I - ANALISI DELLE
FONTI
La complessa vicenda della distillazione e del furto
dell'idromele della poesia [skáldskapar mjǫðr] è affidata a due fonti.
La
prima è lo
Skáldskaparmál, secondo libro della
Prose Edda,
ed è appunto nel suo «dialogo sull'arte scaldica» che Snorri espone il mito,
introducendolo con una domanda da parte di
Ægir: “Di dove è giunta quella abilità
che voi chiamate arte scaldica?” [Hvaðan af
hefir hafizk sú íþrótt er þér kallið skáldskap?]
(Skáldskaparmál [5]).
Bragi racconta allora la vicenda
dell'uccisione di Kvasir da parte degli infidi
dvergar
Fjalarr e
Galarr, i quali creano il prezioso mjǫðr
mescolando il miele al suo sangue, e lo versano nel secchio chiamato Óðrørir
e nei vasi Són e Boðn. Il racconto prosegue con l'immotivata uccisione dello
jǫtunn Gillingr e di sua
moglie da parte dei due infidi dvergar; quindi con la vendetta del figlio
(o nipote) del gigante, Suttungr, che espone i due
nani su un scoglio, minacciando di annegarli con l'alta marea, e ottiene
l'idromele in risarcimento per l'omicidio del suo congiunto. Infine Suttungr
nasconde il mjǫðr in un luogo chiamato Hnitbjǫrg e ne
affida la custodia alla figlia
Gunnlǫð. Dai particolari di questa vicenda
deriva una serie di kenningar utilizzate dagli scaldi per indicare la
poesia:
Af þessu kǫllum vér skáldskap Kvasis blóð eða dverga drekku eða fylli eða
nakkvars konar lǫg Óðrøris eða Boðnar eða Sónar eða farskost dverga, fyrir því
at sá mjǫðr flutti þeim fjǫrlausn ór skerinu, eða Suttungamjǫð eða
Hnitbjargalǫgr. |
Da questo episodio noi chiamiamo l'arte
scaldica «sangue di Kvasir», «bevanda» o «pasto dei nani»,
oppure con qualunque nome di liquido: «di Óðrørir», «di Boðn», «di Són»; oppure
«barca dei nani», poiché quell'idromele li salvò, illesi, dallo scoglio, o anche
«idromele di Suttungr» o «acqua di
Hnitbjǫrg». |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál
[5] |
La seconda parte del mito, seppur conseguente, viene tenuta distinta dalla
prima e introdotta con un commento e con un'altra domanda da parte di
Ægir: “Assai oscuro mi pare questo modo di
chiamare l'arte poetica mediante tali metafore, ma come giunsero gli
Æsir all'idromele di
Suttungr?” [Myrkt þykki mér
þat mælt at kalla skáldskap með þessum heitum, en hvernig kómu þeir æsir at
Suttungamiði?] (Skáldskaparmál [6]).
Il racconto di
Bragi assume allora il punto di vista di Óðinn.
Il dio, viaggiando per il mondo, provoca la morte di nove þrælar intenti
a falciare il grano. Óðinn si reca quindi
dal loro padrone, lo
jǫtunn Baugi, e,
dissimulandosi sotto il falso nome di
Bǫlverkr, «[colui che] opera il
male», si offre di fare lui stesso il lavoro dei nove uomini. In cambio,
pretende un sorso del mjǫðr in possesso di
Suttungr, che è fratello di Baugi.
Baugi accetta ma, concluso il lavoro,
Suttungr si rifiuta di accondiscendere a un impegno
che non è stato preso da lui.
Bǫlverkr e
Bragi cercano allora di arrivare
all'idromele per altra via, e lo
jǫtunn, su invito di
Bǫlverkr/Óðinn,
fora la roccia con un apposito trapano, Rati.
Óðinn può così passare attraverso il
pertugio, trasformandosi in serpente. Arrivato nel luogo dove si trova
Gunnlǫð,
Bǫlverkr/Óðinn
seduce la ragazza. I due giacciono insieme per tre notti, dopodiché ella gli
offre tre sorsi del mjǫðr. Ma tre sorsi bastano a Óðinn
per svuotare il secchio e i due vasi. Quindi, assunte le sembianze di un'aquila,
il dio vola verso l'Ásgarðr.
Suttungr trasformato anch'esso in rapace, lo
insegue, in una scena che, di fatto, replica l'inseguimento di Þjazi
e
Loki, trasformati rispettivamente in aquila
e falco, in Skáldskaparmál
[4] ①. Óðinn
riesce a sputare dall'alto il mjǫðr, centrando alcuni vasi che gli
Æsir hanno opportunamente portato
fuori dagli edifici della città divina. Così Óðinn ottiene
lo skáldskapar mjǫðr, l'idromele della poesia, che elargirà agli
Æsir e a quegli uomini che ritiene degni di diventare scaldi. Una parte
di mjǫðr, caduta dal becco dell'aquila nel corso dell'inseguimento, è
però a disposizione di tutti, ed è la skáldfifl, la «porzione del
poetastro» (Skáldskaparmál [6]). Da questo mito, conclude
Bragi, deriva un'altra serie di
kenningar:
Því kǫllum vér skáldskapinn feng Óðins ok fund ok drykk hans ok gjǫf hans
ok drykk ásanna. |
Per questo noi chiamiamo la poesia
«conquista di
Óðinn», «scoperta di
Óðinn», «bevanda di
Óðinn», «dono di
Óðinn» o «bevanda degli
Æsir» |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál
[6] |
La seconda fonte a nostra disposizione, riguardante il mito dello skáldskapar mjǫðr,
consiste in una sezione dell'Hávamál
– sette strofe in tutto – che gli studiosi definiscono Gunnlaðarþáttr o «capitolo di
Gunnlǫð». Questa versione ignora il primo
episodio del racconto snorriano (la morte di
Kvasir, la distillazione del mjǫðr, il
guidrigildo di Suttungr, etc.), e anche una buona
porzione del secondo (l'arrivo di
Bǫlverkr/Óðinn,
l'uccisione dei þrælar, il patto con Baugi...),
concentrandosi esclusivamente sul
tema della seduzione di
Gunnlǫð. La scena fa infatti parte di una
sezione del poema in cui si narrano alcune avventure amatorie di Óðinn.
La vicenda è narrata in prima persona dal dio
ed è rappresentato nei tipici modi ellittici e allusivi della poesia eddica. Se
non disponessimo del circostanziato racconto di Snorri, l'acconto
dell'Hávamál
ci sarebbe rimasto del tutto incomprensibile.
D'altra parte, la versione fornita dall'Hávamál
non coincide del tutto con quella di Snorri, tanto che alcuni studiosi hanno
voluto leggervi un racconto completamente diverso (Rydberg
1886).
Ad esempio, nella strofa di esordio leggiamo che
Bǫlverkr/Óðinn
abbia parlato a proprio favore nelle stanze di Suttungr:
Inn
aldna jǫtun ek sótta,
nú em ek aftr of kominn:
fátt gat ek þegjandi þar;
mǫrgum orðum
mælta ek í minn frama
í Suttungs sǫlum. |
L'antico jǫtunn ho visitato,
proprio ora sono di ritorno.
Poco ottenni là col silenzio:
con molte parole
ho parlato a mio vantaggio
nelle sale di
Suttungr. |
Ljóða Edda
> Hávamál [104] |
In Snorri non risulta che Óðinn
e Suttungr abbiano mai parlato insieme: è
Baugi a perorare la causa di
Bǫlverkr, chiedendo il mjǫðr a Suttungr, peraltro senza ottenere nulla. Difficile capire di che cosa si stia
parlando. Riconosciamo però l'episodio della trapanazione
della roccia. Le «vie degli jǫtnar» [jǫtna vegir] sono appunto le rocce: si
allude qui alla scena in cui Óðinn
penetra nel foro trasformato in serpente:
Rata
munn
létumk rúms of fá
ok um grjót gnaga,
yfir ok undir
stóðumk jǫtna vegir,
svá hætta ek hǫfði til. |
Il morso del trapano
lasciai si facesse spazio
e perforò le rocce;
sopra e sotto
avevo le vie degli jǫtnar:
così rischiai la testa. |
Ljóða Edda
> Hávamál [106] |
La scena della seduzione di
Gunnlǫð è descritta nel poema con un misto di
partecipazione verso la fanciulla ingannata e un tocco di cinismo («a poco rinuncia chi è saggio»). I sentimenti passano però in secondo piano di
fronte alla Realpolitik: la seduzione di
Gunnlǫð è necessaria affinché lo skáldskapar mjǫðr
venga portato via ai giganti. Le due strofe che seguono non sono contigue,
ma sono disposte a cavallo di quella relativa al lavoro di trapanazione:
Gunnlǫð mér of gaf
gullnum stóli á
drykk ins dýra mjaðar;
ill iðgjǫld
lét ek hana eftir hafa
síns ins heila hugar,
síns ins svára sefa. |
Gunnlǫð mi diede
sul trono d'oro
da bere il prezioso idromele.
Un cattivo compenso
le diedi in cambio
per il suo cuore generoso,
per il suo spirito innamorato. |
Ljóða Edda
> Hávamál [105] |
Vel
keypts litar
hefi ek vel notit,
fás er fróðum vant,
því at Óðrerir
er nú upp kominn
á alda vés jarðar. |
Con l'inganno quel bel sembiante
mi son ben goduto:
a poco rinuncia chi è saggio.
Perché Óðrørir
è ora salito
al santuario delle stirpi della
terra. |
Ljóða Edda
> Hávamál [107] |
Il senso letterale del verso [107f],
á alda vés jarðar «al santuario delle stirpi della terra», si riferisce
forse al fatto che una parte dello skáldskapar mjǫðr era caduta
sulla terra, diffondendovi l'arte poetica. Il verso è un po' lambiccato e non è impossibile che vi
siano delle corruttele. Jónnson ha
proposto di emendare in á vé alda jaðars «al santuario del signore delle
stirpi», intendendo cche il mjǫðr sarebbe stato appunto trasportato in
Ásgarðr
(Jónsson 1926).
La strofa successiva moltiplica le difficoltà. La riportiamo qui per
completezza, ma vi torneremo successivamente:
Ifi er mér á
at ek væra enn kominn
jǫtna gǫrðum ór,
ef ek Gunnlaðar né nytak,
innar góðu konu,
þeirar er lǫgðumk arm yfir. |
In me è il dubbio
che sarei ritornato
dalle fortezze degli jǫtnar,
se
Gunnlǫð non mi avesse aiutato:
la brava donna
che cinsi con il braccio. |
Ljóða Edda
> Hávamál [108] |
Le due strofe finali dell'Hávamál aggiungono un interessante epilogo, del tutto ignorato in Snorri:
Ins
hindra dags
gengu hrímþursar
Háva ráðs at fregna
Háva hǫllu í.
At Bǫlverki þeir spurðu,
ef hann væri með bǫndum kominn
eða hefði hánum Suttungr of sóit. |
Il giorno dopo
vennero i hrímþursar
a chiedere consiglio ad
Hár
nella sala di
Hár.
Di
Bǫlverkr chiedevano,
se fosse tornato tra gli dèi
o se
Suttungr l'avesse ammazzato. |
Baugeið Óðinn
hygg ek, at unnið hafi;
hvat skal hans tryggðum trúa?
Suttung svikinn
hann lét sumbli frá
ok grætta Gunnlǫðu. |
Sul sacro anello,
Óðinn,
credo, abbia giurato;
ma chi potrebbe credergli?
Suttungr frodò,
lui, del suo idromele
e pianse
Gunnlǫð. |
Ljóða Edda
> Hávamál [109-110] |
È abbastanza curiosa questa scena dei hrímþursar che arrivano
nella sala di
Hár (Óðinn) [Háva hǫllu í], in Ásgarðr,
per chiedere spiegazioni riguardo a
Bǫlverkr. Chi sono costoro? Non
vengono insieme a
Suttungr; certamente ignorano se
quest'ultimo sia riuscito a prendere
Bǫlverkr. Viktor Rydberg, come
vedremo, ha letto tutta questa scena in maniera assai peculiare [infra].
Assistiamo anche a uno giuramento su un anello [baugeiðr] da parte di
Óðinn. Un giuramento che sembra in realtà
essere uno spergiuro, almeno a giudicare dalla domanda retorica: «ma chi potrebbe credergli?» [hvat skal hans tryggðum trúa?].
Il pianto amaro di
Gunnlǫð, unica creatura mossa dai propri sentimenti – e non per
calcolo, avidità e lussuria –, è la chiusa finale di questo esemplare esercizio
di cinismo e tradimenti.
|
II - KVASIR, IL FERMENTO
DELL'INTELLIGENZA
L'idromele è un liquore ottenuto con la fermentazione del miele, attestato fin
da tempi antichissimi in
Africa, Asia ed Europa. È possibile che sia stato la prima bevanda
fermentata in assoluto, addirittura antecedente allo sviluppo dell'agricoltura,
e che quindi abbia preceduto il vino e la birra (che richiedono la coltivazione
della vite o dei cereali). La sua invenzione, secondo Claude Lévi-Strauss, avrebbe segnato il passaggio «dalla natura alla cultura»
(Lévi-Strauss 1960). Presso gli antichi Germani, l'«idromele» era conosciuto come *međuz,
termine che ha prodotto l'anglosassone medu, l'antico alto tedesco
metu, il sassone medu, e il norreno mjǫðr. La radice viene
agevolmente fatto risalire a un indoeuropeo *MEDʰU
«miele, bevanda inebriante», i cui esiti sono ben presenti nella maggior parte
delle lingue indoeuropee. ①
Lo skáldskapar mjǫðr, o «idromele della poesia», è presentato
nella letteratura scandinava, soprattutto in quella mitologica e scaldica, come un
liquore che rende «poeta o sapiente» [skáld eða frǿðamaðr] chiunque lo
beva, dandogli la capacità di comporre versi e di rispondere a qualunque
domanda. Il mjǫðr appartiene a
Óðinn, che può condividerlo con
coloro che reputa degni di divenire sapienti. Così, almeno, gli scaldi
d'epoca vichinga davano una spiegazione mitico-simbolica alla natura
soprannaturale dell'ispirazione poetica.
Nella tradizione scandinava, lo skáldskapar mjǫðr è legato a un personaggio specifico,
Kvasir, la cui nascita è descritta da
Snorri in
modo alquanto singolare:
Þat váru upphǫf
til þess at guðin hǫfðu ósætt við þat fólk er Vanir heita, en þeir lǫgðu með sér
friðstefnu ok settu grið á þá lund at þeir gengu hvárirtveggju til eins kers ok
spýttu í hráka sínum. En at skilnaði þá tóku goðin ok vildu eigi láta týnask þat
griðamark ok skǫpuðu þar ór mann, sá heitir Kvasir. Hann er svá vitr at engi
spyrr hann þeira hluta er eigi kann hann órlausn. |
[L'arte scaldica] ebbe inizio quando gli
dèi erano in guerra con quel popolo chiamato Vanir,
ma poi giunsero a trattative di pace e stabilirono che, quale segno di
riconciliazione, entrambe le parti dovevano recarsi davanti a un vaso e sputarvi
dentro. Quando si separarono, gli dei lo presero e non volendo che tal segno di
riconciliazione andasse perduto, lo plasmarono in un uomo, che si chiama
Kvasir. Era così sapiente che nessuno
poteva fargli una domanda su di un argomento per cui egli non avesse una
risposta. |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál [5] |
Com'è stato da tempo dimostrato (Simrock 1864 | Mogk 1923), il nome stesso di
Kvasir lo qualifica come personificazione
di una bevanda inebriante che ricorda il kvasŭ (> kvas) dei popoli
slavi, un liquore a bassa gradazione alcolica prodotto anticamente dalla
fermentazione naturale di frutta e bacche, in seguito di cereali, pane di segale
o pane nero. Sappiamo anche che un liquore a base di vegetali spremuti poteva
essere portato a fermentazione tramite lo sputo, secondo una tecnica largamente
attestata nella fabbricazione dei liquori. Gli enzimi presenti nella saliva
producono la saccarificazione degli amidi presenti in tuberi, radici e
cereali, facilitando il processo di fermentazione alcolica da parte dei microorganismi presenti nell’ambiente.
In seguito, la tecnica dell'insalivazione è stata abbandonata con l'introduzione delle birre maltate.
Nel caso del mito di
Kvasir, siamo di fronte
alla creazione di una bevanda cerimoniale, di comunione, sanzionante l'intesa
tra
Æsir e Vanir, e portata a
fermentazione dagli sputi di tutti (Dumézil 1959).
Perciò
Kvasir, l'uomo creato dalla fermentazione
di questa bevanda, raccoglie la sapienza di tutti gli dèi,
Æsir e Vanir, riuniti dopo la guerra che li ha separati. Simbolo vivente di pace,
Kvasir è la personificazione di
questo completamento funzionale: «Era così sapiente che nessuno poteva fargli
una domanda su di un argomento per cui egli non avesse una risposta» [hann er svá vitr at engi
spyrr hann þeira hluta er eigi kann hann órlausn]
(Skáldskaparmál
[5]).
Può dunque sembrare curioso che un uomo nato da una bevanda diventi elemento principale della creazione di una seconda bevanda.
Normalmente l'idromele veniva fabbricato a partire da una soluzione di acqua e
miele: i dvergar Fjalarr e
Galarr utilizzano, al posto dell'acqua, il sangue di
Kvasir, a cui aggiungono il miele,
portando il tutto a fermentazione. Il mjǫðr così fabbricato conserva la
sapienza di
Kvasir, che viene infusa a chi lo beve.
L'ispirazione poetica, nel pensiero simbolico, è infatti tutt'uno con la
sapienza, intesa come conoscenza dei profondi misteri dell'essere.
È assai curiosa la divisione del mjǫðr, eseguita dai nani, nei vasi
Són e Boðn, e nel
secchio Óðrørir. Nel mito questa ripartizione non
viene giustificata in alcun modo, sebbene si può far notare che il nome del
secchio è composto dal sostantivo óðr, termine indicante l'ebbrezza,
l'eccitazione, il furore, il genio poetico (Dumézil 1959 | De Vries 1961).
La stessa radice è anche alla base del nome di
Óðinn, vero e proprio «signore
dell'ispirazione».
|
III - I PARALLELI INDIANI:
MADHU E SOMA, GIGANTI E AQUILE L'India, come ben
sanno studiosi e appassionati, è un immenso calderone dove si sono conservate le
più antiche mitologie indoeuropee, sebbene trasfigurate lungo i mille rivoli delle
sue millenarie tradizioni filosofiche e religiose. L'antico *MEDʰU
indoeuropeo è confluito in sanscrito nel termine madhu, che vuol dire sia
«miele» che «idromele»; come aggettivo, madhu vuol dire «dolce,
affascinante, delizioso, inebriante». È infine un sinonimo del soma, il
misterioso succo dalle proprietà tossiche che, in epoca vedica, veniva offerto
agli dèi nel corso dei sacrifici e anche consumato dagli officianti. Quest'ultimo
viene spesso personificato in una divinità vera e propria, il dio
Soma, che gli studiosi hanno talvolta associato a
Kvasir.
Un mito sembra identificare il soma con il tvaṣṭarmadhu, uno
speciale idromele fabbricato dal dio-artefice Tvaṣṭṛ.
Gli Aśvin, volendo conoscere il segreto di questo
liquore, essenziale per portare a termine i sacrifici, si recano da
Dadhyañc Ātharvaṇa e lo implorano di rivelare
quanto egli sa. Ma Dadhyañc ha paura di rivelare il
segreto, in quanto Indra ha minacciato di
decapitarlo. Gli Aśvin ricorrono allora a un
escamotage: sostituiscono la sua testa con quella di un cavallo, ed è con la
testa equina che Dadhyañc impartisce agli
Aśvin l'insegnamento sul madhu.
Indra, come promesso, lo decapita, ma gli
Aśvin recuperano la vera testa del loro maestro e
gliela rimettono sul collo. (Ṛgveda [I, 117, ],
Śatapathabrāhmaṇa [I, 1, -]). In seguito,
Indra, cercando un mezzo in grado di contrastare
gli asura, va a cercare la testa equina di
Dadhyañc e la trova nel lago Śaryaṇāvat; a tratti, quella testa sorgeva
infatti dal lago per esaudire i desideri degli esseri viventi.
Ma Mada, «ebbrezza», è anche il nome di un
asura, che un asceta crea come arma per risolvere il conflitto che oppone i
deva ai due Aśvin o
Nāsatya. Il gigantesco Mada minaccia di
ingoiare il mondo: i deva vengono a patti. Viene composta la pace con gli
Aśvin. A questo punto, però, bisogna eliminare
Mada, e ci pensa lo stesso asceta. D'accordo con
gli dèi lo fa in quattro pezzi, che vengono distribuite nelle quattro cose
inebrianti: liquori, donne, gioco d'azzardo e caccia. (Mahābhārata
[III, 123-125]). Georges Dumézil ha rilevato il gioco di differenze e
affinità tra Kvasir e Mada:
il primo, incarnazione una bevanda inebriante, il secondo, personificazione
dell'ebbrezza, hanno tuttavia natura diametralmente opposta.
Kvasir è fin dall'inizio, saggio e benefico, mentre
Mada si presenta malefico e distruttivo. Una
differenza che dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, la differenza ideologica
tra pensiero scandinavo e pensiero indiano, dove le passioni sono giudicate in
maniera assai differente. Kvasir e
Mada, inoltre, peccano in qualche modo per eccesso:
Mada deve essere eliminato perché la sua forza non
è contenibile; in quanto a Kvasir, sono gli stessi
dvergar che lo uccidono ad asserire che la sua morte sia dovuta a un
eccesso di intelligenza. Entrambi, infine, divengono ingredienti di cose
inebrianti di cui gli uomini beneficano o patiscono.
Kvasir produce un mjǫðr di poesia e di sapienza, che viene
spartito, solo quantitativamente, in due vasi e un secchio;
Mada viene spartito, qualitativamente, nelle
quattro cose che, in senso letterale o figurato, inebriano gli uomini.
(Dumézil 1959)
Mada e Soma,
avverte Dumézil, sono due personaggi completamente diversi, e non vanno confusi
tra loro. Se i miti di Kvasir e
Mada sono omologhi, Soma
appartiene a un altro ordine di idee. Ma fino a che punto? Gli inni 26 e 27 del
quarto libro del Ṛgveda mostrano il soma
trasportato in cielo da un'aquila, in una scena che ricorda in maniera
irresistibile il volo di
Óðinn con il mjǫðr nel becco.
|
[L'aquila:] Stavo ancora nel ventre di mia madre e io di questi dèi già
conoscevo tutte le generazioni. Cento muraglie di bronzo mi proteggevano. Allora
io, l'aquila, sono volato via in fretta.
[Il soma:] Quello non mi ha portato via volentieri. Lo superavo in forza,
n vigore. Purandhi lasciò stare le gelosie e, gonfiata, attraversò i venti.
Allorquando l'aquila frusciò giù dal cielo come il vento, o allorché hanno
portato via di là Purandhi, quando tirò a lui, rilasciò la corda dell'arco
l'arciere Kṛśānu muovendosi veloce con il pensiero.
Veloce come i due compagni di Indra [gli Aśvin] che
portarono Bhujyu, l'aquila l'ha portato dall'alto colmo della montagna. Allora
cadde dentro [la muraglia] una penna dell'ala di questo uccello staccandosi nel
suo slancio.
Allora la coppa bianca, unta [del latte] delle vacche, la pianta chiara [del
soma] che si rinforza, le primizie della mielosa bevanda preparata dagli
adhvaryu, il munifico Indra porti alla bocca,
per inebriarsi, per bere. |
Ṛgveda [IV, 27] |
|
IV -
FORTEZZE O MONTAGNE? O ENTRAMBE LE COSE? L'episodio della seduzione di
Gunnlǫð presenta molti dettagli problematici, dovuti soprattutto alla
laconicità della fonti. Un primo problema è legato alla natura del luogo in cui
Gunnlǫð custodisce l'idromele. In
genere gli interpreti ritengono che la ragazza sia stata rinchiusa in una caverna,
dettaglio che si
evince dal contesto fornito dallo
Skáldskaparmál, sebbene Snorri non sia
esplicito al riguardo:
Suttungr mjǫðinn
heim ok hirðir þar sem heita Hnitbjǫrg, setr þar til gæzlu dóttur sína Gunnlǫðu. |
Suttungr portò l'idromele a casa, lo
nascose in quel luogo chiamato Hnitbjǫrg e vi pose a guardia sua figlia
Gunnlǫð. |
Snorri Sturluson: Prose Edda
> Skáldskaparmál
[5] |
Poiché Hnitbjǫrg vuol dire «montagna saldata», sembra di capire che
Suttungr abbia messo figlia e idromele in una
caverna aperta sul fianco di un'altura, e che poi ne abbia accuratamente
cancellato il varco, richiudendo la roccia. Che un padre sia tanto crudele da costringere la propria
figlia all'interno di una rupe può trovare una giustificazione solo in una
logica fiabesca. Snorri non entra in dettagli. Sta ignorando un problema
insolubile, oppure sta trattando una materia scontata? Che
Gunnlǫð si trovi
all'interno della montagna è confermato dal fatto che Baugi
si apre la strada attraverso la roccia con un trapano e
Bǫlverkr/Óðinn
riesce a introdursi nel foro solo trasformandosi in serpente. Questo scenario non
spiega però come faccia Óðinn
a fuggire in volo, in forma d'aquila, a meno che la roccia non sia
aperta in alto. C'è dunque qualche dettaglio che non conosciamo o di cui non abbiamo
tenuto conto?
L'Hávamál
descrive la fuga di Óðinn
nella strofa [108] in tre semiversi, del tutto
soggettivi:
Ifi
er mér á
at ek væra enn kominn
jǫtna gǫrðum ór... |
In me
è il dubbio
che sarei ritornato
dalle fortezze degli jǫtnar... |
Ljóða Edda
> Hávamál [108
a-c] |
Questo passo
non parla né di una montagna, né tantomeno di una caverna. Óðinn
dice di essere
fuggito dalle «fortezze degli jǫtnar» [jǫtna gǫrðum] e non c'è
dubbio che garðr si riferisca a un luogo recintato, perfettamente accessibile dall'alto. È
tuttavia probabile che l'Hávamál
parli qui di «fortezze» in senso metaforico, o addirittura che sottintenda
l'intero
Jǫtunheimr ed Óðinn
esprima piuttosto il dubbio di riuscire a fuggire dalla terra degli jǫtnar.
In ogni caso l'Hávamál
non ignora il tema del trapano, riferito alla strofa
[106].
Una possibile soluzione a questa ambiguità si ottiene eliminando la distinzione tra «fortezza» [garðr] e «montagna» [bjǫrg],
e notando che i giganti sono, come i dvergar, creature litiche, in grado
di
dimorare all'interno delle rocce. I miti e il folklore mostrano spesso dvergar e jǫtnar affacciarsi
fuori da «porte» aperte sulle pareti rocciose, altrimenti impenetrabili. Si può
citare, al riguardo, il mito del re svedese Sveigðir,
narrato da Snorri nella sua Ynglinga saga. Una sera, dopo il tramonto, mentre
tornava a casa dopo una solenne bevuta, Sveigðir vide un dvergr seduto su una grossa
roccia. Questi invitò il re a seguirlo all'interno del macigno, dove avrebbe
potuto incontrare il suo antenato Óðinn. Il re saltò in
un'apertura spalancatasi nella pietra, ma questa si richiuse alle sue spalle e
il sovrano scomparve per sempre (Ynglinga saga [12]).
Una versione di questo racconto è attestata nel cosiddetto «catalogo
degli Ynglingar» di Þjóðólfr ór Hvíni, dove leggiamo:
En dagskjarr
Dúrnis niðja
salvǫrðuðr
Sveigði vélti,
þás i stein
enn stórgeði
Dusla konr
ept dvergi hljóp,
ok salr bjartr
þeira Sǫkmímis
jǫtunbyggðr
við jǫfri gein. |
Guardingo del giorno,
il guardiano della sala
dei figli di Dúrnir,
illuse Sveigðir,
quando il magnanimo
nipote di Dusli
balzò nel macigno
seguendo il dvergr,
e la fulgida sala
di quelli di Søkkmímir,
gremita di jǫtnar,
ingoiò il principe. |
Þjóðólfr
ór Hvíni: Ynglingatal [2] |
È interessante notare che, secondo Þjóðólfr,
all'interno del macigno si trovi una «fulgida sala» [salr bjartr]
«gremita di giganti» [jǫtunbyggðr]. E Søkkmímir
è appunto nome di uno jǫtunn.
Questo passo di Þjóðólfr, se applicato al mito
del mjǫðr, ne chiarisce molti punti oscuri.
Gunnlǫð non è più prigioniera
all'interno di una caverna. Al contrario, la «montagna saldata» di Hnitbjǫrg è
il
luogo dove essa ha dimora. In teoria, Gunnlǫð
o altri giganti non avrebbero alcun problema ad entrare o uscire dalle loro
dimore celate dentro le rupi e le montagne, anche se da fuori non si scorgono
aperture. Le rocce [bjǫrg] sono
appunto le fortezze [garðar] degli jǫtnar, e all'interno delle rocce si trovano le
loro corti e le loro sale. È
Óðinn, piuttosto, a porsi il problema
dell'accesso a questo mondo litico, e lo risolve praticando un
foro sulla parete di pietra. In quanto all'uscirne in volo... è un tassello che
continua a mancare.
|
V - SCENE DA UN MATRIMONIO
Un confronto tra l'Hávamál
e la Prose Edda
crea diversi ordini di difficoltà, in quanto spiegano il mito dello skáldskapar mjǫðr
in modi piuttosto diversi, e non è chiaro se riferiscano dettagli complementari o se stiano raccontando due versioni contraddittorie. Gli esegeti
tendono a leggere i versi ellittici del cosiddetto Gunnlaðarþáttr
alla luce di quanto narrato da Snorri, ma rimane il sospetto che quest'ultimo abbia cercato di
razionalizzare una materia lacunosa, e possiamo chiederci fino a che punto
l'erudito islandese sia riuscito a districare gli enigmatici passi tramandati dai poemi eddici. Un lavoro rigoroso sul mito dello skáldskapar mjǫðr
dovrebbe innanzitutto analizzare la versione dell'Hávamál,
prescindendo dal racconto di Snorri. Ed è esattamente quanto hanno cercato di fare
i primi filologi, a partire da Jacob Grimm e Viktor Rydberg, già nell'Ottocento.
Riassumiamo la successione delle scene nelle sette strofe del Gunnlaðarþáttr
(Hávamál [104-107]).
[104] Óðinn afferma di aver visitato
Suttungr e di aver parlato molto, e a suo
vantaggio, nella sala dello jǫtunn; [105]
Gunnlǫð fa
sedere Óðinn sul seggio
d'oro e gli porge il mjǫðr; lei è innamorata, ma lui la tradirà; [106]
Óðinn fora la roccia
con il trapano, rischiando la testa; [107]
Óðinn
giace con Gunnlǫð e porta via il
mjǫðr ai giganti; [108]
Óðinn
afferma di essere fuggito
dalle fortezze degli jǫtnar grazie a Gunnlǫð;
[109] il giorno seguente, i hrímþursar
arrivano nella sala di
Hár e chiedono di
Bǫlverkr; [110] sebbene abbia giurato sul sacro anello,
Óðinn ha rubato il mjǫðr
a Suttungr e fatto piangere
Gunnlǫð.
|
Gunnlǫð
(✍ 1680) |
Dall'Edda
Oblongata, ms. SÁM 738 4°
Stofnum Árna Magnússonar, Reykjavík (Islanda) |
Viktor Rydberg, nel suo tentativo di ricostruire il mito a cui accenna il Gunnlaðarþáttr,
suppone che l'argomento sia un festino, organizzato da
Suttungr nella propria dimora, per celebrare il
matrimonio della figlia
Gunnlǫð. Invitati al banchetto sono i
hrímþursar della strofa [110], i quali sono
appunto
i membri della sua kind o «stirpe» (sarebbero forse i Syttungs
synir a cui accenna Alvíssmál [34], se
l'espressione si riferisce una genìa di hrímþursar e non sia invece una metafora per
indicare i giganti in generale). È stato preparato un alto seggio d'oro in
onore dello
sposo, che è da identificare con il
Bǫlverkr citato alla strofa
[109].
Ma colui che arriva è Óðinn, il quale
ha cambiato aspetto, assumendo quello dell'ospite atteso dai hrímþursar.
Egli parla a lungo nella dimora di Suttungr
[104], con affascinante eloquenza, ma facendo
attenzione a non tradirsi.
I giganti non hanno dubbi che egli sia proprio
il
Bǫlverkr che stavano aspettando.
Óðinn viene fatto sedere sul seggio
d'onore, ed è a lui che Gunnlǫð porge
il mjǫðr nel corno, celebrando così le loro nozze
[105]. Il «giuramento sull'anello» [baudgeiðr] prestato da
Óðinn/Bǫlverkr,
a cui accenna la strofa [110], sarebbe appunto
l'impegno di fedeltà matrimoniale; impegno a cui in realtà il dio non crede
affatto.
Alla trasformazione di Óðinn accenna
forse il primo helmingr della strofa [107]:
Vel
keypts litar
hefi ek vel notit,
fás er fróðum vant, |
Con l'inganno quel bel sembiante
mi son ben goduto:
a poco rinuncia chi è saggio. |
Ljóða Edda
> Hávamál [107a-c] |
L'espressione keypts litar, nota Rydberg, può anche significare «mutando
sembiante» (il verbo kaupa significa non soltanto «commerciare, comprare»,
ma anche «cambiare, scambiare»; cfr. kaupa klǿdum vid einn «scambiarsi
gli abiti con qualcuno»). I versi in questione possono dunque venire
tradotti come: «mutando sembiante, ho preso piacere...». Se la ricostruzione di Rydberg è corretta,
Óðinn si sarebbe sostituito allo sposo di
Gunnlǫð per giacere con lei in una rocciosa
camera nuziale, nella dimora di Suttungr
[107].
Il foro, praticato nella parete della roccia alla strofa
[106], dopo l'offerta del corno [105]
e prima della notte d'amore [107], è
interpretato da Rydberg non come tentativo di penetrare nella
dimora di Gunnlǫð, bensì come una via
di fuga previdentemente preparata da Óðinn
per fuggire con l'idromele il giorno successivo. La fuga è descritta nella
strofa [108]:
Ifi
er mér á
at ek væra enn kominn
jǫtna gǫrðum ór,
ef ek Gunnlaðar né nytak,
innar góðu konu,
þeirar er lǫgðumk arm yfir. |
In me
è il dubbio
che sarei ritornato
dalle fortezze degli jǫtnar,
se
Gunnlǫð non mi avesse aiutato:
la brava donna
che cinsi con il braccio. |
Ljóða Edda
> Hávamál [108] |
Il verbo nýta significa
innanzitutto «usare, usufruire, far uso di» (anche nel senso di «mangiare,
godersi»); secondariamente può anche significare «essere utile, avvantaggiare, aiutare». Il
semiverso [108d], ef ek Gunnlaðar né nytak, può essere dunque tradotto sia come «se
non avessi sfruttato
Gunnlǫð» («se non avessi usato
Gunnlǫð»); sia «se
non avessi avuto l'aiuto di
Gunnlǫð». Difficile intendere l'esatta
sfumatura del testo originale, e i traduttori l'hanno inteso nell'uno e
nell'altro modo. Di un aiuto da parte di
Gunnlǫð, però, non c'è traccia in Snorri,
e l'Hávamál ne registra
piuttosto il pianto al verso
[110]. E non c'è dubbio che il punto di vista di
Óðinn si muova su un registro piuttosto
cinico. Egli ha certamente usato
Gunnlǫð per i suoi fini: ma qual è il
punto di vista della ragazza? La strofa [105] la
mostra affascinata e innamorata, e può darsi che
Óðinn abbia sfruttato una volta di più i
suoi sentimenti per aprirsi una via di fuga, in un momento di pericolo, e che,
solo in seguito,
Gunnlǫð si sia accorta di essere
stata ingannata.
Il pericolo, secondo Rydberg, si sarebbe concretizzato il giorno dopo, quando i hrímþursar
bussano alla porta della camera nuziale per accertarsi delle avvenute nozze,
secondo gli usi matrimoniali del tempo. Inn hindra dags «il giorno dopo»
è appunto termine legale per indicare il giorno dopo le nozze, quando lo
sposo faceva alla sposa il «dono del mattino». Ma qualcosa è accaduto, nel corso
della notte, e lo apprendiamo dalla strofa [109]:
Ins
hindra dags
gengu hrímþursar
Háva ráðs at fregna
Háva hǫllu í.
At Bǫlverki þeir spurðu,
ef hann væri með bǫndum kominn
eða hefði hánum Suttungr of sóit. |
Il giorno dopo
vennero i hrímþursar
a chiedere consiglio ad
Hár
nella sala di
Hár.
Di
Bǫlverkr chiedevano,
se fosse tornato tra gli dèi
o se
Suttungr l'avesse ammazzato. |
Ljóða Edda
> Hávamál [109] |
Per recarsi fin nell'Ásgarðr a chiedere consiglio ad
Hár (Óðinn),
i hrímþursar devono essere davvero perplessi e sconvolti. Il problema non
è soltanto che fine abbia fatto
Bǫlverkr. Piuttosto, che ne è stato di Suttungr?
È evidente che di quest'ultimo non si hanno notizie, visto che i hrímþursar
non sanno se abbia ucciso
Bǫlverkr. L'unica cosa certa, apprendiamo dalla successiva strofa
[110], è che Óðinn
abbia rubato a Suttungr il suo idromele ed a
Gunnlǫð la sua felicità.
(Rydberg 1886)
Come valutare la ricostruzione di Rydberg? È indubbiamente molto ingegnosa,
ma, su
base strettamente logica, non esistono ragioni per asserirne la fondatezza. Appare
anche piuttosto allarmante la presunzione che Snorri abbia travisato la propria materia fino al punto di presentare una storia
tanto diversa da quella «originale». Ora, indubbiamente il Gunnlaðarþáttr
presenta degli evidenti motivi che rimandano a una sfera «matrimoniale», sebbene essi non implichino necessariamente una
celebrazione formale, ma forse riguardano soltanto le promesse avanzate in
privato da Óðinn
a
Gunnlǫð, al fine di sedurla. Rydberg,
nel tentativo di rendere coerenti i passi hávamálici, costruisce a tavolino una
vicenda che collega questi ultimi in un contesto unitario, ma indubbiamente forzando un po' troppo la materia.
|
VI - L'AIRONE DELL'OBLIO Se Viktor Rydberg ha ragione, e la sua
ricostruzione è corretta, cosa aveva messo sull'avviso
Suttungr o i hrímþursar? Che cosa ha tradito
Bǫlverkr/Óðinn, svelandone la sua
vera identità?
Secondo il filologo svedese, si sarebbe trattato di alcune parole che
Óðinn si sarebbe lasciato incautamente sfuggire, dopo essersi ubriacato nel
corso del banchetto, destando i sospetti dei giganti. Rydberg punta la propria attenzione su un paio di strofe,
presumibilmente appartenenti
al Gunnlaðarþáttr, che il compilatore dell'Hávamál
ha però dislocato nella parte iniziale del poema, il Gestaþáttr o
«capitolo dell'ospite», in una sezione dove si elencano i danni del bere smodato
e dell'ubriachezza:
Óminnis hegri
heitir
sá er yfir ǫlðrom
þrumir,
hann stelr geði
guma;
þess fugls fjǫðrom
ek fjǫtraðr vark
í garði Gunnlaðar. |
«Airone dell'oblio» è chiamato
colui che indugia in birreria;
rapisce la ragione all'uomo.
Dalle penne di quell'uccello
io stesso venni incatenato
nella fortezza di
Gunnlǫð. |
Ǫlr ek varð,
varð ofrǫlvi,
at ins fróða
Fjalars;
því er ǫlðr bazt,
at aptr uf heimtir
hverr sit geð gumi. |
Ebbro io divenni
ebbro senza misura,
accanto al saggio
Fjalarr.
Ché la birra è ottima,
a patto che mantenga
il suo intelletto, l'uomo. |
Ljóða Edda
> Hávamál [13-14] |
|
L'airone dell'oblio
(✍ 1920) |
Franz Stassen (1869-1949), illustrazione
(Von Wolzogen 1920). |
L'analisi è piuttosto delicata. In realtà, non sappiamo se le due strofe appartengano
davvero al Gunnlaðarþáttr,
e neppure se provengano da una stessa composizione. L'unico collegamento con
il mito dello skáldskapar mjǫðr è dovuto alla presenza dei nomi di
Gunnlǫð e Fjalarr.
Ma anche questo non ci aiuta molto. Non dimentichiamo che, nella versione di Snorri, Óðinn
non si ubriaca mai con Gunnlǫð; né
incontra mai Fjalarr.
Secondo la ricostruzione di Rydberg, le due strofe si riferirebbero al festino dei
giganti. Egli identifica
Fjalarr con
Suttungr, e ipotizza che sia proprio qui che,
ubriaco, Óðinn si sarebbe lasciato sfuggire qualche parola di troppo, mettendo
sull'avviso il sospettoso jǫtunn.
Se la ricostruzione di Rydberg risulta alquanto prosaica, altri studiosi,
senza dubbio affascinati dalla splendida immagine dell'«airone dell'oblio» [óminnis hegri],
hanno voluto leggere la strofa [13] in senso
esoterico. Antonio Costanzo vi ha voluto vedere allusioni al simbolismo del volo magico, del viaggio
estatico, dello sciamanesimo. Egli parla di riti iniziatici, di alterazioni della
coscienza, dell'ebbrezza come simbologia dell'esser fuori di sé.
(Costanzo 2008).
Noi non amiamo le interpretazioni esoteriche. Le nostre analisi
si sforzano di essere descrittive e filologiche; sicuramente
meno propense ai voli pindarici. E innanzitutto notiamo che in queste strofe si
parla di ǫl «birra» e non di mjǫðr «idromele», e che, nei
vari addentellati di questo mito,
l'effetto del mjǫðr è opposto a quello
dell'ǫl. L'eccesso di birra conduce all'ubriachezza, alla perdita
di controllo, all'oblio dei sensi e dell'intelligenza; al contrario, il mjǫðr è
simbolo di sapienza e offre una conoscenza profonda dei
misteri dell'essere. Volendo cercare un significato simbolico a questo mito
dell'ubriachezza (pur senza
dimenticare che ǫl e mjǫðr appartengono a strofe forse neppure correlate tra loro), si
potrebbe notare, piuttosto, un contrasto tra l'ebbrezza che abbatte e incatena l'uomo,
provocata dalla birra (ǫl) e dalla donna (Gunnlǫð),
di cui è kenning la bella immagine dell'airone dell'oblio; e la libertà
dell'intelligenza, offerta invece dallo skáldskapar mjǫðr e simboleggiata, con
stupenda immagine poetica, dal maestoso volo dell'aquila.
|
VII -
IPOTESI DU SUTTUNGR Che fine ha fatto,
Suttungr? Come mai i hrímþursar
non sanno se abbia ucciso o meno
Bǫlverkr? Cosa è accaduto, durante la notte? Non vi sono ovviamente
risposte a queste domande, ma Rydberg prosegue la sua analisi, puntando
l'attenzione su due brani che gli sembrano collegati alla nostra vicenda. Uno è
il passo dell'Ynglingatal, che abbiamo già
citato in precedenza:
En dagskjarr
Dúrnis niðja
salvǫrðuðr
Sveigði vélti,
þás i stein
enn stórgeði
Dusla konr
ept dvergi hljóp,
ok salr bjartr
þeira Sǫkmímis
jǫtunbyggðr
við jǫfri gein. |
Guardingo del giorno,
il guardiano della sala
dei figli di Dúrnir,
illuse Sveigðir,
quando il magnanimo
nipote di Dusli
balzò nel macigno
seguendo il dvergr,
e la fulgida sala
di quelli di Søkkmímir,
gremita di jǫtnar,
ingoiò il principe. |
Þjóðólfr
ór Hvíni: Ynglingatal [2] |
L'altro è una strofa del
Grímnismál dove Óðinn
declama la sua lunga lista di epiteti:
Rydberg ritiene che queste due strofe vadano confrontate tra loro, e che il
nome Sveigðir sia una variante di
Sviðurr/Sviðrir.
Poco importa che, nel contesto dei brani, Sveigðir
sia un sovrano svedese e
Sviðurr/Sviðrir
un doppio heiti di Óðinn: secondo
l'insigne filologo i due brani dipendono da un medesimo mito dove Óðinn
si reca presso uno jǫtunn di nome
Søkkmímir, il quale teneva un festino
in una sala all'interno di una roccia. Costui, secondo il
Grímnismál, è figlio di un certo
Miðviðnir, nome facilmente
interpretabile come Mjǫðvitnir, «lupo dell'idromele».
Se questo mito fosse a sua volta confrontabile con quello riportato nell'Hávamál,
o almeno, con l'artificiosa ricostruzione che ne dà lo stesso Rydberg, ecco che
Suttungr potrebbe venire identificato o con
Søkkmímir, o con suo padre
Miðviðnir. Rydberg nota che la
formula inn
aldna jǫtunn, «l'antico gigante», viene utilizzata tanto nei riguardi di
Suttungr in
Hávamál [104] quanto di
Søkkmímir in
Grímnismál [50];
e il contesto è il medesimo, in quanto Óðinn
accede alla dimora di entrambi gli jǫtnar al fine di ingannarli.
Ma in
tal caso, come stabilire le corrette equazioni tra i vari personaggi? Rydberg ritiene che
Suttungr vada identificato con
Miðviðnir, il «lupo dell'idromele»;
questo nomen troverebbe infatti una giustificazione nel mito in cui
Suttungr si impadronisce del mjǫðr. In
quanto a Søkkmímir, Rydberg lo
identifica con Surtr. Secondo il nostro
studioso, infatti, il nomen Suttungr sarebbe
un patronimico, derivando da un più antico *Surtungr, «giovane
Surtr»; senza contare che il nome di Søkkmímir,
cioè «mímir [gigante] delle profondità», sembra a Rydberg piuttosto
adatto a definire la figura e le caratteristiche di
Surtr. Dunque, se
Hávamál [104-110] e
Grímnismál [50]
(≈ Ynglingatal [2]?) si riferiscono a un
medesimo mito, e se i due testi possono venire integrati tra loro, Rydberg
ricostruisce il finale del mito in questo modo: Óðinn,
una volta avuto accesso alla dimora di Surtr/Søkkmímir,
ruba il mjǫðr in possesso di Suttungr/Miðviðnir,
e uccide il figlio di quest'ultimo. (Rydberg 1886)
La ricostruzione di Rydberg, assai più complessa e dettagliata di
quanto non riportata nel nostro scarno riassunto, risulta però piuttosto
fragile. Il difetto principale è che, a venire confrontati, non sono dei testi,
presi nella loro nudità filologica, ma le ricostruzioni che
l'autore ne fa. Molte relazioni vengono quindi
razionalizzate alla luce delle aspettative dello studioso. Analogamente, i
personaggi vengono identificati sia a priori, con dati etimologici o
pseudo-tali, giustificando quindi le relazioni ipotizzate tra le varie versioni
dei miti; sia a posteriori,
dando per scontato le relazioni tra i miti e quindi identificando tra loro i
protagonisti. Si produce dunque un
ragionamento circolare che, sebbene sorretto da molte analisi interessantissime,
rimane comunque basato su ricostruzioni affatto artificiali. Ad esempio, Rydberg
vede ben tre generazioni di jǫtnar in
Grímnismál [50]
(Søkkmímir →
Miðviðnir → il figlio di
Miðviðnir), mentre il testo eddico è
assai più facilmente leggibile ipotizzando un solo gigante: Søkkmímir
figlio di Miðviðnir. Solo che a Rydberg preme
giustificare le equazioni Søkkmímir =
Surtr e
Miðviðnir =
Suttungr, e perciò deve introdurre un figlio di quest'ultimo, ucciso da Óðinn,
per giustificare la sua interpretazione.
Ma stando ai dati a nostra
disposizione, tra
Hávamál [104-110] e
Grímnismál [50]
non vi è alcuna relazione forte ed esplicita. Il lavoro di Rydberg, per quanto
degno di un'attenta considerazione, rimane a nostro avviso un'analisi piuttosto traballante.
|
VIII - FURTO, SPERGIURO E ARTE.
UN'ANALOGIA ELLENICA La nostra impressione è che, alla base del racconto scandinavo, vi sia
un mito indoeuropeo, per quanto gli esiti siano abbastanza alterati da
non permettere raffronti puntuali e rigorosi. Ci muoviamo, insomma, più nel
campo delle analogie che delle strette omologie; ma vale la pena di rilevare i
possibili parallelismi in altri sistemi mitologici.
Nel mondo greco-latino,
Óðinn ha un suo puntuale corrispettivo in
Hermês, tanto che gli autori classici non hanno
alcun dubbio a identificare la suprema divinità dei Germani,
*Wōđanaz, con il dio romano
Mercurius (cfr. Tacitus:
Germania
[2]). Tra le molte affinità che corrono tra le due
divinità (ne abbiamo parlato in una pagina apposita ①), una è piuttosto importante,
ai fini del presente studio. Come Óðinn,
anche
Hermês è un furfante, bugiardo e ingannatore, protettore dei ladri e ladro
egli stesso.
Hermês è un dio notturno, «amico della notte nera» [melaínēs nyktòs hetaîre]
(Homḗrou hýmnoi
[IV: ]), e quando vi è da
rubare qualcosa, gli dèi inviano lui, che non ha difficoltà a compiere ogni tipo
di furto con sovrumana destrezza. Infine, il furto mitologicamente più
significativo di Hermês, narrato nell'inno omerico
a lui dedicato, è proprio legato alla scoperta dell'arte musicale.
Figlio di Zeús e della nýmphē
Maîa, Hermês
nasce in una grotta sul monte Kyllḗnē, al confine tra l'Archadía e l'Achaḯa. Venuto alla luce sul far
dell'aurora, già a mezzogiorno Hermês ha
inventato la musica: trovata una tartaruga, il koûros l'uccide, ne svota il guscio e, usandolo come cassa armonica, vi
tende sette corde, fabbricando la prima lira. Non ancora soddisfatto del suo
exploit, quello stesso pomeriggio, prima
del tramonto, il dispettoso neonato ruba cinquanta capi di bestiame appartenenti
ad Apóllōn. Li tira per la coda, facendoli
camminare a ritroso, in modo da non lasciare tracce, e li nasconde in una stalla.
Quindi ritorna alla grotta e si rimette tranquillamente nella culla a dormire.
Apóllōn, che è il dio dei vaticini e degli
oracoli, individua subito il ladro dei buoi. Si reca sul monte Kyllḗnē e
interroga il koûros, il quale nega di aver compiuto il furto.
Apóllōn, che non aveva mai udito qualcuno
mentire con tanta abilità e spudoratezza, lo agguanta e lo trascina al cospetto
di Zeús. Interrogato dal re degli dèi, Hermês
insiste nella sua versione, aggiungendo alla menzogna uno spergiuro. Nessuno gli
crede, e Zeús gli impone di restituire le vacche ad
Apóllōn. Così avviene, ma quando il dio
dall'arco d'argento si accinge a punire il piccolo ladro, Hermês
si mette a suonare la lira.
È la prima musica che si ode risuonare nel mondo, e Apóllōn
ne è affascinato e stupito. Pace è fatta: il dio prega Hermês affinché gli
doni la lira: in cambio gli lascerà il bestiame.
(Homḗrou hýmnoi
[IV])
Sebbene il contesto sia profondamente diverso, l'inno omerico e il poema
eddico mettono in scena un furto che è all'origine
di un'arte. Se la parte del ladro è impersonata dal medesimo attore (Hermês
e Óðinn sono personaggi strettamente
omologhi), diverso è l'oggetto del furto, che è una mandria di buoi in Grecia e
una preziosa bevanda in Scandinavia. Il risultato è però identico:
l'introduzione di un'arte, rispettivamente la musica e la
poesia, che è allo stesso tempo sapienza
soprannaturale. In Scandinavia, l'oggetto
del furto, il mjǫðr, è esso stesso l'origine e il medium della
capacità
artistica, mentre in Grecia i buoi sono un mezzo accessorio perché
Apóllōn – dio della musica –
arrivi alla lira. Tuttavia, lira e buoi appaiono associati in una liaison letteraria, essendo le due imprese compiute da
Hermês nel suo primo giorno di vita. Il furto è
inoltre legato, in entrambi i miti, al motivo di una palese menzogna avanzata
dal ladro per sviare le indagini: così come Óðinn
tradisce il suo baugeiðr, e mente ai hrímþursar affermando di non aver
nulla a che fare con il furto del mjǫðr, Hermês
mente ad Apóllōn affermando di non essere lui
il ladro del bestiame. Apóllōn non gli crede,
così come il poema eddico commenta sconsolato, di fronte alla palese menzogna di Óðinn,
«ma chi potrebbe credergli?» [hvat skal hans tryggðum trúa?]
(Hávamál [110]).
L'introduzione di un'arte (musica o poesia) è dunque introdotta non da un
singolo, ma da un doppio peccato: un furto e una menzogna; a cui, in
Scandinavia, se ne aggiunge un terzo, non presente in Grecia: la seduzione di
Gunnlǫð.
La cosa curiosa è che
l'attività ladronesca di Hermês è a volte definita
col verbo antitoréō «forare, penetrare attraverso un foro», con
riferimento alla straordinaria scena in cui il dio ritorna in culla passando
come una nebbia attraverso la serratura della porta:
«il veloce Hermês, figlio di Zeús, rannicchiandosi, passò attraverso la
serratura della sala, simile alla brezza d'estate, come la nebbia»
(Homḗrou hýmnoi [IV: -]). Questa strana
caratteristica del dio-ladro che s'introduce in un buco ricorda l'episodio in cui
Óðinn, per rubare il mjǫðr, pratica con
un trapano un foro nella parete della montagne e, tramutatosi in serpente, vi si
infila dentro. Nella caverna,
Óðinn trova
Gunnlǫð e la seduce al fine di rubare
il prezioso idromele. Hermês vi trova sua madre,
Maîa, che sta dormendo, e la rassicura che
riuscirà a sistemare ogni cosa. Il comportamento onesto di Hermês, almeno nei
confronti della madre, contrasta con la disonestà di
Óðinn verso
Gunnlǫð; non è il caso di insistere, su
questo punto, cercando affinità dove i temi appaiono tanto diversificati.
Quest'analisi, d'altra parte, tendeva a mostrare non tanto una radice comune tra
due miti tanto lontani, quanto piuttosto uno stesso motivo rielaborato in
maniera assai divergente.
|
Bibliografia
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Iconografia
- BRANSTON Brian, Gods & Heroes from Viking Mythology, Eurobook,
London 1978.
→ ID., Dèi e eroi della mitologia
vichinga. Mondadori, Milano 1981.
- DAHN Felix ~ DAHN Therese, Walhall: Germanische
Götter- und Heldensagen. Für Alt und Jung am deutschen Herd erzählt.
Von R. Voigtländer, Kreuznach 1885.
- MABIE Hamilton Wright, Norse Stories retold from
the Eddas. Mead Dodd, New York 1901.
- VON WOLZOGEN Hans. Die Edda. Germanische Götter-
und Heldensagen. Verlagsanstalt für vaterländische Geschichte und
Kunst, Berlin 1920.
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BIBLIOGRAFIA ► |
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