto le scritture indiane. Nel mito indù, Deva e Asura sono inizialmente mortali. Solo Agni, il dio del fuoco, detiene il potere dell'immortalità, e per una ragione evidente: ciò che viene arso nel fuoco sacrificale supera la grossolanità della materia ed entra a far parte della sfera divina. Un testo brāhmaṇico ci consegna un mito interessante:

 

Un tempo, Deva e Asura, entrambi prole di Prajāpati, lottavano tra loro. [...]. Tra questi due gruppi di mortali, uno solo, Agni, era immortale, e fu per mezzo di lui, l'immortale, che essi ottennero entrambi il proprio essere. Qualunque tra i Deva fosse stato ucciso dagli Asura, egli veniva in verità ucciso irrevocabilmente. E così i Deva divennero inferiori. Continuarono allora ad adorare e a praticare fervente concentrazione, nella speranza di superare i loro nemici che erano altrettanto mortali. Il loro sguardo, allora, si posò sul sacro immortale Agni. “Vieni”, gli dissero, “Quando [...] saremo divenuti immortali e invincibili, sconfiggeremo i nostri nemici, che non sono né immortali né invincibili”.
Śatapatha Brāhmaṇa [II, 2, 2, -]

I Deva mettono insieme il fuoco sacrificale, così da ardere la loro parte mortale e radicare l'immortalità nella loro intima essenza. Essi hanno praticato a metà l'agnihotra, quando si avvicinano gli Asura, per vedere cosa stiano facendo. Ma i Deva dissimulano il loro operato e così ingannano gli Asura, i quali non ottengono l'immortalità (Śatapatha Brāhmaṇa [IX, 5, 1, -]). Insomma, «fu tramite la perfetta esecuzione del sacrificio che i Deva giunsero al regno celeste, e fu a causa della loro esecuzione difettosa che gli Asura furono sconfitti» (Taittirīya Saṃhita [II, 4, 10, ]). E quando tutti gli esseri giungono al cospetto di Prajāpati, questi assegna l'immortalità ai Deva, il potere e l'oscurità agli Asura, agli antenati le offerte funerarie, agli animali di nutrirsi liberamente, e agli uomini dice: «Notte e giorno voi mangerete, la vostra progenie sarà la vostra morte e il fuoco la vostra sfera luminosa» (Śatapatha Brāhmaṇa [II, 4, 2, ]).

La nostra ipotesi è che l'episodio di Promētheús sia l'esito esiodeo di un mito più antico dove Zeús ottiene l'immortalità a danno dei Titânes. L'ingannevole sacrificio officiato da Promētheús – così come il sacrificio dissimulato dai Deva ai danni degli Asura – si ritorce contro i Titânes e, di conseguenza, sull'intera razza umana. Che il testo Hēsíodos opponga gli dèi direttamente agli uomini non deve trarre in inganno: il mito ellenico attribuisce agli umani una natura titanica, in quanto discendenti o creature di Promētheús. Il «furto» dell'immortalità, che secondo questa ipotesi Zeús avrebbe perpetrato ai danni dei suoi avversari, conferirebbe un significato più forte al motivo dell'offerta del néktar e dell'ambrosía avanzata ai Kýklōpes e agli Ekatóŋkheires, una volta passati dalla parte degli Olýmpioi.

Questa serie di paralleli getta una nuova luce anche sull'episodio in cui Promētheús ruba il fuoco agli dèi. Gli interpreti hanno sempre visto nel fuoco un facile simbolo di tecnica, cultura, progresso, e indubbiamente questa è l'interpraetatio auctoris della Theogonía. Ma il fuoco è anche lo strumento principale dell'oblazione sacrificale, il mezzo attraverso il quale viene bruciata la parte materiale dell'offerta, e si invia la sua forma imperitura al mondo divino. Nella tradizione indiana il fuoco conferisce, insieme all'immortalità, doni di pienezza, divinità, invincibilità (Panikkar 1977). E questo spiega l'interesse dei Deva a ottenere il favore del dio-fuoco Agni.

 

Così gli dèi posero quel fuoco [Agni] nel loro più intimo sé, e avendo posto quella immortalità nel proprio più intimo sé, ed essendo divenuti immortali e invincibili, essi sconfissero i loro mortali e vincibili nemici. [...]. Così il sacrificatore diviene invincibile, e quando il suo nemico tenta di sopraffarlo, egli non viene sopraffatto. Pertanto, quando si combattono uno che ha acceso il fuoco e uno che non l'ha fatto, colui che ha acceso il fuoco ha la meglio. Poiché per mezzo di questo [fuoco] egli diviene invincibile, immortale.
Śatapatha Brāhmaṇa [II, 2, 2, ]

La nostra lettura è soltanto un'ipotesi. Ma Hēsíodos ha dimostrato più di una volta di saper collocare, al posto giusto, elementi formali ereditati da temi più antiche, ovviamente interpretati secondo gli schemi della Grecia arcaica. È possibile che il mito di Promētheús appartenesse, in qualche fase anteriore del mito, al ciclo della titanomachia. In seguito, perduti gli addentellati, è stato riorganizzato come elemento a sé stante, pur mantenendo la sua primitiva collocazione all'interno del racconto epico.

Giustamente, si lamenta Nónnos Panopolítēs:

 

Ma è anche lui,
Promētheús, il responsabile dell'infelicità umana,
lui che veglia sulle sciagure dei mortali: ché sarebbe stato meglio
se invece del fuoco, origine del male, avesse rubato il néktar
che rallegra la mente dei beati, e ne avesse fatto dono agli uomini,
per disperdere con la tua bevanda gli affanni del cosmo.
Nónnos Panopolítēs: Dionysiaká [VII, -]
Atlante Farnese
Copia romana in marmo (II sec.) di un'opera ellenistica
Museo Archeologico Nazionale, Napoli

VI - ÁTLAS, O IL PESO DEL CIELO

Assai suggestivo e interessante, il mitema di Átlas, figlio di Iapetós e fratello di Promētheús, condannato a sorreggere il cielo con le spalle. Hēsíodos lo cita un paio di volte, e in entrambe ce lo presenta, ai confini del mondo, nel compito di reggere il cielo, punizione inflittagli da Zeús, ogni volta descritto con la medesima formula: «ritto, con la testa e le braccia instancabili» [hestēṑs kephal te kaì akamátēısi khéressin] (Theogonía [=]).

Ma Átlas compariva già in Hómēros:

 

...Átlas, dal cuore perverso, il quale del mare
tutti conosce gli abissi, regge le grandi colonne,
che terra e cielo sostengono da una parte e dall'altra...
Hómēros: Odýsseia [I: -]

La differenza tra i due testi è interessante: secondo Hēsíodos, Átlas si troverrebbe nel lontano occidente, non lungi dalle isole delle Hesperídes, e lì lo troverà infatti Hērakls in uno dei suoi viaggi ai confini del mondo. Hómēros afferma invece sorgere drettamente dal mare, e lo definisce esperto degli abissi.

Inoltre, mentre l'Átlas esiodeo regge il cielo sulle spalle, quello omerico funge da sostegno alle colonne che puntellano la terra e il cielo. Quale che sia la ragione di una così tremenda punizione, non viene fornita né dall'uno né dall'altra poeta, che lo descrivono già al suo posto, a sostenere il peso del cielo e/o della terra. Hómēros lo definisce tuttavia «cuore perverso» [oloóphrōn] (Odýsseia [I: ]), ed Hēsíodos «cuore violento» [krateróphrōn] (Theogonía []), il ché può dare un'idea di quale tipo di minaccia potesse rappresentare il personaggio.

Ma è Hyginus, nel riportare una variante del mito (nel quale peraltro lo scrittore-astronomo sembra addirittura confondere la titanomachia con la gigantomachia), a riferire che Átlas fu punito per aver guidato i Titânes nel corso della battaglia contro Zeús (Fabulae [150]).

Il ruolo di Átlas sembra quello di impedire che Ouranós e Ge possano tornare a riunirsi: ciò annullerebbe il kósmos, azzererebbe la creazione, e ricondurrebbe l'universo allo stato di indeterminazione primordiale. Abbiamo visto che, nel corso della titanomachia, si era profilata la minaccia dell'annullamento cosmico, con il crollo del cielo sulla terra:

...ōs ei Gaîa kaì Ouranòs eurỳs hýperthe
pílnato; toîos gár ke mégas hypò doûpos orṓrei
ts mèn ereipoménēs, toû d’ hypsóthen exeripóntos;
tóssos doûpos égento then éridi xynióntōn...

...come quando G e il vasto Ouranós di sopra
si accostano; tale infatti un grande fragore sorgeva,
come se l'una si abbattesse e l'altro precipitasse dall'alto;
tanto fragore nasceva dagli dèi che si scontravano in lotta...
Hēsíodos: Theogonía [-]

La punizione del figlio di Iapetós non è quindi, quindi, fine a sé stessa, ma ha un ruolo cosmologico assai importante: impedire il ritorno al kháos primordiale. Come mitema, tuttavia, il motivo del gigante che regge il cielo sulle spalle, pare avere un'origine indipendente, se non altro perché già l'evirazione di Ouranós impedisce la sua riunificazione con G.

Non c'è bisogno di cercare molto lontano. La mitologia ḫittita conosce il gigante Upelluri, il quale fornisce la «base» sulla quale cielo e terra furono innalzati. Ma al contrario di Átlas, che almeno sembra abbia avuto un passato attivo e ribelle, Upelluri è piuttosto torpido e passivo. A Ea, che scende negli abissi per interrogarlo, esso risponde:

Quando costruirono il cielo e la terra sopra di me, non seppi nulla; e quando accadde che tagliarono il cielo e la terra con il coltello, neppure allora seppi nulla...
Ullikummi [III]

Ma il motivo, seppure di molto ingentilito, lo troviamo anche nella mitologia egiziana. Qui abbiamo, con sessi invertiti rispetto al mito greco, il dio-terra Gebb e la dea-cielo Nût. Il motivo cosmogonico è tuttavia identico: Gebb e Nût giacevano strettamente avvinti l'uno all'altra, con la conseguenza che tra loro non c'era abbastanza spazio perché qualsiasi altra cosa potesse esistere. Allora Atum ordinò al padre loro Šû di separarli. Pura immagine dell'atmosfera, che riempie tutto lo spazio tra la terra e il cielo, Šû s'intromise tra i suoi figli, puntò i piedi contro Gebb e sollevò Nût sui palmi delle mani, separandoli l'uno dall'altra e impedendo per sempre il loro ricongiungimento. Šû è l'atmosfera, sì, ma più precisamente l'aria trasparente alla luce, che permette al sole d'irradiare il mondo con la sua carezza apportatrice di vita. Da Nût e Gebb sarebbero poi nati i cinque dèi principali della religione egizia: Ûsir, Ḥûr, Sûtḫ, Iset e Nebt-ḥût.

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BIBLIOGRAFIA
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Ellenica - Odysseús
Testi di Daniele Bello.
Ricerche di Daniele Bello e Dario Giansanti.
Theogonía: traduzione di Daniele Bello.
Creazione pagina:06.01.2012
Ultima modifica: 03.03.2016
 
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