MITI

CELTI
Irlandesi

MITI CELTICI
IUPPITER TARANIS
IL DIO CON LA RUOTA
I Galli lo consideravano il re degli dèi, i Romani non tardarono a identificarlo con Iuppiter. È probabile che il suo nome celtico fosse Taranis, il signore del tuono, e la sua immagine quella del «dio con la ruota».

1 - IUPPITER: IL «DIO CON LA RUOTA»

Taranis
Danbrenos, disegno
curioso il posto che i Galli riservano a Iuppiter. Lo considerano il re degli dèi, ma nel mito e nel culto non gli dànno grande importanza. Di ciò diede testimonianza il divo Caesar nei commentarii delle sue campagne. Nel citare i cinque principali dèi gallici, Caesar dice che è Mercurius il dio che i Galli adorano sopra ogni altro, e che solo dopo di lui seguono Apollo, Mars, Iuppiter e Minerva.

Può sembrare bizzarro, che questi barbari assegnino un posto secondario al signore e padrone di tutti gli dèi, ma ciò non deve indurci a ritenere i Galli ignoranti in fatto di religione, materia in cui, anzi, appaiono assai versati. Questa minore importanza che essi assegnano a Iuppiter non è da considerarsi empietà, ma un diverso approccio alle sfere del sacro.

Assai venerato dalla Gallia all'Hispania, dall'Helvetia al Noricum, lo Iuppiter celtico non differisce molto dal nostro. È un dio celeste nel suo aspetto più sublime e terrifico, ma anche un dio del tuono e della pioggia vivificante. Il suo albero sacro è la quercia, e anche in questo i Galli sono concordi con i Greci e i Romani.

Da quando le Gallie sono state sottomesse, Iuppiter viene rappresentato con i soliti attributi classici: lo scettro, il fulmine e l'aquila. Tipicamente gallica è invece la ruota che il dio porta con sé, che talvolta impugna, a cui altre volte sembra appoggiarsi. Questa ruota, che ha un numero variabile di raggi, rappresenta forse il rombo del tuono tra le nuvole.

2 - EPITETI DELLO IUPPITER GALLICO

on solo molti gli epiteti che i Galli hanno attribuito a Iuppiter, a questo loro re degli dèi, soprattutto confrontandoli con tutti quelli attribuiti a Mercurius o a Mars.

Di questi epiteti, alcuni sono di origine gallica; e tra questi è assai importante il nome Taranis, il «tonante». Altri epiteti i Galli li hanno tratti dal culto romano, come quello, ben conosciuto nelle zone romanizzate, di Iuppiter Optimus Maximus.

I principali epiteti sono:

  1. Accio
  2. Arubianus
  3. Baginatis, il «dio delle querce»
  4. Beisirisse
  5. Bussumarus, «colui che ben colpisce»
  6. Candamius / Candamus
  7. Cernenus
  8. Ladicus, «del monte Ladus»
  9. Optimus Maximus, «ottimo massimo»
  10. Parthinus, «dei Parteni» (?)
  11. Poeninus, «delle vette»
  12. Saranicus
  13. Sucaelus
  14. Tanarus
  15. Taranis, il «tonante»
  16. Taranucnus / Taranucus, il «tonante» o «figlio del tonante» (?)
  17. Uxellimus, l'«altissimo»
3 - TARANIS, IL SIGNORE DEL TUONO

on conosciamo con esattezza il nome dello Iuppiter gallico, ma molti pensano che sia Taranis, il «tonante» . Con questo nome, Iuppiter viene adorato in tutto il territorio celtico: nelle Gallie, in Britannia e nelle Germanie. Lungo il Rhenus il dio è conosciuto col nome di Iuppiter Taranucnus. Vi sono tracce di un culto a Iuppiter Taranucus persino nella lontana Dalmatia. Taranis è il signore del tuono, il cui rimbombo è evocato dal suo stesso nome, e come tale gli ha potere tra le potenze del cielo. Da lui derivano le tempeste e il maltempo. Da lui viene la pioggia, apportatrice di fertilità e di abbondanza.

Il poeta Lucanus afferma che sull'altare di Taranis avvengano sacrifici non meno feroci di quelli che gli Sciti tributano a Diana.

I suoi scoliasti aggiungono che i Galli considerano Taranis un dio simile a Iuppiter, signore delle guerre e massimo degli dèi, ma pure simile a Dis Pater, dio dell'oscurità e della morte. Quando Taranis ha l'aspetto di Iuppiter, viene placato sacrificandogli vite umane con riti sanguinosi. Quando invece ha l'aspetto di Dis Pater, le sue vittime sono bruciate vive dentro grandi tini di legno. Anche Caesar concordava sul fatto che alcune popolazioni galliche immolassero numerose vittime umane arse vive in grandi tini o simulacri di legno.

Ma con la cristianizzazione delle Gallie, questi usi barbari sono in parte cessati e i Galli hanno cominciato a sostituire, nei sacrifici, gli uomini con gli animali. Ancora oggi, infatti, rimane tra loro l'uso di fare dei grandi falò per poi gettarvi sopra cani, gatti, volpi e altri animali, racchiusi in cesti di legno o di vimini.

4 - POENINUS, IL SIGNORE DELLE VETTE

ella Gallia Cisalpina, Iuppiter veniva adorato sulle cime al sommo dei monti, e per questo veniva chiama Poeninus, il dio delle vette.

Nell'anno 218 a.C., il condottiero Ḥannibaʿal, alla testa dell'imponente esercito cartaginese, varcò le Alpi e scese dalla Gallia in Italia, minacciando la potenza di Roma sul suo stesso territorio. La Seconda Guerra Punica giungeva al suo momento più drammatico.

Due secoli dopo, tuttavia, gli storici romani ancora discutevano su quale fosse stato il valico alpino per il quale erano transitate le schiere cartaginesi, e si tendeva a indicare un certo passaggio nei pressi del Mons Poeninus [monte Pennino]. Anzi, si pensava che questo monte avesse preso nome dagli stessi Poeni, o Cartaginesi.

Titus Livius, nella sua opera storica, confuta quest'argomentazione. Se Ḥannibaʿal avesse preso il valico del Poeninus non sarebbe giunto nel territorio dei celti Taurini, come poi fece. In realtà, dice Livius, l'origine del nome del monte è diversa, come ben sapeva la tribù celtica dei Seduni Veragri che abitava quelle montagne. Costoro, infatti, facevano risalire il nome delle Alpes Poeninae non certo al passaggio dei Cartaginesi, bensì al dio che essi adoravano sulla cima più alta di quelle montagne. Un dio che i Romani identificavano con Iuppiter e con Silvanus, ma che loro chiamavano Poeninus, il signore delle vette.

5 - BAGINATIS, IL DIO DELLE QUERCE

alvolta i Galli si rivolgono a Iuppiter con l'epiteto di Baginatis, dio delle querce. E infatti le genti celtiche, che comunque portano un grande rispetto a tutti gli alberi, considerano le querce particolarmente sacre. A quanto pare, essi adorano Iuppiter proprio nell'immagine di una quercia.

Ma questa non è una novità. Molti popoli adorano il dio del tuono nella quercia e nel faggio, specie quando l'albero viene colpito da un fulmine. I Traci e i Germani, per esempio. Ma anche Greci e Romani credono che la quercia sia l'albero sacro a Iuppiter.

Jupitergigantensäule
Ricostruzione di una «colonna del cavaliere»
Römermuseum Schwarzenacker, Homburg
(Saarland, Germania).
6 -  IL CAVALIERE E L'ANGUIPEDE

on conosciamo alcun mito che riguardi lo Iuppiter gallico. Uno di essi sembra però suggerito da certi pilastri e colonne diffusi in molti luoghi dell'area celtica: tra i Lingones, i Treveri, gli Arverni, e soprattutto nella valle del Rhenus; ma anche tra gli Helvetii e addirittura in Britannia.

In cima a un'alta colonna si staglia l'immagine di un dio a cavallo, ritto a sovrastare un gigante barbuto dalla coda di serpente o di pesce: l'anguipede giace al suolo, il volto contorto dal terrore, schiacciato sotto gli zoccoli del cavallo. In altri casi, il dio è in piedi, eretto, e il mostro è disteso ai suoi piedi.

Il dio è armato: spesso impugna un giavellotto, o un guizzo di fulmini, ma altre volte regge la ruota, e solo per questo lo si può identificare con Iuppiter.

Sotto sono raffigurate le sette divinità planetarie, oppure quattro divinità identificate con Iuno, Mercurius, Hercules e Minerva.

Quale storia, mito o simbologia sia alla base di tale figura, non sappiamo dirlo.

Fonti

1-6 Caesar: De bello Gallico [VI: 17]
Marcus Annaeus Lucanus: Pharsalia [I: -]
M. Annaei Lucani Commenta Bernensia
Titus Livius: Ab Urbe condita libri [XXI: 38: 9]
Gaius Plinius Secundus: Naturalis historia [XXXIV: 45]
Máximos Týrios: Lógoi [VIII: 8]
Inscriptiones romanae selectaePoeninus | Sucaelus | Tanarus | Taranis
Iconografia gallo-romana
Calderone di Gundestrup > Pannello interno C
I - LO IUPPITER GALLICO: INTRODUZIONE

Questo capitolo tratta essenzialmente di tre figure, diversamente documentate, di cui sosteniamo la reciproca identificazione. Esse sono:

  1. lo Iuppiter gallico, citato da Caesar, di cui vi sono testimonianze epigrafiche e iconografiche;
  2. il «dio con la ruota», di cui vi sono numerose figurazioni;
  3. il dio Taranis, presente nelle iscrizioni dedicatorie.
Il «dio con la ruota» (?)
Calderone di Gundestrup.
Museo : [Calderone di Gundestrup > Pannello interno C]►

Che lo Iuppiter gallico sia da identificare nel «dio con la ruota» è dimostrato dalle iscrizioni che accompagnano in alcuni casi le figurazioni di quest'ultimo. Che sia da identificare con Taranis, invece, lo si deduce dall'accostamento dei nomi nelle iscrizioni dedicatorie, ma anche da un passo (assai controverso) dei Commenta Bernensia.

Che lo Iuppiter gallico fosse stato un dio-tuono (e non un dio-cielo come lo Iuppiter romano), lo si deduce dalla presenza della ruota e dall'etimologia del nome Taranis. Ciò non contraddice affatto la notizia che Cesare fornisce in De bello Gallico [VI: 17] secondo cui lo Iuppiter gallico era considerato il re degli dèi, per quanto non a lui era tributato il massimo culto, essendo la regalità guerriera, nelle mitologie indoeuropee, attributo tradizionale del dio-tuono (si veda l'esempio indiano di Indra).

II - LO IUPPITER GALLICO. L'INTERPRAETATIO ROMANA

Nel De bello Gallico, Caesar cita Iuppiter solo al quarto posto tra i cinque dèi principali dei Galli, con una scolorita formula: «è il signore degli dèi». Al primo posto nella gerarchia divina, infatti, Caesar aveva posto Mercurius:

Deorum maxime Mercurium colunt [...]. post hunc Apollinem et Martem et Iouem et Minerua. de his eandem fer quam reliquae gentes habent hopinionem: Apollinem morbos depellere, Mineruam operum atque artificiorum initia tradere, Iouem imperium caelestium tenere, Martem bella regere.

Il dio che i Galli onorano di più è Mercurius [...]. Dopo di lui adorano Apollo, Mars, Iuppiter e Minerva. Essi si fanno di questi dèi pressappoco la stessa idea degli altri popoli: Apollo guarisce dalle malattie, Minerva insegna i princìpi dei lavori manuali, Iuppiter è il signore degli altri dèi, Mars presiede alla guerra.
Caesar: De bello Gallico [VI: 17]

La perplessità di Caesar è ancora una volta spiegata: la divinità celtica che i Romani interpretarono con Iuppiter rassomigliava solo per alcuni tratti al dio classico, per altri era un personaggio affatto diverso. Questa è la ragione per cui lo Iuppiter gallico, che pure era il re degli dèi, si trovava in posizione subordinata rispetto a Mercurius. Il pántheon celtico era organizzato in maniera diversa dal pántheon classico.

La posizione d'inferiorità dello Iuppiter gallico rispetto a Mercurius sembra confermata dai ritrovamenti archeologici. Per quanto concerne il numero di iscrizioni e dediche, Iuppiter non raggiunge di gran lunga l'abbondanza di Mercurius, anche se i dati a nostra disposizione testimoniano un culto assai sentito e duraturo. Sembra che a Iuppiter i Galli tributassero sacrifici umani.

Anche l'agiografia cristiana testimonia il perdurare della venerazione di Iuppiter in Gallia. Suoi luoghi di culto furono ad esempio Artins (dép. Loire-et-Cher) (Vita Sancti Iuliani), Lectoure (dép. Gers) (Vita Santi Clari), e Agde (dép. Hérault) (Passio Sanctorum Martyrum Tiberii, Modesti et Florentiae).

Nelle figurazioni, lo Iuppiter gallico porta spesso gli attributi del suo omologo romano: lo scettro, il fulmine e l'aquila. Ma è più importante il fatto che venga talvolta identificato in un dio armato di ruota.

III - GLI EPITETI DELLO IUPPITER GALLICO

L'epigrafia dedicata allo Iuppiter gallico non raggiunge l'abbondanza e diversità di quelli dedicati a Mercurius o Mars, anzi testimonia quanto la figura romana si sia sovraimpressa a quella della divinità gallica. Alcuni di questi epiteti, a cominciare dal diffuso Optimus Maximus (ben attestato nell'epigrafia nella tipica sigla I.O.M.) sono infatti di origine classica.


Accio

Attestato in una iscrizione proveniente da Aquincum (Pannonia Inferior) ⇒ Budapest (Ungheria) (CIL [iii: 3428]). Il dativo Accioni presente nell'iscrizione lascia ambiguità sulla corretta lezione del nominativo, che potrebbe essere Accio, Accionis o Acciones. L'epiteto può forse essere ricollegato alla palude di Accion, presso il lago di Genève, di cui parla Postumius Rufius Festus Avienio in Ora Maritima [].


Baginatis

L'epiteto è attestato in una dedica a Iovi Baginati (dativo) proveniente da Morestel (dép. Isère, Francia) (CIL [xii: 2383]). L'etimologia è trasparente: dall'indoeuropeo *BʰEĜ-, che indica sia la quercia che il faggio, alberi confusi tra loro in molte lingue (cfr. greco phēgós, latino fagus).

L'esistenza di uno Iuppiter Baginatis «delle querce» viene a confermare la notizia di Máximos Týrios secondo cui i Celti adoravano Zeús nell'immagine di una vecchia quercia (Lógoi [VIII: 8]). Una rappresentazione dello Iuppiter gallico trovata a Séguret (dép. Vaucluse, Francia) è accompagnata da una quercia. Anche le cosiddette «colonne del cavaliere», che si ritiene rappresentino lo Iuppiter gallico, sono spesso fatte a immagine di una quercia. È anche attestato un dio Baginus (AE [1889: 183]). Al plurale, abbiamo le dee Baginatiae (AE [1889: 00183 | 2000: 886, 887, 889]) e le Matres Baginienses (AE [2000: 884, 885, 890).

Esistono numerosissime altre testimonianze della santità della quercia tra le genti galliche. In un brano della sua storia Naturalis historia, Plinius parla di una festa che si svolgeva nel sesto giorno del mese lunare, durante la quale i druidi salivano su una quercia sacra, tagliavano un rametto di vischio e sacrificavano due tori bianchi; egli stesso aggiunge – erroneamente – che la parola «druido» deriverebbe dalla radice drýs «quercia».

Non est omittenda in hac re et Galliarum admiratio. Nihil abent Druidae – ita suos appelant magos – visco et arbore, in qua gignatur, si modo sit robur, sacratius. Iam per se roborum eligunt lucos nec ulla sacra sine earum fronde conficiunt, ut inde appellati quoque interpretatione Graeca possint Druidae videri. Enimvero quidquid adgnascatur illis e caelo missum putant signumque esse electae ab ipso deo arboris. Est autem id rarum admodum inventu et repertum magna religione peritur et ante omnia sexta luna, quae principia mensum annorumque his facit et saeculi post tricesimum annum, quia iam virium abunde habeat nec sit sui dimidia. Omnia sanantem appellant suo vocabulo. Sacrificio epulisque rite sub arbore conparatis duos admovent candidi coloris tauros, quorum cornua tum primum vinciantur. Sacerdos candida veste cultus arborem scandit, falce aurea demetit, candido id excipitur sago. Tum deinde victimas immolant precantes, suum donum deus prosperum faciat iis quibus dederit. Fecunditatem eo poto dari cuicumque animalium sterili arbitantur, contra venena esse omnia remedio. Tanta gentium in rebus frivolis plerumque religio est.

Non bisogna dimenticare a questo proposito anche l'ammirazione a cui il vischio è fatto oggetto in Gallia. I druidi – così si chiamano i maghi di quei paesi – non considerano niente più sacro del vischio e dell'albero su cui esso cresce, purché si tratti di un rovere. Già scelgono come sacri i boschi di rovere in quanto tali, e non compiono alcun rito religioso se non hanno fronde di questo albero tanto che il termine di «druidi» può sembrare di derivazione greca. In realtà essi ritengono tutto ciò che nasce sulle piante di rovere come inviato dal cielo, un segno che l'albero è stato scelto dalla divinità stessa. Peraltro il vischio di rovere è molto raro a trovarsi e quando viene scoperto lo si raccoglie con grande devozione: innanzitutto al sesto giorno della luna (che segna per loro l'inizio del mese e dell'anno e del secolo, ogni trent'anni), e questo perché in tale giorno la luna ha già abbastanza forza e non è a mezzo. Il nome che hanno dato al vischio significa «che guarisce tutto». Dopo aver apprestato secondo il rituale il sacrificio e il banchetto ai piedi dell'albero, fanno avvicinare due tori bianchi a cui per la prima volta vengono legate le corna. Il sacerdote, vestito di bianco, sale sull'albero, taglia il vischio con un falcetto d'oro e lo raccoglie in un panno bianco. Poi immolano le vittime, pregando il dio perché renda il suo dono propizio a coloro ai quali lo ha destinato. Ritengono che il vischio, preso in pozione, dia la capacità di riprodursi a qualunque animale sterile, e che sia un rimedio contro tutti i veleni: così grande è la devozione che certi popoli rivolgono a cose per lo più prive d'importanza.
Gaius Plinius Secundus: Naturalis historia [XVI: 95]

Il rapporto tra il dio fulminante e la quercia non è affatto una caratteristica celtica, anzi, sembra essere una costante di molte mitologie. In Grecia c'era uno Zeús Phēgōnaîos; in Frigia uno Zeús Bagaîos; a Roma si aveva parimenti uno Iuppiter Quercus. Non ci si stupisce dunque di trovare anche in ambito celtico uno Iuppiter Baginatis, a continuare questo lungo rapporto tra il dio fulminante e la quercia. La quercia era inoltre sacra a Þórr nel mondo germanico, e il dio del tuono baltico, Pērkuns/Perknas (a cui va forse anche aggiunto forse anche il russo Perunŭ ①) sembra derivi dall'indoeuropeo PERKʷU- «quercia» Ⓐ.


Beisirisse

Questo epiteto è attribuito a Iuppiter Optimus Maximus in una sola iscrizione trovata a Cadéac (dép. Hautes-Pyrénées, Francia), nel territorio dei Bigerriones (CIL [xiii 370]). È probabile si tratti di una divinità di origine iberica; a possibile spiegazione del suo nome è stata proposta una relazione con un proto-basco *beissi «cliente».


Bussumarus

Attestato in tre iscrizioni: due ad Apulum (Dacia) ⇒ Alba Iulia (Romania) (AE [1944: 32] | CIL [iii: 1033]) e una a Tomis (Moesia Inferior) ⇒ Constanța (Romania) (CIL [iii: 14215,15]).

Interpretato dal gallico bussu- «colpo» e maru «grande» (cfr. gallese mawr, irlandese mór «grande»), dunque «[colui che] ben colpisce». Secondo un'etimologia alternativa, la prima parte del nome, bussu- , significherebbe «labbra» (cfr. medio irlandese pus/bus «labbra», irlandese busóc «baciare»), ma anche «pene» (cfr. medio irlandese bod «pene»), quindi . La doppia «SS» rappresenterebbe in tal caso il tau gallicum «Ꞵ». Buꞵumarus sarebbe quindi interpretabile come  «[colui che ha] un grande pene». (Lambert 1994)


Candam(i)us

Rosa esafolia
San Vicién d'a Buerda

Epiteto di Iuppiter attestato in tre iscrizioni provenienti dall'Hispania Citerior: una dove il nome è attestato nella lezione Candamio (dativo) (CIL [xii: 2695]) da Candanedo, due ex voto dove è attestato nella lezione Candamo (dativo) (IRPPalencia [6] | Meseta [59]). Probabilmente una divinità dei Cantabres o degli Astures, in seguito identificata con Iuppiter, Candam(i)us è forse da mettere in correlazione con il Candiedo callaico. È stata anche ipotizzata una relazione con l'attuale cittadina di Candamo/Candamu (Asturias, Spagna).

In una delle iscrizioni dedicate al dio compare l'immagine di una rosa esafolia, simbolo assai diffuso nell'Europa dell'età del bronzo (compare anche sul calderone di Gundestrup ①) e ben conosciuto in ambito ispano-romano e cristiano, soprattutto nel nord dell'Aragón. Leggendo la rosa come simbolo solare, lo studioso spagnolo José María Blázquez Martínez ha interpretato Candam(i)us come dio celeste e atmosferico, equivalente locale del Taranis gallico. (Peralta Labrador 1989).

L'ipotesi è però viziata da una confusione non risolvibile tra i ruoli di dio-cielo, dio-tuono e dio-sole, che in mitologia appaiono regolarmente separati. Si può forse tentare un cauto paragone stilistico tra la rosa e la ruota di Taranis, ma pretendere di dedurre il carattere del dio a partire dall'unica attestazione di un simbolo di uso così ampio come la rosa esapetala può rivelarsi fuorviante.


Candiedo

Attestato in un'unica iscrizione da Aquae Flaviae (Hispania Citerior) ⇒ Chaves (Portogallo) (CIL [ii: 2599]), quindi nel territorio dei Callaeci. Il nome compare  come epiteto di Iuppiter Optimus Maximus nella forma dativa Candiedoni. Il nominativo potrebbe essere Candiedo, Candiedonis, Candiedones.  A volte connesso con il Candam(i)us attestato tra i Cantabres, si è proposta, quale etimologia, una relazione con il latino candidus «bianco».


Cernenus

Attestato in una iscrizione proveniente da Alburnus Maior (Dacia) ⇒ Roșia Montană (Transilvania, Romania) (CIL [iii: 924, 1]). L'iscrizione in questione, molto lunga e interessante ①, risulta scolpita da un collegium funeraticium, una corporazione predisposta allo scopo principale di provvedere alle esequie e alla sepoltura dei propri componenti (Mommsen 1843); nel caso in questione, i componenti si definiscono cultores di un cosiddetto Collegium Iovis Cerneni, dal nome di una divinità locale identificata con Iuppiter. Al riguardo, è stato proposto un parallelo con il nome di Cernunnos, anche se l'epiteto potrebbe invece derivare dal luogo di provenienza: il villaggio di Corna, situato presso l'odierna Roșia Montană.

Una seconda iscrizione proveniente da Qartḥadašt/Carthago (Africa Proconsularis) ⇒ Qartāǧ, Tūnis (Tunisia) (CIL [viii: 12488]) è dedicata a uno «I O M CER» nel quale si è proposto di vedere una contrazione di Iuppiter Optimus Maximus Cernenus, sebbene l'ambiguità del testo e la distanza geografica lo rendano piuttosto improbabile.


Ladicus

Attestato in tre iscrizioni provenienti dal territorio dei Callaeci (Hispania Citerior) ⇒ Galizia (Spagna) (Aquae Flavie [52] | CIL [ii: 2525] | IRG [iv: 62]). Epiteto topico con il quale Iuppiter era adorato sul monte Ladus o Ladicus, una cima nella Serra do Faro de Avión, al confine tra Galizia e Portogallo.


Optimus Maximus

Abbreviata in I O M, la formula Iuppiter Optimus Maximus uno dei più importanti e diffusi epiteti dello Iuppiter romano.


Part(h)inus

Con questo epiteto, Iuppiter era adorato lungo i confini nord-orientali della Dalmatia (⇒ Dalmacija, Croazia) e della Moesia Superior (⇒ Bulgaria) (CIL [iii 8353, 14613]). È probabile che l'epiteto sia legato alla locale tribù dei Partheni (Wilkes 1969 | Čremošnik 1959 | Green 1984 | Green 1998).


Poeninus

Attestato in una trentina di targhe provenienti da Mons Avium (Alpes Poeninae) ⇒ Passo del San Bernardino (Svizzera), Poeninus è forse un epiteto topico, derivante dalla radice celtica penn «testa, capo, cima» (cfr. le stesse Alpi Pennine e dei monti Appennini; il Summus Poeninus è l'attuale Gran S. Bernardo). Di un dio Poeninus, adorato dai Seduni Veragri tra i valichi alpini, parla Titus Livius, il quale presenta una paraetimologia del toponimo, collegandolo al fatto che i Cartaginesi [Poeni] vi sarebbero transitati al seguito di Ḥannibaʿal:

...eo magis miror ambigi quanam Alpes transierit et vulgo credere Poenino atque inde nomen ei iugo Alpium inditum transgressum, Coelium per Cremonis iugum dicere transisse; qui ambo saltus eum non in Taurinos sed per Salassos montanos ad Libuos Gallos deduxerint. Nec veri simile est ea tum ad Galliam patuisse itinera; utique quae ad Poeninum ferunt obsaepta gentibus semigermanis fuissent. Neque hercule montibus hism si quem forte id movet, ab transiuto Poenorum ullo Seduni Veragri, incolae iugi eius, [nomen] norint inditum sed ab eo quem in summo sacratum vertice Poeninum montani appellant.

Mi meraviglio che vi sia disaccordo circa il valico attraverso il quale [Ḥannibaʿal] varcò le Alpi; mi stupisco anche che generalmente si creda sia passato per il Poeninus (anche se questo sarebbe il motivo per cui quel valico ha questo nome) e che Coelius dica che è passato attraverso il passo di Cremonis. Entrambi questi valichi non lo avrebbero condotto nel territorio dei Taurini ma in quello dei Galli Libui, dopo aver attraversato la regione montagnosa dei Salassi. E non sembra plausibile che a quel tempo quelle vie verso la Gallia fossero aperte e, in ogni caso, quelle che portano al valico del Pennino sarebbero state sbarrate da popolazioni semi-germaniche. E certo i Seduni Veragri, abitanti di quella zona montagnosa, non attribuiscono l'origine del nome di questi monti al passaggio dei Poeni [Cartaginesi]: essi fanno derivare quel nome dal dio che, adorato sulla cima più alta, è chiamato Poeninus dai montanari.
Titus Livius: Ab Urbe condita libri [XXI: 38: 9]


Sucaelus

Il problematico epiteto Sucaelus è presente in una iscrizione rivenuta a Mogontiacum (Germania Superior) ⇒ Mainz (Germania), dedicata a «I O M SUCAELO» (dativo) e al genius loci  (CIL [xii: 6730]) ①. Secondo alcuni autori, questo epiteto identificherebbe Iuppiter con Sucellus (Pisani 1949 | Lambrechts 1942). ②


Tanarus

Epiteto presente in una dedica trovata a Chester (Regno Unito). L'altare è quasi completamente consumato e per la sua lettura è stato necessario affidarsi a una trascrizione più tarda (Green 1992).

I O M TANARO
L [†] GALER
PRAESENS CLVNIA
PRI LEG XX V V
COMMODO ET
LATERANO COS V S L M

I(ovi) O(ptimo) M(aximo) Tanaro
L(ucius) [Elufrius (?)] Galer(ia)
Praesens [Cl]unia
 pri(nceps) leg(ionis) XX V(aleriae) V(ictricis)
Commodo et
Laterano co(n)s(ulibus) v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito)

CIL [vii: 168]

Il testo viene generalmente accettato come segue: «A Iuppiter Optimus Maximus Tanarus, Lucius Bruttius Praesens, della tribù Galeria, da Clunia [Hispania], a capo della Legione XX Valeria Victrix, volentieri e giustamente ha adempiuto al suo voto durante i consolati di Commodus e Lateranus [154 d.C.]».

Quest'ultima iscrizione è forse da mettere in relazione con un'altra rinvenuta in Dalmatia, sempre a Skradin (Šibensko-Kninska Županija, Croazia) nella quale si legge «IOVI TAN» (AE [2010, 1225]).

L'epiteto è forse una variante di Taranis.


Taranis

Il nome Taranis, il «tonante», è innanzitutto citato da Lucanus in un verso del Pharsalia, dove si legge:

...Et Taranis Schythicae non mitior ara Dianae. ...E l'ara di Taranis non più mite di quella di Diana scitica.
Marcus Annaeus Lucanus: Pharsalia [I: ]

Il nome è però piuttosto raro nell'epigrafia. Esso è presente innanzitutto in un'iscrizione rinvenuta in Gallia Lugunensis, a Orgon (dép. Bouches-du-Rhône, Francia), nel 1886, oggi custodita nel Musée Calvet di Avignon. Si tratta di una dedica scritta in lettere greche, fatta da un certo Vēbroumaros nel II secolo, dove il nome del dio compare declinato al dativo nella lezione «ΤΑΡΑΝΟΟΥ», ed è tradotto: «Vēbroumaros ha offerto a Taranis per riconoscenza una decima».

ΟΥΗΒΡΟΥΜΑΡΟC
ΔΕΔΕ ΤΑΡΑΝΟΟΥ
ΒΡΑΤΟΥΔΕΚΑΝΤΕΜ

Ouēbroumaros
Dede Taranoou
Bratoudekantem

RIG [G: 27]

Un'iscrizione consistente nella sola parola «TARANVOS» è stata trovata in Gallia Belgica (CAG [80-01, p. 234]), ad Amiens (dép Somme, Francia), ma mancando totalmente un contesto è impossibile dire se la parola sia un nomen divinum, oppure il nome del dedicante o abbia qualsiasi altro significato. Stessa cosa bisogna dire dell'iscrizione «TARANI» rivenuta in Aquitania, a Montans (dép Midi-Pyrénées, Francia) (CAG [81, p. 165]).

Un'iscrizione rivenuta sempre in Aquitania, a Bourganeuf (dép Creuse, Francia), è dedicata a «I O M / TARANVEN[†...» (AE [1961: 159]). Essa l'unica dove il nomen viene associato a quello di Iuppiter. L'epiteto, purtroppo mutilo, sembra una forma aggettivale, forse ricostruibile in *Taranuensis:

NVM AVG
ET I O M
TARANVEN[†...
D S P P P

Num(ini) Aug(usti)
et I(ovi) O(ptimo) M(aximo)
Taranuen[sis?]
d(e) s(uo) p(ro) p(ietate) p(osuit)

 AE [1961: 159]


Taranuc(n)us

L'epiteto Taranucus o Taranucnus è evidentemente una variazione o forma aggettivale di Taranis. Secondo Vittore Pisani il suffisso -cnus indicherebbe un patronimico e dunque il dio Taranucnus sarebbe in realtà un figlio del dio Taranis e non Taranis stesso (Pisani 1949). Più convincente l'ipotesi secondo la quale il termine vada considerato come titolo aggettivale, e quindi «colui che tuona» (Green 1992). Esso è attestato da tre iscrizioni, una dalmata e due renane.

Nella dedica rinvenuta a Skradin (Šibensko-Kninska Županija, Croazia), il nomen compare nella lezione Taranuco (dativo) ed è utilizzato come epiteto di Iuppiter:

IOVI TA
RANVCO
ARRIA SVC
CESSA V S

Iovi Ta-
ranuco
Arria Suc-
cessa v(otum) s(olvit)

CIL [iii: 2804]

Due iscrizioni provengono invece dalla regione del Reno; qui il nomen compare nella lezione Taranucno (dativo) e non è utilizzato come epiteto o interpraetatio di una divinità romana. La prima di esse è stata rinvenuta a Godramstein presso Landau (Baden-Württemberg, Germania) ed è:

IN H D D DEO
TARANVCNO
TRAVINI
QVIBVS EX
COLLATA STIPE[†...
IVL IVLIVS [†...
IVSSV [†...

In h(onorem) d(omus) d(ivinae) deo
[T]aranucno
Travini
quibus ex
collata stipe[†...
Iul(ius) Iul[ius †...
iuss[u †...

CIL [xii: 6094]

La seconda, incisa sull'altare gallo-romano trovato a Böckingen presso Heilbronn (Rheinland-Pfalz, Germania), è dedicata al dio per ordine [ex iussu] di un certo Veratius Primus:

DEO
TARANVCNO
VERATIVS
PRIMVS
EX IVSSV

Deo
Taranucno
Veratius
Primus
ex iussu

CIL [xii: 6478]


Iuppiter Uxellimus

Forse da intendersi con «altissimo», con possibile allusione alle sue qualità di dio-cielo, Iuppiter Uxellimus è presente in una iscrizione proviente da Rimske Toplice (Slovenia), nel Noricum (CIL [iii: 5145]). (Alföldy 1974 | Green 1986 | Green 1992)

IV - IL «DIO CON LA RUOTA»

Dio con la ruota
Statuetta di Châtelet
MUSEO: [Il «dio con la ruota» > Statuetta di Châtelet]►

Il cosiddetto «dio con la ruota» compare in molte figurazioni galliche: si tratta di un personaggio barbuto, nudo, che si appoggia o regge in pugno una ruota con un numero variabile di raggi. In alcune immagini il dio viene identificato con Iuppiter.

Esaminiamo le immagini più importanti del «dio con la ruota».

Sul calderone di Gundestrup compare un personaggio barbuto che solleva in alto ambedue le braccia: la destra sembra afferrare una ruota con otto raggi, visibile solo per metà; accanto, un giovane inginocchiato sembra prendere la ruota con entrambe le mani. Sono inoltre rappresentate due pantere che si muovono verso destra e tre grifoni che si muovono verso sinistra; sotto, un serpente criocefalo [immagine]✦. Purtroppo non vi sono iscrizioni. ①

Una statuetta di bronzo, ugualmente anonima, rinvenuta a Châtelet (dép. Haute-Marne, Francia) rappresenta un uomo nudo con la barba. Regge con la mano sinistra una ruota a sei raggi, deposta al suolo accanto a sé; nella mano destra, sollevata, impugna quello che sembra il simbolo classico del fulmine. Al braccio destro sono appesi nove oggetti dall'andamento sinuoso di non facile interpretazione (non è molto chiara l'ipotesi di alcuni autori secondo il quale tali oggetti simboleggerebbero la traccia lasciata dal lampo) [immagine]✦. ②

C'è poi la statua proveniente da Séguret (dép. Vaucluse), l'antico territorio degli Avantici, dove il dio si appoggia con la destra a una ruota a dieci raggi. Altri esempi sono stati trovati a Trier. C'è anche la matrice di una statua che tiene una ruota in ambedue le mani, proveniente da Caer Llyon, l'antica Isca Silurum (Galles, Regno Unito). Poche di queste figurazioni portano iscrizioni, come la statua di Landouzy-la-Ville (dép. Aisne, Francia), dove I.O.M. è la tradizionale sigla per Iuppiter Optimus Maximus.

Talvolta compare il simbolo della ruota, ma senza la figura divina. Un altare trovato presso Laudan (dép. Gard, Francia) presenta su ambedue i lati un'aquila e una ruota a cinque raggi. Un altro proveniente da Rousset-les-Vignes (dép. Drôme, Francia)③ mostra una ruota a sei raggi tra due fulmini; l'iscrizione è anche qui una dedica a Iuppiter:

IOVI IVBR
VS VOTVM
V L M

Iovi iubr-
us votum
{v(otum)} l(aetus) m(erito)

AE [2000: 891] = CAG [26, p. 529]

A Montmirat (dép. Gard) è venuto alla luce un frammento di altare con una ruota a nove raggi, sotto cui era effigiato un fulgur conditum. Su un altare a Vauvert, presso Nîmes (dép. Gard), troviamo su una facciata una ruota con otto raggi e su ambedue i lati un fulmine stilizzato. Altri tre altari sono stati dedicati a Iuppiter nell'Inghilterra del nord (di cui due dedicati da devoti appartenenti alla tribù germanica dei Tungri!).

Qualche volta la ruota compare anche come attributo di Iuno sposa di Iuppiter (Autun, Alzey, Tongern).

Nonostante la maggior parte delle figurazioni del «dio con la ruota» sia anonima, le poche dediche sono sempre e comunque rivolte a Iuppiter; si è visto che anche alcune immagini di ruote portano dediche a Iuppiter. È evidente che la ruota sia il simbolo che i Galli attribuivano a quel loro dio che in epoca romana venne assimilato a Iuppiter. Lo Iuppiter gallico e il «dio con la ruota» sono, con sufficiente certezza, lo stesso personaggio.

V - SIGNIFICATO DELLA RUOTA

Rouelles (50 a.C. 50 d.C.)
Musée d'Archéologie nationale, Saint-Germain-en-Laye (dép. Yvelines, Francia)
MUSEO: [Il «dio con la ruota» > Rouelles]►

Abbiamo visto come il simbolo della ruota sia il tradizionale attributo di Iuppiter in Gallia, sia che compaia impugnata dal dio, sia che appaia senza la figura divina. In entrambi i casi vi sono esempî di iscrizioni che rimandano a Iuppiter Optimus Maximus.

Piccole ruote, chiamate dagli archeologi rouelles, forse associate al culto di Taranis, erano portate come amuleto tanto in Gallia quanto in Britannia. Ne sono state ritrovate numerose soprattutto nei santuari della Gallia Belgica. Nel sud della Francia sono state rinvenute monete che mostrano una ruota con quattro spirali o una croce (si tratta di riproduzioni del kýklos mantikós di Delfi, ma il loro adattamento in Gallia dovrebbe indicare che esse trovavano corrispondenza nelle concezioni locali).

Ma qual è il significato della ruota? Gli studiosi sono arrivati a interpretazioni diverse. Secondo Gaidoz la ruota era un simbolo solare (Gaidoz 1884), idea ripresa da altri autori (Vendryes 1948 | Pettazzoni 1954). Anche De Vries considera il «dio con la ruota» una divinità di carattere celeste, di cui il sole sarebbe la più radiosa manifestazione, e siccome il sole vede tutto, il «dio con la ruota» sarebbe anche un dio onniveggente e invocato nei giuramenti, ed al proposito De Vries ricorda le antiche formule irlandesi in cui s'invocano le forze della natura: il sole spesso nominato in primo luogo, poi la luna e le stelle (De Vries 1961).

Altri studiosi hanno visto nella ruota il simbolo del ciclo dell'anno, preludendo a certe immagini medievali dove l'anno è raffigurato come una ruota, divisa in quattro o dodici parti, quante sono le stagioni o i mesi. Ma in tal caso la ruota impugnata dal dio non dovrebbe avere un numero di raggi così incerto e variabile.

Flouest ha invece visto nella ruota un simbolo del tuono, richiamando l'attenzione sull'idea del carro su cui viaggerebbe un dio del tuono: quest'idea si richiama al parallelo germanico, dove il dio-tuono Þórr viaggia su un carro tirato da caproni, le cui ruote producono il rombo del tuono tra le nubi (Flouest 1885). A tale opinione fanno seguito molti autori (Renel 1907 | Hatt 1951). È questa, a nostro avviso, la proposta più ragionevole, soprattutto tenendo conto dei molti parallelismi che sussistevano tra le culture celtica germanica.

VI - TARANIS: INTERPRETAZIONI

Il più importante epiteto gallico di Iuppiter è Taranis, ricordato dal poeta Lucanus in un celebre verso del Pharsalia, ripreso poi dai suoi scoliasti, con qualche identificazione discordante:

...Et Taranis Schythicae non mitior ara Dianae. ...E l'ara di Taranis non più mite di quella di Diana scitica.
Marcus Annaeus Lucanus: Pharsalia [I: -]
Taranis Ditis pater hoc modo aput eos placatur: in alueo ligneo aliquod homines cremantur.  [...]. [Credunt] prasidem bellorum et caelestum deorum maximum Tarnanin Iouem adsuetum olim humanis placari capitibus, nunc uero gaudere pecorum. Taranis Dis Pater presso di loro viene placato in questo modo: uomini vengono bruciati vivi in tini di legno [...]. [Credono] che Taranis sia Iuppiter, signore delle guerre e massimo fra gli dèi celesti, avvezzo un tempo a essere placato con vittime umane, ora con sacrificio di animali.
M. Annaei Lucani Commenta Bernensia

Lucanus cita il nome del dio senza ridurlo a epiteto e questo ci autorizza a pensare che Taranis fosse il nome proprio di una divinità identificata con lo Iuppiter romano. Purtroppo  i Commenta Bernensia sono fonte di confusione: essi identificano Taranis prima con Iuppiter e poi con Dis Pater. Possiamo accettare la prima interpretazione, la seconda lascia un po' perplessi. L'ignoto scoliaste sembra operare le sue identificazioni su basi alquanto discutibili!

Se conosciamo il nome del dio al nominativo lo dobbiamo appunto a Lucanus. Il nomen Taranis deriva senza dubbio dalla radice *taran- «tuono» (cfr. bretone taran e antico irlandese torann «tuono»; la forma in moderno irlandese è toirneach). Dunque questo nome va reso come «tuono» o il «tonante».

La lezione Taranis è attestato in Lucanus e nell'iscrizione in caratteri greci di Orgon (CIL [xii: 820]) [immagine]✦. Le rimanenti fonti archeologiche sono esigue e contraddittorie, e il nome del dio vi compare perlopiù in forme declinate o derivate. Problematica la forma Taranucnus, presente nelle iscrizioni renane (CIL [xiii: 6094, 6478]) [immagine | immagine]✦ con la variazione dalmata di Taranucus (CIL [iii: 2804]). Secondo Vittore Pisani il suffisso -cnus indicherebbe un patronimico e dunque il dio Taranucnus sarebbe in realtà un figlio del dio Taranis e non Taranis stesso (Pisani 1949). Più convincente l'ipotesi secondo la quale il termine vada considerato come titolo aggettivale, e quindi «colui che tuona» (Green 1992).

La lezione Tanarus, attestata nell'iscrizione di Chester (CIL [vii 168]), è forse anch'essa una variazione del nomen Taranis. In tal caso si spiega ipotizzando un'alternanza di radici *taran-/*tanar-, di cui una si è formata dall'altra per metatesi (inversione delle consonanti), anche se non è facile capire quale sia la forma originale e quale la derivata. Si può invece respingere l'ipotesi che vorrebbe far derivare la forma Tanarus dal nome greco del fiume ligure Tanaro [Tánaros].

Lo scarso numero di iscrizioni rivolte a questo dio, soltanto sette in tutta l'area celtica, fanno pensare, a dispetto delle informazioni di Lucano, che Taranis non fosse stata una divinità celtica molto importante; di contro non si può fare a meno di notare che questi monumenti sono ben distribuiti, essendo stati trovati in Gallia, in Germania, in Britannia e persino in Dalmazia, implicando quindi che Taranis fosse perlomeno conosciuto su una vasta area. Secondo la Green, è possibile che Lucano abbia esagerato l'importanza del dio per ignoranza o per licenza poetica; sembra infatti che egli non avesse visitato personalmente la Gallia e quindi abbia ottenuto le informazioni di seconda mano, portando i chiosatori posteriori a esagerare l'importanza dei pochi nomi tramandati dalle fonti classiche (Green 1992).

Nessuna delle dediche a Taranis che possediamo è accompagnata dall'immagine del dio, così non sappiamo con certezza quale fosse il suo aspetto. L'interpretazione di Taranis quale dio del tuono, dovuta esclusivamente all'etimologia del nome e ormai ampiamente accettata dalla maggioranza degli studiosi, fu proposta nella prima metà del Settecento (Martin 1727). Improbabili le ipotesi che designano Taranis un dio solare e psicopompo (Le Roux 1955), o addirittura un dio dei morti (Lambrechts 1942). Restrittiva l'ipotesi che lo indica come un dio dei giuramenti (Van Hamel 1934). Da scartare anche l'ipotesi che pretenderebbe di identificare Taranis nel «dio col mazzuolo», il quale nell'epigrafia si chiama invece Sucellos.

Ma il punto dolente della questione è se Taranis vada o meno identificato con lo Iuppiter gallico di cui parla Caesar nel De bello Gallico. Delle varie iscrizioni dedicatorie, soltanto in tre il teonimo è usato come epiteto di Iuppiter, e cioè nella dedica a «I O M / TARANVEN[†...» da Bourganeuf (Francia) (AE [1961: 159]); in quella a «IOVI TA/RANVCO» rinvenuta a Skradin (Croazia) (CIL [iii 2804]), e in quella a «I O M TANARO» da Chester (Regno Unito) (CIL [vii 168]). La maggior parte degli esperti si è pronunciata a favore della correttezza di tale identificazione (Heichelheim 1932 | Lambrechts 1942 | Grenier 1945 | Duval 1954 | Duval 1957 | Le Roux 1959). Altri autori, pur accettando tale identificazione, pensano tuttavia che sia stata effettuata su basi piuttosto superficiali: mentre lo Iuppiter romano era una divinità complessa, con un'ampia gamma di funzioni che variavano dalla regalità al potere atmosferico, Taranis sembra essere stato esclusivamente una divinità naturalistica (Green 1998). Tale affermazione, tuttavia, è basata sul fatto che quel poco che sappiamo di Taranis siamo stati costretti a dedurlo per via etimologica e quindi non sappiamo quali sfumature della divinità siano andate perdute.

Al contrario, De Vries, che come abbiamo visto considera la ruota un simbolo solare e dunque dà allo Iuppiter gallico un carattere di dio-cielo, nega la sua identificazione con Taranis. Secondo quest'ultimo studioso, Taranis sarebbe stato essenzialmente un dio-tuono sul tipo di Indra o Þórr, e come tale legato alla casta guerriera; se in epoca romana venne interpretato con Iuppiter, lo fu solo a causa del suo carattere tonante (De Vries 1961). Ma anche se la ruota può essere interpretata come simbolo solare, non esistono reali identificazioni tra dio-sole e dio-tuono (Green 1992).

La nostra opinione è che il vizio di interpretazione è piuttosto tra lo Iuppiter romano e lo Iuppiter gallico, il primo un dio-cielo e il secondo un dio-tuono, avvicinati l'uno all'altro esclusivamente per il comune carattere tonante. Riteniamo che lo Iuppiter gallico, ovvero il «dio con la ruota», sia stato a tutti gli effetti un dio-tuono sul tipo di Indra o Þórr, e che quindi si possa senz'altro accettare la sua identificazione con Taranis. Ed ora vedremo per quali ragioni.

VII - LO IUPPITER GALLICO: DIO-CIELO O DIO-TUONO?

La questione dello Iuppiter gallico, che ha a lungo diviso gli studiosi, è alla fine riassumibile in due scuole di pensiero. C'è chi vuole che lo Iuppiter gallico fosse stato un dio-cielo, sulla falsariga dello Iuppiter classico; chi pensa invece a un dio-tuono, come il Þórr germanico. Chi opta per la seconda alternativa ammette l'identità tra lo Iuppiter gallico e Taranis, altrimenti è costretto a considerarli due divinità distinte.

Prima di affrontare il problema, sarà meglio definire entrambi i mitologemi, del dio-cielo e del dio-tuono, ben distinti in tutte le mitologie di matrice indoeuropea.

In termini tradizionali, il dio-cielo è l'incarnazione del cielo nel suo aspetto più alto e luminoso. Il dio-cielo simboleggia la legge eterna che dirige il tempo e lo spazio, e quindi l'ordine cosmico. Ma come conseguenza, il dio-cielo tende a porsi in un sovrumano distacco dalle cose terrene, cosicché nei suoi vari esiti troviamo la sua figura quasi sempre piuttosto sbiadita e lontana. Il dio-cielo, pur avendo mutato la fisionomia, ha conservato quasi dovunque un nome derivato dall'originario *DʲĒWS PʰƎTĒR «cielo padre» indoeuropeo. Abbiamo così Dyauṣ Pitā in India, Zeús Patḗr in Grecia, Iuppiter a Roma (nonché, da una formazione aggettivale *DEJW- «celeste», vari termini per «dio» nelle lingue indoeuropee, cfr. sanscrito deva, greco diós, latino deus, irlandese día, norreno týr, quest'ultimo ipostasizzato nel nome del dio Týr). ①

Il dio-tuono è invece il re degli dèi, dunque il detentore della regalità guerriera. È un dio atmosferico, signore delle nubi e della pioggia. È colui che tutela l'ordine cosmico contro le forze del caos, l'uccisore dei mostri e dei giganti, e le sue armi sono il tuono e la folgore. Al contrario del dio-cielo, il dio tuono non ha conservato il nome originale, ma la sua fisionomia è rimasta pressoché inalterata in tutte le mitologie. È Indra in India, Hēraklês in Grecia, Hercules a Roma, *Þūnraz/Þórr tra i Germani.

A questo punto dobbiamo chiederci chi fosse lo Iuppiter gallico: un dio-cielo abbassato di livello, o un dio-tuono ancora perfettamente funzionale?

La nostra idea è che si trattasse originariamente di un dio-tuono.

Parecchi elementi riconducono verso questa assimilazione: la sua regalità di second'ordine, il fulmine che impugna, la ruota che simboleggia forse il rombo del tuono, e ovviamente l'epiteto Taranis/Tanarus che non solo ci riporta all'idea di tuono, ma che sembra anche corradicale con il nome del dio-tuono germanico *Þūnraz/Þórr.

Data questa ipotesi di lavoro, facciamo un rapido confronto con le altre mitologie indoeuropee, e analizziamo i vari esiti di dio-cielo e dio-tuono.

Nell'India vedica troviamo, fin dai primi documenti a noi pervenuti, il dio-cielo Dyauṣ Pitā quasi del tutto assente dalla mitologia. Il dio-tuono Indra ha invece la parte dell'impetuoso re degli dèi, la cui arma prediletta è il fulmine [vajra]. Nel mito, Indra appare come l'uccisore del serpente Vṛtra, che con le sue spire tratteneva le acque del mondo provocando la siccità.

La Grecia dovette invece subire, negli stadî più arcaici del suo sviluppo culturale, l'influsso culturale del Medio Oriente. La figura del dio-cielo fu caricata di una regalità di stampo orientale, sulla falsariga delle divinità supreme delle mitologie semitiche (Baʿal, Marduk, Yǝhwāh); come risultato, Zeús assunse una regalità più diretta, non dissimile da quella dei monarchi orientali, si armò del fulmine e prese potere sull'atmosfera e sulla pioggia. Il dio-tuono Hēraklês, privato della regalità guerriera, scaduto il fulmine in una semplice clava, fu invece declassato al rango di semi-dio e si accontentò di portare avanti la sua tradizionale missione di uccisore di mostri.

A Roma la situazione fu forse diversa, prima che il fascino esercitato dal mondo ellenico inducesse i Romani a ridefinire i caratteri delle loro divinità sul calco di quelle greche. Tuttavia qui Iuppiter conservò molti più caratteri del dio-cielo di quanto non fosse avvenuto in Grecia ed Hercules non fu mai abbassato al rango di semidio.

Ora, mentre in Grecia ed a Roma il dio-cielo si arricchiva a spese del dio-tuono, tra i Germani ebbe un esito completamente diverso. Qui, toccò invece al dio-vento *Wōtanaz/Óðinn divenire dio supremo, eliminando il dio-cielo o forse riducendolo a una scialba figura di contorno (*Tīwaz/Týr); il dio-tuono *Þūnraz/Þórr rimase un guerriero fracassone, grande uccisore di mostri, nonché signore del tuono, ma privo della regalità: *Wōtanaz/Óðinn aveva assunto in sé sia la regalità guerriera del dio-tuono, sia la supremità del dio-cielo.

Anche tra i Celti, come tra i Germani, il trasferimento del dio-vento in posizione suprema rivoluzionò i quadri del pantheon, ma in maniera un po' diversa. Il Mercurius gallico ebbe la supremità, ma non la regalità, che evidentemente rimase allo Iuppiter gallico. Ecco perché nella sua lista, Caesar cita Mercurius al primo posto tra le cinque principali divinità galliche, e mette al quarto posto Iuppiter, anche se afferma essere il re degli dèi. In effetti è possibile che lo Iuppiter gallico fosse un sovrano tipo Indra: un re guerriero, ma non il detentore della suprema regalità.

La cosa è perfettamente ammissibile. Si ricordi che anche il dio-tuono germanico *Þūnraz/Þórr, originariamente interpretato con Hercules, finì in seguito per vedersi assegnato il giovedì, giorno tradizionalmente dedicato a Iuppiter.

Quanto abbiamo detto non esclude però che differenti figure divine del pantheon celtico non possano essere state parallelamente identificate con Iuppiter in epoca gallo-romana; oppure (il che è la stessa cosa) che lo Iuppiter romano in Gallia non abbia assunto su di sé epiteti e attributi di altre divinità celtiche. Tra queste potrebbe esserci stato per esempio un antico dio-cielo celtico ormai uscito dal culto e dalla mitologia.

Questo fatto spiegherebbe la compresenza, per quanto riguarda lo Iuppiter gallico, di epiteti da dio-tuono, quali Taranis «tonante», Baginatis «delle querce», Bussumarus «colui che ben colpisce», accanto a epiteti più adatti a un dio-cielo, come Uxellimus «altissimo» e forse il discusso Sucaelus (cfr. latino caelum  «cielo»).

Radici: [*DʲĒW- | *DEJW-]►

VIII - RAPPORTI TRA IL DIO-TUONO GERMANICO E IL DIO-TUONO CELTICO

Abbiamo visto che il più importante degli epiteti dello Iuppiter gallico è Taranis (dalla radice *taran «tuono»). Abbiamo anche visto che una delle forme alternative di questo nome è Tanarus, spiegabile ipotizzando un'alternanza di radici *taran-/*tanar-, di cui una si sarebbe formata dall'altra per metatesi o inversione delle consonanti (TRN/TNR).

Ora, questa seconda successione di consonanti (TNR) la troviamo nel nome del dio-tuono germanico *Þūnraz. È infatti probabile che lo Iuppiter gallico (Taranis), sia stato un personaggio assai simile al dio-tuono germanico.

Tra gli antichi Germani il dio-tuono si chiamava *Þūnraz (da cui l'antico alto tedesco donar «tuono» e il norreno Þórr). Secondo le tradizioni scandinave, Þórr produceva il fulmine con il martello Mjöllnir e il rombo del tuono con le ruote del suo carro (e fulmine e ruota sembrano appunto gli elementi caratteristici dello Iuppiter gallico).

Già Tacitus aveva identificato il dio-tuono germanico *Þūnraz con Hercules (Germania [9]), basandosi verosimilmente sul fatto che erano entrambi eroi forzuti avvezzi a uccidere mostri a colpi di clava o di maglio. In seguito, il dio-tuono germanico *Þūnraz venne piuttosto identificato col dio-cielo Iuppiter a causa del carattere tonante. Ecco perché il giovedì (latino dies Iovis), giorno tradizionalmente sacro al dio-cielo, nelle lingue germaniche è invece associato al dio-tuono (tedesco Donnerstag, inglese thursday, danese e svedese torsdag).

Ci troviamo dunque di fronte a due diverse divinità, o forse due diverse varianti di un medesimo dio, un dio-tuono celtico e un dio-tuono germanico, che i Romani interpretarono in entrambi i casi con Iuppiter. Che tali divinità fossero simili è ragionevole. Non c'è motivo per pensare che Celti e Germani avessero innalzato una barriera tra l'una e l'altra sponda del Reno; anzi, vi sono tutte le ragioni per credere a profondi scambi culturali tra i due popoli. È dunque probabile che esistesse una figura divina di dio-tuono, diffusa indifferentemente tra Celti e Germani, i cui attributi sfumassero di popolazione in popolazione. Il suo nome copriva un vasto spettro di nomi, celtici e germanici, tutti derivanti dalla medesima radice per «tuono». Taranis/Tanarus tra i Celti; *Þūnraz tra i Germani.

IX - LO IUPPITER GALLICO: POSSIBILI ESITI NELLA MITOLOGIA CELTICA INSULARE

La successiva domanda è: quale personaggio della mitologia celtica insulare potrebbe rappresentare un tardo esito dello Iuppiter gallico? Ebbene, siamo costretti ad ammettere che, secondo il nostro schema, non è possibile rintracciare con sicurezza, tra i Celti insulari, alcun personaggio omologo allo Iuppiter/Taranis.

Molti sutdiosi, un po' affrettatamente, hanno proposto di vedere lo Iuppiter gallico nel Dagda Mór irlandese. Ad assimilare le due figure non vi sono in realtà dei tratti significativi. Entrambe le divinità sembrano occupare uno status privilegiato nei rispettivi pánthea, sebbene

ci sarebbero innanzitutto la mazza del Dagda, che era montata su ruote, e il fatto che il Dagda fosse chiamato «padre di tutti» [Ollathair], titolo assimilabile. Tuttavia, se la nostra ipotesi è buona e lo Iuppiter gallico è un dio-tuono, allora quest'interpretazione viene a cadere: il Dagda Mór non ha assolutamente nulla del tradizionale dio-tuono, tranne, forse, la spiccata ingordigia. E ancora, la mazza del Dagda, capace di dare la morte ma di far tornare alla vita, sembra avere molti punti in comune con il martello di Þórr. Ma come vedremo meglio in seguito, noi associamo piuttosto il Dagda Mór al dio Sucellos.

Anche Núada Aircetlám sembra avere poco dello Iuppiter gallico, a parte la sua regalità guerriera. Il mito della mutilazione del braccio di Núada però ha riscontro nel mito norreno del dio-cielo Týr, che ebbe la mano staccata dal lupo Fenrir. Ma tutto ciò è insufficiente per interpretare Núada in entrambi i sensi: sia come dio-tuono che come dio-cielo.

Eliminati il Dagda Mór e Núada, non esistono personaggi della mitologia celtica insulare che possiamo porre vicini allo Iuppiter gallico.

X - JUPITERGIGÄNTENSAULEN, LE COLONNE DEL CAVALIERE

Jupitergigantensäule
Badisches Landesmuseum, Karlsruhe (Baden-Württemberg, Germania)

Lo scorcio superstite di un antico mito celtico che aveva forse come protagonista lo Iuppiter gallico, compare in una serie di circa 150 monumenti, eretti fra gli anni 170 e 240 d.C. Tali monumenti, detti «colonne del cavaliere» (il termine tecnico è in tedesco Jupitergigantensäulen, «colonne di Iuppiter e del gigante», sebbene faccia riferimento a un'identificazione ipotetica), sono diffusi soprattutto nel territorio dei Lingones e dei Mediomatrici, nel nord-est della Gallia, da cui si irradiano nella valle della Mosella, territorio dei Treveri. Ve ne erano ancora lungo il Reno, su entrambe le sponde del fiume, fino ad Altenburg (Thuringia, Germania). Esemplari isolati sono stati trovati anche nelle Fiandre, in Bretagna e nel territorio degli Arverni. Uno è stato rinvenuto addirittura in Britannia (Willingham Fen, presso Cambridge).

Le «colonne del cavaliere» sono formate da un tamburo di base da cui si diparte la colonna vera e propria. Il tamburo o plinto è normalmente a due livelli: uno a quattro lati, sui quali sono raffigurate altrettante divinità romane, tipicamente Iuno, Mercurius, Hercules e Minerva (Viergötterstein, «pietra dei quattro dèi»), e uno a sette/otto lati, che in genere riporta dipinte delle personificazioni dei giorni della settimana (Wochengötterstein, «pietra delle divinità settimanali»).

La colonna, alta diversi metri, è generalmente sormontata da un capitello corinzio. In cima al capitello è ritratto un cavaliere che cavalca con solenne andatura, il mantello gonfio di vento; il fulmine di cui è armato veniva spesso realizzato in metallo in modo che riflettesse la luce imitando la traccia del lampo. A volte il cavaliere impugna la ruota a guisa di scudo protettivo, come a Luxeuil (dép. Haute-Saône), Meaux (dép. Seine-et-Marne), Quémigny-sur-Seine (dép. Côte-d'Or, Francia) e Obernberg (Bayern, Germania).

Il cavallo calpesta con gli zoccoli un anguipede, una sorta di gigante il cui corpo termina in una coda di serpente o di pesce, il quale giace al suolo schiacciato dagli zoccoli del cavallo. L'anguipede è spesso barbuto, lo vediamo contorcersi dal dolore, mentre il suo viso ferito e i suoi muscoli tesi rivelano l'intollerabile peso del carico che lo sta schiacciando. In un caso, tuttavia, pare che l'anguipede sorregga con le proprie mani le zampe anteriori dell'animale. Nel monumento rinvenuto nelle vicinanze di Mainz (Rheinland-Pfalz, Germania), l'anguipede ha la testa che giace sotto lo zoccolo del cavallo e guarda a ritroso il cavaliere. Vi sono poi dei casi in cui il cavaliere non monta a cavallo, ma si erge con le proprie gambe sul mostro, come nel monumento di Grand (dép. Vosges, Francia) o in quello trovato sul fiume Waal, presso Nijmegen (Paesi Bassi). Esemplari completi di questo monumento, come quelli di Mainz o di Trier (Rheinland-Pfalz, Germania), sono rari; generalmente possediamo solo dei frammenti della figura del cavaliere.

Che il cavaliere sia da identificare con lo Iuppiter gallico lo si deduce unicamente dal fatto che qualche volta impugna la ruota. Un'indicazione secondaria può essere il fatto che in certi casi tali colonne sembrano avere come modello un albero di quercia in pieno rigoglio – il pilastro di Stuttgart (Baden-Württemberg, Germania) è decorato con foglie di quercia e ghiande –  e la quercia era ugualmente sacra allo Iuppiter romano ed a quello gallico. A questo si unisce la notizia di Valerius Flaccus che annota come la tribù dei Coralli (probabilmente celtica) venerava effigi di Iuppiter associate a ruote e pilastri: «ruote barbariche sono i loro emblemi, immagini di cinghiali con i dorsi rivestiti di ferro e colonne spezzati, effigi di Iuppiter» (Argonautica [VI: ]). Ma per quanto coerenti, queste sono solo vaghe indicazioni: non vi è certezza che la figura del cavaliere sia davvero da identificare con Iuppiter. Nel caso tale identificazione sia corretta, si potrebbe forse dedurre che l'idea di collocare un'immagine del cio-cielo su un alto pilastro poteva nascere in parte dalla volontà di innalzarlo verso il cielo; il pilastro era dunque percepito come un ponte tra il mondo terreno e quello celeste (Green 1992). Al contrario, non si può fare a meno di notare che nel mondo classico non troviamo mai Iuppiter in veste di cavaliere, ragione per cui se ne deduce facilmente che l'immagine appartiene a buon diritto al simbolismo celtico.

Queste colonne sono state trovate fuori dalle città e dalle grandi vie di comunicazioni, per lo più tra le rovine di villae ma anche nel letto di un fiume o nelle vicinanze di sepolcri. Ci sono degli esempi in cui il basamento di una pietra con quattro divinità è stato murato sotto l'altare di una chiesa cristiana. L'influsso romano è incontestabile, ma non si deve concludere che si tratti di monumenti romani (Riese 1898). Si è anche argomentato, con scarso fondamento, che tali monumenti fossero di origine germanica (Hertlein 1910).

È molto difficile decidere che cosa significhi effettivamente la scena. Chi o che cosa rappresenta l'anguipede? In quale rapporto sta con il cavaliere che lo sovrasta? Fernand Benoît è stato il primo a parlare di una versione celtica della gigantomachia (Benoît 1954), ripreso in seguito da Miranda Jane Green secondo la quale vi sarebbero alla base delle influenze mediterranee (Green 1992), cosa che Jan De Vries aveva precedentemente negato (De Vries 1961). Sempre secondo la Green, ciò che tali colonne illustrerebbero è la lotta tra cielo e mondo sotterraneo, tra vita e morte, bene e male, luce e oscurità. Il gigante, con i suoi arti anguiformi, rappresenterebbe l'elemento ctonio e negativo, soggiogato dalla forza positiva del dio-cielo. Questo senza negare un rapporto dualistico, di interdipendenza, tra i due personaggi (Green 1998). In effetti sembra di capire che c'è stata una lotta, il cavaliere ha vinto e ora schiaccia sotto di sé l'avversario; l'espressione di terrore dell'anguipede s'accorderebbe con questa interpretazione.

Tra le altre teorie proposte nel corso degli anni, interessante quella di Ferdinand Haug, il quale, ritornando ritornando al tempo in cui certe parti della Gallia erano minacciate dalle invasioni dei Germani, ha immaginato che il monumento raffigurasse la vittoria dell'esercito romano sui barbari (Haug 1891). Friedrich Hertlein ha invece pensato a una divinità terrestre in procinto di sorreggere il cielo (Hertlein 1910). Reinach ha visto nell'anguipede le acque nascoste nelle profondità della terra (Reinach 1914). Camille Jullian ha pensato invece alla vittoria del dio del sole (sempre interpretando la ruota quale simbolo solare) sulle tenebre (Jullian 1907-1920). E siccome le colonne nel territorio dei Lingones si trovavano presso una sorgente o nel letto d'un fiume, Pierre autori hanno giudicato vaga e discutibile e non sempre in accordo con la situazione di altri reperti (Lambrecht 1949).

Alcuni studiosi sono convinti che non si possa assolutamente parlare di una battaglia. Difatti il mostro, in alcuni casi, come per esempio nella figurazione trovava a Saint-Malo in Bretagna, è donna. Questa circostanza ha portato Georges Drioux a concepire nel gruppo il dio del sole e la dea della guerra (Drioux 1934): ma pure si tratta di un'interpretazione improbabile (gli esempi in cui il mostro è una donna costituiscono delle eccezioni isolate).

Ebbene, non conoscendo il mito non sapremo mai quali ipotesi siano giuste o sbagliate. Proponiamo qui, riallacciandoci in parte a Pierre Lambrecht, una possibile soluzione dell'enigma: il motivo indoeuropeo della lotta contro il serpente. Nel mito vedico, Indra, il dio-tuono, combatté e uccise il serpente Vṛtra, il quale tratteneva tutte le acque del mondo causando una siccità di portata cosmica. Sebbene non sia direttamente attestato in ambito celtico (con la possibile eccezione del racconto irlandese della lotta tra Dían Cécht e il serpente Méchi, le cui ceneri vennero poi disperse nella corrente di un fiume) questo mito ha un suo omologo classico nel racconto della lotta di Zeús contro Typhôn e germanico in quello di Þórr contro Jǫrmungandr (il quale di nuovo conteneva le acque con il suo enorme corpo serpentino).  Possiamo allora vedere nell'immagine la lotta tra il dio-tuono e il serpente della siccità, ipotesi avvalorata dal fatto che le immagini nel territorio dei Lingones si trovavano vicino a corsi d'acqua, forse per scongiurare il loro disseccarsi estivo.

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BIBLIOGRAFIA
Intersezione Aree: Holger Danske
Sezione Miti: Asteríōn
Area Celtica: Óengus Óc
Ricerche e testi di Dario Giansanti e Oliviero Canetti.
Creazione pagina: 10.11.2003
Ultima modifica: 29.09.2015
 
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