I - ÞÓRR TIL EINVÍGIS, LE FONTI
Il mito del duello (einvígi) di
Þórr contro
Hrungnir è riferito innanzitutto da Snorri
Sturluson in un racconto di ampio respiro contenuto nella seconda parte della sua
Prose Edda, lo
Skáldskaparmál.
Il racconto è presente nei manoscritti Rs, W e T (Codices
Regius, Wormianus, Trajectinus), e manca del tutto nel U (Codex Upsaliensis).
Subito dopo, nel testo, Snorri riporta anche alcune strofe da una composizione di Þjóðólfr ór
Hvíni (scaldo attivo tra la fine del ix e l'inizio del
x secolo), il Haustlǫng, «lungo
come un autunno», nel quale il medesimo mito è narrato nello stile ellittico
e involuto tipico della poesia scaldica.
Il cosiddetto «ciclo di Hrungnir» è, in Snorri, piuttosto ampio e articolato e connette
sei
scene distinte:
- la gara di corsa tra
Óðinn e
Hrungnir;
- Hrungnir, invitato a bere nella
Valhǫll, si ubriaca e minaccia
gli Æsir;
- preparativi del duello: creazione del Mǫkkurkálfi;
- il duello tra
Þórr e
Hrungnir;
il combattimento parallelo tra
Þjálfi e il Mǫkkurkálfi;
-
Þórr schiacciato dal piede del gigante;
- il tema dell'estrazione del frammento di cote dalla testa di
Þórr.
Nella versione di Þjóðólfr l'equilibrio della
vicenda è affatto diverso. Mancano infatti del
tutto le scene nn. 1, 2 e 3 del resoconto di Snorri. Þjóðólfr si dilunga inoltre
nel trattare i dettagli apocalittici del tragitto celeste di
Þórr verso il sito del duello, scena che
Snorri sbrigava invece in poche parole. In Þjóðólfr manca del tutto l'intervento
di
Þjálfi, così come la presenza
del Mǫkkurkálfi. Manca anche la scena n. 5: nulla si dice di
Þórr schiacciato dal piede di
Hrungnir e dell'intervento risolutore di Magni.
È però presente il tentativo di estrazione del
frammento di cote dalla testa di
Þórr.
Il fatto che Þjóðólfr narri soltanto la quarta e
la sesta scena, ci dà una certa fiducia sul fatto che il nucleo originario del
mito ruotasse forse attorno al tema del frammento di pietra conficcato nella testa di
Þórr. In tal caso, il combattimento contro
Hrungnir è probabilmente il mito eziologico
destinato a spiegare la presenza di questa scheggia nel cranio dell'áss. Il tema sembra avesse in
origine un significato importante, almeno a giudicare dalle flebili
tracce che ha lasciato in altri sistemi mitici, sebbene sia oggi difficile
cercare di ricostruirne la natura. Se è così, è possibile che le prime due scene scena
facciano parte di un racconto distinto e siano state apposte dallo
stesso Snorri, o da qualche suo antigrafo, al racconto dell'einvígi e della fallita
estrazione della scheggia di pietra dalla testa del dio.
D'altra parte, Snorri presenta l'intero «ciclo di Hrungnir» come
un complesso mitico unitario riguardante tanto
Þórr tanto Óðinn,
sebbene possa trattarsi di un escamotage letterario:
...svá sem Bragi sagði Ægi
at Þórr var farinn í Austrvega at berja troll, en Óðinn reið Sleipni í
Jǫtunheima ok kom til þess jǫtuns er Hrungnir hét. |
Come quella volta in cui
Bragi raccontò ad Ægir di quando
Þórr si era recato sulle vie dell'oriente
a combattere i troll, mentre Óðinn
cavalcava con Sleipnir in
Jǫtunheimr, e giunse presso quel
gigante chiamato Hrungnir. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [24] |
Oltre alle opere di Snorri e a Þjóðólfr, al mito
accennano due poemi eddici. Nel Lokasenna,
Þórr, nel minacciare
Loki, definisce due volte il martello
Mjǫllnir con la kenning «uccisore di
Hrungnir» [Hrungnis bani]
(Lokasenna [61 | 63]); nell'Hárbarðsljóð,
Hárbarðr (cioè
Óðinn) e
Þórr ricordano l'einvígi con un
ironico scambio di battute:
Hárbarðr kvað: |
Disse
Hárbarðr: |
“Hér mun ek standa
ok þín heðan bíða;
fannt-a þú mann in harðara
at Hrungni dauðan”. |
Starò qui
in tua attesa;
non hai incontrato uomo più irremovibile
da quando morì
Hrungnir”. |
Þórr kvað: |
Disse
Þórr: |
“Hins viltu nú geta,
er vit Hrungnir deildum,
sá inn stórúðgi jǫtunn,
er ór steini var hǫfuðit á;
þó lét ek hann falla ok fyrir hníga.
Hvat vanntu þá meðan, Hárbarðr?”. |
“Ora questo vuoi rammentare,
che combattemmo, io e
Hrungnir,
quel superbo gigante,
la sua testa era di pietra;
tuttavia lo abbattei e mi cadde davanti.
E nel frattempo tu che facevi,
Hárbarðr?”. |
Ljóða Edda
> Hárbarðsljóð [14-15] |
Un testo piuttosto laconico, nel quale Þórr
sembra andare per le spicce, sottolineando la sua vittoria. Ma poiché è il dio
del tuono
che sta raccontando la sua versione dei fatti, è possibile che non voglia
ricordare certi dettagli poco onorevoli. |
II - LA MIA TESTA PER UN CAVALLO In Snorri, il «ciclo di Hrungnir»
prende l'avvio con una scena inusuale:
Óðinn cavalca in sella a
Sleipnir e, giunto in
Jǫtunheimr, incontra lo jǫtunn Hrungnir.
I due hanno una schermaglia verbale relativamente alle capacità delle
rispettive cavalcature, schermaglia che si trasforma quasi subito in una gara di corsa in cui
Óðinn scommette la testa che il suo
destriero sia più veloce di quello del gigante, detto
Gullfaxi.
Come nota John Lindow,
Óðinn si sposta di solito a piedi, in
qualità di
viandante (uno dei suoi heiti è
Vegtamr), ed è piuttosto raro
trovarlo in sella a
Sleipnir. Questo accade soltanto nei
Baldrs draumar, e sia può anche presumere
che
Óðinn sia in sella a
Sleipnir nella scena in cui si reca al
funerale di Baldr, in Úlfr Uggason
(Húsdrápa [8]). Ma queste sono le uniche
evenienze: la famosa vicenda della cavalcata di
Sleipnir sulla via per
Hel ha infatti, come protagonista,
Hermóðr
(Gylfaginning, [49])
(Lindow 1996). Per tali ragioni, la scena dove
Óðinn arriva in
Jǫtunheimr in groppa a
Sleipnir è piuttosto sospetta.
Gli altri casi in cui troviamo
Óðinn a cavallo di
Sleipnir sono motivati da ricerche
sapienziali o da difficili problemi escatologici, in cui il dio, o il suo alter ego
Hermóðr, trattano con esseri oltremondani, che non
riconoscono la sua autorità. Il dialogo tra
Óðinn e Hrungnir
è invece incentrato su un argomento insignificante, la qualità dei rispettivi cavalli.
Ciò nonostante,
Óðinn arriva al punto di scommettere la
proprio
testa che
Sleipnir sia più veloce di
Gullfaxi. Una scommessa sproporzionata rispetto
alla materia del contendere, che però richiama il certamen
di sapienza con il gigante
Vafþrúðnir, argomento del Vafþrúðnismál.
Secondo Lindow, questa sfida nasconderebbe un significato cosmologico.
(Lindow 1996)
Ma qual è esattamente la posta in gioco? Il cavallo Gullfaxi,
ha un nome, «criniera d'oro», assai poco adatto al destriero di uno jǫtunn.
Rimanda piuttosto alle cavalcature degli
Æsir, i cui nomi sono a volte caratterizzati da un prefisso gull[in]-,
«oro», quale Gulltoppr (cavallo di
Heimdallr) o
Gullinbursti (cinghiale di Freyr).
Una possibilità è che Óðinn, sfidando
Hrungnir a una gara di corsa, cerchi di creare una
situazione di contrasto in cui lo jǫtunn finirà per essere ucciso, come
infatti accadrà di lì a poco per mano di Þórr.
Il fine di questa trappola sembra essre quello di impadronirsi del cavallo Gullfaxi,
strapparlo agli jǫtnar e trasportarlo ad
Ásgarðr.
Ciò potrebbe appunto spiegare un altro dei punti poco chiari della
narrazione: il disappunto di
Óðinn allorché Þórr,
alla fine della vicenda, regala Gullfaxi al figlio Magni,
e non a lui, disappunto in cui si vede, forse, il timore che tale destriero
ritorni agli jǫtnar, visto che madre di Magni
è la gýgr Járnsaxa.
Þá mælir Óðinn ok
sagði at Þórr gerði rangt, er hann gaf þann inn góða hest gýgjarsyni en eigi
fǫður sínum. |
Parlò quindi
Óðinn e disse che
Þórr aveva fatto male a dare quel buon
cavallo al figlio di una gýgr, anziché al proprio padre. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [24] |
Il timore di
Óðinn è d'altra parte infondato, visto
che Magni rimarrà fedele agli
Æsir e sarà, anzi, erede di
Þórr, dopo il
ragnarǫk, ed erediterà il martello
Mjǫllnir, insieme al fratellastro Móði. In
quanto al destriero, entrerà nel novero delle cavalcature degli
Æsir, come
attesta un verso della cosiddetta Þórgrímsþula, «Gullfaxi
e Jór tra gli dèi» [Gollfaxi ok Jór ned goðum]
(Lindow 1996).
|
III - HRUNGNIR, OVVERO, IL FRASTUONO DELLE ROCCE Il
nome
Hrungnir vuol dire «risonante», forse con riferimento al frastuono
causato dalla sua voce, dai suoi passi, dalla sua stessa mole. Ma il nostro
jǫtunn sembra particolarmente legato al mondo litico. È significativo, in
tal senso, il nome della sua dimora: Grjótúnagarðar,
i «recinti dei campi di pietra», dove l'elemento roccioso è presente nel suo
aspetto negativo, simbolo di sterilità e di aridità
(Isnardi 1991).
Snorri ci informa che la testa di Hrungnir
era di pietra, dettaglio ribadito in Hárbarðsljóð [15].
Di pietra erano anche le sue armi: uno scudo rotondo, fatto di dura roccia,
a cui si associava, come arma da lancio, una cote (hein): una pietra
dalla superficie levigata, normalmente utilizzata per affilare le lame di spade e coltelli. Ma è dubbio che l'arma utilizzata da
Hrungnir sia stata mai usata come cote, nonostante
Snorri la definisca tale: ci si può infatti chiedere quali tipo di
lame vi affilasse sopra Hrungnir, il quale non
sembra facesse uso di strumenti che non fossero di pietra. L'arma brandita dal
gigante non era esattamente una cote, ma
l'archetipo originario di tutte le pietre che in futuro sarebbero state
utilizzate per l'affilatura, che derivano infatti dai frammenti della hein
di Hrungnir.
Ma anche il cuore di Hrungnir era fatto di
pietra, ed era un cuore assai particolare:
Hrungnir átti hjarta þat,
er frægt er, af hǫrðum steini ok tindótt með þrimr hornum, svá sem síðan er gert
ristubragð þar er Hrungnis hjarta heitir. |
Hrungnir aveva quel cuore, che è
famoso, fatto di pietra dura e dotato di tre punte affilate di corno, da cui è
originato il simbolo che si chiama Hrungnishjartr. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [24] |
Il simbolo qui detto
Hrungnishjartr, «cuore di Hrungnir», è
menzionato soltanto nell'Edda di Snorri. Non esistono altre fonti
che descrivano la sua esatta forma e significato, ed è
unicamente il
riferimento al numero tre a far pensare a qualche tipo di trischele. Secondo alcuni, sarebbe da assimilare al
cosiddetto *valknútr, il
«nodo dei caduti», neologismo attribuito alla trischele visibile su alcune incisioni rupestri rinvenute in Svezia, soprattutto nell'isola
di Gotland, in Danimarca e in Inghilterra. Tale simbolo compare anche nel corredo della
nave funeraria di Oseberg (ix
secolo) in Norvegia. (Isnardi 1991). Si tratta
tuttavia di semplici congetture.
|
Alcune raffigurazioni nordiche della trischele (✍
viii-ix secolo) |
(a) e (b) pietra di Lillbjärs
iii, Gotland (Svezia); (c)
pietra di Fride, Gotland (Svezia); (d) pietra runica di Snoldelev,
Sjælland (Danimarca); tutte risalenti all'viii-ix
secolo. (Isnardi 1991) |
|
IV - I TORMENTI DEL TRAGITTO Il «ciclo di Hrungnir»
è caratterizzato da una serie di spostamenti da
Jǫtunheimr ad
Ásgarðr, e viceversa. Abbiamo già
parlato della gara di corsa di
Óðinn e Hrungnir,
che si conclude in maniera del tutto inaspettata, per lo jǫtunn, una
volta oltrepassati i cancelli di
Ásgrindr. Ma sono assai più interessanti i tragitti
di ritorno allo
Jǫtunheimr: sia quello di Hrungnir, ma ancor più
il viaggio di Þórr, che si affretta all'einvígi
con il gigante. Al riguardo, le due fonti (Snorri e
Þjóðólfr) sono piuttosto asimmetriche.
Snorri accenna in poche parole al ritorno di Hrungnir
ai Grjótúnagarðar, ovviamente in groppa a
Gullfaxi:
Fór þá Hrungnir braut leið
sína ok hleypði ákafliga, þar til er hann kom í Jǫtunheima, ok varð fǫr hans
allfræg með jǫtnum ok þat at stefnulag var komit á með þeim Þór. |
Hrungnir quindi se ne andò, galoppando
impetuosamente, finché non tornò nello
Jǫtunheimr e fra gli jǫtnar si parlò molto del suo viaggio e dello scontro
con Þórr che era stato stabilito. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [24] |
Che Snorri ignori del tutto il viaggio Þórr
è cosa piuttosto curiosa, in quanto a esso Þjóðólfr
dedica, nel suo Haustlǫng,
ben due quartine e mezza delle sette complessive dell'episodio. Le riportiamo
qui nella bella traduzione di Ludovica Koch
(Koch 1984), con qualche
nostra variazione esplicativa:
Eðr of sér er jǫtna
ótti lét of sóttan
hellis bǫrr á hyrjar
haug Grjótúna baugi;
ók at ísarnleiki
Jarðar sunr, en dunði
(móðr svall Meila bróður)
mána vegr und hnum. |
Più oltre, vedo sull'anello di fuoco
nel tumulo di Grjótún andare a caccia
il terrore degli jǫtnar
dell'abitante delle caverne.
Andava a giocare un gioco di ferro
il figlio di Jǫrð, e rintronava
(si gonfiava il coraggio, nel fratello di Meili),
la strada di Máni sotto i passi di lui. |
Knáttu ǫll, en Ullar
endilg fyr mági
grund var grápi hrundin,
ginnunga vé brinna
þás [er] hafregin hafrar
hógreiðar fram drógu
(seðr gekk Svǫlnis ekkja
sundr) at Hrungnis fundi. |
Prese ad avvampare tutto, in faccia al parente
di Ullr, mentre sferzavano la terra,
in basso, raffiche di grandine,
lo sconfinato santuario del Ginnunga[gap].
E intanto, i capri trainavano
il comodo carro del dio,
(era prossima a squartarsi, la vedova
di Svǫlnir), contro
Hrungnir. |
Þyrmðit Baldrs of barmi,
berg, sólgnum þar dólgi
hristusk, bjǫrg ok brustu,
brann upphiminn, manna... |
Non mostrò gran riguardi, (le montagne
si scossero spaccandosi, s'infiamma
il cielo in alto), il fratello di Baldr
verso il duro nemico degli uomini. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [14-16] |
Þjóðólfr mette molta enfasi nel tema del viaggio di Þórr,
descrivendo il suo arrivo tra tuoni e grandine, tra il fiammeggiare del cielo e
lo squarciarsi della terra. È un viaggio compiuto dall'alto verso il basso: è
infatti la
«strada di Máni» [mána vegr], che
rintrona sotto i passi dell'áss, ovvero la regione astronomica percorsa
dalla luna nella sua orbita celeste. Þjóðólfr utilizza termini cosmologici,
citando la
Vǫluspá. Ad esempio, il ginnunga
al verso Haustlǫng [15d] rimanda al
Ginnungagap, il vuoto spalancato
delle origini (gap vas ginnunga, in
Vǫluspá
[3g]); mentre il grund del
verso Haustlǫng [15c] è reminiscente del primo
inverdirsi del suolo terrestre (þá vas grund gróin
/ grænum lauki, in
Vǫluspá [4g-h]).
Piuttosto cervellotica la strofa Haustlǫng [16],
dove il costrutto upphiminn, «cielo in alto», tipico dei racconti
germanici delle origini («non c'era terra, né cielo in alto» [jǫrð fansk æva / né upphiminn] in
Vǫluspá
[3e-f] e [dat ero ni uuas
noh ufhimil] in Wessobrunner Gebet),
è invece usato in un contesto dove si spaccano montagne e s'infiamma il cielo, formulae
che invece accompagnano la distruzione del mondo, nelle scene escatologiche e
nelle descrizioin del
ragnarǫk. Il
linguaggio apocalittico di Þjóðólfr sottolinea la natura cosmologica dello scontro tra
Þórr
e Hrungnir.
L'impressione è che Þjóðólfr utilizzi
formule poetiche antichissime, ereditate dal repertorio mitologico indoeuropeo.
Anche nella
Theogonía
di Hēsíodos, la scena in cui
Zeús scende da Ólympos per combattere i
Titânes, è caratterizzata da immagini
analoghe: mentre il dio percorre verticalmente lo spazio, dal cielo alla terra,
una sorta di sommovimento scuote tutto l'universo: in alto il cielo
s'infiamma e in basso la terra che si squarcia. E come nel testo di Þjóðólfr lo
sconvolgimento arriva addirittura agli abissi del
Ginnungagap, in quello di
Hēsíodos a bruciare è il Kháos stesso:
...ámydis d’ ár’ ap’ ouranoû ēd’
ap’ Olýmpou
astráptōn ésteikhe synōkhadón; hoi dè
keraunoì
íktar háma bront te kaì asterop potéonto
kheiròs ápo stibars, hierḕn phlóga
eilyphóōntes
tarphées; amphì dè gaîa pherésbios
esmarágize
kaioménē, láke d’ amphì pyrì megál’ áspetos
hýlē.
Ézee dè khthṑn pâsa kaì Ōkeanoîo hréethra
póntos t’ atrýgetos; toùs d’ ámphepe thermòs
aytmḕ
Titnas khthoníous, phlòx d’ aithéra dîan
híkanen
áspetos, ósse d’ ámerde kaì iphthímōn per
eóntōn
augḕ marmaírousa keraunoû te sterops te.
Kaûma dè thespésion kátekhen Kháos; eísato
d’ ánta
ophthalmoîsin ideîn ēd’ oúasi óssan akoûsai
aútōs, ōs ei Gaîa kaì Ouranòs eurỳs hýperthe
pílnato; toîos gár ke mégas hypò doûpos
orṓrei
ts mèn ereipoménēs, toû d’ hypsóthen
exeripóntos;
tóssos doûpos égento then éridi xynióntōn. |
...dal cielo e da Ólympos
scagliava i lampi senza mai fermarsi,
lanciava tuoni e fulmini con le sue forti mani
che roteavano più volte la fiamma divina;
e attorno la terra feconda bruciava,
gemevano nel fuoco i boschi infiniti;
ardeva la terra, i flutti di Ōkeanós
e il mare infecondo; una nebbia rovente avvolgeva
i
Titânes figli di G
e giungeva alle nubi divine;
il bagliore dei fulmini e dei lampi
li accecava (per quanto forti essi fossero).
Un incendio infinito avviluppava il Kháos:
per la vista delle pupille e l'udito delle orecchie
come quando G e il vasto
Ouranós di sopra
si accostavano: tanto si alzava il frastuono
a causa della guerra tra gli dèi
che pareva la terra franasse e il cielo crollasse. |
Hēsíodos:
Theogonía [8-] |
Temi e immagini analoghe sono anche
presenti nei testi mitologici indiani. Rimandiamo ad altra
sede per un confronto diretto con queste classi di miti. ①
|
V - IL RAPIMENTO DI ÞRÚÐR E LE RAGIONI DI ÞÓRR
La Ragnarsdrápa è il primo testo scaldico in
assoluto che ci sia pervenuto. La composizione, pure citata da Snorri nel suo
Skáldskaparmál,
viene attribuita al semimitico scaldo Bragi Boddason (viii
sec.) e, come il testo di Þjóðólfr ór Hvíni, è anch'essa incentrata sulla descrizione delle immagini dipinte su uno
scudo
(Koch 1984). La strofa di esordio è piuttosto interessante:
Vilið Hrafnketill heyra,
hvé hrengróit steini
Þrúðar skalk ok þengil
þjófs ilja blað leyfa. |
Vuoi sentirmi, Hrafnketill,
esaltare – dipinta con colori
fulgenti – la foglia dei calcagni
del ladro di Þrúðr, e il principe? |
Bragi Boddason:
Ragnarsdrápa [1] |
«Foglia dei calcagni del ladro di
Þrúðr» [blað ilja þjófs
Þrúðar] è una complessa kenning che,
apparentemente, introduce lo scudo le cui immagini saranno
oggetto della drápa in questione. Se partiamo dal
presupposto che l'espressione «foglia dei calcagni» si
riferisca al nostro mito, dove
Hrungnir mette lo scudo sotto i piedi, in modo da
difendersi da un eventuale attacco sotterraneo di Þórr, se ne deduce che il «ladro di
Þrúðr» [þjófs Þrúðar] sia lo stesso
Hrungnir.
Þrúðr, «forza», è la figlia di Þórr,
citata da Snorri in
Skáldskaparmál
[11 | 29], nonché oggetto delle sgradite attenzioni del nano
Alvíss nel poema eddico
Alvíssmál, e forse identificabile con l'omonima valkyrja (Grímnismál
[36];
Gylfaginning [36]). Ora, la kenning di Bragi, se
correttamente interpretata, suggerisce l'esistenza di un mito perduto in cui
Hrungnir avrebbe rapito Þrúðr. Di tale mito non
c'è
traccia in Snorri, né in altre fonti.
Questo elemento getta una luce diversa sulle motivazioni di Þórr.
Il dio è infuriato perché sia stato permesso a Hrungnir
di bere ǫl nella
Valhǫll, per di più nella
sua coppa personale, e per il suo atteggiamento strafottente nei confronti
di Sif e di
Freyja, oppure c'è qualcos'altro? Nel
rileggere attentamente la scena di
Skáldskaparmál
[24], si nota che soltanto Freyja
serve da bere allo jǫtunn e sale il dubbio che
Sif sia stata citata da Snorri per
giustificare ulteriormente l'ásmóðr di Þórr.
L'eventuale rapimento di
Þrúðr aggiungerebbe un'ulteriore motivazione alla
rabbia del dio-tuono.
Ma anche se fosse effettivamente esistito un mito del
rapimento di
Þrúðr, non ne conosciamo le modalità. Fa parte di
un mito separato, e quindi Hrungnir avrebbe rapito Þrúðr
in altra occasione, oppure è un episodio del presente racconto? Ad esempio,
nulla ci vieta di immaginare – benché
Snorri non lo dica – che, nel lasciare
Ásgarðr, Hrungnir
abbia agguantato Þrúðr e l'abbia portata come
ostaggio ai Grjótúnagarðar; un po' per proteggersi
la ritirata, un po' per accertarsi che Þórr
si presentasse all'einvígi. Tutto questo potrebbe spiegare la rabbia e il livore
con cui l'áss si precipita al duello contro lo jǫtunn.
Ma è andata così o si tratta soltanto di una fragile
ipotesi basata su una ancor più fragile interpretazione di
Ragnarsdrápa [1]? Difficile dirlo. Non mancano studiosi che
abbiano sostenuto questa idea (Ross 1994). |
VI - UNO SCUDO SOTTO I PIEDI La scena dell'einvígi tra Þórr
e Hrungnir ha posto agli esegeti un bel numero di
problemi, resi ancora più difficoltosi dal confronto tra il testo di
Snorri e quello di Þjóðólfr ór Hvíni, le cui versioni non combaciano tra loro.
Tra le questioni rimaste inspiegate, due sono legate allo
Skáldskaparmál, e
riguardano: (a) il ruolo di
Þjálfi, che è il «secondo» di Þórr
nel corso del duello, e (b) il ruolo del Mǫkkurkálfi, imponente
manichino d'argilla che gli jǫtnar pongono al fianco di
Hrungnir affinché lo sostenga durante il
combattimento. Ma Þjóðólfr non accenna né
all'uno né all'altro personaggio.
La dinamica dello scontro tra Þórr e
Hrungnir ruota inoltre attorno a un motivo peculiare: il
fatto che lo jǫtunn
metta il suo immane scudo di
pietra sotto i piedi, salendoci sopra; questa sua bizzarra «guardia» permette a Þórr
di centrarlo al cranio con un colpo di
Mjǫllnir. Qual è la ragione per cui
Hrungnir
agisce in modo tanto illogico? La spiegazione di Snorri verte su un inganno
ordito da
Þjálfi:
Þá rann Þjálfi fram
at þar er Hrungnir stóð, ok mælti til hans: “Þú
stendr óvarliga, jǫtunn, hefir skjǫldinn fyrir þér, en Þórr hefir sét þik, ok
ferr hann it neðra í jǫrðu, ok mun hann koma neðan at þér”. |
Þjálfi corse fin dove stava
Hrungnir e gli disse:
“Non sei al sicuro, gigante, se resti con lo
scudo davanti a te. Poiché Þórr ti ha
veduto, andrà sottoterra e ti raggiungerà dal basso”. |
Þá skaut Hrungnir skildinum
undir fǿtr sér ok stóð á, en tvíhendi heinina. Því næst sá hann eldingar ok
heyrði þrumur stórar. Sá hann þá Þór í ásmóði, fór hann ákafliga ok reiddi
hamarinn ok kastaði um langa leið at Hrungni. Hrungnir fǿrir upp heinina báðum
hǫndum, ok kastar í mót. Mǿtir hon hamrinum á flugi, heinin, ok brotnar sundr
heinin [...]. En hamarrinn
Mjǫllnir kom í mitt hǫfuð Hrungni ok lamði hausinn í smán mola... |
Hrungnir si mise allora lo scudo sotto
i piedi e rimase fermo, tenendo con due mani la cote. Subito dopo vide un lampo
e udì forti rombi di tuono. Vide quindi Þórr
in preda all'ásmóðr che avanzava furiosamente. [Þórr] roteò il martello e lo scagliò da
lontano contro Hrungnir.
Hrungnir sollevò la cote con le due
mani e gliela lanciò contro. Essa incontrò il martello a mezz'aria e si
frantumò. [...] Il martello
Mjǫllnir invece colpì in pieno la testa
di Hrungnir, distruggendogli il cranio
in mille pezzi... |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [24] |
Þjóðólfr dedica all'einvígi due strofe e mezzo del
Haustlǫng, al solito laconiche ed
ermetiche. Qui vi sono, uno contro l'altro,
soltanto Þórr
e Hrungnir, e la ragione per cui lo jǫtunn
infila lo scudo sotto i calcagni sembra avere una giustificazione diversa:
Mjǫk frá ek móti hrøkkva
myrkbeins Haka reinar,
þá er vígligan, vagna
vátt, sinn bana þátti. |
Mi hanno detto che a forte resistenza
si dispose il sostegno alle balene
delle ossa scure delle vie di Haki,
vedendo il suo uccisore in assetto di guerra. |
Brátt fló bjarga gæti
– bǫnd ollu því – randa
ímunfǫlr und iljar
íss; vildu svá dísir.
Varðat hǫggs frá hǫrðum
hraundrengr þaðan lengi
trjónu trǫlls of rúna
tíðs fjǫllama at bíða. |
Volò veloce, di sotto i calcagni
del custode dei monti (fu intervento
di tutti i potenti e volere delle dísir),
il chiaro ghiaccio del bordo di guerra.
E non dovette, dopo, troppo attendere,
il guerriero rupestre, un colpo spietato
del confidente dei trǫll
dalla grinta assassina. |
Fjǫrspillir lét falla
fjálfrs ólágra gjálfra
bǫlverðungar Belja
bólm á randar hólmi.
Þar hné grundar gilja
gramr fyrir skǫrpum hamri
en berg-Dana bægði
brjótr við jǫrmunþrjóti. |
Fece cadere, il massacratore
del seguito malefico di Beli,
l'orso della caverna altoecheggiante
sopra l'isola del bordo.
Sotto il martello che lo strazia, il principe
delle zolle del suolo si abbatte,
e infierisce sul grande rivale
che fa a pezzi i Danir dei monti. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [16-18] |
|
Þórr abbatte Hrungnir (✍
1874) |
Ludwig Pietsch (1824-1911), illustrazione.
(Murray 1874) |
È dunque per intervento di «tutti i potenti» [bǫnd ollu því] e per «volere delle dísir»
[vildu svá dísir], se Hrungnir,
a dispetto di ogni logica, mette lo scudo sotto i piedi. Il passo
sembra suggerire che la sconfitta dello jǫtunn richieda, in qualche modo,
l'intervento di tutti gli æsir e le dísir come corpo unitario. Un passo
forse non chiaro neppure allo stesso Snorri, se vi introduce l'intervento di
Þjálfi al fine di trovargli una
spiegazione comprensibile.
Il testo di Þjóðólfr è molto ambiguo. Ci si può chiedere se l'espressione
randa íss (o ímunfǫlr randa íss) indichi davvero uno
scudo: questa interpretazione viene infatti accettata soprattutto sul confronto
con il testo di Snorri, ma gli stessi filologi non sono affatto concordi nel
definire il significato dell'espressione. In ogni caso, íss è «ghiaccio»
(fǫlr íss, «chiaro ghiaccio»), parola a volte
utilizzata per indicare lame di spada, sebbene Snorri non citi alcuna arma di
metallo nel mondo litico di Hrungnir;
mentre
rǫnd, «orlo, bordo», è una frequente metafora poetica per «scudo»
(Cleasby ~ Vigfússon 1874). La parola
ímunfǫlr vuol dire letteralmente «chiaro-guerresco», espressione dal senso
oscuro, tanto che molti interpreti scindono ímun- per associarlo al
termine dísir, formando un composto ímun-dísir, «dísir di guerra»
(Jónnson 1912 | Koch 1981). Ciò che risulta da
queste costruzioin artificiose è un
«chiaro ghiaccio del bordo» (o un «chiaro-guerresco ghiaccio del bordo»).
Espressione che, come
suggerisce Lindow, potrebbe anche indicare una sdrucciolevole
superficie di ghiaccio, che offre una presa poco salda ai piedi di
Hrungnir.
D'altra parte, il citato verso di Bragi Boddason, blað ilja þjófs Þrúðar
(«foglia dei calcagni del ladro di Þrúðr»)
(Ragnarsdrápa [1]), a sua volta
molto ermetico, è posto indubbiamente nella prima strofa di una drápa
dove viene descritto uno scudo: elemento che rafforza l'idea che
Hrungnir (sempre che sia lui il þjófr
Þrúðar di Bragi ) fosse appunto in piedi su uno scudo.
Inoltre, in un episodio della saga di cui è
protagonista, lo
scaldo e avventuriero Kormákr Ǫgmundarsson entra nella hǫll della dimora
di Steingerðr, la donna da lui amata; ai lati della porta, i fratelli di
lei, Þorkell e Narfi, hanno appoggiato una spada e uno scudo. All'ingresso di
Kormákr, i due oggetti cadono a terra, e la spada, colpendo lo scudo, produce
un'intaccatura. Kormákr recita allora questa lausavísa:
Hneit við Hrungnis fóta
hallvitjǫndum stalli,
inn vask Ilmi at finna,
engisax, of genginn;
vita skal hitt ef hœtir
handviðris mér grandi
né Yggs fyr lið leggjum
lítils meira vítis. |
La spada colpì sul piedistallo
di Hrungnir l'ospite
nella hǫll, spesso venuto
a trovare l'Ilm galante;
la pagherà, se minaccia
di farmi del danno,
assai più cara: la birra
di Yggr a me non verrà meno. |
Kormákr
Ǫgmundarsson: Lausavísa [15],
apud Kormáks saga [5] |
Sebbene anche questo brano mantenga tutta una serie di ambiguità
(Lindow 1996), sembra non vi sia dubbio che il verso stallr Hrungnis
fóta («base dei piedi di Hrungnir»)
indichi anche qui uno scudo (Kormáks saga [5]).
Se torniamo tuttavia al testo di Þjóðólfr ór Hvíni, vediamo che, al verso Haustlǫng
[18d], Þórr abbatte
Hrungnir á randar hólmi, «sopra l'isola del
bordo». In questa metafora, il «bordo» = «scudo» viene di fatto interpretato
come un hólm, un isolotto deputato ai duelli. Nel diritto scandinavo, gli
scontri singolari avvenivano infatti negli spazi chiusi di questi minuscoli scogli. Due
o quattro uomini venivano lasciati, armati, su un isolotto non lontano dalla
costa e, dopo un po', si tornava in barca per raccogliere i sopravvissuti.
Questa pratica veniva indicata con il termine tecnico hólmganga, «andare
sull'isola». Il termine era un'espressione norreno-occidentale sviluppatasi
durante l'epoca vichinga, a cui si confrontava la forma più antica,
pan-scandinava, einvígi. Detto questo, bisogna ammettere che non è così
agevole interpretare la direzione del gioco linguistico di Þjóðólfr. È lo
scudo [rǫnd] che viene equiparato a un'isola [hólm],
o l'isola a uno scudo? In quale direzione si è mossa la metafora e come è stata
riletta dagli autori successivi?
Se ammettiamo una lettura dove effettivamente Hrungnir
fosse in attesa, in piedi, su un'isola [hólm] a forma di scudo
[rǫnd], luogo deputato all'einvígi con Þórr,
la prima helming di Haustlǫng
[17a-d] avrebbe allora un tale significato: «Volò veloce, di sotto i calcagni
dello jǫtunn, il chiaro-guerresco ghiaccio
dell'isola». Gli æsir e le dísir avrebbero dunque fatto perdere l'equilibrio a
Hrungnir, così che Þórr,
approfittando della sua difficoltà, «fece cadere, [...] l'orso della caverna
altoecheggiante sopra l'isola circolare, simile a uno scudo»
(Haustlǫng
[18a-d]). In seguito, gli interpreti di Þjóðólfr, malinterpretando
la kenning, avrebbero trasformato l'«isola» in un vero e proprio
«scudo», e
Snorri avrebbe completato la bizzarra rilettura introducendo l'intervento di
Þjálfi, per spiegare a sé stesso e ai
suoi lettori cosa diavolo stesse
facendo Hrungnir in piedi sopra uno scudo.
(Lindow 1996)
Non sappiamo se sia andata proprio così. È l'ipotesi che, sebbene con qualche dubbio, propone
John Lindow. Ambiguità nel testo ve ne sono a bizzeffe, ma possiamo anche
chiederci se la vicenda dell'einvígi tra Þórr
e Hrungnir potesse aver assunto, in qualche
versione perduta del racconto, un aspetto così... realisticamente vichingo. Il
mito ha, forse, esigenze assai diverse.
|
VII - IL MǪKKURKÁLFI, UN PROBLEMA DAVVERO... INGOMBRANTE Nella versione di Snorri, gli jǫtnar, preoccupati
per l'esito del duello, plasmano un gigante d'argilla, «alto nove rastar
e largo tre intorno al petto», che piazzano accanto a
Hrungnir, affinché lo affianchi nel combattimento. Il rǫst, o «miglio
vichingo», misurava poco più di 11 km e, sebbene tale distanza
variasse probabilmente a seconda dei luoghi e dei tempi, la statura di questo
pupazzo d'argilla rimane davvero considerevole. Snorri racconta anche
che gli jǫtnar, non trovando un cuore abbastanza grande per un
essere di tale stazza, gli misero il petto il cuore di una giumenta, il quale «non
gli stava ancora ben saldo quando Þórr arrivò»
(Skáldskaparmál [24]).
Reazione ovvia: nel mondo nordico il cuore era considerato la sede del
coraggio e, fornendo al gigante d'argilla il cuore di una cavalla, non c'era
certo da aspettarsi da lui chissà quale valore.
|
Þórr, Hrungnir e il Mǫkkurkálfi (✍
1858) |
Carl Emil Doepler der Ältere (1824-1911), illustrazione. |
MUSEO: [Götter
und Helden]► |
Ma a dispetto della complessità dei preparativi, il Mǫkkurkálfi
(nome interpretabile come «polpaccio di nuvola») non fornisce il minimo
contributo nell'einvígi. È un essere stolido, statico, pauroso,
incontinente. Si limita a farsela addosso alla vista di Þórr
e, quando viene impegnato da
Þjálfi in combattimento, crolla «con
ben poca dignità» [við lítinn orðstír]
(Skáldskaparmál [24]).
Þjóðólfr ór Hvíni non fa alcun accenno al Mǫkkurkálfi
nel suo Haustlǫng; a quel che
sappiamo, esso compare per la prima volta nel testo da Snorri. Possiamo però
chiederci che senso abbia inserire nel racconto un gōlẹm
di altezza letteralmente stratosferica, per poi lasciarlo del tutto privo di una funzione
narrativa. A questa domanda non è mai
stata data una risposta convincente.
Giustamente accantonate le interpretazioni
atmosferiche dei primi del novecento, dove tutta la vicenda di Þórr
e
Hrungnir veniva letta come un vecchio «mito di tempesta», opportunamente
ornato da secondarie infiorettature letterarie, il primo a cercare di dare una
lettura complessiva del racconto di Snorri è stato
Georges Dumézil. Allo scopo, il comparatista francese ha osservato come diversi racconti di iniziazione guerriera
seguano uno schema in cui, al combattimento dell'eroe, corrisponda un finto
combattimento di un allievo contro un fantoccio. (Dumézil
1959 | Dumézil 1985)
Dumézil propone un accostamento con una vicenda del ciclo di
Bǫðvarr bjarki, narrata nella
Hrólfssaga kraka. Eroe itinerante,
Bǫðvarr prende sotto la sua protezione il giovane
Hǫttr, vittima degli scherzi e delle
bravate degli hirðmenn di Hrólfr kraki,
konungr del Danmǫrk. La notte di jól, un enorme mostro alato, «più
grande di un trǫll», terrorizza i migliori campioni del re, che non osano
uscire dalla reggia. Ma Bǫðvarr esce di nascosto,
trascinandosi dietro il terrorizzatissimo Hǫttr e,
dinanzi ai suoi occhi, uccide l'orrenda creatura. Poi gli strappa il cuore dal
petto e costringe Hǫttr a mangiarne un pezzo,
facendogli poi bere due sorsi del sangue del mostro, in modo che il giovane
pusillanime acquisti fierezza e coraggio (nella versione storicizzata di Saxo
Grammaticus, <Biarcus> fa bere al suo protetto il
sangue che sgorga dalla ferita di un orso gigantesco, che ha appena ucciso
(Gesta Danorum [II, vi, 9])). Ma torniamo
alla saga: a questo punto, Bǫðvarr bjarki,
con l'aiuto di Hǫttr, rimette in piedi la carcassa
del mostro ucciso, in modo che sembri ancora vivo. L'indomani, quando le
pattuglie di Hrólfr konungr tornano a
riferire che la bestia si aggira ancora intorno alla reggia,
Bǫðvarr propone che vada ad affrontarlo
Hǫttr. Il giovane accetta, con grande sorpresa del
sovrano e dei suoi hirðmenn; poi, impugnata la spada stessa del re,
Gullinhjalti, si avvicina al cadavere-fantoccio del
mostro e lo «uccide». Hrólfr konungr
sospetta la verità, ma è comunque ammirato per come
Bǫðvarr sia riuscito a trasformare un ragazzino tremante in un eroe; e,
per consacrare la metamorfosi, conferisce a Hǫttr
il nuovo nome di Hjalti, dal nome della propria
spada (Hrólfssaga kraka [23]).
Secondo Axel Olrik questa scena del manichino sarebbe stata una semplice astuzia
letteraria dell'autore della saga. Dumézil è però scettico: sottolinea
che la sceneggiata non ha ingannato Hrólfr
konungr e, per questo, vi vede un antico schema iniziatico che «conserva
quell'ingenuità apparente che [...] hanno le imprese con cui l'uomo
pretende di dirigere le forze invisibili, di agire sul sacro»
(Dumézil 1985). Tornando al nostro mito, la vicenda
dell'einvígi tra Þórr e
Hrungnir, a cui corrisponde il combattimento parallelo tra
Þjálfi e il «manichino» Mǫkkurkálfi,
rientrerebbe, secondo Dumézil, in questo ordine di idee.
Þjálfi rappresenterebbe l'«allievo» di Þórr;
dunque il suo combattimento contro il Mǫkkurkálfi
potrebbe essere semplicemente il doppione del duello del suo signore, «così come
ogni rituale è il doppione del mito che lo giustifica»
(Dumézil 1939 | Dumézil 1985).
L'ipotesi di Dumézil, che risale al 1939, ha
certamente fatto scuola, ma anche provocato dissensi. La critica
principale è che, se Dumézil avesse ragione, la versione di Snorri sarebbe
più antica di quella di Þjóðólfr, il quale però non fa alcun
accenno alla presenza di Þjálfi al fianco di Þórr
e, tantomeno, del Mǫkkurkálfi
(Lincoln 1981). In tempi più recenti, John Lindow
ha suggerito di vedere, nella scena del doppio combattimento, i rituali dei duelli
giurisdizionali o einvígi. Sebbene questi siano state tramandate in saghe
e testi scritti almeno due o tre secoli dopo l'abolizione della pratica del holmgánga, alcuni
documenti fanno pensare che i duellanti fossero appoggiati dai loro «secondi», i
quali avevano il compito di ripararli con gli scudi mentre essi si
battevano. Tuttavia, nota perplesso Lindow, è piuttosto arduo vedere tali
pratiche nel doppio combattimento raccontato da Snorri: l'unico dei quattro
duellanti che dispone di uno scudo... se lo mette sotto i piedi.
(Lindow 1996)
|
VIII - MAGNI, UN PROVVIDENZIALE USO DELLA «FORZA» Il
«ciclo di Hrungnir» contiene in sé un gran numero
di episodi a dir poco enigmatici, sui quali non è stata ancora data una
spiegazione convincente. Piuttosto curioso quello in cui Þórr,
schiacciato dal piede di
Hrungnir, che gli è crollato addosso, non riesce in alcun modo a
liberarsi. Nessuno degli æsir riesce a scuotere l'enorme gamba dello
jǫtunn, finché non interviene Magni, il
figlioletto di Þórr
che, a dispetto della sua tenerissima età, scuote via l'arto senza nessuna
apparente fatica, liberando il padre. L'episodio è deliziosamente ironico:
...ok fell hann fram yfir
Þór, svá at fótr hans lá of háls Þór [...]. Þá gekk Þjálfi til
Þórs ok skyldu taka fótinn af honum ok gat hvergi valdit. Þá gengu til Æsir
allir er þeir spurðu at Þórr var fallinn, ok skyldu taka fótinn af honum ok
fengu hvergi komit. |
[Hrungnir] cadde addosso a Þórr
in modo tale che un suo piede giacque sul collo dell'áss. [...]
Þjálfi si recò da
Þórr per togliergli di dosso il piede di
Hrungnir, ma non aveva abbastanza
forza. Giunsero quindi tutti gli Æsir
quando seppero che Þórr era caduto e
provarono a liberarlo del piede, ma nessuno vi riuscì. |
Þá kom til Magni,
sonr Þórs ok Járnsǫxu. Hann var þá þrívetr. Hann kastaði fǿti Hrungnis af Þór ok
mælir: “Sé þar ljótan harm, faðir, er ek kom
svá síð. Ek hygg at jǫtun þenna mundak hafa lostit í hel með hnefa mér ef ek
hefða fundit hann”. |
Si fece quindi avanti Magni,
figlio di Þórr e Járnsaxa, che aveva
allora tre inverni. Egli gettò il piede di
Hrungnir via da Þórr e disse:
“Che peccato, padre, che io sia giunto così
tardi! Avrei colpito a morte questo gigante con un pugno, penso, se l'avessi
trovato”. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [24] |
L'età di Magni è di tre inverni nella versione
dello
Skáldskaparmál
tradita dal manoscritto R (Codex Regius), ma di soli tre notti in
quella dei manoscritti W (Codex Wormianus) e T (Codex Traiectinus).
Lindow ha suggerito la presenza di qualche particolare significato del numero «tre» negli schemi di questo
racconto, così come il cuore di Hrungnir era a sua
volta formato da tre corni (Lindow 1996).
Ma è un molto molto vago e ambiguo di affrontare il problema, tanto più che gli elementi triplici sono praticamente onnipresenti in questo tipo di letteratura.
Inaspettatamente, un po' di luce ci giunge dal mondo caucasico. Lo studioso
franco-georgiano Georges Charachidzé che ha analizzato, in un'affascinante serie
di studi, il ciclo di Amirani, esito georgiano del
prometeo caucasico, ha puntato l'attenzione su un episodio della carriera eroica
di quest'ultimo. Amirani è presentato come un
campione solitario e irresistibile, il quale ha praticamente fatto il vuoto
intorno a sé, sgominando tutti i possibili nemici che gli si paravano davanti. Un giorno,
egli si imbatte su un carro
trainato a gran fatica da dodici paia di bufali. Su questo, giace morto un
gigante, Ambri Arabi. La sua gamba penzola giù dal
carro e scava un solco nel terreno. La madre del gigante chiede ad
Amirani di rimettere la gamba di
Ambri sul carro. L'eroe ci prova, ma non è
in grado di smuoverla, né di sollevarla. Quest'inaspettata défaillance getta Amirani
nel più cupo sconforto. Prega allora il dio supremo
Morige Ḡmerṫi, il quale gli accorda una forza
supplementare, quanto gli basta per portare a termine l'impresa, ma lo
avverte: «Io so bene che non farai buon uso di questa forza: la userai per fini
malvagi e sarai ancora umiliato». E sarà infatti così che accadrà.
(Charachidzé 1986)
Sia Amirani che Þórr,
dopo aver trionfato contro i più possenti avversari, cedono in maniera
inaspettata contro una «cosa» inerte, priva di vita, che in entrambe le tradizioni assume
l'aspetto della gamba di un gigante morto. L'acquisto di una forza supplementare
da parte di
Amirani si concretizza, nel mito scandinavo,
nel personaggio del figlioletto Magni. Il fatto che
costui abbia solo tre inverni (o tre notti) è solo un paradossale gioco di
contrasti, perché il bambino, come dice il suo stesso nome, è magni, la
«forza», un principio astratto personificato. Il motivo è analogo: nel mito caucasico, Amirani riesce a
scuotere la gamba di Ambri Arabi tramite una sorta
di incremento astratto della propria «forza», laddove, nella tradizione nordica,
questa «forza» interviene metaforizzata nell'allegoria del piccolo
Magni.
C'è forse un rapporto diretto tra il mito caucasico e quello scandinavo? La
risposta è probabilmente sì. Non solo Amirani, come
abbiamo sottolineato nel nostro apposito studio, ha assorbito una serie di mitemi legati
alla tradizionale figura del dio-tuono indoeuropeo, ma sono attestati molteplici
collegamenti tra i miti nordici e le leggende slave e caucasiche.
|
IX - PER UNA SCHEGGIA NEL CRANIO Nel combattimento contro
Hrungnir, la cote (hein)
del gigante è esplosa in minuti frammenti dopo essere stata colpita dal martello Mjǫllnir,
e stesso destino avrebbe seguito la testa dello stesso
Hrungnir un istante dopo. Una scheggia di selce della cote, però, si
è conficcata nella testa di Þórr. Questo tema, così come l'episodio del
fallito tentativo di Gróa
di estrarre il frammento dal cranio di Þórr, fanno probabilmente parte
dello strato più antico del mito, visto che a essi Þjóðólfr ór Hvíni dedica
le due strofe finali del suo Haustlǫng:
Ok hǫrð brotin herju
heimþinguðar Vingnis
hvein í hjarna mǿni
hein at grundar sveini,
þar svát, eðr í Óðins
ólaus burar hausi
stála vikr of stokkin
stóð Eindriða blóði. |
Ma una scheggia durissima di selce
vola fischiando al sommo del cervello
del figlio di Jǫrð, dall'amante
della parente di Vingnir,
perché s'infila, ed è confitta ancora,
nella fronte del figlio di
Óðinn,
l'affilaacciaio, macchiata
del sangue dell'Eindriðr [«solitario»]. |
Áðr ór hneigihlíðum
hárs ǫl-Gefjun sára
reiði-týs et rauða
ryðs hǿlibǫl gǿli.
Gǫrla lít ek á Geitis
garði þær of farðir.
Baugs þá ek bifum fáða
bifkleif at Þórleifi. |
Attende che col canto, dal colle curvo
dei capelli del Týr apriferite,
la Gefjun della birra estragga, rossa,
l'orgogliosa sterminaruggine.
Vedo nitidamente, nel recinto
di Geitir, raccontati questi fatti.
Da Þórleifr ho ricevuto una roccia tremula
dell'anello, dipinta di storie tremende. |
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [19-20] |
Il tema sembra essere molto antico. Gianna Chiesa
Isnardi ricorda i reginnaglar, o «chiodi divini», piantati in
un'immagine di Þórr presente nel
tempio che un certo Þórólfr Mostrarskegg aveva dedicato al dio, a Hofstaðir, in
Islanda (Eyrbyggja saga [4]).
|
Dierbmes o Horagalles
(✍ 1727-1733) |
Bernard Picart (1673-1733), incisione. |
Sámi fanno offerte all'idolo di
Dierbmes o Horagalles.
Si notino il chiodo conficcato in cima alla testa e il martello. |
L'umanista svedese Johannes Scheffer (1621-1679), nel suo libro
Laponia,
riporta un curioso uso cultuale dei Sámi: le immagini del loro dio-tuono,
Dierbmes/Tiermes,
avevano un pezzo di selce piantato sul capo con un chiodo. «Gli conficcano in
testa un chiodo di ferro, con una scheggia di selce, come vedono cadere un
fulmine» [in capite infigunt clauum ferreum, cum silicis particula, ut si
uideatur ignem Thor excutiat] (Dumézil 1985 | Isnardi
1991). L'identificazione di questo dio sámi con lo scandinavo Þórr
è testimoniato, sebbene in epoca tarda, da uno dei nomi attribuiti al
dio: Horagalles
(derivato da uno svedese Thor karle).
Quale che sia l'origine o il significato di quest'uso, non è affatto chiaro.
Dumézil parla, vagamente di un «segno iniziatico» posto sull'eroe a seguito della vittoria. Ricorda che anche Cú
Chulainn, nei combattimenti, manifestava delle orribili trasformazioni
trasfiguranti (ríastrad), spesso caratterizzate da un'escrescenza che
spuntava dalla cima del
cranio: «La luna dell'eroe usciva dalla sua fronte, lunga, spessa come la cote
di un guerriero, lunga come il naso» (Macgnímrada Con
Chulinn) (Dumézil 1985).
Altri, forse un po'
più opportunamente, hanno piuttosto pensato alla particolare ferita del rí
dell'Ulaid, Conchobor mac Nessa, a cui
Cét mac Magach aveva fatto cadere sul sommo del capo il
tathlum che il re aveva ottenuto impastando il cervello di suo padre con
della calce. Il grottesco trofeo sfondò il cranio di
Conchobor e vi s'incastrò dentro. Il re sopravvisse, ma non fu più
possibile rimuovere il tathlum, senza danno per la sua vita (Aided
Conchobair).
Queste analogie, pertinenti o meno, non ci illustrano però le ragioni e
il significato della scheggia di selce rimasta conficcata nel cranio di Þórr.
Snorri fornisce di questo mito una giustificazione a posteriori, definendolo
eziologicamente come ragione dell'uso
di non lasciar cadere la cote per terra.
...ok er þat boðit til
varnanar at kasta hein of gólf þvert, þvíat þá hrǿrist heinin í hǫfði Þór. |
È per questo che è proibito lanciare una cote attraverso una stanza: poiché si
scuote quella dentro la testa di
Þórr. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [25] |
L'arma brandita dal gigante era infatti l'archetipo di tutte le pietre che in
futuro sarebbero state utilizzate per l'affilatura, le quali derivano infatti
dai frammenti della hein
di Hrungnir. |
X - AURVANDILL, UN'OMBRA NELLA LETTERATURA
GERMANICA
Se la scheggia di cote è ancora nella testa di Þórr
è perché, dice Snorri, Gróa, la vǫlva a cui
il dio si era rivolto perché gliela estraesse, proprio nel momento culminate
aveva scordato il galdr, il canto magico necessario per portare a termine
l'operazione. La
ragione di questa tragica dimenticanza, racconta Snorri, era dovuto
alla troppa felicità. Þórr le aveva
infatti rivelato, per ricompensarla dei suoi servigi, di aver ritrovato suo
marito,
Aurvandill inn frǿkni, il
«valoroso», che
si era perso in qualche plaga dello
Jǫtunheimr, «a nord degli Élivágar».
[Þórr] sagði henni þau tíðindi, at hann hafði vaðit norðan yfir
Élivága ok hafði borit í meis á baki sér Aurvandil norðan ór Jǫtunheimum, ok þat
til jartegna at ein tá hans hafði staðit ór meisinum ok var sú frerin svá at
Þórr braut af ok kastaði upp á himin ok gerði af stjǫrnu þá, er heitir
Aurvandilstá. |
[Þórr] le raccontò dunque di essere giunto da nord
guadando gli Élivágar e di aver
portato Aurvandill fuori dallo
Jǫtunheimr, dentro una gerla sulla
schiena. A prova di questo, disse che un alluce di
Aurvandill spuntava fuori dalla gerla
e si era congelato, cosicché Þórr lo aveva
spezzato e lo aveva lanciato nel cielo, facendone la stella che si chiama
Aurvandilstá. |
Þórr sagði at eigi myndi
langt til, at Aurvandill mundi heim koma, en Gróa varð svá fegin, at hon munði
ønga galdra, ok varð heinin eigi lausari ok stendr enn í hǫfði Þór |
Þórr disse che non sarebbe passato molto tempo prima che
Aurvandill fosse tornato a casa, e
Gróa ne fu così felice che si dimenticò dei suoi
galdrar e non terminò di
estrarre la cote, che si trova ancora nella testa di
Þórr. |
Snorri Sturluson:
Prose Edda >
Skáldskaparmál [25] |
Ma chi è esattamente questo
Aurvandill? Il suo nome, a dire il
vero, non è nuovo nella letteratura germanica.
Il Chronicon Lethrense (la «Cronaca dei re
di Lejre»), composto in Danimarca
nel sec. xii e tramandato all'interno degli
Annales Lundenses, indica un certo
Ǿrwændel
quale padre di
Ambløthæ (Amleth) e presenta lo
stesso tema che Shakespeare renderà famoso in tutto il mondo
mezzo millennio più tardi:
Han giorte Ǿrwændel oc Fæng formæn ī Iūtland.
Konung gaf Ǿrwændel sīnæ systær for sin thriflēk.
Han aflæthæ mæth henne ēn son, oc kallæthæs Ambløthæ.
Sithæn drap Fæng Ǿrwændel for awnd oc tōk hans konæ
sek til hūstrǿ. |
[Re Rǿrik Slængeborræ] elesse
Ǿrwændel e
Fæng signori dello
Jótland. Il re diede la propria
sorella a Ǿrwændel per
ricompensarlo del suo impegno.
Questi ebbe con lei un figlio,
che chiamò Ambløthæ. In seguito
Fæng uccise
Ǿrwændel per invidia
e prese la sua donna in moglie. |
Annales Lundenses
> Chronicon Lethrense |
Un'altra celeberrima opera
danese del xii secolo, per certi versi derivata dal
Chronicon Lethrense, sono le Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, in cui
Horwendillus
è figlio di Gerwendillus e, di nuovo, fratello di
Fengo e padre di
Amlethus:
Eodem tempore Horwendillus et Fengo, quorum pater
Gerwendillus Iutorum praefectus exstiterat, eidem a
Rorico in Iutiae praesidium surrogantur. |
Proprio a quell'epoca Horwendillus e
Fengo, figli di
Gerwendillus
che era stato principe degli
Juti, per volere di
Roricus gli
successero nel governo dello
Jótland. |
Saxo Grammaticus:
Gesta Danorum [III: vi: 1] |
Triennium fortissimis militiae operibus emensus,
opima spolia delectamque praedam Rorico destinat,
quo sibi propiorem amicitiae eius gradum
conscisceret. Cuius familiaritate fultus filiae eius
Geruthae connubium impetravit, ex qua filium
Amlethum sustulit. |
Trascorsi tre anni nelle più eroiche imprese,
Horwendillus assegna a
Roricus il ricco bottino e le
prede migliori, per stringere ancora i vincoli
d'amicizia. Poi, aiutato dall'intimità con lui, ne
ottiene in moglie la figlia Gerutha, dalla quale ha
un figlio,
Amlethus. |
Tantae felicitatis invidia accensus Fengo fratrem
insidiis circumvenire constituit. Adeo ne a
necessariis quidem secura est virtus. At ubi datus
parricidio locus, cruenta manu funestam mentis
libidinem satiavit. Trucidati quoque fratris uxore
potitus incestum parricidio adiecit. |
Infiammato dall'invidia per tanta fortuna,
Fengo
decise di far cadere il fratello in un'imboscata. E
così, la virtù non è al sicuro neppure dai
consanguinei. Appena si presentò l'occasione del
fratricidio, si insanguinò le mani e saziò il suo
funesto desiderio. Poi fece sua la moglie del
fratello ammazzato e aggiunse al fratricidio
l'incesto. |
Saxo Grammaticus:
Gesta Danorum
[III: vi: 4-5] |
In realtà il medesimo nome compare anche in uno Spielmannsdichtung, un modesto
poema giullaresco in
medio alto tedesco, intitolato appunto
Orendel e scritto tra il 1150 e il 1180. Il protagonista,
Orendel, figlio di re
Eigel di Trier, si imbarca con ventidue navi,
diretto in Terrasanta. Naufragato nel corso del viaggio, viene salvato dal
pescatore Eise. Catturata una
balena, trova nel suo stomaco un sarcofago di marmo, gettato
in mare da Erode tanto tempo prima, nel quale è custodita
l'inconsuntile tunica di Gesù. Abbigliato della sacra veste,
Orendel può riprendere il viaggio e giunge così in
Terrasanta. La grigia tunica, macchiata del sangue del
Redentore, ha la virtù di rendere invulnerabile chi la
porta, e con quella indosso Orendel supera innumerevoli
prove e combatte i Saraceni. Dopo aver preso in sposa
Brida, la bellissima regina del
Santo Sepolcro, Orendel riprende la strada del ritorno, esortato da
un angelo. Giunto a Trier, depone la tunica in un
reliquiario, che dona a una chiesa della città. Tempo dopo,
un angelo avverte Orendel e Brida
che si sta avvicinando l'ora della loro morte, e i due si preparano serenamente
ad abbandonare il mondo. Nonostante il nome del protagonista, tuttavia, questo
poema non ha nulla a che vedere con i personaggi sopra descritti. Mira
semplicemente a stabilire il credito di una reliquia di Trier, in evidente
concorrenza con altre vesti inconsuntili venerate a Straßburg e a Mainz.
(Rydberg 1886 | Grimm 1835 | Grünanger
1967) |
XI - «SALVE, ĒARENDEL!», DAGLI ALLUCI AGLI ANGELI I dubbi che circondano la figura di
Aurvandill e dei
suoi ipotetici omologhi presenti nelle diverse culture non sono
comunque al momento risolvibili: infatti se da un lato i
diversi esiti del suo nome sono piuttosto riconoscibili
nelle varie lingue germaniche, dall'altro però non sembrano
sussistere sufficienti affinità per poter identificare con
certezza i vari personaggi provenienti dalle diverse
tradizioni .
Nell'episodio raccontato da Snorri viene nominata una stella
chiamata Aurvandilstá,
«alluce di Aurvandill», che
Þórr aveva creato lanciando il cielo il
dito spezzato dal piede di
Aurvandill
(Skáldskaparmál [25]). L'analogia
astronomica è piuttosto con l'invocazione a Ēarendel,
angelo «fulgido sopra le stelle», presente nel
Crīst
di Cyneƿulf, un
poema anglosassone che si ritiene risalga al
vii secolo.
Ēalā Ēarendel, enġla beorhtast,
ofer middanġeard monnum sended,
ond sōðfæsta sunnan lēoma,
torht ofer tunglas, þū tīda ġehƿane
of sylfum þē symle inlīhtes... |
Salve, Ēarendel, più splendente fra
gli angeli,
sulla terra di mezzo mandato fra
gli uomini,
e fulgore veritiero del sole,
fulgido sopra le stelle, ogni
stagione
da te stesso sempre sei
illuminato... |
Cyneƿulf:
Crīst
[I:
-] |
|
Orion e Sirio |
Immagine creata con il programma
Stellarium. |
Il
solenne saluto, «salve, Ēarendel» [Ēala,
Ēarendel],
non può non ricordare l'incipit di una nota preghiera
cristiana, Ave, maris stella, dove la Vergine Maria
viene salutata come la stella che, sorgendo sul mare, indica
la strada ai naviganti. La paternità di questa preghiera
viene solitamente fatta risalire, pur con notevoli
incertezze, a Venantius Fortunatus (530-609) o a Paulus Diaconus
(720-799), due autori latini di cultura germanica
(il primo legato agli Ostrogoti ravennati, il secondo ai
Longobardi). Nulla di più facile, dunque, che l'antica
invocazione a una stella abbia ispirato sia i versi di Cyneƿulf che la suggestiva preghiera alla Vergine.
In tal caso, di quale stella si
tratta? È probabilmente da scartare la vecchia ipotesi secondo la quale l'astronimo
Aurvandilstá avrebbe indicato il pianeta Venere, la «stella del mattino».
Alcuni studiosi, ritenendo che gli antichi Germani vedessero Aurvandill
nella costellazione di Orion, hanno ritenuto
che Aurvandilstá fosse da identificare con Rigel (ß Orionis), sulla
base del fatto che, nelle antiche rappresentazioni
stellari, questa stella rappresentava il piede del mitico cacciatore celeste
(Cleasby ~ Vigfússon 1874). Ci sembra tuttavia più probabile che Aurvandilstá
possa essere Sirio (α Canis Maioris),
la stella più luminosa del cielo, caratterizzata – come
Venere – da una levata eliaca. Da sempre, la piccola costellazione del Canis Maior «accompagna» il cacciatore Orion.
Se dunque Orion è Aurvandill, non è improbabile che
Sirio possa rappresentarne il ditone del piede.
(De Santillana ~ Von Dechend 1969) |
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BIBLIOGRAFIA ► |
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