1 -
IL CUORE DI ANGRBOÐA
na gigantessa viveva in
Jǫtunheimr: il suo nome era
Angrboða.
Loki trovò il suo cuore, mezzo arrostito,
tra le ceneri, e lo divorò. Ne fu reso gravido e, quando giunse il suo tempo,
partorì tre figli. Il primo era un lupo e fu chiamato
Fenrir. Il secondo era un serpente, ed
ebbe nome Jǫrmungandr. La terza, una
fanciulla, aveva il volto metà fresco e roseo, metà livido e avvizzito. Le fu
messo nome Hel.
Ma quando gli Æsir
seppero di questi tre mostruosi figli che venivano allevati nello
Jǫtunheimr, tirarono le sorti, e le
profezie annunciarono che da essi sarebbero giunti soltanto sventure e dolore.
Parve evidente che una così mostruosa progenie annunciasse grandi mali, vista la
natura della loro madre, e soprattutto del loro padre. |
2 -
IL LUPO, LA FANCIULLA, IL SERPENTE
llora
Óðinn mandò gli dèi nello Jǫtunheimr
a prendere i tre fratelli, e li fece condurre presso di sé. Quando tale tremenda
figliolanza fu giunta al suo cospetto, egli preso per primo il serpente e lo
gettò nell'úthaf, l'oceano esterno che avvolge tutte le terre. Ma le
gelide acque ebbero su Jǫrmungandr
di esso un effetto vivificante, e il serpente crebbe così tanto che finì col
circondare il mondo intero e, trovata davanti a sé la propria coda, la serrò tra
le fauci, cingendo le terre in un enorme circolo vivente. Ed esso fu chiamato
Miðgarðsormr, il «serpente di
Miðgarðr».Poi Óðinn rivolse la
sua attenzione ad Hel. La gettò nel
Niflheimr e le permise di edificare
laggiù la cupa dimora di Éljúðnir. Le diede potere sui nove mondi in modo che
diventasse la signora di tutti coloro che morivano di malattia o di vecchiaia.
Hel divenne la dea dei defunti.
In quanto a Fenrir, le
profezie lo dicevano destinato a provocare in futuro gravi sventure e,
addirittura, che sarebbe divenuto l'uccisore di
Óðinn. Ma gli dèi avevano tale rispetto
per le loro dimore e i loro santuari, che mai avrebbero voluto macchiarle col
sangue del lupo. Così salvarono la vita a
Fenrir e permisero che venisse allevato nell'Ásgarðr.
|
3 - L'INCATENAMENTO DI FENRIR
a crescendo, il lupo
Fenrir divenne una belva enorme e feroce, tanto che solo
Týr aveva il coraggio di avvicinarsi per
porgergli il cibo. Gli Æsir
cominciarono ad averne paura, ben conoscendo le tremende profezie che lo
riguardavano. Decisero infine di incatenarlo per impedirgli di nuocere.
Gli Æsir forgiarono allora una
catena resistentissima, che chiamarono
Lǿðingr. Ma come avvicinare Fenrir il
tempo necessario per poterlo legare? Urgeva uno stratagemma. Così mostrarono
apertamente al lupo la catena e gli proposero, per sfida, di provare la sua
forza contro di essa. Il lupo osservò la catena e non gli parve al di là delle
proprie forze. Si lasciò legare. Poi, con un minimo sforzo, spezzò
Lǿðingr e si liberò.
Ma gli Æsir non si diedero per
vinti. Forgiarono una seconda catena, più resistente della prima, e la
chiamarono Drómi. La portarono al lupo,
proponendogli di provarla, e dissero che avrebbe avuto grande fama se avesse
dimostrato di potersi liberare anche da una catena fatta con tanta maestria.
Fenrir la annusò. Gli parve piuttosto
resistente, ma era anche vero che la sua forza era assai cresciuta da quando
aveva spezzato Lǿðingr. Del resto,
rifletté, non si otteneva alcuna fama senza affrontare i pericoli. Si lasciò
incatenare. Poi si scosse, scalciò, si agitò e i frammenti della catena volarono
intorno. Così, fuggì da Drómi.
Da allora esiste il detto «liberarsi di
Lǿðingr» o «sfuggire da Drómi» per
dire che ci si libera da qualcosa di eccessivamente gravoso.
|
Fenrir spezza le catene (✍ 1875) |
Rona F. Hart. Illustrazione
(Young ~ Field 1914) |
|
4 - LA
MANO DI TÝR
|
L'incatenamento di Fenrir (✍ 1909) |
Dorothy Hardy. Illustrazione
(Guerber 1909) |
opo questi fatti, gli Æsir
temettero che non esistesse un modo per legare
Fenrir.
Óðinn mandò allora
Skírnir, il messaggero di
Freyr, giù nello
Svartálfaheimr, presso certi
abilissimi nani, perché forgiassero una nuova catena. Questi gli consegnarono un
laccio chiamato Gleipnir. Era sottile e
morbido come un nastro di seta, ma pressoché impossibile da spezzare. Era
fatto di sei cose: rumore di gatto, barba di donna, radice di roccia, tendini
d'orso, respiro di pesce e latte (o saliva) di uccello. Ed è infatti questa la
ragione per cui, da quel giorno, alla donne non crebbe più la barba, il balzo
del gatto non fece più alcun suono e non vi furono più radici sotto le rocce.
Quando Gleipnir fu portato agli
Æsir, essi ringraziarono
Skírnir per il suo servigio. Poi si
recarono al lago Ámsvartnir, sull'isolotto di Lyngvi, e, convocato
Fenrir, gli mostrarono il laccio e gli
proposero di provare a spezzarlo, avvertendolo che era assai più resistente di
quanto non apparisse dalle suo aspetto. Gli dèi se lo passarono l'un l'altro,
provandolo con la forza delle proprie mani, ed esso non si strappò. Si dissero
tuttavia sicuri che il lupo vi sarebbe riuscito senza sforzo.
— Non otterrò alcuna gloria facendo a pezzi un laccio così sottile —
considerò Fenrir. — Ma se è resistente
come dite, allora vuol dire che è fatto con malizia e inganni, e non legherà mai
le mie zampe.
— Spezzare questo nastro di seta sarà uno scherzo, per te che sei riuscito a
frantumare robuste catene di ferro! — risposero gli
Æsir. — Ma non temere. Se non
riuscirai a liberarti da una striscia così sottile, non ci farai più alcuna
paura, e quindi ti libereremo.
— Io credo che, se non riuscissi a liberarmi, passerebbe molto tempo
prima che veniate in mio soccorso — disse il lupo. — Sono contrario a essere
legato con questo nastro. Tuttavia non mi sono mai tirato indietro di fronte a
una sfida. Piuttosto, invece di sfidare il mio coraggio, ché qualcuno di voi
metta la sua mano nelle mie fauci a garanzia che tutto ciò sia fatto senza alcun
inganno.
Gli Æsir si guardarono l'un
l'altro, e nessuno voleva assecondare la richiesta di
Fenrir. Ma poi avanzò
Týr e stese coraggiosamente la mano destra
tra i denti del lupo. Fenrir venne legato
e cominciò a cimentarsi. Ma più forte si scrollava e scalciava, più forte
Gleipnir si stringeva attorno al suo
corpo, finché il lupo venne ridotto all'impotenza. Allora tutti gli dèi risero.
Tranne Týr, che perse la mano.
|
Incatenamento del lupo Fenrir
(✍ 1905) |
Emil Doepler der Jüngere (1855-1922) |
MUSEO: [Doepler.
Walhall II]► |
|
5 - UNA SPADA TRA LE ZANNE
Quando gli Æsir si avvidero che
Fenrir era completamente immobilizzato,
presero la corda che spuntava dal nastro, chiamata
Gelgja, e la legarono attorno a un
pesante macigno, detto Gjǫll, che stava
piantato nel suolo. Poi presero una grossa pietra, chiamata
Þviti, e la utilizzarono come
picchetto, conficcando il macigno nelle profondità della terra. Durante tutta
l'operazione, il lupo spalancava le fauci, tentando di azzannarli. Perciò gli
dèi gli infilarono in bocca una spada, con l'elsa contro la mascella inferiore e
la punta contro il palato, costringendolo a tenere le fauci spalancate. Quindi
se ne andarono e lo lasciarono lì.
Da allora, Fenrir ulula orribilmente e
dalla sua bocca esce un rivolo di bava mista a sangue, che scorre lontano e
forma il fiume Ván (o
Vn). Egli resterà
così fino al ragnarǫk.
|
L'incatenamento di Fenrir
(✍ 1984) |
Giovanni Caselli.
Illustrazione (Branston 1978) |
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Fonti
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I -
L'ESILIO DELLE POTENZE MALVAGE
|
Destino dei figli di Loki
(✍ 1875) |
Lorenz Frølich (1820-1908).
Illustrazione (Oehlenschläger
1875-1877) |
Il
racconto dell'incatenamento di Fenrir,
implicato in alcuni accenni della
Ljóða Edda ma narrato nei dettagli da
Snorri, è di importanza capitale nel ciclo escatologico scandinavo. Buona parte
del mito norreno è infatti costruito come una lunga, lenta preparazione al
ragnarǫk, e una porzione
considerevole delle vicende divine si svolge in vista della battaglia finale.
Loki e i suoi figli sono strumenti
caotici, che si oppongono per loro natura all'ordine imposto dagli dèi. Gli
Æsir sanno bene che da
Hel,
Jǫrmungandr e Fenrir non verranno che
morte e distruzione, e per questo esiliano la fanciulla nel
Niflheimr, scagliano il serpente
nell'oceano esterno [úthaf] e incatenano il lupo. Dei tre, soltanto la
livida Hel avrà un ruolo nel sistema
governato dagli Æsir, divenendo la
regina dei morti. Il serpente e il lupo sono esiliati ai confini dello spazio,
allontanati dalla scena del mondo. Il loro stesso padre,
Loki, dopo varie azioni malvagie, verrà
incatenato nel sottosuolo, in attesa della fine del mondo.
Ci si può chiedere, a questo punto, perché gli dèi non abbiano ucciso i figli
di Loki, viste le terribili profezie che si
accentrano su di loro. Snorri deve essersi posto la medesima domanda e vi mette
una toppa piuttosto maldestra:
Þá mælti Gangleri: “Furðu illa barnaeign
gat Loki, en ǫll þessi systkin eru mikil fyrir sér. En fyrir hví drápu æsir eigi
úlfinn er þeim er ills ván af honum?” |
Quindi parlò
Gangleri: “Loki ha generato dei figli assai malvagi, ma
sono tutti fratelli molto potenti. Perché gli
Æsir non hanno subito ucciso il lupo,
se da esso avevano previsto il male?” |
Hár svarar: “Svá mikils virðu goðin vé
sín ok griðastaði at eigi vildu þau saurga þá með blóði úlfsins, þótt svá segi
spárnar at hann muni verða at bana Óðni”. |
Rispose
Hár: “Tanto rispetto avevano gli dèi
per la loro casa e santuario, che mai avrebbero voluto sporcarla col sangue del
lupo, nonostante le profezie dicessero che sarebbe divenuto l'uccisore di
Óðinn”. |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [34] |
È ovvio che gli dèi hanno risparmiato Loki
e i suoi figli proprio perché essi sono necessari al compimento del dramma del
mondo. Le motivazioni trovano le loro ragioni d'essere nelle esigenze del mito,
ma manca una giustificazione interna alla narrazione. Quel che risulta,
nell'ermeneutica del racconto, è che Loki e
i suoi figli non possono essere annientati, ma soltanto respinti lontano,
imprigionati e resi inoffensivi, seppure con la consapevolezza che tale
isolamento è soltanto transitorio e che alla fine del tempo, nel
ragnarǫk, essi torneranno dal
loro esilio per infrangere la potenza degli dèi e far crollare l'ordine
universale. |
II - CHI BRUCIÒ ANGRBOÐA?
Della gigantessa
Angrboða tratta innanzitutto Snorri, il quale si limita a segnalarla cine
madre di Fenrir,
Jǫrmungandr ed
Hel:
Che dietro questo semplice racconto vi sia una maggiore complessità, è
suggerito da un paio di strofe dell'Hyndluljóð, uno degli Eddica minora, dove
leggiamo nientemeno:
Ól úlf Loki
vid Angurbodu,
en Sleipni gat
vid Svaðilfara;
eitt þótti skass
allra feiknast,
það var bródur frá
Býleistri komit. |
Il lupo generò Loki
con Angrboða
e Sleipnir partorì
con Svaðilfǿri.
Il peggior mostro
parve quello
che dal fratello
venne di Býleistr. |
Loki af hjarta
lindi brenndu,
fann hann hálfsviðinn
hugstein konu;
varð Loptr kviðugr
af konu illri;
þaðan er a foldu
flagð hvert komit. |
Loki divorò il
cuore
che giaceva nella cenere:
mezzo cotta della donna
era la pietra dell'anima.
Ingravidato fu Loptr
della donna malvagia;
da lui sulla terra
venne la stirpe dei mostri. |
Ljóða Edda >
Hyndluljóð [38-39] |
È abbastanza difficile capire cosa fosse accaduto. A quanto pare, il
«fabbro d'inganni» avrebbe trovato in mezzo alla
cenere il cuore mezzo arrostito di una donna, e l'avrebbe divorato. A
rigore, non
sappiamo neppure se le due strofe siano consequenziali e si
riferiscano alla medesima vicenda, anche se è probabile di sì, visto che abbiamo
Loki a fare da leit-motiv.
Ma anche se accettiamo il fatto che la proprietaria
del cuore divorato da Loki
nella strofa
[39] sia
la stessa Angrboða della strofa [38], i dettagli del mito continuano a sfuggirci. Cos'è
successo ad Angrboða? Il fatto che il
suo cuore sia stato trovato nella cenere fa supporre che il corpo della donna
sia stato arso. La maggior parte degli autori tende a pensare che ella fosse
stata messa al rogo, ma una tale lettura non è necessariamente insita nel testo che abbiamo
appena letto. Da quel che ne sappiamo, Angrboða
potrebbe essere bruciata nell'incendio della propria casa o arsa già cadavere
sul rogo funebre.
Come notava Viktor Rydberg, l'unico altro personaggio che sia stato messo sul
rogo è
Gullveig, a cui si riferiscono due strofe della
Vǫluspá,
dove leggiamo:
Þat man hon folkvíg
fyrst í haimi,
es Gullveigu
geirum studdu
ok í hǫll Háars
hána brendu,
þrysvar brendu
þrysvar borna,
opt ósjaldan,
þó hon enn lifir. |
Lei ricorda lo scontro
primo nel mondo,
quando Gullveig
urtarono con lance
e nelle sale di Hár
le dettero fuoco:
tre volte l'arsero,
tre volte rinacque,
e altre tre volte,
ma è ancora in vita! |
Heiði hétu,
hvars til húsa kom,
vǫlu velspáa,
vitti hon ganda;
seið, hvars kunni,
seið hug leikinn;
æ vas hon angan
illrar brúðar. |
«Splendente» [Heiðr] le misero nome:
dovunque venisse nelle case
indovina esperta in profezie,
dava potere alle magiche verghe;
incantò, dovunque poteva,
incantò i sensi,
sempre era la delizia
di spose malvagie. |
Ljóða Edda >
Vǫluspá [21-22] |
È abbastanza problematico interpretare un passo di cui sappiamo poco
(Hyndluljóð [38-39])
alla luce di un altro su cui sappiamo ancor meno
(Vǫluspá [21-22]). Ma è
difficile presumere, su questa base, che
Angrboða sia da identificare con
Gullveig, se non altro perché quest'ultima non sarebbe neppure morta, sul
rogo per lei approntato dagli dèi, e difficilmente
Loki avrebbe potuto divorarne il cuore.
Questo naturalmente non significa che i due miti non possano sottendere a un
medesimo motivo – un racconto dove gli dèi mettono al rogo una strega malvagia –
diversificatosi nelle due composizioni.
È curioso che Snorri, nell'Edda, non citi il racconto del rogo di
Angrboða, e ci possiamo chiedere se
egli conoscesse il passo citato del Hyndluljóð. Di questo poema, lo scrittore
islandese cita unicamente la strofa
[33] (in
Gylfaginning {7}), affermando di
averlo tratto però da un poema intitolato Vǫluspá inn
skamma, «Breve profezia della Veggente».
È possibile che Snorri conoscesse solo una parte del poema, o meglio,
conoscesse un poema minore – la Vǫluspá inn skamma, appunto – poi
confluito nel Hyndluljóð. Queste esiziali considerazioni,
tuttavia, non ci forniscono certezze. E, d'altra parte, Snorri non cita neppure
il racconto di Gullveig, nonostante
dimostri di conoscere abbastanza bene la
Vǫluspá:
forse si trattava di un passo da lui stesso giudicato problematico,
ragion per cui l'autore preferì ignorarlo. Non si esclude che abbia fatto la stessa cosa anche per
quanto riguarda il rogo di Angrboða.
Un'altra linea seguita dagli studiosi è la possibile equiparazione tra
Angrboða e
Aurboða, la gigantessa madre di
Gerðr. I due nomi sono in abbastanza
simili da suggerire che l'uno possa essere derivato dall'altro per cacografia.
Viktor Rydberg, seguito da Brian Branston, compie una serie di identificazione
tra i vari personaggi, associandone le caratteristiche nel tentativo di
suggerire un ipotetico mito originale, che – stando alle macchinose
ipotesi dell'autore – sarebbe pure alla base del mito
della guerra tra le stirpi divine. (Rydberg 1886 |
Branston 1955)
|
III - PARTORIRE
LUPI: CLICHÉ INFAMANTE NELLA
LETTERATURA NORRENA
Quando Snorri introduce i tre figli che
Loki ha avuto da
Angrboða, e cioè
Jǫrmungandr,
Fenrir ed
Hel, afferma che gli dèi fecero un vaticinio e scoprirono che da essi
sarebbero giunti per loro soltanto danni e sventure. E scrive:
Ok þótti ǫllum mikils ills af væni,
fyrst af móðerni ok enn verra af faðerni... |
A tutti sembrava in arrivo un grande male,
per primo dalla madre, ma ancora peggio dal padre... |
Snorri
Sturluson: Prose Edda >
Gylfaginning [34] |
Come abbiamo detto, non sappiamo se Snorri conoscesse il racconto della
«gravidanza» di Loki. Nel caso la risposta
sia positiva, dobbiamo allora inferire che Snorri fosse piuttosto ironico quando
parlava di una «madre» e di un «padre». Che Loki abbia una sessualità ambigua
già lo avevamo visto nel mito della nascita di
Sleipnir, dove si trasforma in giumenta
e viene montato dallo stallone
Svaðilfǿri ①,
e non è un caso che Hyndluljóð [38]
associ tra loro i due concepimenti «femminili» di
Loki.
Nel Lokasenna gli dèi ingiuriano
Loki ben due volte, al riguardo. Per primo
prorompe Óðinn:
Átta vetr
vartu fyr jǫrð neðan
kýr mólkandi ok kona,
ok hefr þú þar bǫrn borit,
ok hugða ek þat args aðal. |
Otto inverni
fosti, tu, sottoterra,
vacca da mungere e femmina
e là hai generato figli:
penso che da froci sia questo. |
Ljóða Edda >
Lokasenna [23] |
Nella seconda, è Njǫrðr a rincarare:
Hitt er undr, er áss argr
er hér inn of kominn,
ok hefir sá bǫrn of borit. |
Stupisce che un áss invertito
entri qui dentro,
un áss che ha anche partorito figli! |
Ljóða Edda >
Lokasenna [33] |
In entrambi i passi, il termine-chiave è argr, «effeminato, pederasta,
invertito, frocio»,
insulto sanguinosissimo presso tutti i popoli germanici, dove il difetto di
virilità veniva associato alla nozione di vigliaccheria. Delineare
Loki come un argr equivaleva a
segnalarlo come l'antitesi dei più elevati ideali che la società germanica
legava alla dignità maschile. Non è un caso che, in seguito a queste accuse,
Loki si vanti di essersi portato a letto
la maggior parte delle ásynjur e di aver messo le corna a quasi tutti gli
æsir, compreso Þórr, come se
cercasse di supplire ai suoi trascorsi «femminili» vantando la propria virilità.
D'altra parte, l'accusa di effeminatezza, paradossalmente spinta fino al
parto, è locus communis della poesia scandinava. Vi si associava spesso
il motivo denigratorio, particolarmente perfido, di aver partorito lupi. Per
fare un esempio, nella Kristni saga, il
vescovo tedesco Friðrekr e il suo aiutante Þórvaldr víðfǫrli sono vittime
di un helmingr infamante:
Hefr bǫrn boret
biskop nío,
þeira 's allra
Þorvaldr faðer. |
Si è sgravato il vescovo
di nove figli,
e di tutti e nove
il padre è Þórvaldr. |
Kristni saga |
E assai poco cristianamente, Þórvaldr si vendicherà uccidendo due uomini.
Un caso particolare di questo motivo è presente nella
Helgakviða Hundingsbana in fyrri. Qui Guðmundr accusa
Sinfjǫtli di aver vissuto
come lupo (accusa peraltro fondata, in quanto, secondo la
Vǫlsunga saga,
Sinfjǫtli si era trasformato effettivamente in un lupo, da giovane,
commettendo molti sanguinosi delitti). Questi non nega l'accusa, bensì asserisce
di essere lui il padre dei nove lupacchiotti dati alla luce da
Guðmundr. Prontamente
Guðmundr
ribatte che Sinfjǫtli non può
essere il padre della cucciolata, in quanto incapace di generare:
Sinfjǫtli kvað: |
Disse Sinfjǫtli: |
“Níu áttu vit
á nesi Ságu
ulfa alna,
ek var einn faðir þeira”. |
“In numero di nove
sul promontorio di Sága,
lupi generammo,
e io fui di tutti il padre”. |
Guðmundr kvað: |
Disse Guðmundr: |
“Faðir var-at-tu
fenrisulfa
ǫllum ellri,
svá at ek muna,
síz þik geldu
fyr Gnipalundi
þursa meyjar
á Þórsnesi”. |
“Padre non fosti,
il più vecchio di tutti
i lupi di Fenrir,
questo io ricordo:
tu fosti castrato
dinanzi a Gnípalundr
dalle fanciulle dei þursar,
presso Þórsnes”. |
Ljóða Edda >
Helgakviða Hundingsbana in fyrri [39-40] |
In questo scambio di insulti, all'accusa già infamante di
effeminatezza si unisce ancora una volta il motivo di partorire lupi. Nel caso
di Loki, è il mito stesso a indicarlo come
padre del lupo Fenrir, di averlo portato
in grembo e partorito. È difficile dire se il motivo del partorire lupi trovi il suo archetipo
in Loki, o se un tale curriculum
di infamie e perversioni gli sia stato attribuito per motivi
letterari. Certo, un cliché come il partorire lupi, che per i vichinghi era un insulto
imperdonabile, in Loki
assumeva un significato letterale.
|
IV - SACRIFICARE UNA MANO
PER VIOLARE UN PATTO
Al mito dell'incatenamento di
Fenrir, è legato quello del sacrificio
della mano di Týr, unico episodio che
abbia il dio come protagonista. Georges Dumézil mette in correlazione la perdita della mano di
Týr con quella dell'occhio di
Óðinn, sottolineando come tali «mutilazioni funzionali»
rimanderebbero alla sfera del sacro a cui l'uno e l'altro dio appartengono. Nel caso
di Óðinn, il sacrificio dell'occhio,
lasciato nella sorgente di Mímisbrunnr,
ne accentua e ne definisce il carattere di veggenza e sapienza. Ma nel caso di
Týr?
Nell'interpretazione di Dumézil, Týr
sarebbe una sorta di dio giurista, legato alle procedure di garanzia. L'essersi
prestato al patto fraudolento che gli dèi stringono con
Fenrir allo scopo di incatenarlo,
sarebbe, secondo lo studioso francese, la vicenda che qualifica la funzione
giuridica di Týr (Dumézil
1959). Nella visione
germanica, il diritto non sarebbe vòlto alla conciliazione tra gli uomini, ma allo stabilimento e alla difesa di un ordine cosmico, in nome del
quale è permesso prestarsi a un patto destinato a non essere rispettato.
Dumézil propone un interessante parallelo con la figura di
Gaius Mucius Scævola. Entrato nel campo etrusco per
pugnalare re Porsenna, l'eroe romano uccide la
persona sbagliata e, catturato, viene condotto davanti al sovrano. A questo punto,
Scævola brucia la propria mano destra sul braciere
del re per indurlo a credere, grazie al proprio coraggio, che altri trecento
giovani ripeteranno il tentativo con altrettanta decisione e risolutezza. L'atto
induce Porsenna a stipulare una pace onorevole per
Roma.
Secondo Dumézil, il risultato dell'azione di Scævola
è lo stesso di quella di Týr: rendere
inoffensivo un nemico, persuadendolo con una procedura di giuramento. Tale
azione è collegata a una medesima mutilazione:
Týr e Scævola perdono la mano destra come pegno
di un falso giuramento. Ma come Dumézil si preme di sottolineare, la portata
delle avventure, in un caso e nell'altro, è assai diseguale. A Roma, il
sacrificio di Scævola è un fatto di cronaca
illustre, privo di valore simbolico e senz'altro interesse che la propaganda
patriottica, mentre in Scandinavia la mutilazione di
Týr sarebbe espressione del teologema del cavillo procedurale (lo studio di Dumézil è diretto
all'interpretazione di Týr quale dio del
diritto: sulla validità di tale lettura, si veda il capitolo apposito).
(Dumézil 1959)
Nei miti di Týr e
Mucius Scævola è certamente confluita una medesima tradizione, di
probabile origine indoeuropea, dove un dio o eroe sacrifica la propria mano per
indurre il nemico a prestar fede a una falsa dichiarazione, allo scopo di
allontanare la minaccia dalla comunità e mantenere lo status quo. Nella
leggenda romana, l'invasione di Porsenna è collegata a un altro eroe,
Horatius Cocles, il quale trattenne gli etruschi
combattendo da solo sul Sublicius pons, lanciando loro occhiate spaventose con
il suo unico occhio. Dumézil non ha esitato a mettere in correlazione la
mutilazione di Cocles a quella di
Óðinn, evidenziando la presenza di una
coppia monco~orbo nelle due mitologie (Dumézil 1959). Quale che sia il valore che gli si voglia
attribuire, è indubbio che si tratti di un motivo molto antico, nonostante il
mito scandinavo non riporti alcun episodio in cui
Óðinn e
Týr appaiano affiancati nelle loro mutilazioni.
L'antichità del motivo ci viene confermata dal mito irlandese, dove è
Núada Airgetlám, re
delle Túatha Dé Danann,
a perdere un braccio nel corso di un combattimento contro
Sreng mac Sengainn,
l'eroe dei Fir Bolg, nel corso
della prima battaglia di Mag Tuired. In Irlanda il materiale sembra più
corrotto, in quanto la perdita del braccio di
Núada non sembra
essere legata ad alcun patto o giuramento. I testi irlandesi non
sono molto chiari, ma la mutilazione del re sembra avvenire nel corso di un
duello giurisdizionale e, nonostante l'apparente vittoria di
Sreng, sono
paradossalmente le
Túatha Dé Danann a dettare le condizioni di pace. Detto questo, bisogna
però notare che l'Irlanda ha però
conservato la coppia monco~orbo. Nel corso della seconda battaglia di Mag
Tuired, narrata nel
Cath Maige Tuired, vediamo
Lúg Samildánach guatare le schiere
nemiche con un solo occhio, tenendo l'altro chiuso, così come
Horatius Cocles dardeggia gli etruschi sul ponte
Sublicius pons e Óðinn terrorizza i nemici in
battaglia con lo sguardo dell'occhio superstite. Alternativamente, nel tardo
Aided Chloinne Tuirenn, a essere orbo è il portiere di
Núada; il testo
raccoglie i due personaggi in un'unica frase per far risaltare tutto il loro
contrasto: «Il re aveva una mano d'argento e il suo portiere un unico occhio». ①
|
Bibliografia
- BRANSTON Brian, Gods of the North.
Thames & Hudson, Londra 1955. → ID., Gli dèi del nord.
Mondadori, Milano 1991.
- CLEASBY Richard ~ VIGFÚSSON Guðbrandur, An
Icelandic-English Dictionary. Oxford, 1874.
- DOLFINI Giorgio [cura]: SNORRI Sturluson, Edda. Adelphi, Milano 1975.
- DUMÉZIL Georges,
Les dieux des Germains, Presses
Universitaires de France, Paris 1959 →
ID., Gli dèi dei Germani, Presses Adelphi, Milano 1974.
- ISNARDI Gianna Chiesa [cura]: SNORRI Sturluson,
Edda di Snorri, Rusconi, Milano 1975.
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BIBLIOGRAFIA ► |
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