STUDI

 

IL PROMETEO INCATENATO
 
   
Promētheús, Loki, Amirani, Artawazd, Syrdon...
Dalla Grecia al Caucaso, sulle tracce di un titano incatenato.
E poi in Scandinavia, e in Īrān, e in India, fino alla fine del mondo.
IL PROMETEO INCATENATO
Promētheús ( 1900)
Reinhold Begas (1831-1911)
Akademie der Künste, Berlino.

C'era una volta un prometeo che osò sfidare l'autorità del re degli dèi. Venne incatenato tra le cime di aspre montagne, e lasciato lì a soffrire, sospeso tra il cielo e la terra, fino alla fine del mondo. È uno dei miti più antichi di cui sia rimasta traccia, conservato in molte e difformi varianti. Il cuore di questa narrazione sembra essere il Caucaso, con il suo complesso mosaico di popoli: esso è il centro di un triangolo i cui vertici toccano la Grecia, il mondo indoiranico e la lontana Scandinavia, luoghi dove si sono conservati gli elementi dell'antico mito.

Sebbene il racconto originale sia andato perduto, possiamo ancora individuarne i singoli mitemi, attestati tanto nella letteratura quanto nel folklore, e in tempi e luoghi lontanissimi tra loro. Brani appartenenti a un'unica sinfonia, suonati su strumenti differenti e secondo diversi timbri e tonalità, a volte variati e alterati fino a divenire irriconoscibili, a volte interpolati in composizioni differenti. Rimangono tuttavia strutture, più o meno complesse, che si ripetono incessantemente, come un eco che continui a rimbalzare attraverso i secoli.

Il ruolo del prometeo incatenato può essere via via interpretato da un titano, un campione, un mostruoso sovrano, un tricefalo, e la sua sfida al dio supremo può muoversi tanto nella sfera della forza quanto in quella dell'intelligenza. In certi esiti, sembra legato al fuoco, in altri no. Unico elemento distintivo, il possente giro di catene che lo imprigiona, vuoi sulla cima di un monte, vuoi nel profondo della terra. Un cane alato può fargli da compagno, un'aquila da torturatrice, quando non compaiono invece dei serpenti. Nella maggior parte dei casi la sua punizione è destinata a durare fino alla fine del mondo, che, anzi, sarà lui stesso a darne a provocare, liberandosi dalla sua prigione.

Se in questa sede lo chiamiamo «prometeo», trasformando un nome proprio in comune, è perché l'esito più noto di questo personaggio è attestato nel mito ellenico, ed è quel Promētheús che creò gli uomini, ingannò gli dèi, rubò il fuoco e fu incatenato da Zeús tra le aspre cime del Caucaso. La figura del titano classico, in realtà, ha caratteristiche proprie, che ne fanno un'elaborazione originale del pensiero greco; non può assolutamente essere preso come modello generale di una classe di personaggi. L'uso sostantivato del suo nome ha qui il valore di un ruolo generico.

È difficile, se non impossibile, pretendere di ricostruire un ipotetico «mito originario». Possiamo soltanto analizzarne gli esiti, nei modi in cui ci sono pervenuti, sottolineandone le affinità e e differenze. Cominciamo il nostro viaggio da quello che compare essere il centro di questa sinfonia mitologica. Il Caucaso.

CAUCASO, IL LUOGO DEL SUPPLIZIO
Popoli e lingue del Caucaso

Il Caucaso è uno straordinario museo etnologico. Nel corso dei millenni, i suoi massicci montuosi, corrugati tra il Mar Nero e il Mar Caspio, hanno trattenuto molti piccoli popoli nelle vallate tra le montagne, conservandone i linguaggi, i costumi e le tradizioni. La ricchezza e la complessità linguistica della regione era nota fin dall'antichità. Strábōn ricorda che nella città di Dioskouriás (georgiano Soxumi, abxaso Ak̄ǝa), sulla costa caucasica del Ponto Eusino, si radunavano settanta tribù diverse per svolgere le loro attività commerciali, e ciascuna aveva la propria lingua, «e questo perché, trattandosi di stirpi selvagge e arroganti, vivono sparse e senza mescolarsi» (Geōgraphiká [XI: 2, 16]). Plinius assicura che a Dioskouriás i Romani negoziavano con l'ausilio di centotrenta interpreti (Naturalis historia [VI: 12]). Anche i geografi arabi rimasero impressionati dalla varietà di etnie che s'incontravano nel Caucaso, tanto che la regione veniva definita come Ǧabal al-alsun, la «montagna delle lingue». Secondo lo storico Abū al-Ḥasan ʿAlī al-Masʿūdī, i monti del Caucaso erano abitati da così tante genti che solo Allāh avrebbe potuto contarle (Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawahir [443]).

Se l'alta densità linguistica è segnale di antichità, la maggior parte dei popoli del Caucaso devono essere presenti in situ da un'epoca incredibilmente remota. E se ci limitiamo allo strato autoctono, troviamo ben tre famiglie linguistiche serrate le une a ridosso delle altre.

  1. A sud, la famiglia caucasico-meridionale, o cartvelica, dominata dal georgiano, oggi lingua ufficiale della repubblica di Georgia. Veicolo, fin dall'alto Medioevo, di una splendida e ricca letteratura, è l'unica delle lingue caucasiche a vantare una tradizione colta. A questo gruppo appartengono lingue minori come il mingrelio e lo svanete, parlati nella Georgia nord-occidentale, e il lazo, che è localizzato invece sulla costa sud-occidentale, presso il confine della Turchia.

  2. A nord della Georgia, troviamo la famiglia caucasico-nordoccidentale. È dominata dall'abxasico, lingua del controverso stato di Abxazia, sito lungo la costa del Mar Nero. Il gruppo circasso (a sua volta distinto in adighe e cabardino) è invece sparso in diverse isole linguistiche oltre il confine russo. L'ubyx si è estinto nel 1992, con la morte del suo ultimo parlante, Tevfik Esenç.

  3. A nord e ad est della Georgia, in territorio russo, è invece stanziata la ricca famiglia caucasico-nordorientale. Esso è diviso a sua volta in due sottogruppi principali: quello delle lingue veynax, dominato dall'ingušo-čečeno, e quello daghestano, a sua volta suddiviso in dozzine di lingue e dialetti sparpagliati lungo la linea del Mar Caspio, fino al confine dell'Azǝrbaycan.

Le relazioni tra le tre famiglie linguistiche caucasiche non sono chiare. Esse vengono raggruppate insieme per comodità, ma i glottologi non hanno riscontrato affinità tali che si possa raggrupparle in macro-famiglie. Consenso vi è soltanto sulle lingue caucasico-meridionali o cartveliche, che formano un gruppo piuttosto compatto. Più complessa la questione sulle altre due famiglie, la nordoccidentale e la nordorientale, che molti linguisti ritengono correlate. Alcuni sostengono che le lingue veynax siano a loro volta un gruppo indipendente e intermedio tra gli ultimi due gruppi.

Nella regione sono però presenti anche alcuni popoli indoeuropei. Nel vasto acrocoro sotto le Alpi Pontiche, quasi a chiudere il Caucaso sul lato meridionale, sono stanziati gli Armeni, con la loro antichissima e ricca cultura nazionale. Gli Osseti, di lingua indoiranica, si sono insinuati in una piccola regione oggi tagliata in due dal confine tra la Georgia e la Russia. Gruppi di Curdi, sparsi tra Armenia, Turchia e Īrān, completano il quadro indoeuropeo.

Vi sono infine diversi popoli altaici, giunti nel Caucaso per buoni ultimi, di cui il più importante è quello degli Azeri, la cui lingua è oggi ufficiale nell'Azǝrbaycan. Altre lingue altaiche attualmente rappresentate nella regione sono il turkmeno, il karakalpaco, il noğai, il karačai, il balkario e il calmucco.

Queste note non sono inutili: chiariscono l'antichità e la complessità etnica di questa regione. È qui che il mito del prometeo incatenato è ben conosciuta, in molte varianti, su entrambi i versanti del massiccio caucasico. Il suo nome è Amirani presso Georgiani e Svaneti, Abrysk’yl presso gli Abxasi, Teʒau presso i Circassi Adighi, Nesren presso i Circassi Cabardini, sebbene esistano anche altre lezioni.

Tutti questi racconti, confinati per anni nell'ambito degli accademici russi, sono rimasti a lungo pressoché sconosciuti in Europa occidentale. Tra i primi a farne accenno, il danese Axel Olrik (1864-1917), ai primi del Novecento; ma è stato solo grazie agli studi pionieristici di Georges Dumézil (1898-1986) che la cultura mitologica del Caucaso ha cominciato ad avere i suoi primi riscontri in occidente. A spalancare il mondo caucasico agli studiosi europei è stato però il franco-georgiano Georges Charachidzé (Giorgi Šarašiʒe, 1930-2010), allievo di Dumézil, il quale ha analizzato minuziosamente il «ciclo amiranico», comparandolo con il mito greco. È soprattutto ai suoi lavori che faremo riferimento in alcuni dei capitoli che seguono.

Ma prima di entrare in dettaglio, analizziamo singolarmente i vari esiti caucasici, e facciamo la conoscenza con Amirani, Abrysk’yl e tutti gli altri...

LA VERSIONE GEORGIANA. AMIRANI

I Georgiani (georgiano arṫvelebi, russo Gruziny, persiano Gurǧī) sono ritenuti gli eredi degli antichi regni di Colchide e Iberia.

La Colchide (greco Kolchís, georgiano Kʻolxeṫi), affacciata sulla costa occidentale del Mar Nero, era conosciuta ai Greci, in epoca arcaica, come il limite orientale del mondo conosciuto. Era la meta degli Argonaûtai, nella loro leggendaria spedizione alla ricerca del vello d'oro. Ma passando dal mito alla storia, la lavorazione del ferro, sviluppata nel Caucaso tra l'XI e l'VIII secolo a.C., produceva una fitta rete di traffici con il Mar Egeo. Già intorno al VII secolo a.C. i mercanti Milesi avevano stabilito i primi emporia commerciali sulla costa del Mar Nero, poi divenuti vere e proprie colonie. In quanto al regno di Iberia (greco Ibería, Georgiano arṫli), sorse successivamente nell'entroterra, a est della Colchide. Le fonti antiche – greche, romane, armene – riportano un gran numero di etnonimi, svelando una situazione composita di popolazioni di lingua proto-cartvelica alla base di queste prime organizzazioni statali della Georgia.

Situate al crocevia tra oriente e occidente, tra la pervadente cultura della Persia e gli influssi che arrivano dalla Grecia, le piccole nazioni caucasiche barcollano tra brevi periodi di indipendenza e fasi in cui sono tributarie dei grandi imperi: satrapie persiane, province romane, poi bizantine. L'Iberia diviene una delle prime nazioni a convertirsi al Cristianesimo, nel 317, anno in cui re Mirian III (♔ 306-337) lo proclama religione di stato, seppur trovando una tenace resistenza nel Mazdeismo, che nel clima cartvelico si era contaminato con il pántheon locale. Riguardo al substrato pagano, è lo stesso Mirian a dichiarare, al momento della sua conversione: «Agli orrendi idoli i genitori immolavano i loro figli e le genti innocenti di questa nostra contrada. Alcuni dei nostri padri falciarono i propri bambini come fieno, nell'intento di compiacere gli idoli, specialmente su questi monti, le cui pietre sono ancora intrise del loro sangue».

Kʻopʻala combatte i devebi
Levan Kʻikʻališvili

Dio supremo degli antichi Cartveli, Morige Ḡmerṫi era l'ordinatore del mondo. Confusosi in seguito con il Dio cristiano, era rappresentato nella funzione di sorvegliare e mantenere l'ordine da lui istituito. Tendeva a manifestare il suo volere attraverso Kʻviria, un amministratore che ne rappresentava il potere in terra e ne amministrava la giustizia. Kʻviria era scortato dalla muta degli Iessaul, lupi celesti in grado di portare malattie e devastazioni; quando i loro ululati si udivano ai confini del cielo, le persone si mettevano al riparo e pregavano con fervore.

Al livello inferiore, l'antica religione cartvelica contava centinaia divinità locali e specializzate, definite in georgiano saḡmṫo «divinità», ǯuar «croce», o xatʻi «segno»; quest'ultimo termine poteva indifferentemente applicarsi al dio quanto alla sua manifestazione materiale e concreta (simbolo, oggetto, santuario).

Tra i principali xatʻebi, si annoverano Givargi (svanete Ǯgǝræg), una sorta di san Giorgio custode degli spazi selvaggi, protettore dei pastori, dei viandanti e dei montanari; il genio folgoratore Kʻopʻala, signore della tempesta e distruttore dei devebi (dèmoni); Pʻiruša, il dio-fabbro; la dea solare Ṫamar, con il suo fratello-sposo, il dio guerriero Lašari. Le divinità della caccia comprendevano un piccolo pántheon, soprattutto presso gli Svaneti, e tra queste spiccavano Beršišvliš, il «signore della montagna nuda», che risiedeva sulle cime spoglie e rocciose del Gran Caucaso, dove era responsabile di tutte le fiere selvagge; Čekiš Angelwez, l'«angelo della foresta», patrono di tutti i carnivori, volpi, sciacalli, orsi, e della rara pantera caucasica, quasi estinta ai nostri giorni; e infine la bionda dea Dali (svanete Dæl), signora della selvaggina cornuta, di cui parleremo poi. (Charachidzé 1989²)

Nonostante gli sforzi dei sovrani e dei religiosi, il Cristianesimo stentò a diffondersi nel popolo georgiano; a lungo diviso tra gli imperi bizantino e persiano, il piccolo paese poté risorgere solo nel IX secolo, quando i piccoli principati di cui si componeva vennero uniti sotto la dinastia dei Bagrationi. Il regno di Georgia durò dal 978 al 1466 e, al suo apogeo, comprendeva territori dell'Armenia, dell'Azǝrbaycan e della Ciscaucasia. Il periodo compreso tra il regno di Daviṫ IV Aḡmašenebeli (♔ 1089-1125) e quello della regina Ṫamar (♔ 1160-1213), è l'epoca d'oro della letteratura cartvelica, dominata dalla figura di Šoṫa Rusṫaveli (1172-1216), autore del Veṗxis Tʻqʻaosani, «L'uomo dalla pelle di pantera», il raffinato poema nazionale georgiano. Alla stessa epoca risale anche l'Amiran-Dareǯaniani, un romanzo di Mose Xoneli (XII sec.) incentrato sul mitico eroe Amirani. L'opera è però una rielaborazione letteraria di stampo cavalleresco e non è di alcuna utilità per il mitologo.

Il regno di Ṫamar fu seguito da un lungo periodo di declino. La Georgia si ritrovò frammentata in una moltitudine di regni e principati cristiani, contesi tra gli imperi Ottomano e Persiano, e in uno stato di guerra pressoché ininterrotto. Uno stato di cose che perdurò fino ai primi del XIX secolo, quando un nuovo impero, quello Russo, annetté la Georgia e, nel giro di pochi decenni, il resto del Caucaso. Nemmeno un secolo dopo, nelle sanguinose guerre civili che seguirono la Rivoluzione Russa, la Georgia poté accarezzare una breve stagione di libertà, dal 1918 al 1921. Occupata subito dopo dall'Armata Rossa, la Georgia fu annessa all'U. Solo nel 1991, ha potuto riconquistare la propria indipendenza.

È quasi sorprendente che, in tutte queste vicissitudini, il popolo georgiano sia rimasto fedele alle proprie tradizioni, conservando un ricco patrimonio di fiabe, leggende, proverbi, canti, nenie funebri, danze, e persino rappresentazioni mascherate (berikʻaoba in carnevale, qʻeenoba in quaresima) assai vicine al nostro teatro dell'arte. La leggenda di Amirani ci è nota attraverso circa duecento versioni raccolte dai folkloristi tra la fine del XIX e la metà del XX secolo. E ancora intorno agli anni Ottanta, Charachidzé scriveva che l'attività creatrice dei cantastorie georgiani era ancora viva e produttiva, e non escludeva che in futuro potessero venire ancora raccolte nuove versioni del mito (Charachidzé 1986¹). Gli anni successivi hanno visto la disintegrazione dell'U e l'inizio di una serie di sanguinosi conflitti nella regione, e ignoriamo quale possa essere stato l'esito di questi studi.

Le versioni del ciclo amiranico sono diverse tra loro, a volte in maniera decisiva, ma è la naturale conseguenza di una trasmissione orale, affidata tanto alla memoria quanto all'improvvisazione dei cantastorie. Sebbene alcune varianti divergano in maniera interessante (e alcune di esse saranno prese in considerazione nel nostro studio), la maggior parte delle versioni percorre un canovaccio di massima da cui, vagliando accuratamente le varie parti, si può ipotizzare, più che una forma «canonica» del ciclo, una sorta di minimo comune multiplo. In questo nostro excursus, attingiamo soprattutto al materiale fornito da Charachidzé, il quale aveva utilizzato come «mito di riferimento» una versione raccolta tra i montanari georgiani del Q‘azbegi, pubblicata nel 1896 (L1), e una versione svanete (L2), pubblicata nel 1893. La numerazione delle varianti è quella fornita dallo stesso autore (Charachidzé 1986¹).

Nascita di Amirani
B. Kutatelaʒe. (Aa.Vv. 1975)

L'incipit è degno di una leggenda gallese. Un cacciatore, Dareǯani, dopo aver a lungo inseguito un animale tra le balze di una montagna, viene attirato nella dimora della bionda e pallida Dali, dea della selvaggina cornuta, a cui appartengono le specie più ricercate dai cacciatori: cervi, caprioli, mufloni, camosci e i maestosi stambecchi caucasici (Tuite 2000). Essi si amano e passano insieme la notte. Il giorno successivo, la dea insiste che l'uomo torni a casa, prima che la moglie cominci a insospettirsi della sua assenza e scopra il loro nascondiglio. Ma la passione induce il cacciatore a fermarsi ancora una notte, e la notte successiva. A questo punto, la moglie di Dareǯani, dopo aver seguito le tracce del marito sulla neve, penetra nella dimora di Dali e trova gli amanti addormentati. Senza svegliarli, si impadronisce delle forbici d'oro della dea e le taglia le trecce, anch'esse d'oro. Se ne torna a casa, senza svegliarli. Il mattino successivo, al risveglio, Dali si accorge dell'accaduto e, dichiarando che la vita per lei non ha più valore, rivela all'amante di essere incinta.

È il classico mitema degli amori melusiniani, secondo la felice definizione di Laurence Harf-Lancner: una volta infranto l'interdetto, Dali deve svanire per sempre dal mondo e dalla vita del suo amante (Harf-Lancner 1984). Ma prima chiede a Dareǯani a squarciarle il ventre ed egli ne estrae un bambino prematuro, la cui gestazione sarà portata a termine successivamente nel ventre di un torello e di una giumenta. Esposto infine presso una sorgente, il bimbo viene «battezzato» da un vecchio viandante, il quale non è altri che il dio supremo Morige Ḡmerṫi. L'eccezionale padrino gli conferisce, oltre al nome, Amirani, anche delle capacità sovrumane. Poi un contadino, Iaman, raccoglie il bimbo e lo alleva con i suoi due figli Badri e Usip‘. (Charachidzé 1984).

Divenuti adolescenti, Amirani, Badri e Usip‘ lasciano l'abitazione paterna e compiono l'«uscita in piano» [velad gasvla], avventurandosi in regioni lontane e selvagge per il loro apprendistato eroico. Dapprima i tre giovani vivono come briganti assaltando tutti i viandanti che incontrano, senza distinzione e soprattutto senza ragione, secondo una pratica di iniziazione guerresca che troviamo diffusa in particolare presso gli indoeuropei (cfr. Tacitus, Germania [31]). In seguito i tre cominciano ad aggredire i devebi (cfr. iranico daēvā), i dèmoni che vivono nei luoghi più aspri e isolati, che sconfiggono senza alcuno sforzo.

  Noi tre ci scontrammo con trecento devebi a Čabalxeti,
noi ci incontrammo sotto una tenda a Balxeti e li annientammo tutti quanti.
noi resistemmo nella battaglia, riparati sotto i nostri scudi.
Ah! Eran là i devebi? Noi li stendemmo sotto le nostre spade.
L1

In questo modo i tre fratelli crescono e diventano forti; in quanto ad Amirani, «egli diviene talmente possente che la terra faceva fatica a portarlo» (L1). A questo punto il terzetto è pronto per compiti ancora più grandi.

Dopo una partita di caccia, i tre scoprono una torre di cristallo, dove giace un morto, che è lo zio (o il nipote) di Usip‘. I giovani eroi decidono di vendicarlo e si mettono alla ricerca del suo uccisore, il dev tricefalo Baq‘baq‘. Quest'ultimo viene affrontato in duello da Amirani, che prima gli strappa una spalla, poi gli taglia le tre teste. Da queste escono tre vermi, che subito si trasformano in altrettanti vešapʻebi. Questo termine (sing. vešapʻi), che oggi in georgiano indica la balena, deriva da un armeno višap, parola che indicava in origine una sorta di enorme serpente, legato all'acqua (cfr. avestico višāpa «velenoso», sanscrito viṣa «veleno»). Sono dunque tre dragoni serpentiformi, quelli che Amirani si trova di fronte: uno bianco, uno rosso e uno nero. L'eroe divide tra i fratelli il compito di uccidere i tre mostri, ma Badri e Usip‘, presi dal terrore, se la danno a gambe. Per la prima volta nella sua vita, Amirani riconosce che il suo coraggio e la sua forza soprannaturali lo isolano dal resto dell'umanità ed ha improvvisa consapevolezza della propria solitudine. Dopo aver pregato invano i fratelli, Amirani si rivolge alle sue armi: «O mia spada, o mia corazza, voi almeno, soccorretemi!» Uccide il vešapʻi bianco e poi quello rosso, ma il vešapʻi nero lo ingoia e si rifugia nel mondo ipoctonio.

Nella cosmologia georgiana, l'universo è un trimundio costituito da tre livelli cosmici, chiamati sk‘neli. Essi sono:

  1. Lo ze-sk‘neli, «livello di sopra», cioè il mondo celeste, patria delle divinità;
  2. Il gare-sk‘neli, «livello esterno», cioè il mondo terrestre, patria degli esseri umani;
  3. Il ve-sk‘neli, «livello di sotto», cioè il mondo sotterraneo e ipoctonio, patria dei dèmoni e dei mostri.

È appunto nel ve-sk‘neli che si rifugia il vešapʻi. Questi è il serpente che ingoia il sole ogni notte e nel corso delle eclissi, e che tenta di divorarlo per sempre al solstizio di inverno. Con il suo pugnale, Amirani gli squarcia il ventre e riesce a uscire fuori. Il vešapʻi gli chiede di riparare alla ferita, fabbricandogli un fianco di metallo. L'eroe gliene applica però uno di legno, che il sole può bruciare per liberarsi. Se così non avesse fatto, il mondo sarebbe perito.

Per venire fuori dal mondo sotterraneo, Amirani sale a cavalcioni sul dorso di una gigantesca aquila. Ma l'ascesa si rivela lunga e faticosa anche per il poderoso rapace, e Amirani, ogni volta che l'aquila perde le forze e minaccia di precipitare, le infila nel becco un pezzo di carne che ha tagliato via dalla propria coscia. In questo modo, l'uccello completa l'ascesa tra i mondi, ed Amirani può tornare sulla terra. Ma a causa della sua permanenza nel ventre del vešapʻi, è privo di barba e di capelli, e i suoi parenti si prendono gioco di lui equiparandolo a un neonato. Si troviamo di fronte a un motivo iniziatico: l'eroe, ingoiato dal mostro, è andato incontro a una morte e a una rinascita simbolici. Ora Amirani è stato rigenerato ed è ancora più forte e più potente di prima. In breve tempo, egli riacquista la sua chioma e suoi mustacchi, entrambi motivi di orgoglio presso i guerrieri caucasici.

Amirani rapisce Q‘amar ( 2010?)
Unita Nightroud, illustrazione

A questo punto, seguendo un consiglio ricevuto da Baq‘baq‘, Amirani va a cercarsi una fidanzata nel paese dei dèmoni-fabbri aǯebi. La terra di aǯeti si trova al di là dei mari, ed Amirani riesce ad arrivarvi in groppa a un cavallo miracoloso, Ṫeṫroni, che compie un balzo vertiginoso attraverso il cielo. Arrivato a destinazione, Amirani rapisce Q‘amar, figlia del re aǯe, e torna indietro nello stesso modo, inseguito da tutta l'armata demoniaca. Badri e Usip‘ intervengono in suo aiuto, ma vengono uccisi. Amirani riesce a sbaragliare le coorti aǯebi, ma si ritrova a combattere contro il loro re: un colosso mostruoso, coperto da macine di mulino in luogo di elmo e di corazza. Amirani riesce a sconfiggerlo grazie ai consigli di Q‘amar, che gli insegna nuove tattiche di combattimento prima ignorate. Vincitore, ma disperato per la morte dei suoi fratelli, Amirani si uccide, ma viene tosto resuscitato dalla demoniaca fanciulla.

Dopo aver abbandonato fratelli e fidanzata, ormai del tutto solo, Amirani riprende il suo vagabondare. Nulla gli resiste: qualsiasi impresa è divenuta per lui pura routine. Un giorno si imbatte su un carro trainato a gran fatica da dodici paia di bufali. Su questo, giace morto un gigante, Ambri Arabi. La sua gamba penzola giù dal carro e scava un solco nel terreno. La madre del gigante chiede ad Amirani di rimettere la gamba di Ambri sul carro. L'eroe ci prova, ma non è in grado di smuoverla, né di sollevarla. Quest'inaspettata défaillance, e contro una «cosa» inerte, priva di vita, getta Amirani nel più cupo sconforto. Prega allora il suo padrino, il dio supremo Morige Ḡmerṫi, il quale gli accorda una forza supplementare, quanto gli basta per portare a termine l'impresa, ma lo avverte: «Io so bene che non farai buon uso di questa forza: la userai per fini malvagi e sarai ancora umiliato».

Amirani riprende il suo cammino. È ormai arrivato al culmine della sua potenza e, di conseguenza, la sua solitudine si è fatta assoluta, totale. Rotti gli ultimi legami che univano l'eroe agli esseri di questo mondo, egli è senza più parenti, amici, fidanzata, e il mondo è ridotto a una landa desolata. Sulla terra non restano che «tre dèmoni, tre cinghiali, tre querce» (L2), ultimi avanzi di vita in mezzo al deserto provocato dal campione troppo vigoroso. La solitudine è ancor più accentuata dalla natura bellicosa dell'eroe e dalla purezza della sua unica passione, quella di combattere. Ma Amirani ha ormai sterminato tutti gli avversari degni di lui e si ritrova di fronte a un punto culminante nella carriera degli eroi caucasici, una «nevrosi del destino» (secondo la bella espressione di Charachidzé) espressa dalla domanda: esiste qualcuno più forte di me?

È un motivo presente soprattutto nell'epopea ossetica dei nartæ, e che Georges Dumézil ha più volte sottolineato nei suoi lavori (Dumézil 1930 | Dumézil 1965). È il momento in cui l'eroe, giunto al culmine della sua potenza, parte alla ricerca dell'avversario definitivo, necessario, introvabile. La situazione di Amirani è però ancor più drammatica: il gare-sk‘neli, o «livello esterno», non gli offre più alcuno con cui misurarsi, e d'altra parte egli ha sconfitto devebi e aǯebi, esseri legati al ve-sk‘neli, o «livello di sotto». Non gli resta che rivolgere lo sguardo verso l'alto, allo ze-sk‘neli, o «livello di sopra». Arriva così, nel modo più naturale, l'idea di sfidare il dio supremo Ḡmerṫi.

Non c'era nessuno che potesse farcela con lui. Amirani si inorgoglì e si esaltò. Alla fine disse: «È stato il mio padrino a darmi la forza: che io lotti con lui, che io provi la mia gagliardia!»

L1

Ḡmerṫi rifiuta la lotta, ma gli impone una sfida: svellere il bastone che egli pianterà al suolo. Amirani accetta. Il dio pianta il bastone al suolo, ma l'eroe riesce a strapparlo per ben due volte. La terza volta, però, il bastone mette radici così profonde che avvolgono la terra intera, e Amirani non riesce nemmeno a smuoverlo. È allora che Ḡmerṫi, per punirlo della sua tracotanza, incatena Amirani al bastone, ormai divenuto un palo inamovibile. (L1)

Il motivo del bastone è attestato in diverse versioni della vicenda (L1 | L9), ma esistono altre varianti. Ad esempio, al posto del bastone compare assai spesso un robusto palo di ferro, conficcato profondamente al suolo (L2 | L16 | L19 | L20). In alcuni casi, Amirani viene sfidato a sollevare una pietra, ma non riesce neppure a smuoverla e rimane con le mani attaccate alla roccia (L21). In questa versione, Cristo (georgiano rist‘e), prende il posto di Ḡmerṫi:

Amirani interpellò riste con boria:
«Allora, sembra che sia tu che voglia di misurarti con me?»
Prendendo una pietra grande quasi come una montagna, egli lanciò a più di quaranta verste. riste prese la stessa pietra e, ordinandole di sorvolare nove montagne, la lanciò con una tale forza che essa non solo sorvolò nove montagne, ma anche sprofondò quasi completamente nella terra.
riste disse ad Amirani: «Se sei davvero un così gran campione, strappa un po' questa pietra dalla terra!»
Amirani corse dove era la pietra, ce la mise tutta per spostarla, ma non riuscì nemmeno a scuoterla e, quel che è peggio, non poté staccarsi da essa. Allora riste ordinò che egli fosse incatenato proprio a quella pietra.

L21

Ḡmerṫi non si offre mai a uno scontro diretto con Amirani, né provvede mai fisicamente all'incatenamento dell'eroe. Su questo punto, i testi si limitano a dire che «Ḡmerṫi incatenò Amirani», assumendo che la volontà divina sia sufficiente per assicurare le catene intorno al corpo dell'eroe. Alcune varianti specificano che Ḡmerṫi incaricò i aǯebi di catturare Amirani; essi circondano l'eroe nel sonno e lo incatenano al palo.

Amirani e Q‘urša ( 2010?)
Unita Nightroud, illustrazione.

Il castigo, però, non è ancora terminato. Ḡmerṫi scuote le montagne e fa precipitare su Amirani la cima di una montagna, che è il Q‘azbegi/Kazbegi nelle versioni orientali della leggenda, o dello Ialbuzi/Ėl'brus, in quelle occidentali. L'eroe si ritrova così ricoperto da una cupola di roccia, che lo isola completamente dal mondo, condannandolo a una tenebra assoluta. Come compagno di prigione, ha il cane alato Q‘urša, figlio di un'aquila. Il cane lecca giorno e notte una maglia della catena, assottigliandola sempre di più. Ma, vuole la tradizione, all'alba del giovedì santo, nel momento in cui la catena sta per cedere all'usura e Amirani è sul punto di essere liberato, i fabbri di tutta l'umanità entrano nella fucina e, nel più assoluto silenzio, percuotono a tre riprese l'incudine e plasmano un piccolo oggetto simbolico. Immediatamente, le catene di Amirani riprendono la loro saldezza, l'eroe rimane prigioniero all'interno della montagna e il cane alato ricomincia il suo lavoro, fino all'anno successivo.

Secondo altre versioni, la prigione di Amirani si squarcia a intervalli regolari, ogni certo numero di anni, permettendo all'eroe incatenato di affacciarsi sulla terra. Leggende, diffuse tra i montanari della Georgia e della Svanezia, raccontano di un pastore, un fabbro, un cacciatore che, dopo essersi perduto tra le asperrime cime del Gran Caucaso, si trova di fronte la spaventosa visione dell'eroe, legato al suo palo, lo sguardo furente, la barba e i capelli incolti. Il nuovo venuto cerca di liberare Amirani, ma senza riuscirci. La spada dell'eroe si trova abbandonata a pochi passi e, se Amirani riuscisse a brandirla, potrebbe spezzare le catene, ma l'uomo non riesce neppure a sollevarla. In alcune versioni della leggenda, Amirani chiede all'uomo di andare a casa per portargli la catena del focolare, o quella dell'aratro, in modo da trascinare la spada, ma il disgraziato non riesce mai nella sua impresa. Spesso è la moglie a bloccarlo con domande inopportune, impedendogli di portare aiuto all'eroe incatenato. Intanto, la montagna si richiude ed Amirani torna a sprofondare nelle tenebre della sua eterna prigionia. Allora si scuote, furibondo, causando spaventosi terremoti. (Charachidzé 1986¹)

LA VERSIONE ABXASICA. ABRYSK’YL

Gli Abxasi (endonimo Aṗsuac°a, georgiano Aṗxazebi, russo Abchazy) sono un gruppo etnico stanziato a nord-ovest della Georgia, lungo la costa del Mar Nero. Presenti sul posto da tempo immemorabile – le fonti classiche li conoscono come Abazgoi –, gli Abxasi parlano una lingua classificata, insieme con il circasso e l'estinto ubyx, al gruppo caucasico nordoccidentale. Inizialmente compresa nella sfera d'influenza dell'impero bizantino, subito dopo il 1000 l'Abxasia, o Aṗsny, entrò nell'orbita del regno georgiano. Quando la sponda orientale del Mar Nero passò sotto gli Ottomani, tra il XVI e il XVII secolo, l'Abxasia divenne una provincia dell'impero e divenne oggetto di un profondo processo di islamizzazione.

È solo nel XIX secolo, a cavallo dell'annessione del Caucaso all'Impero Russo, che la piccola Abxasia cominciò a cercare una propria voce. Cosa non facile, stretta com'era tra due vicini tanto ingombranti come la Georgia e la Russia. Furono proposti degli alfabeti nazionali, sviluppati dal latino o dal cirillico, sebbene l'inventario consonantico dell'abxasico, tra i più estesi del mondo, mettesse a dura prova i tentativi di trascrizione grafica. Ai giorni nostri, conclusa la parentesi sovietica, il piccolo paese non ha ancora uno status ben definito: un lungo stato di guerra con la Georgia, caratterizzato da episodi di inaudita ferocia, si trascina almeno dal 1989.

Ma a noi non interessa la politica, bensì la mitologia. Convertiti al Cristianesimo in epoca bizantina, all'Islām sotto gli Ottomani, gli Abxasi hanno visto la loro religione tradizionale spegnersi assai rapidamente, lasciando poche credenze frammentarie, insufficienti per ricostruirne il sistema originario. Il dio supremo degli Abxasi era invocato col nome di Anc°a. Per quanto sia questo il modo con cui gli Abxasi chiamano ancora oggi il Dio delle religioni monoteiste, la curiosa etimologia del nome ne tradisce l'origine pagana. Infatti Anc°a [ɑnʦʷʰɑ] significa letteralmente «i là» (con a-, articolo definito; -n-, avverbio «là», -c°a, suffisso del plurale). Questo bizzarro nome collettivo sembra intendere, secondo Charachidzé, «l'insieme delle parti divine concepite presenti dovunque nell'universo, ma riunite in un Tutto unico»; traccia puramente verbale di una teologia che non doveva avere nulla da invidiare, in fatto di complessità, ad altre assai più illustri (e si pensi pure al trattamento plurale del biblico lōhîm). Altre divinità abxase erano Š’as°, signore della fucina, anch'egli declinato al plurale, e Až°aiṗšaa, dio della caccia e degli animali selvatici. (Charachidzé 1989¹)

Trittico delle leggende caucasiche
Levars Butba (1960-)

Scomparsa la mitologia originaria, i suoi frammenti vennero conservati nel folklore. Se, dal Medioevo, la letteratura colta aveva scelto il georgiano come mezzo di espressione, il popolo abxasico conservò nella lingua materna un ricco e interessante patrimonio di fiabe e racconti, tra cui spicca una versione locale del mito del campione incatenato. Difficile definire il suo grado di originalità rispetto alla versione georgiana: le affinità sono strette, le differenze interessanti. Il racconto che qui riassumiamo è stato pubblicato in russo nel 1892, ma solo da poco si è reso disponibile il testo abxasico (Charachidzé 1986¹ | Džapua 2003). L'eroe è chiamato Abrysk’yl.

La sua nascita, come quella di Amirani, è miracolosa. Una vergine, «fecondata da una forza celeste», lo mette al mondo, e il bimbo cresce con velocità prodigiosa. A dieci anni, Abrysk’yl è già in grado di tenere testa ai più valenti campioni. Divenuto uomo, è un eroe audace e generoso, di grande forza e coraggio ineguagliabile. Il paese di Aṗsny vede d'un tratto esaudite le sue più fervide preghiere: Abrysk’yl depone il malvagio sovrano che tiranneggia il popolo; uccide senza pietà i membri dei due clan di stregoni, gli Aeš°ba e gli Aac°ba; elimina tutti gli uomini dai capelli rossi e gli occhi azzurri, affinché non gettino il malocchio sulla popolazione; combatte gli Adauc°a, sorta di orribili orchi cannibali, finché non li ha sterminati fino all'ultimo.

Abrysk’yl si muove rapidamente attraverso il paese, dovunque vi siano torti da raddrizzare, deboli e oppressi da difendere. Il suo cavallo, Araš’, è dotato di ali ed è in grado di volare; inoltre, possiede il dono della favella. Se Abrysk’yl dorme, Araš’ veglia, e lo difende dagli agguati dei nemici e dei briganti. L'eroe possiede due rifugi inattaccabili: uno in alto, sulla cima del monte Ercax°, l'altro in basso, sulla costa del Mar Nero. Da quelle posizioni, egli può vedere i nemici da qualsiasi parte provengano: dal mare, oppure dai monti.

Sotto la protezione di Abrysk’yl, la terra di Aṗsny «fiorisce», «diviene più vasta e più grande». Tutti gli Aṗsuac°a godono dell'amicizia e della protezione dell'eroe, e persino i suoi nemici cercano di conciliarselo. È un'età benedetta, quella di Abrysk’yl: la vacca dà latte tre volte al giorno, la capra quattro o addirittura cinque volte, perché l'eroe ha sradicato le felci e tutte le piante nocive, e le praterie sono ora coperte di una coltre d'erbetta grassa e fresca. La gloria di Abrysk’yl si diffonde nel mondo, tanto che nessun nemico osa più attaccare l'Aṗsny. È tale il rispetto di cui gode, che al suo passaggio, tutti si inchinano dinanzi a lui.

Inevitabilmente l'eroe si inorgoglisce. Sulla terra non è rimasto nessuno che possa contendere con lui ed Abrysk’yl pretende di essere alla pari con il supremo Anc°a. L'eroe arriva al punto di rubare al dio le proprie prerogative. Quando vuole che tuoni, Abrysk’yl riempie di sassi dei sacchi di pelle di vacca, li attacca ai fianchi di Araš’ e corre sulla terra e per il cielo: i sassi, battendo gli uni contro gli altri, provocano rumori simili a tuoni. Quando vuole che lampeggi, lancia in cielo ciottoli di selce e li colpisce con la lama della spada: le scintille si levano crepitando come fulmini.

Altrettanto inevitabilmente, Anc°a si irrita contro l'eroe ribelle e ordina ai suoi spiriti subalterni, gli aṗeambarc°a, di catturarlo e di gettarlo, le mani e i piedi legati, nel mondo sotterraneo, e di torturarlo crudelmente, finché non si sottometta al volere divino.

Ma non è facile catturare l'eroe. Ora è sulla cima del monte Ercax°, ora nella sua dimora sul Mar Nero. Come vede avvicinarsi gli aṗeambarc°a, balza in groppa ad Araš’ e il fedele cavallo lo conduce in un balzo dal mare alle montagne, dalle montagne al mare. Quando Araš’ è al pascolo, Abrysk’yl utilizza allo stesso modo una lunghissima pertica, che lo porta in un lampo dall'uno all'altro suo rifugio. Estenuato dalla lunga caccia, l'eroe dorme ogni volta per tre giorni e tre notti, per poi rimanere sveglio e vigile altrettanto tempo. Gli aṗeambarc°a, afflitti perché non riescono ad eseguire la volontà di Anc°a, si rivolgono allora a una vecchia strega. Costei manda un picchio che, a colpi di becco, assottiglia la pertica di Abrysk’yl; in cambio, l'uccellino riceve in capo il suo bel berrettino rosso. A questo punto, gli aṗeambarc°a si fanno avanti per catturare l'eroe. Questi afferra la pertica e spicca il suo prodigioso balzo: ma l'asta si spezza, ed egli precipita in una radura presso il villaggio di lou.

Abrysk’yl incatenato
Autore sconosciuto

In un'altra versione, la strega consiglia agli aṗeambarc°a di stendere davanti a uno dei due rifugi di Abrysk’yl delle pelli di bue spalmate di grasso. Avendo seguito questo consiglio, gli inviati di Anc°a si dividono in due gruppi: uno si apposta nella foresta vicino al luogo dove si trovano le pelli di bue, il secondo si lancia all'inseguimento di Abrysk’yl. Questi, lancia il cavallo al galoppo, ma Araš’ scivola sulle pelli di bue e cade trascinando nella caduta il cavaliere.

Gli aṗeambarc°a catturano Abrysk’yl e, guidati dalla strega, lo trascinano nelle profondità di una caverna, scavata nel fianco di una montagna. Il fedele Araš’ li insegue, lanciando nitriti infuriati, e viene anch'egli catturato. Due pali di ferro vengono conficcati al suolo: a uno viene legato Abrysk’yl, all'altro Araš’.

Il tempo passa, ed Abrysk’yl rimane lì incatenato. La sofferenza dell'eroe è indicibile: ha i capelli e la barba sempre più lunghi. Scuote il pilastro, nel tentativo di scardinarlo, finché, dopo un anno, questo sta ormai per uscire dal foro in cui è conficcato. È allora che un uccellino blu [bolok̄ank̄ara] si posa sulla cima del palo. Abrysk’yl lo colpisce con un martello, intenzionalmente posto alla sua portata dagli aṗeambarc°a, e il pilastro torna a conficcarsi al suolo, imprigionandolo ancora una volta.

Intanto gli Aṗsuac°a stanno cercando il loro eroe per tutto il paese. Un giorno, qualcuno nota del letame di cavallo nella sorgente che sgorga dal fianco del monte. Un gruppo di coraggiosi si dirige così verso la vicina caverna, con sette muli e un gran numero di candele. Gli uomini scendono nelle buie profondità della terra e, dopo un lungo percorso, le candele si spengono. A questo punto, essi odono le grida dell'infelice.

Uanaǯʼalbeit, sei ancora vivo?” si stupiscono gli uomini.
“Sono vivo, ma nessuno arriva a me!” è la risposta.
“Coraggio, siamo scesi alla tua ricerca. Ti libereremo e ti riporteremo in Aṗsny”
“Ditemi prima come vanno le cose nel paese natale” chiede Abrysk’yl. “Di nuovo crescono e si moltiplicano gli Aeš°ba e gli Aac°ba? E le genti dai capelli rossi e dagli occhi azzurri? E gli adauc°a sono ritornati? Ricrescono già la felce e le altre piante nocive che ostacolavano lo sviluppo delle piante utili? Le vacche danno ancora latte tre volte al giorno e le capre cinque? I nemici esterni molestano gli Aṗsuac°a come accadeva prima della mia nascita?”

I soccorritori non posso nascondergli la desolante realtà, e cioè che, con la sua scomparsa, tutto è tornato come prima della sua nascita. Abrysk’yl geme: “Allora non parlatemi più della mia amata patria. Non posso né sentirne parlare né soffrire ulteriormente”. Consiglia ai soccorritori di aggrapparsi alle code delle mule, che li condurranno di nuovo fuori dalla caverna, e conclude: “Non è ancora il giorno della mia liberazione”.

LA VERSIONE CIRCASSA. TEƷAU

Tra i popoli caucasici nordoccidentali, spiccano i Circassi, le cui tribù, caratterizzate da una continuità di dialetti, sono sparse in un certo numero di isole linguistiche nel territorio della Russia caucasica. Essi si dividono, in grosse linee, in Circassi occidentali o Adighi (circasso Adǝgė, russo Adygency) e Circassi orientali o Cabardini (circasso Qʻėbėrtajxėr-Adǝgė, russo Kabardincy).

L'antico pántheon circasso era piuttosto ricco. Tė (Tėšxo) era il dio supremo, colui che aveva fissato le leggi dell'universo. Un posto di primaria importanza era attribuito a Λėpš, il dio fabbro dai sette corni, che lavorava il metallo a mani nude, mentre Šǝblė era il genio folgoratore, signore del fulmine. Diverse dee erano preposte al controllo degli elementi naturali: Xǝg°aśė dominava il mare, Psǝχ°ėg°aśė i fiumi, ancėg°aśė la pioggia. Vi erano infine diverse divinità specializzate nell'amministrazione della fauna: Taḡėlėǯ controllava la fertilità, Pśǝmėzǝta la caccia e la selvaggina, Amǝš gli ovini, Zekḣ°atė i cavalli, Axǝn i bovini.

Quest'ultimo era una specie di gigante, padrone di una mandria così vasta da coprire l'intero giro dell'orizzonte. Il suo abituale mezzo di trasporto – che abbiamo visto anche attribuito ad Abrysk’yl – era una pertica lunga più di duecento metri, che egli piantava sul fondo delle valli per saltare da una montagna all'altra. Un giorno, racconta uno dei rari miti circassi sopravvissuti, Axǝn decise di andare a far visita al suocero e si mise in cammino con la sua pertica smisurata. Il suocero, preoccupato dall'arrivo del suo spaventoso genero, approfittò del fatto che Axǝn dormiva una settimana su due, per segargli la pertica in vari punti. Così, quando Axǝn fece per saltare da una vetta all'altra, l'asta si spezzò nel bel mezzo del balzo e lo sventurato gigante precipitò in un fiume, scomparendo per sempre nelle sue correnti. Da allora, per commemorare l'avvenimento e consentire ai circassi di scontare la loro colpa, ogni anno, alla stessa data, si procede al sacrificio di una vacca.

La vicenda del titano incatenato è conosciuta in diverse versioni tra i vari gruppi circassi. Il suo nome, presso gli Adighi è perlopiù Teʒau; presso i Cabardini è Nesren. Le leggende che riportiamo di seguito sono tratte da fonti secondarie. Rispetto ai racconti georgiani e abxasici, il materiale circasso a nostra disposizione appare di qualità inferiore, piuttosto eterogeneo e certamente non esaustivo: insufficiente per trarre delle conclusioni generali. Lo riportiamo a puro scopo illustrativo.

Teʒau, secondo la leggenda riportata da Axel Olrik, si era conquistato la fiducia del dio supremo, Tė, che lo aveva ammesso al suo fianco – sembra – come consigliere. Ma poiché Teʒau aveva abusato dei suoi privilegi e aveva tentato di detronizzare Tė, quest'ultimo lo aveva ferocemente punito incatenandolo per l'eternità. Teʒau si trova ai piedi di un'alta montagna, legato solidamente alla roccia con sette catene. Ha una spada posta poco sopra il suo capo, e si protende nel tentativo di afferrarla. Nonostante sia alto quanto la roccia, non vi riesce mai. Ma ad ogni suo movimento, le catene si assottigliano. Dicono i Circassi: «Quando Teʒau recupererà la spada – ciò avverrà in un giorno che non è prossimo – taglierà le catene, si libererà e circolerà per il mondo per sottometterlo» (Olrik 1902).

Il vecchio è generalmente in stato di torpore. Quando ne esce chiede ai suoi custodi: «La terra produce ancora canne e montoni?» Rispondono i custodi: «Sulla terra spuntano sempre canne e nascono sempre montoni». A questo punto, [Teʒau] diviene furibondo, perché sa che la sua torture continuerà finché la terra produrrà canne e montoni. Disperato, vuol spezzare la roccia. I suoi movimenti fanno tremare la terra, le sue catene producono lampi e tuoni, l'ansare del suo respiro causa gli uragani, i suoi gemiti i boati sotterranei; dalle sue lacrime scaturisce mugghiando ai piedi del monte Ėl'brus il fiume spumeggiante.
Leggenda di Teʒau

I Circassi orientali, o Cabardini, conoscono una versione ancora differente del racconto. In una di esse, il protagonista non ha nome, ma è descritto come un gigante monocolo:

Molti, molti anni fa, un gigante che aveva un solo occhio sulla fronte, osò penetrare il mistero con il quale Tė ha circondato le vette dell'Elbruz. Salì alla sella che s'incava tra le due cime, presso le rocce dalle quali scaturisce una fonte cristallina. Ma Tė non tollerò tanto ardire e con una lunga catena legò alle rocce il profanatore dei misteri. Molti anni sono passati da allora; il gigante è diventato vecchio. La lunga barba gli giunge alle ginocchia. Il corpo, un tempo vigoroso, è divenuto cadente, il suo viso altero si è coperto di rughe. Per aumentare la punizione, Tė gli ha inviato un uccello da preda: ogni giorno un avvoltoio vola sul gigante e gli scava spietatamente il cuore. Quando poi il martoriato si curva per bere, l'avvoltoio lo precede e beve fino all'ultima goccia l'acqua che ha il meraviglioso potere di rendere immortale chi la gusta.

Ma verrà un giorno in cui Tė si adirerà coi peccatori figli di Adamo. Allora libererà il monocolo e per gli uomini saranno guai, perché egli si vendicherà su di loro di secoli di sofferenza.
Leggenda del prometeo monocolo

Sempre presso i Cabardini, l'eroe incatenato ha nome Nesren, e viene considerato uno dei nartæ, i leggendari campioni che i Circassi hanno assorbito dai loro vicini Osseti. Uno di questi racconti sembra essere un sunto di tutti i motivi legati al mitema caucasico del campione incatenato:

O nart Nesren! I tuoi piani sono stati malvagi e tu rechi oltraggio a ciò che Tė dice e fa. O maledetto da Tė, che hanno portato sulla montagna, che hanno inchiodato alla montagna, con un'aquila sopra. Il tuo cane è al tuo fianco! Con grida e fracasso tu prendi lo slancio; il palo, al quale sei incatenato, lo fai piegare. Un uccello vola verso di te, si posa sul palo, tu ti incollerisci, malamente, tu gridi con fracasso di tuono, tu tiri al palo, tu batti il palo, tu batti ancora più forte. Il cane, che è accucciato al tuo fianco, assottiglia le catene. Esse sono ormai come un filo sottile. I fabbri, che si trovano nella fucina, si alzano in fretta, quella brava gente! battono sull'incudine, le catene si rafforzano [...]. Che Tė ti tenga legato, che Tė ti faccia morire!
Leggenda di Nesren

I racconti circassi, o almeno quei pochi che siamo riusciti illustrare, sembrano assai vicini all'archetipo greco; certamente sono più «ellenici» di quanto non siano quelli georgiani e abxasici. Vi è addirittura un racconto cabardino su Nesren praticamente identico al mito greco di Promētheús, in maniera fin allarmante. Disgraziatamente, l'esiguo materiale a nostra disposizione deriva da fonti prive di approfondimenti critici, e c'è un forte sospetto di inquinamento del materiale. Di conseguenza, questi racconti circassi saranno perlopiù esclusi dalle nostre comparazioni.

PROMETEI CAUCASICI A CONFRONTO

Trittico delle leggende caucasiche
Levars Butba (1960-)

Il prometeo caucasico si presenta nella maggior parte dei casi come un eroe di notevole forza fisica e valore guerriero. Ma una volta definito l'ambito in cui si muove il nostro «campione incatenato», bisognerà definire attentamente le affinità e le differenze tra le sue molte incarnazioni locali. La variante georgiana di Amirani, quella abxasica di Abrysk’yl, quella circassa di Teʒau o Nesren, possono essere facilmente utilizzate come paradigmi della distanza che intercorre tra le numerose versioni di questo archetipo caucasico.

Ragione della severa punizione è, in tutti i casi, un eccesso di hýbris che porta l'eroe, al culmine della sua potenza, a rivolgere la sua sfida al dio supremo. Quest'ultimo ribadisce la propria autorità incatenando il ribelle a un palo, inchiodandolo alle rocce, comunque relegandolo in un luogo isolato tra le più impervie montagne e caverne del Grande Caucaso.

Il meccanismo della sfida e della punizione si ripete costantemente, ed è questo, infatti, il nucleo del mito che stiamo analizzando, se non il suo più importante elemento discriminatorio.

Ma intorno a questo tema, che si ripete pressoché identico in tutte le versioni, ruotano delle psicologie eroiche assai differenti: se Amirani avanza solo, di vittoria in vittoria, in una prospettiva del tutto egoistica, attraverso un mondo privo di consorzio umano, Abrysk’yl rivolge i suoi sforzi alla tutela del proprio paese natale, l'Abxasia, e del popolo che gli è caro. In quanto a Teʒau, appare proiettato, ancora più degli altri, nel tempo assoluto del mito. Una profonda differenza ideologica separa i tre eroi, differenza che si riflette, inevitabilmente, sul motivo della loro futura liberazione. Agognata dagli abxasi, per Abrysk’yl; eternamente ritardata dai fabbri georgiani che battono sulle loro incudini, per Amirani; paventata dai Circassi, che vedono nella liberazione di Teʒau o Nesren una punizione escatologica nei confronti del genere umano.

L'unico a presentare una biografia elaborata e ricca di episodi, è Amirani: il suo percorso è un percorso iniziatico, in cui la potenza e le capacità guerriere dell'eroe si accrescono costantemente a ogni sfida affrontata e vinta. La cosa curiosa è che la maggior parte degli episodi presenti nella leggenda di Amirani sembrano essere non di origine caucasica, ma indoeuropea. I mitemi coinvolti sono infatti perfettamente trasparenti e presentano precise corrispondenze con complessi mitici ben conosciuti:

  1. Lotta di Amirani con il dev tricefalo Baqʻbaqʻ.
    È il mitema dell'abbattimento del tricefalo, ben attestato in molte mitologie di matrice indoeuropea. In India, è rappresentato dall'uccisione di Viśvarūpa da parte di Indra o Trita Āptya; in Īrān, dalla vittoria di Θraētaona su Aži Dahāka; in Grecia, è la lotta di Hērakls contro Geryṓn; etc. Tratteremo in seguito della relazione che questo importante mitema ha con il nostro prometeo.
     
  2. Scontro di Amirani contro il serpente.
    È il mitema della lotta del dio-tuono contro il serpente-delle acque. In Anatolia è rappresentato dalla lotta di Tarḫunta contro il serpente Illuyanka; In India è la vittoria di Indra sul serpente Vṛtra; in Grecia, quella di Hērakls contro il serpente Ládōn; in Scandinavia, lo scontro escatologico di Þórr contro il serpente Jǫmungandr. Tra l'altro, anche a Indra capita di venire temporaneamente ingoiato dal serpente; anche Hērakls passa tre giorni nello stomaco del mostro marino che è stato inviato a divorare la sfortunata Hēsiónē, e ne viene fuori privo di barba e di capelli.
     
  3. Rapimento di Q‘amar, figlia del re dei aǯebi.
    L'eroe irlandese Cú Chulainn, sul punto di sposarsi con Emer, figlia del fomóir Forgall Monach, viene mandato in Alba per ricevere la sua istruzione guerriera da tre agguerrite virago, Scáthach, Úathach e Aífe. Tornato in Ériu, uccide Forgall e rapisce Emer, portandola via con un balzo fuori dal ráth.
     
  4. Amirani non riesce a sollevare la gamba del defunto gigante Ambri Arabi.
    Abbattuto il gigante Hrungnir, Þórr rimane schiacciato sotto la sua gamba e non riesce più a liberarsi. Sarà suo figlio Magni, di tre anni, a spostare senza alcuno sforzo la gamba del gigante.

Le corrispondenze sono piuttosto precise, dettagliate e numerose, per poter parlare di semplici coincidenze: la biografia di Amirani è stata riscritta sulla base di racconti di matrice indoeuropea. Ma poiché tali vicende riguardano unicamente il prometeo georgiano (e non i suoi «colleghi» abxasico e circasso), possiamo considerarle delle rielaborazioni accessorie.

Ma dimentichiamo per il momento la carriera eroica di Amirani, così come le imprese a sfondo nazionale che riguardano Abrysk’yl, e concentriamoci sul nucleo del complesso che stiamo analizzando: la sfida al dio supremo e la conseguente punizione. Il mito è strutturato su un sistema ricorrente di elementi, che possiamo elencare in questo modo:

  • Il campione, giunto al culmine della sua potenza, non avendo nessun nemico con cui possa battersi, sfida il dio supremo. In Georgia, Amirani invita Ḡmerṫi a battersi con lui. In Abxasia, Abrysk’yl manifesta la propria empietà nei confronti di Anc°a affermando di essere altrettanto potente di lui e rubandogli le prerogative temporalesche. Presso i Circassi, Teʒau tradisce Tė tentando di detronizzarlo, oppure (nella prima variante cabardina) si introduce nel giardino in cui Tė tiene l'acqua di vita.
  • Il campione viene sopraffatto e catturato dal dio supremo. Questo può avvenire direttamente, con un semplice atto di volontà da parte del dio. Alcune versioni georgiane presentano Amirani catturato e incatenato dai dèmoni-fabbri aǯebi. Nella versione abxasica, la cattura dell'eroe, da parte degli aṗeambarc°a, è piuttosto difficoltosa, e richiede il concorso di una strega.
  • Il campione viene solitamente incatenato a un palo; in alcune versioni georgiane, si tratta del bastone che Ḡmerṫi ha piantato al suolo. L'immagine dell'eroe incatenato alla roccia appare accessoria in Georgia, ma sembra regolare presso i Circassi occidentali.
  • Il supplizio viene applicato in un luogo isolato, inaccessibile, tra le più alte montagne del Grande Caucaso. Nella maggior parte dei casi, il campione viene rinchiuso in una profonda caverna, ottenuta facendo cadere la cima cava di una montagna sopra di lui.
  • Il campione è quasi sempre affiancato da un animale. Nel caso di Amirani è il cane alato Qʻurša; nel caso di Abrysk’yl è il cavallo alato Araš’. L'uno e l'altro rosicchiano le catene che imprigionano il loro padrone, tentando di liberarlo.
  • In molti casi, un uccello si posa in cima al palo che il campione è quasi riuscito a svellere dal suolo. Infuriato, l'eroe tenta di colpirlo con un martello che tiene a portata di mano, ma ottiene soltanto di ribadire di nuovo il palo nel terreno. Nelle versioni circasse, l'uccello è solitamente un avvoltoio o un'aquila. In quella cabardina, un avvoltoio rosicchia il cuore di Teʒau e prosciuga l'acqua di vita che il campione cerca di bere.
  • I tentativi d'evasione del campione sono destinati all'insuccesso. Nella versione georgiana, la roccia si apre a intervalli regolari, permettendo ad Amirani di affacciarsi al mondo esterno; a questo punto, un fabbro o un pastore cerca di portargli aiuto, ma i suoi tentativi falliscono. Allo stesso modo, il tentativo degli aṗsuac°a di liberare Abrysk’yl non ha successo, e qui la ragione sta nella necessità mitica che impone all'eroe di rimanere incatenato fino a un tempo escatologico. Nella versione circassa, Teʒau riesce ad assottigliare le catene, ma queste riprendono ogni volta il loro spessore.
  • L'incatenamento del campione è necessario per il mantenimento dell'ordine cosmico. Alla prigionia di Abrysk’yl corrisponde il mondo che tutti noi conosciamo, in cui l'Abxasia è un paese afflitto dalla povertà e minacciato da nemici interni ed esterni. Nella versione circassa, Teʒau chiede se la terra produca ancora canne e montoni, appunto perché la sua prigionia è legata alla continuazione del mondo a noi familiare.
  • Di conseguenza, la liberazione del campione viene proiettata in un futuro escatologico, il quale ha differenti connotazioni a seconda dell'ideologia attribuita al mito. Alla liberazione di Amirani sembra debba corrispondere una sorta di fine del mondo e della società così come la conosciamo, ragione per cui i fabbri georgiani cercano di rimandarla il più possibile. I Circassi addirittura vedono nella liberazione di Teʒau il segno della fine dei tempi, una punizione per i peccati degli uomini. Al contrario, gli Abxasi sperano nella liberazione di Abrysk’yl, destinata a riportare l'età dell'oro sul loro sventurato paese.

Tentiamo uno schema della materia caucasica, con l'accortezza che stiamo operando una scelta «mirata» tra molte e difformi varianti. Seppur con il rischio di un «effetto selezione», possiamo proporre uno specchietto del genere:

  GEORGIANI ABXASI CIRCASSI
1 Amirani agisce in un mondo separato da quello umano, combattendo contro esseri soprannaturali. Abrysk’yl combatte per la sicurezza del proprio paese, l'Abxasia, per la serenità e la prosperità dei suoi abitanti.  
2 Amirani, giunto al culmine della sua potenza, si inorgoglisce e sfida il dio supremo Morige Ḡmerṫi, suo padrino, a combattere contro di lui. Ḡmerṫi gli impone di estrarre un bastone piantato al suolo. Abrysk’yl, giunto al culmine della sua potenza, si inorgoglisce e sfida il dio supremo, Anc°a, con atti di empietà. Teʒau, posto al fianco del dio supremo Tė, si ribella e tenta di detronizzarlo.
3 La cattura e l'incatenamento di Amirani sono un immediato risultato della volontà divina. In alcuni casi, Ḡmerṫi ordina ai dèmoni-fabbri aǯi di catturare e incatenare Amirani. Anc°a ordina ai suoi inviati, gli aṗeambarc°a, di catturare Abrysk’yl. Ma l'operazione si rivela piuttosto difficoltosa, in quanto Abrysk’yl vede arrivare i suoi nemici da lontano ed è in grado di spostarsi, grazie a una pertica lunghissima, dal mare alle montagne. La cattura e l'incatenamento di Teʒau sono un immediato risultato della volontà divina.
4 Amirani viene incatenato a un palo (o a una roccia), e ricoperto dalla volta cava di una montagna. Abrysk’yl viene condotto nel profondo di una caverna, e lì incatenato a un palo. Teʒau viene incatenato alle rocce di una montagna.
5 Il cane alato Qʻurša rimane al fianco del padrone, nella sua prigione. Tenta di liberarlo rosicchiando le catene ma, a intervalli regolari, queste ritornano intatte. Il cavallo alato Araš’ rimane al fianco del padrone, nella sua prigione. Tenta di liberarlo rosicchiando le catene ma, a intervalli regolari, queste ritornano intatte.  
6   Un uccello vola sul palo: l'eroe tenta di colpirlo con una bastone, ma ottiene soltanto di ribadire di nuovo il palo al suolo. Un avvoltoio scava il petto di Teʒau con il suo becco e lo condanna alla sete prosciugando l'acqua della vita.
7 La roccia che imprigiona Amirani si apre a intervalli regolari. Un giorno, un uomo vede il campione incatenato e tenta di liberarlo, o di trascinare verso di lui la sua pesante spada: non vi riuscirà. Gli Aṗsuac°a organizzano una spedizione nel tentativo di liberare Abrysk’yl e riportare l'Abxasia all'età aurea, ma l'eroe li sconsiglia dal procedere. Teʒau si tende, assottigliando le catene, e cerca di arrivare alla propria spada. Quando vi riuscirà, potrà liberarsi.
8 La liberazione di Amirani segnerà la fine del mondo come noi lo conosciamo. I Georgiani cercano di procrastinarla il più possibile. La liberazione di Abrysk’yl riporterà l'età aurea sull'Abxasia. Gli Aṗsuac°a sperano nel suo ritorno. La liberazione di Teʒau, rimandata alla fine del mondo, è vista come una punizione per il genere umano.
IN ARMENIA. ARTAWAZD

Quant'è antico il mito del prometeo caucasico? Il fatto che le versioni conosciute delle leggende amiraniche siano state raccolte solo tra il XIX e il XX secolo non deve indurci a ritenerle composte in epoca recente. Che tradizioni tramandate oralmente possano risalire a un'antichità portentosa è più la regola che l'eccezione, in questo campo, e i racconti georgiani, abxasi e circassi non fanno probabilmente eccezione.

Che qualche versione della leggenda prometeica fosse diffusa nella regione del Caucaso già in epoca tardo-antica, ce ne dà testimonianza lo scrittore armeno Movsēs Xorenac‘i (±410-±490). Nella sua monumentale Hayoc‘ Partmowt‘yown, o «Storia della grande Armenia», Movsēs riporta un gran numero di episodi relativi a eroi e sovrani dell'antichità, che egli stesso afferma più volte di aver tratto da tradizioni popolari, e in cui si riconoscono frammenti di mitologie scomparse.

Nel secondo libro della sua opera, egli riporta le imprese di un antico re armeno chiamato Artašēs, e si sente in dovere di mettere in guardia il lettore: «Le azioni di questo Artašēs ti saranno in parte note attraverso le leggende che si raccontano nel Gołt‘an» [Artašisi vernoy gorck‘, bazowm inč‘ yaytni en k‘ez i vipasanc‘n, or patmin i Gołt‘an–šinel] (Hayoc‘ Partmowt‘yown [II, 49]). La parola vipasank‘ indica racconti con andamento epico; per la vera storia, quella degli storici, il vocabolo armeno è appunto partmowt‘yown. Movsēs sta parlando di una vicenda che intende come leggendaria, se non apertamente fantastica.

I funerali di Artašēs
Giuseppe Canella (1788-1847)

Re Artašēs (gr. Artaxias) regnò probabilmente tra il 190 e il 160 a.C. Si emancipò del tutto dalla tutela persiana, inaugurò una dinastia destinata a diventare potente e fondò Artašat, la sua capitale, nella pianura di fronte al monte Ararat (Uluhogian 2009). Nonostante Artašēs sia un personaggio storico, la sua biografia è largamente leggendaria. Sposa la bella regina degli Alani, Sat‘inik, dopo averla acciuffata con un lazo; combatte i višapazowns, i «figli del drago», discendenti del demoniaco re medo Aždahak, massacrandoli e incendiandone il paese. Persino i suoi funerali sono eccezionali: il corpo di Artašēs viene posto su una bara d'oro, foderata di bisso, coperto da un mantello intessuto d'oro. Gli viene posta in capo la corona d'oro; le armi, anch'esse d'oro, al fianco. Un tesoro immane viene sepolto con lui. Tutte le sue donne e concubine lo seguono nella tomba, e con loro un interminabile corteo di servi. Un'enorme folla di sudditi muore insieme al re, in parte volontariamente, in parte perché costretti. (Hayoc‘ Partmowt‘yown [II, 60])

Ad Artašēs succede il figlio Artawazd. Di quest'ultimo, Movsēs non fornisce un ritratto simpatico: lo descrive come un giovane arrivista, astuto, privo di scrupoli, pronto a tradire gli stessi fratelli per soddisfare le proprie ambizioni. Ma dopo pochi giorni di regno, mentre si trova a caccia di onagri e cinghiali, Artawazd impazzisce e, dopo aver lanciato il cavallo per le balze e le forre del monte Masis, cade con tutto l'animale in una profondissima voragine e scomparve per sempre. Un finale di certo credibile, ma piuttosto affrettato, dopo una premessa tanto lunga e convulsa. Si avverte l'esigenza di un contrappasso romanzesco. Evidentemente insoddisfatto dello scarno racconto «storico», Movsēs riporta subito dopo la versione leggendaria:

Zsamnē ergič‘k‘n Gołt‘an aṙaspelabanen ayspēs; et‘ē i mahowann Artašisi bazowm kotorack‘ linēin ǝst ōrini het‘anosac‘; džowari, asen, Artawazdē aselov zhayrn; «Minč‘ dow gnac‘er, ew zerkirs amenayn ǝnd k‘ez tarar, es awerakac‘s owm t‘agaworem?» I cantori [ergic‘k‘] del Gołt‘an, riguardo a costui, così favoleggiavano. Ai funerali di Artašēs, essendosi sparso molto sangue, secondo l'uso pagano, Artawazd si rivolse con ribrezzo (così dicono i cantori) a suo padre: «Ora che tu te ne sei andato, portandoti dietro tutto il paese, come posso io regnare su queste rovine?»
Vasn oroy aniceal zna Artašisi, asac‘ ayspēs; «Et‘ē dowyors hecc‘is yAztn i ver i Masis, zk‘ez kalc‘in k‘ak‘, tarc‘in yAzatn i ver i Masis; znd kayc‘es, ew zloys mi tesc‘es». Dall'altro mondo, Artašēs lo maledisse e gli disse: «Se tu andrai a caccia a cavallo sull'Azat, in cima al Masis, ti prenderanno i k‘ak‘, ti condurranno sull'Azat, in cima al Masis; tu resterai là e non vedrai più la luce».
Zrowc‘en zsmanē ew paṙawownk‘, et‘ē argeleal kay yayri miowm, kapeal erkat‘i šłt‘ayiwk‘; ew erkow šownk‘ hanapaz krcelov zšłt‘aysn, anal elanel ew aṙnel vaxčan ašxarhi; ayl i jaynē kṙanaharowt‘ean da ew bnac‘ zōranan, asen, kapank‘n. Vasn oroy ew aṙ merov isk žamanakaw bazowmk‘ i darbnac‘, zhet ert‘alov aṙaspelin, yawowr miašabat‘wo eric‘s kam č‘oric‘s baxen zsaln, zi zōrasc‘in, asen šłt‘ayk‘n Artawazday. Bayc‘ ē čšmartowt‘eamb ayspēs, orpēs asac‘ak‘a veragoyn. E persino le vecchierelle raccontano di costui, che è impastoiato in una grotta, carico di catene di ferro; che due cani rodono senza sosta le catene; e che egli cerca di liberarsi per attuare la fine del mondo. Ma al rumore del martello dei fabbri, così dice la favola, le catene si rafforzano. Per questo motivo ancora oggi molti fabbri, conformandosi alla leggenda, battono l'incudine tre o quattro volte il primo giorno della settimana, per rafforzare, dicono le catene di Artawazd. Ma in verità le cose stanno come abbiamo detto sopra.
Movsēs Xorenac‘i: Hayoc‘ Partmowt‘yown [II, 61]
Fine di Artawazd
Giuseppe Canella (1788-1847)

Movsēs Xorenac‘i sottolinea più volte il carattere popolare di questa leggenda, che per lui è solo un racconto di «vecchierelle». Ma è anche l'esito armeno del tema prometeico. I dettagli dell'incatenamento di Artawazd corrispondono infatti, punto per punto, all'ultima parte della biografia di Amirani. Vi sono, insomma, dei temi comuni ai due cicli.

Charachidzé nota innanzitutto un parallelismo nelle relazioni tra i due protagonisti del mito. In Georgia, il confronto ha luogo tra Amirani e il suo padrino, il dio Morige Ḡmerṫi; in Armenia è tra Artawazd e il proprio padre, il defunto re Artašēs. Vi è, nei due casi, un rapporto sociologico padre/figlio, dove il padre è investito di poteri soprannaturali.

Alcuni episodi della biografia di Amirani, sono qui ripartiti tra i due re armeni, afferma giustamente Charachidzé. Nel caso di Artašēs, la cattura della sposa Sat‘inik con un lazo può essere messo correlazione con il ratto di Q‘amar da parte di Amirani, operato con un balzo del cavallo al di là dei mari; lo sterminio dei višapazowns o «figli del drago» può corrispondere alla lotta di Amirani contro i višap‘i nati da Baq‘baq‘. Artawazd assume su di sé la parte più interessante, relativa alla sfida di Amirani nei confronti del dio supremo e del suo incatenamento, sebbene con alcuni interessanti rovesciamenti.

  ARMENIA GEORGIA
Carriera eroica e distruzione parziale del mondo

Artašēs

Amirani

Insubordinazione e supplizio

Artawazd

In Georgia, Amirani oppone la propria potenza all'ordine cosmico imposto da Ḡmerṫi. Lo abbiamo visto combattere fino a sterminare ogni possibile avversario, tanto che sulla terra, secondo la versione svanete, non restavano che «tre dèmoni, tre cinghiali, tre querce» (L2). Ḡmerṫi interviene per punire l'insubordinazione del campione, ma anche per impedirgli di distruggere ogni forma di vita sulla faccia della terra. In Armenia, è invece Artawazd a imputare al padre Artašēs di non lasciargli in eredità che un paese quasi deserto. Qui il conflitto di sovranità è invertito: l'hýbris di Artawazd agisce piuttosto per difetto: rifiuta di assumere la sovranità alle condizioni imposte dal padre; tale rifiuto – una sfida per difetto – provoca la maledizione di Artašēs. (Charachidzé 1986¹)

Il destino di Artawazd corrisponde al supplizio mito georgiano attribuiva ad Amirani, a partire dalla cattura da parte dei k‘ak‘, dèmoni-fabbri armeni perfettamente omologhi, anche etimologicamente, ai aǯebi georgiani. Tutti i dettagli della prigionia di Artawazd, compresi l'operazione apotropaica dei fabbri che battono sulle loro incudini per impedire il ritorno dell'incatenato e il motivo della sua liberazione finale, mostrano un parallelismo così stretto con il mito georgiano di Amirani da non lasciare adito a dubbi sulla sostanziale unità del mitema. Da qui, la conferma che il ciclo amiranico, sebbene sia stato raccolto in Georgia tra il XIX e il XX secolo, risalga almeno al V secolo. (Charachidzé 1986¹)

Il motivo escatologico legato alla liberazione di Artawazd è ancor più rimarcato dalla penna arguta del vescovo armeno Eznik Kołbac‘i. Nel suo End ałandoc‘ o «Confutazione delle sette», composto intorno al 440, Eznik combatte con energia le false credenze attestate a suo tempo, fornendo informazioni preziose sui miti e le leggende pagane che fiorivano in Armenia nel V secolo. Così egli è indotto a fornire notizie su una credenza popolare incentrata proprio su Artawazd:

  L'arte seduttrice dei diwac‘ ingannò gli adoratori dei falsi dèi presso gli Armeni, facendo creder loro che i diwac‘ avrebbero messo in ceppi un tale chiamato Artawazd, che vive ancora ai nostri giorni e deve liberarsi per prendere possesso di questo mondo; e gli infedeli restano legati a questa falsa speranza come gli Ebrei che sperano che Davide debba venire a ricostruire Gerusalemme, a raccogliere i Giudei e a regnare su di loro a Gerusalemme.
Eznik Kołbac‘i: End ałandoc‘ [136]

Eznik Kołbac‘i vuole dimostrare la tesi che le entità malefiche, quali i draghi-serpenti [višap] o i dèmoni [diwac‘] non hanno alcun potere sugli esseri umani, e per tale ragione illustra la falsa credenza di Artawazd. Così facendo, il bravo vescovo non solo conferma la leggenda riportata da Movsēs Xorenac‘i, ma le conferisce un carattere popolare. Gli Armeni pagani, all'epoca di Eznik, non solo davano credito alla leggenda di Artawazd, ma vi associavano la speranza in una riscossa futura. Così, mentre i fabbri nominati da Movsēs facevano del tutto per tenere incatenato Artawazd, il popolino pagano lo aveva trasformato in una sorta di liberatore. Un liberatore che «deve prendere possesso di questo mondo», dunque un futuro sovrano che ricondurrà gli Armeni pagani ai loro antichi fasti. La catastrofe per l'umanità, era la loro speranza.

La testimonianza dell'apologeta di Kołb recupera, a mille e cinquecento anni nel passato, la stessa ideologia che anima la variante di Abrysk’yl, dove la liberazione del campione incatenato è destinata a liberare l'Abxasia dai suoi nemici e restituire la libertà al popolo del piccolo paese caucasico.

Ma questo non è altro che il mitema universale dell'«eroe dormiente», dove le future speranze di riscatto di un paese o di un popolo sono legate a un eroe nazionale, via via esiliato, imprigionato, addormentato, trasformato in pietra, che nel momento di maggior pericolo per il suo paese tornerà per guidarlo alla vittoria e per restaurarne le antiche glorie e fasti. È abbastanza agevole condurre degli esempi di questo mitema. Eznik parla di un ritorno messianico del re Dāwiḏ, ma da parte nostra possiamo aggiungere Arthur ap Uthyr per i Britanni, Finn mac Cumaill per gli Irlandesi, Kalevipoeg per gli Estoni, Holger Danske per i Danesi, tutti destinati a ritornare in vita nel momento di maggior pericolo per il loro paese.

Il nostro prometeo incatenato appartiene tuttavia a un ordine di idee completamente diverso. Sebbene legato a precise realtà culturali, non è mai un eroe nazionale. La situazione in Abxasia e quella tra gli Armeni pagani sembrano varianti accessorie. Nel resto del Caucaso, il suo esilio è necessario per il mantenimento dell'ordine cosmico, e il suo ritorno coinciderà con un cambiamento epocale, con una sorta di apocalisse finale, o forse di apocatastasi. Ma non anticipiamo troppo le nostre conclusioni. Dobbiamo tornare ancora più indietro nel tempo. E spostarci a ovest, questa volta, verso il mondo ellenico.

UNO SGUARDO DAL MONDO ELLENICO

Quant'è antico il mito del prometeo caucasico? Movsēs Xorenac‘i ed Eznik Kołbac‘i, con i loro miti di Artawazd, avevano riavvolto le lancette dell'orologio di quasi mille e cinquecento anni. Ma in questa fantasiosa ricerca, dobbiamo risalire ancora più indietro del tempo.

Tra i primi Greci a raggiungere il Caucaso vi furono, come abbiamo già anticipato, e come ben sanno gli appassionati di miti classici, Iásōn e il suo equipaggio di coraggiosi, a bordo della leggendaria nave Argṓ. Quando essi giunsero in vista della costa dirupata della Colchide, narra Apollṓnios Rhódios (295-215 a.C.), udirono da lontano le grida del gigante incatenato e videro l'aquila che calava a straziarlo ferocemente:

  E già ai naviganti appariva il seno segreto del Póntos
e si levavano le cime impervie dei monti del Kaúkasos,
là dove, le membra inchiodate dalle catene di bronzo
all'aspra roccia, Promētheús nutriva col proprio fegato l'aquila,
che sempre e sempre tornava a scagliarsi contro di lui.
La videro, a sera, volare vicino alle nuvole,
con uno stridore acuto, alta sopra la nave,
eppure sconvolse tutte le vele col battito delle sue ali,
perché non aveva natura d'uccello del cielo,
ma muoveva le ali simili a remi politi.
Poco dopo udirono anche la voce, il lamento
del titán straziato nel fegato; dei suoi gemiti
risuonava l'aria, finché di nuovo dal monte
videro l'aquila ingorda scagliarsi allo stesso bersaglio.

Apollṓnios Rhódios: Tá Argonautiká [II: -]

Promētheús incatenato (1868)
Gustave Moreau (1826-1898)

Stiamo sbarcando sulle sponde di uno dei più noti e duraturi miti ellenici, quello di Promētheús, incatenato per aver sfidato l'autorità di Zeús. Che esso sia da collegare al racconto caucasico del campione incatenato, ce lo assicurano gli stessi mitologi greci, che proprio tra le vette del Caucaso occidentale, in un luogo inaccessibile tra il Mar Nero e il monte Ėl'brus, collocavano il «banchetto dell'aquila», il luogo di punizione del ribelle titán. Un'insistente tradizione, nota fin dall'antichità, affermava che il mito di Promētheús provenisse proprio dal Caucaso.

Lucius Flavius Arrianus (±95-±175), che esplorò il Ponto Eusino intorno al 130, annota che, presso Dioskouriás, in Colchide, gli fu indicato il monte dove, secondo le tradizioni locali, era stato incatenato Promētheús: «Ci mostrarono un cima del Caucaso, chiamata Strobil, sulla quale, come dicono i miti, Promētheús era stato incatenato da Hḗphaistos, per comando di Zeús» (Periplus Ponti Euxini [II, 5]).

Secondo Doûris di Samo (±340-±270 a.C.), a sua volta citato dallo scoliaste di Apollṓnios Rhódios, il personaggio di Promētheús era così popolare presso gli abitanti del Caucaso occidentale, che essi si rifiutavano di praticare il culto di Zeús e di Athēnâ, ritenuti responsabili del suo supplizio, ma celebravano invece Hērakls, suo liberatore.

Il sofista Phláuios Philóstratos (170/172-247/250) riporta tutta una serie di interessanti indicazioni a proposito delle leggende legate al prometeo caucasico:

 

Riguardo a queste montagne circolano tra i barbari le stesse tradizioni dei poeti greci, che cioè vi era stato incatenato Promētheús, per la sua filantropia, e che Hērakls, non avendo sopportato tale cosa, uccise con una freccia l'uccello che dilaniava le viscere di Promētheús. Secondo gli uni, egli era incatenato in una caverna sul fianco della montagna, che viene ancora indicata. Dámis dice addirittura che nella roccia sono ancora infisse le sue catene, la cui grandezza è inimmaginabile. Secondo altri, [Promētheús era incatenato] sulla vetta di una certa montagna: questo monte ha due cime che distano tra loro più di uno stadio, e si dice che egli era incatenato con una mano a una e con l'altra all'altra, tanto era smisurato! Quanto all'aquila, gli abitanti del Caucaso la considerano nemica e dànno fuoco, per mezzo di frecce incendiarie, ai nidi da essa costruiti sulle rocce e le tendono insidie, spiegando questo modo d'agire col desiderio di vendicare Promētheús: questo mostra fino a che punto essi sono convinti della verità della tradizione.
Phláuios Philóstratos: Tà ès tòn Tyanéa' Apollṓnio [II, 3]

Difficile dire quanto siano effettivamente «caucasiche» le notizie riferite da Doûris, Philóstratos e Arrianus, e se non siano state piuttosto colorate a tinte elleniche. Dioskouriás, l'attuale Soxumi in Abxazia, era una colonia greca: i racconti riferiti ai viaggiatori classici avevano avuto tutto il tempo di decantare nei tini ellenici. Rimane però il fatto che, quando si parlava di Promētheús, lo sguardo dei Greci correva subito ad oriente, alle lontane vette del Caucaso, che in epoca remota erano considerate l'estremo lembo orientale del mondo.

 

I Greci hanno chiamato questi monti Kaukásos, pur se distano dall'India più di tremila stadi. Lì si svolge il racconto mitico di Promētheús e del suo incatenamento: ma questo perché, allora, il Kaukásos era l'estremo limite orientale conosciuto!
Strábōn: Geōgraphiká [XI, 5, 5]

Sarà dunque Promētheús in persona a confrontarsi, in questo stadio della ricerca, con il mitema caucasico. E bisogna tornare, ancora una volta, al prodigioso Hēsíodos, nostra fidata guida negli stadi più antichi del mito ellenico. È lui a fissare per primo il «canone» del mito prometeico, tra l'VIII e il VII secolo a.C., e sarà il tragediografo Aischýlos, due secoli più tardi, a consegnare Promētheús alla letteratura universale. L'uno e l'altro saranno i nostri principali interlocutori in questo nostro cammino dal selvaggio cuore del Caucaso alla Grecia classica.

Su Promētheús è stato scritto di tutto: rimane purtuttavia un personaggio ancora sfuggente, sfaccettato. Hēsíodos lo descrive ingegnoso, creativo, astuto, dispettoso. I termini con cui lo definisce nella Theogonía insistono su questo suo lato del carattere: è aiolómētis «scaltro» [], poikilóboulos «dalle molte astuzie» [], aŋkylómētis «dai torti pensieri» []. La qualità che lo contraddistingue è la mtis, l'astuzia, una delle forme dell'intelligenza. Promētheús è contorto, imprevedibile, spesso ribelle. Ha un concetto vago della lealtà, che mette in dubbio più di una volta.

Promētheús è figlio del titán Iapetós: i suoi fratelli sono Átlas, il tracotante Menoítios e il malaccorto Epimētheús. Ma quando il giovane Zeús dichiara guerra a Krónos, e l'intera stirpe titanica si schiera a fianco del proprio sovrano, Promētheús è l'unico a cambiare bandiera. Egli stesso spiega le ragioni del proprio tradimento, in un importante passo della tragedia di Aischýlos:

«Epeì táchist' ḗrxanto daímones chólou
stásis t' en allḗloisin ōrothýneto,
hoi mèn thélontes ekbaleîn hédras Krónon,
hōs Zeùs anássoi dthen, hoi dè toúmpalin
speúdontes, hōs Zeùs mḗpot' árxeien then,
entaûth' egṑ tà lista bouleúōn pitheîn
Titânas, Ouranoû te kaì Chthonòs tékna,
ouk ēdynḗthēn. haimýlas dè mēchanàs
atimásantes karteroîs phronḗmasin
ṓont' amochthì pròs bían te despósein.
emoì dè mḗtēr ouch hápax mónon Thémis
kaì Gaîa, polln onomátōn morphḕ mía,
tò méllon h kranoîto proutethespíkei,
hōs ou kat' ischỳn oudè pròs tò karteròn
chreíē, dólōi dé, toùs hyperschóntas krateîn.
toiaût' emoû lógoisin exēgouménou
ouk ēxíōsan oudè prosblépsai tò pân.
krátista dḗ moi tn parestṓtōn tóte
ephaínet' eînai proslabónta mētéra
hekónth' hekónti Zēnì symparastateîn.
emaîs dè boulaîs Tartárou melambathḕs
keuthmṑn kalýptei tòn palaigen Krónon
autoîsi symmáchoisi.»
Promētheús: «[...] Come ebbe inizio l'ira degli dèi,
si volsero violenti gli uni agli altri,
s'accese tra loro la contesa,
tra chi voleva rovesciare Krónos
perché il re fosse Zeús, e chi lottava
perché Zeús tra gli dèi non fosse il primo.
E io volevo persuadere al meglio
i Titânes nati da Ouranós e G,
ma non potei. Spregiarono l'astuzia,
avevano pensieri di violenza,
credevano di ascendere al potere
con la violenza senza darsi pena.
G che ha molti nomi e una forma
profetava il futuro e mi diceva:
“Non di forza e potenza c'è bisogno,
ma il primo in astuzia sarà il re”.
Queste cose chiarivo argomentando,
ma quelli non degnarono guardarmi.
Di fronte a ciò mi parve dunque il meglio
conciliarmi alla madre ed affiancarmi
a Zeús, come io volevo e lui voleva.
Per il mio senno il Tártaros nasconde,
nelle tenebre fonde del suo abisso,
Krónos l'antico e chi lottò al suo fianco.»
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

I Titânes avevano un concetto della regalità basata unicamente sulla forza e sulla sopraffazione, e nessun interesse a governare un kósmos razionale, fondato sulla giustizia e sull'intelligenza. Questa è la ragione del dissidio tra Promētheús e i fratelli di suo padre. Nella prospettiva della tragedia eschilea, Promētheús è fornito di un'astuzia prodigiosa. Egli potrebbe aiutare i Titânes con la forza del suo intelletto, ma questi ultimi disprezzano il suo contributo. Perciò Promētheús lascia il campo titanico e si rivolge a Zeús. Tantopiù che l'oracolo di G ha dichiarato che l'astuzia, non la violenza, sarà decisiva della battaglia, e Promētheús non è tipo da schierarsi con la squadra perdente.

Il risultato della titanomachia è noto. Zeús sconfigge i suoi nemici, anche grazie al contributo di Promētheús. I Titânes vengono scagliati nelle tenebre del Tártaros. Átlas, che era stato condottiero degli eserciti titanici, è condannato a reggere il peso del cielo sulle sue spalle, mentre il tracotante Menoítios viene fulminato. Zeús è il nuovo e definitivo sovrano dell'universo, padre di una nuova generazione di dèi, gli Olýmpikoi.

Un nuovo kósmos, nel quale Promētheús non si trova evidentemente a suo agio, nonostante abbia contribuito a fondarlo. Egli è un eterno bastian contrario: la sua mtis lo porta inevitabilmente a rovesciare il proprio punto di vista e porsi in opposizione con l'ordine costituito. Una volta tolti di mezzo i Titânes, troppo rozzi e viscerali per i suoi gusti, la partita si gioca sul piano della razionalità, della pura intelligenza.

IN GRECIA. IL MITO DI PROMĒTHEÚS

Promētheús plasma l'uomo, Athēnâ lo anima (1802)
Jean-Simon Berthélemy (1743-1811)

Il racconto greco di Promētheús è parte di un complesso mitico che andrebbe analizzato nel suo insieme. Esso comprende una serie di episodi tra loro collegati, che comprendono tanto la vicenda di Promētheús quanto quella di Pandṓra. Nel suo insieme, il ciclo complessivo disegna un mito della creazione e caduta dell'uomo. Motore ne è il braccio di ferro tra Promētheús e Zeús: le sfide che il titán pone all'autorità del re degli dèi si risolvono immancabilmente in solenni punizioni ereditate dal genere umano.

Abbiamo trattato altrove il tema antropologico inerente a questi complessi di miti: di come Promētheús abbia creato l'umanità e abbia fornito loro le conoscenze e le tecniche necessarie a un'esistenza civile, e di come Zeús, sia direttamente, sia tramite l'introduzione della prima donna, Pandṓra, abbia condannato l'uomo ad uscire dallo stato atemporale dei primordi e l'abbia costretto all'esistenza che noi tutti conosciamo, fatta di lavoro, fatica, disagi, malattie e... svantaggi matrimoniali. È un complesso mitico grandioso, di cui abbiamo seguito gli addentellati nelle più antiche mitologie del Medio Oriente, dai poemi sumerici e babilonesi, fino alla meditata e solenne rielaborazione biblica. ①

Ma in questo grande ciclo mitico, il racconto greco presenta un tema estraneo al mondo medio-orientale. Seppure sia incastonato nell'insieme, il racconto della punizione di Promētheús risalta come un elemento a sé stante, rispetto al tema di creazione e caduta dell'uomo. È un dramma personale, non antropologico. Ed è proprio il mito che stiano analizzando. Esso è formato da quattro episodi giustapposti e legati tra loro:

  1. Il sacrificio di Mēkṓnē.
  2. Il sequestro del fuoco.
  3. La riconquista del fuoco.
  4. L'incatenamento di Promētheús.

Facciamo un bel respiro lungo ed esaminiamoli uno per volta, nelle loro fonti primarie.


1. Il sacrificio di Mēkṓnē.

Sebbene Hēsíodos non lo dica, ed Aischýlos lo faccia soltanto capire, il braccio di ferro tra Zeús e Promētheús ha inizio con la creazione degli uomini, ad opera di Promētheús. Gli dèi guardano con disinteresse misto a disprezzo questa nuova razza di esseri, troppo simili agli dèi nell'aspetto, per quanto privi di statura e poteri divini. Zeús minaccia più volte di sterminarli, ed è forse questa la «contesa» di cui parla Hēsíodos, quando esordisce con il mito del sacrificio di Mēkṓnē.

Kaì gar hót’ ekrínonto theoì thnētoí t’ ánthrōpoi
Mēkṓnēı, tót’ épeita mégan boûn próphroni thymōı
dassámenos proéthēke, Diòs nóon exapaphískōn...
Infatti, quando la loro contesa dirimevano gli dèi e i mortali
a Mēkṓnē, [Promētheús] con subdola mente, spartì un bue
dopo averlo diviso, volendo ingannare la mente di Zeús...

Hēsíodos: Theogonía [-]

Un bue è stato abbattuto e Promētheús è stato chiamato a spartirlo. Una parte toccherà agli uomini, l'altra allo stesso Zeús. È un momento importante: una divisione che istituirà, da allora in poi, il rapporto tra mortali e immortali. Per Promētheús è un'occasione troppo ghiotta: farà le parti, sì, ma a modo suo. Ingannerà Zeús e favorirà gli esseri umani. Abbiamo già trattato questo mito nei dettagli in un'altra pagina, ma ora dobbiamo tornarci, seppure rapidamente, per segnalare i punti necessari alla nostra indagine. ②

Innanzitutto, l'attore che interpreta il ruolo: Promētheús. Non è un caso che le necessità del mito abbiano chiamato proprio lui, l'aiolomtis, a fare le porzioni del bue. Che Promētheús non sarà equo nel fare le parti è fin ovvio. Ma la sua sarà una parzialità ingannevole, costruita ad arte per nascondere ulteriori inganni.

Macellato il bue, Promētheús prepara due porzioni. Da un lato, separa i kréa, le carni commestibili e croccanti, e le nasconde dentro la gastḗr, lo stomaco dell'animale, viscido e poco gradevole a vedersi. Dall'altra, raccoglie le ossa del bue, coprendole con uno strato di grasso, bianco e appetitoso.

Toîs mèn gar sárkas te kaì éŋkata píona dēmōı
en hrinōı katéthēke kalýpsas gastrì boeíēı,
tōı d’ aût’ ostéa leyka boòs dolíēı epì téchnēı
euthetísas katéthēke kalýpsas argéti dēmōı.
Da una parte egli pose le carni e le interiora
ricche di grasso nella pelle del bue, ben coperte nel ventre,
dall'altra dispose ad arte le candide ossa
spolpate, nascoste nel bianco grasso.

Hēsíodos: Theogonía [-]

Queste sono le due porzioni che Promētheús mette dinanzi a Zeús, ostentando una faccia da poker, e lo invita a scegliere quella che preferisce. Il re degli dèi osserva quei due mucchi così esplicitamente disuguali, e sospetta - lo avremmo fatto anche noi - che Promētheús ne stia macchinando una delle sue.

Dḕ tóte min proséeipe patḕr andrn te then te;
«Iapetionídē, pántōn arideíket' anáktōn,
 pépon, ōs heterozḗlōs diedássao moíras».
Hṓs pháto kertoméōn Zeùs áphthita mḗdea eidṓs.
Tòn d' aûte proséeipe Promētheùs aŋkylomḗtēs
k' epimeidḗsas, dolíēs d' ou lḗtheto téchnēs;
«Zeû kýdiste mégiste then aieigenetáōn,
tn d' héle', hoppotérēn se enì phresì thymòs anṓgei».
Ph hra dolophronéōn...
E allora [Zeús], padre degli uomini e degli dei, disse:
«Figlio di Iapetós, illustre fra tutti i signori,
mio caro, con quanta ingiustizia hai fatto le parti!»
Così disse Zeús che conosce gli eterni consigli;
E Promētheús dai torti pensieri rispose,
ridendo sommesso, e non dimenticava le arti dell'inganno:
«Nobilissimo Zeús, sommo tra gli dèi immortali,
scegli la tua parte come ti suggerisce il cuore».
Così disse, tramando l'inganno...

Hēsíodos: Theogonía [-]

«Così disse, tramando l'inganno» [ph hra dolophronéōn] sottolinea Hēsíodos. La parola dólos «inganno» e il suo derivato dólios «ingannevole» compaiono ben sette volte nel passo [-], in un inarrestabile leitmotiv. E quando il titân offre a Zeús di scegliere, tra i due mucchi, quello che preferisce, il lettore sa già cosa sta per accadere. Tra un attimo, il goloso re di Ólympos sceglierà la porzione che gli appare più appetitosa ma, sotto lo strato di grasso, troverà solo un mucchio di bianche ossa.

Chersì d' hó g' amphotérēısin aneíleto leykòn áleiphar.
Chṓsato dè phrénas amphí, chólos dé min híketo thymón,
ōs íden ostéa leyka boòs dolíēı epì téchnēı...
[Zeús] raccolse il bianco grasso con ambedue le mani,
si adirò nell'animo e l'ira raggiunse il suo cuore,
quando vide le ossa bianche del bue, frutto dell'inganno...

Hēsíodos: Theogonía [-]

L'inganno perpetrato da Promētheús farà sì che, da quel momento in poi, gli uomini offriranno agli dèi le ossa bruciate sugli altari e terranno per loro la carne commestibile. Il mito del sacrificio di Mēkṓnē è dunque eziologico: fonda la pratica dei sacrifici, su cui si basa il rapporto d'interscambio tra l'umanità e gli dèi. Vi è un universo di significati che meriterebbero qui di essere approfonditi, e ne abbiamo parlato altrove. ③

Ci preme ora arrivare al dunque. Promētheús ride soddisfatto, ma Zeús è adirato. Gli uomini hanno voluta la carne del bue? Ebbene, che se la mangino cruda!


2. Il sequestro del fuoco.

La vendetta di Zeús è immediata: priva i mortali del fuoco. Il racconto è riferito da Hēsíodos in entrambe le sue opere. Nella Érga kaì Hēmérai è puttosto laconico: «Per questo [Zeús] procurò ai mortali tristi affanni: nascose loro il fuoco» [-]. Nella Theogonía rivela però dei dettagli piuttosto interessanti:

...ek toútou dḕ épeita dólou memnēménos aieì
ouk edídou melíēısi pyròs ménos akamátoio
thnētoîs anthrṓpois, hoì epì chthonì naietáousin.

...e da quel giorno, sempre memore della frode,
[Zeús] negò ai frassini la forza del fuoco indomabile
agli uomini mortali che hanno dimora sulla terra.

Hēsíodos: Theogonía [-]

Dunque, in quella lontana epoca antidiluviana, gli uomini alimentavano i loro focolari con le fiamme che ardevano sugli alberi, allorché Zeús li colpiva con le sue folgori. Gli uomini raccoglievano direttamente il fuoco celeste, ma non erano in grado di accenderlo con mezzi tecnici; né evidentemente sapevano mantenere il fuoco acceso, visto che, nel momento in cui Zeús smette di far cadere i suoi fulmini, l'umanità si ritrova sprovvista di ogni sorgente ignea e incapace di accendere anche la più piccola e rudimentale fiammella.


3. La riconquista del fuoco.

Come e dove Promētheús abbia rubato il fuoco, non viene riferito dalla maggior parte delle fonti, le quali paiono dare i particolari per scontati. È il caso di Hēsíodos, che si limita a citare l'avvenuto furto, sottolineando piuttosto il dettaglio che il fuoco viene portato ai mortali nascosto dentro una canna di nartece. L'episodio è narrato in meno di tre versi sia nelle Érga kaì Hēmérai [-] che nella Theogonía [-], e quasi con le stesse parole:

Allá min exapátēsen eùs páis Iapetoîo
klépsas akamátoio pyròs tēléskopon augḕn
en koḯlōı nárthēki...
Ma il prode figlio di Iapetós lo ingannò
e rubò il bagliore lungisplendente del fuoco indomabile
e lo mise in una cava ferula di nartece...

Hēsíodos: Theogonía [-]

Pittoreschi dettagli del furto sono riferiti nella tarda versione di Hyginus, secondo il quale Promētheús si sarebbe recato di nascosto sulla cima dell'Ólympos, per giungere al «fuoco di Zeús». Rimane qui un sospetto di contraddizione, in quanto Zeús dominava piuttosto i fulmini. Il «fuoco di Zeús» erano dunque le folgori? Hyginus non lo spiega. Aggiunge però che Promētheús corse via con il fuoco nascosto in una canna, e afferma che da questo episodio sarebbe derivato il rito olimpionico dei dadofori (De Astronomia [II: 15, ]). Più poetica la versione riferita da Servius nel suo commento alla sesta egloga di Virgilius (Carmina Bucolica [VI: ]), dove si dice che Promētheús abbia raggiunto addirittura il sole e abbia acceso la sua fiaccola sulla ruota solare. Più poetica, ma di poca sostanza. E una volta esclusi i fulmini e la vampa solare, esauriamo la lista delle fonti del fuoco celeste.

Meno conservata, ma più insistente, una versione alternativa, nella quale Promētheús si sarebbe invece recato a Lḗmnos, l'isola dove Hḗphaistos aveva la sua fucina, e proprio lì abbia rubato il fuoco. Lo apprendiamo di sfuggita in Aischýlos, dalle parole che Krátos, uno dei due esecutori della condanna ordinata da Zeús, rivolge ad Hḗphaistos per esortarlo a incatenare il titán alla roccia.

Hḗphaiste, soì dè chrḕ mélein epistolàs
hás soi patḕr epheîto, tónde pròs pétrais
hypsēlokrḗmnois tòn leōrgòn ochmásai
adamantínōn desmn en arrhḗktois pédais.
tò sòn gàr ánthos, pantéchnou pyròs sélas,
thnētoîsi klépsas ṓpasen.
Krátos: «[...] Ora, è tua cura ciò che il padre impone,
Hḗphaistos: ora avvincerai il colpevole
a queste rocce ardue sull'abisso
con catene più dure del diamante.
La luce artefice di tutto, il fuoco,
il fiore tuo, egli lo ha rubato
e ne ha fatto partecipi i mortali».

Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

E poiché Hḗphaistos è riluttante ad assumersi il ruolo di carnefice, Krátos insiste:

Eîhen, tí mélleis kaì katoiktízēi mátēn?
tí tòn theoîs échthiston ou stygeîs theón,
hóstis tò sòn thnētoîsi proúdōken géras?
Krátos: «Perché indugi? Hai pietà per nulla?
Non odi un dio che gli dèi maledicono,
che ai mortali donò il tuo privilegio?»

Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

Per due volte Aischýlos si preoccupa di precisare, in termini molto chiari, che il fuoco è stato rubato ad Hḗphaistos, del quale costituisce il «fiore» [ánthos] e il «privilegio» [géras]. Il motivo appare anche in Loukianós Samosateús, dove Hḗphaistos accusa Promētheús: «Tu mi rubasti il fuoco e mi lasciasti fredda la fucina» (Promētheús ē Kaúkasos [5]). Allo stesso furto si riferisce probabilmente anche Marcus Tullius Cicero quando parla del «furto Lemnio» [furtum Lemnium], senza dare altra precisazione (Tuscolanae [XI: 10, ]).

Premesso tutto questo, possiamo contestualizzare l'apologo in forma di mito che Plátōn riporta nel suo Prōtagóras, dove il furto del fuoco viene compiuto per permettere all'umanità, appena creata, nuda e inerme, di sopravvivere:

 

Promētheús, allora, trovandosi in difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l'uomo, ruba ad Hḗphaistos e ad Athēnâ la loro sapienza tecnica, insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all'uomo. Grazie ad essa l'uomo possedeva la sapienza necessaria a sopravvivere, ma gli mancava ancora la sapienza politica, perché questa era in mano a Zeús. Promētheús non aveva più accesso all'acropoli, dimora di Zeús; per di più c'erano anche le terribili guardie di Zeús. Egli allora si introduce furtivamente nell'officina che Athēnâ ed Hḗphaistos avevano in comune, in cui essi lavoravano insieme e, rubata l'arte del fuoco di Hḗphaistos e quell'altra arte che apparteneva ad Athēnâ, le dona all'uomo: di qui vennero all'uomo i mezzi per vivere. Ma in seguito, come si racconta, Promētheús [...] venne punito per quel furto.
Plátōn: Prōtagóras [321c-322a]
Promētheús porta il fuoco agli uomini (±1637)
Jan Cossiers (1600-1671)
Museo del Prado, Madrid (Spagna)

Ora, lo sappiamo bene anche noi, Plátōn non è una attendibile fonte mitologica. È un filosofo, e non si fa scrupolo di reinventare i racconti mitici per i suoi scopi espositivi. Bisogna dunque prendere il suo racconto cum grano salis. Affiorano tuttavia alcuni interessanti motivi, prima di tutto la conferma che il furto di Promētheús sarebbe stato compiuto ai danni di Hḗphaistos. Plátōn fornisce anche una spiegazione sul perché Promētheús avesse rubato ad Hḗphaistos e non a Zeús: gli inflessibili guardiani dell'Ólympos (Krátos e Bía) gli avevano infatti sbarrato l'accesso all'acropoli divina.

Il motivo del furtum Lemnium – qui ribadito con forza – presenta alcuni interessanti addentellati.

Ricapitoliamo. Inizialmente, gli uomini utilizzavano il fuoco celeste, inviato da Zeús sulla terra attraverso le folgori. Allorché l'invio di fulmini viene sospeso, è necessario rivolgersi a un'altra fonte ignea, e questa è rappresentata dal fuoco ipoctonio: le fiamme che ardono all'interno della terra. Promētheús attinge appunto ad esse, raccogliendole dalla fucina di Hḗphaistos.

Ma Plátōn esplicita anche un altro dettaglio: possedere il fuoco non basta. Bisogna che gli uomini imparino ad accenderlo: ecco perché, insieme al fuoco, bisogna insegnare loro la technḗ. Il furto diviene doppio: del fuoco (da Hḗphaistos), e della tecnica di accensione (da Athēnâ).

In quanto al modo di conservare e trasportare il fuoco, le fonti insistono sul motivo della ferula di nartece: una tecnica antichissima, ancora in uso nelle isole Egee nel XVIII o XIX secolo. Diódōros Sikeliṓtēs, che accenna di sfuggita all'episodio del furto, si sofferma a spiegare che l'uso di trasportare il fuoco in una canna era stato inventato dallo stesso Promētheús (Bibliothḗkē Historikḗ [V: 67, ]).

In questo modo, Promētheús si assicura che gli uomini non rimarranno più senza il «bagliore lungisplendente del fuoco indefesso» (Theogonía []).


4. L'incatenamento di Promētheús.

È in punizione del suo furto, per aver dato il fuoco ai mortali, che Promētheús viene incatenato alle vette del Caucaso. È la parte più importante del mito ellenico, ma anche quella più delicata, soprattutto per la nostra difficoltà a far combaciare i testi. Hēsíodos, come al solito, è avaro di dettagli. Afferma che Promētheús venne legato a una colonna, con lacci indissolubili, e direttamente da Zeús.

Dse d' alyktopédēısi Promēthéa poikilóboulon
desmoîs argaléoisi méson dia kíon' elássas...

[Zeús] legò con inestricabili lacci Promētheús mente sottile,
con legami tremendi, spingendo una colonna nel mezzo...
Hēsíodos: Theogonía [-]

L'espressione méson dia kíon’ elássas è piuttosto problematica. Si è voluto vedere Promētheús impalato, il corpo trafitto longitudinalmente da un palo, sebbene un tale supplizio renderebbe inutili le corde. L'interpretazione più semplice è che Promētheús sia stato legato a una colonna, così come del resto compare in molte figurazione d'epoca greca. In quanto al luogo del supplizio, Hēsíodos non ce lo dice.

Atlas e Promētheús (560-550 a.C.)
Kylix laconico, da Cerveteri
Musei Vaticani, Roma (Italia)

È Aischýlos a introdurre l'armamentario di tortura divenuto «canonico». Nel suo dramma, sono Krátos e Bía, il «potere» e la «forza», le due guardie del corpo di Zeús, a trascinare Promētheús nel luogo del supplizio, indicato come «l'estrema plaga della terra, la Scizia solitaria, inaccessibile» [chthonòs mèn es tēlouròn hḗkomen pédon, Skýthēn es hoîmon, ábroton eis erēmían] (Promētheús desmṓtēs [-]).

Che il Caucaso fosse considerato una vetta della Scizia, lo testimonia Apollódōros (Bibliothḗkē [I: 7]). E che fosse anche questa la concezione di Aischýlos, lo apprendiamo da un'annotazione di Cicero. Il celebre avvocato, introducendo una ventina di versi del Promētheús luómenos (una delle perdute tragedie eschilee), da lui adattati in latino, traduce un passo dove si dice che Promētheús venne incatenato sulla vetta del monte Caucaso (Tusculanae [II: 23]).

In Aischýlos, l'operazione di incatenamento viene compiuta da Hḗphaistos, insostituibile tecnico esperto in lavori metallici. Il dio-fabbro si presenta piuttosto riluttante a obbedire all'ordine di Zeús, e la pietà traspare più volte dai suoi gesti e dalle sue parole, ma non può disobbedire al comando che gli è stato ingiunto, e del resto Krátos e Bía lo esortano, con i loro modi spietati, a imprigionare il titán. Hḗphaistos esegue, soffrendo egli stesso. Gli attacca morsi di ferro ai polsi e alle caviglie, e questi vengono fissati alla roccia; un cuneo di ferro dinanzi al petto, un altro a mo' di cintura. Ecco fatto. Promētheús è incatenato ora alla sua rupe, ad attendere immobile il lento scorrere dei secoli.

Ma Zeús non è ancora soddisfatto, ed aggiunge alla tremenda tortura un'ulteriore crudeltà. Ogni giorno un'aquila scende su Promētheús e gli strappa con il becco brandelli di fegato dal ventre; ogni notte, il corpo immortale del titán rigenera la parte divorata. Instancabile, e altrettanto immortale, l'aquila torna ogni giorno per ripetere la sua eterna tortura. E Promētheús, incatenato alle vette del Caucaso, grida contro Zeús tutta la sua rabbia e la sua indignazione:

Kaì mḕn érgōi koukéti mýthōi
chthṑn sesáleutai.
brychía d' ēchṑ paramykâtai
bronts, hélikes d' eklámpousi
sterops zápyroi, strómboi dè kónin
heilíssousin. skirtâi d' anémōn
pneúmata pántōn eis állēla
stásin antípnoun [apodeiknýmena].
xyntetáraktai d' aithḕr póntōi.
toiád' ep' emoì rhipḕ Dióthen
teúchousa phóbon steíchei phaners.
 mētròs ems sébas,  pántōn
aithḕr koinòn pháos heilíssōn,
esorâis hōs ékdika páschō.
Promētheús: «Non è più parola. La terra trema.
È l'urlo cupo sordo del tuono,
il bagliore del lampo, il vortice del fuoco,
turbina polvere, i venti si lanciano
violenti, in lotta aperta,
cielo e mare sconvolti.
È la mano di Zeús su di me,
visibile, viene: io tremo.
Guardate, tu santità di mia madre,
tu cielo che volgi la luce del mondo:
quello che soffro è contro la giustizia».
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

Ma lasciamo Promētheús, vinto ma non domato, tra le rocce del Caucaso. Tiriamo piuttosto il fiato e facciamo il punto della situazione.

CAUCASO E GRECIA: IDENTITÀ NELLE VARIANTI

Promētheús incatenato da Hḗphaistos (1623)
Dirck van Baburen (1595-1624)
Olio su tela. Rijksmuseum, Amsterdam (Paesi Bassi)

Il rapporto tra il mito ellenico di Promētheús e le leggende caucasiche del campione incatenato ha tormentato gli studiosi a partire almeno dalla seconda metà dell'Ottocento: al riguardo vi è un'enorme letteratura, fiorita soprattutto presso i filologi russi, e ripresa in Francia da Georges Dumézil e Georges Charachidzé. Quest'ultimo, soprattutto, ha studiato le relazioni tra il mito greco e quello caucasico, con risultati a volte sorprendenti.

La comparazione tra Caucaso e Grecia è agevole soprattutto sul tema della sfida dell'eroe al dio supremo e del suo conseguente incatenamento. Anzi, su questo punto i dettagli coincidenti sono numerosissimi. Vi è convergenza persino laddove l'uno o l'altro mitema appaiono in forme alternative.

Ad esempio, nelle versioni principali del mito caucasico, Amirani risulta incatenato a un palo, e stessa sorte è riservata ad Abrysk’yl. Sono però attestate delle versioni alternative in cui l'eroe georgiano viene incatenato direttamente alla roccia. Ora, queste due versioni si alternano anche nel mito greco. Infatti, mentre Hēsíodos afferma che Promētheús venne legato a un palo o a una colonna [kiṓn] con «inestricabili lacci» [poikilóboulon] (Theogonía [-]), come compare a volte anche nelle figurazioni antiche, Aischýlos descrive nei dettagli l'incatenamento di Promētheús alla roccia, ed è un passo di enorme forza drammaturgica:

Hḗphaistos: kaì dḕ prócheira psália dérkesthai pára.
Krátos: balṓn nin amphì chersìn enkrateî sthénei
rhaistri theîne, passáleue pròs pétrais.
Hḗphaistos: peraínetai dḕ kou matâi toúrgon tóde.
Krátos: árasse mâllon, sphínge, mēdami chála.
deinòs gàr heureîn kax amēchánōn póron.
Hḗphaistos: áraren hḗde g' ōlénē dyseklýtōs.
Krátos: kaì tḗnde nŷn pórpason asphals, hína
máthēi sophistḕs ṑn Diòs nōthésteros.
Hḗphaistos: plḕn toûd' àn oudeìs endíkōs mémpsaitó moi.
Krátos: adamantínou nŷn sphēnòs authádē gnáthon
stérnōn diampàx passáleu' errhōménōs.
Hḗphaistos: aiaî, Promētheû, sn hýper sténō pónōn.
Krátos: sỳ d' aû katokneîs tn Diós t' echthrn hýper
sténeis? hópōs mḕ sautòn oiktieîs pote.
Hḗphaistos: horâis théama dysthéaton ómmasin.
Krátos: hor kyroûnta tónde tn epaxíōn.
all' amphì pleuraîs maschalistras bále.
Hḗphaistos: drân taût' anánkē, mēdèn enkéleu' ágan.
Krátos:  mḕn keleúsō kapithōýxō ge prós.
chṓrei kátō, skélē dè kírkōson bíāi.
Hḗphaistos: kaì dḕ pépraktai toúrgon ou makri pónōi.
Krátos: errhōménōs nŷn theîne diatórous pédas.
hōs houpitimētḗs ge tn érgōn barýs.
Hḗphaistos: hómoia morphi glssá sou gērýetai.
Krátos: sỳ malthakízou, tḕn d' emḕn authadían
orgs te trachytta mḕ 'píplēssé moi.
Hḗphaistos: steíchōmen. hōs kṓloisin amphíblēstr' échei.

Hḗphaistos: «Ecco, li guardi il padre, il morso è pronto».
Krátos: «Mettili ai polsi e batti con il maglio
con grande forza, inchiodalo alla rupe».
Hḗphaistos: «E l'opera si compie. E non si perde».
Krátos: «Picchia più forte, chiudi, stringi bene.
È terribile, scopre l'impossibile».
Hḗphaistos: «Un braccio è già fissato. Non si libera».
Krátos: «Aggancia duro anche l'altro braccio.
Impari, il savio, che è più tardo di Zeús».
Hḗphaistos: «Nessuno può rimproverarmi: se non lui».
Krátos: «E il cuneo di ferro, una mascella splendida,
inchioda forte, fissala sul petto».
Hḗphaistos: «Promētheús, quanta pena al tuo patire!»
Krátos: «Esiti ancora? Soffri per chi è nemico di Zeús?
Che tu non debba avere pietà per te, un giorno».
Hḗphaistos: «È visione di orrore a questi occhi».
Krátos: «Visione di una sorte meritata.
Via, applica ai suoi fianchi la cintura».
Hḗphaistos: «Farlo si deve: dunque, perché ordini?»
Krátos: «Ordinerò, aizzerò ancora. Càlati,
inanella le gambe con la forza».
Hḗphaistos: «Fatto. Non era fatica lunga».
Krátos: «Ora ribatti i ceppi in ogni foro:
il giudice dell'opera è severo».
Hḗphaistos: «Somiglia al tuo aspetto il tuo parlare».
Krátos: «E sii tu mite, ma non mi accusare,
per l'ira o la superbia o la durezza».
Hḗphaistos: «Andiamo. È imprigionato membro a membro».
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

Anche il contributo di Hḗphaistos, scortato da Krátos e Bía, all'incatenamento di Promētheús, presenta un'altra serie di strette corrispondenze con i miti caucasici. In questi ultimi, generalmente, è il dio supremo a incatenare l'eroe ribelle con un atto di volontà, e i racconti tendono a svolgere l'imprigionamento con il numero minimo di parole, enfatizzando l'onnipotenza divina: «Per tali azioni, Ḡmerṫi incatenò Amirani a un palo di ferro» (L2); «Ḡmerṫi fece il segno della croce [sic] e lo incatenò al palo» (L16); «Ma Tė non tollerò tanto ardire e con una lunga catena legò alle rocce il profanatore dei misteri» (Leggenda cabardina del prometeo monocolo). Analoga è la formulazione che compare nel testo di Hēsíodos, dove l'operazione di incatenamento procede direttamente da Zeús a Promētheús:

Dse d' alyktopédēısi Promēthéa poikilóboulon
desmoîs argaléoisi méson dia kíon' elássas...

[Zeús] legò con inestricabili lacci Promētheús mente sottile,
con legami tremendi, spingendo una colonna nel mezzo...

Hēsíodos: Theogonía [-]

In Aischýlos, però, la volontà di Zeús viene messa in atto da due entità specifiche, Krátos e Bía, la «forza» e il «potere». Presentati dai mitografi come le guardie del corpo di Zeús, costoro rappresentano il potere esecutivo del re degli dèi. Sono loro a trascinare Promētheús al luogo del supplizio, al fine di compiere, secondo la formula eschilea, una «missione per conto di Zeús» [entolḗ Diós] (Promētheús desmṓtēs []). Krátos e Bía, inoltre, controllano il lavoro di Hḗphaistos, badando che il recalcitrante dio-fabbro incateni saldamente Promētheús alla roccia.

Ma anche nei miti caucasici, come abbiamo visto, è talvolta presente un simile ordine di esseri subalterni, inviati dal dio supremo affinché catturino e incatenino il campione ribelle. Nella versione georgiana, a occuparsi di Amirani sono i dèmoni-fabbri: «I aǯebi lo circondarono e lo attaccarono al bastone che ristʻe aveva piantato in terra» (L9); nella versione abxasica, Anc°a invia i suoi subalterni a catturare e incatenare Abrysk’yl: «Allora Anc°a, irritato contro l'eroe ribelle, comandò agli aṗeambarc°a di prenderlo, di gettarlo, mani e piedi legati, nel mondo sotterraneo, e di torturarlo crudelmente, finché non avesse inteso ragioni e non si fosse sottomesso a lui» (L23).

Gli esseri subalterni che appaiono separatamente nelle versioni georgiana e abxasica, corrispondono ai due tipi di ausiliari che Aischýlos riunisce nella sua versione del mito greco. Se i aǯebi georgiani possono essere equiparati ad Hḗphaistos, nella qualità di geni della fucina e impareggiabili fabbri, gli aṗeambarc°a abxasici hanno una corrispondenza piuttosto precisa con Krátos e Bía. Resi a volte in traduzione con «angeli», gli aṗeambarc°a sono definiti dagli Abxasi la «forza del dio supremo», perché incarnano la manifestazione attiva della potenza e della volontà di Anc°a. È la medesima funzione assunta da Krátos e Bía nel mito greco. (Charachidzé 1986¹)

Caverna di Abryskyl
Presso Otap'i, Abxazia (Georgia)

I miti caucasici tendono inoltre a mostrare il campione ribelle imprigionato in una caverna all'interno dei monti del Caucaso. Per quanto esistano versioni in cui Amirani sia esposto en plein air, molte versioni georgiane descrivono un catastrofico sommovimento orografico: Ḡmerṫi manda in pezzi le montagne e ricopre il ribelle con un cumulo di rocce, formando una sorta di buia caverna. «Scoppiò una terribile tempesta, con tuoni e lampi; le montagne si squarciarono e chiusero la via che portava ad Amirani» (L24). Il massiccio montuoso che viene spostato e rimodellato per imprigionare Amirani è il Q‘azbegi nelle versioni orientali, l'Ėl'brus in quelle occidentali.

Nella versione abxasica, non c'è alcun bisogno di disturbare le montagne. Abrysk’yl viene direttamente condotto in una profondissima grotta, e lì incatenato. Questa è identificata con una caverna monumentale, ricca di eleganti stalattiti e stalagmiti, che si trova presso il villaggio di Otap‘i, in Abxazia; in georgiano è chiamata Abrskilis Mḡvime, «Caverna di Abrysk’yl».

Potrebbe sembrare una differenza non da poco con il mito greco, in cui il teatro della tortura di Promētheús non è mai una caverna, ma in un luogo esposto al sole, alla pioggia e alle intemperie, tra le alte cime del Caucaso occidentale. Che delle versioni alternative circolassero anche nel mondo classico, per lo meno in epoca tarda, lo aveva confermato il sofista Phláuios Philóstratos, di cui riportiamo ancora una volta la testimonianza:

 

Secondo gli uni, [Promētheús] era incatenato in una caverna sul fianco della montagna, che viene ancora indicata. Dámis dice addirittura che nella roccia sono ancora infisse le sue catene, la cui grandezza è inimmaginabile. Secondo altri, [Promētheús era incatenato] sulla vetta di una certa montagna: questo monte ha due cime che distano tra loro più di uno stadio, e si dice che egli era incatenato con una mano a una e con l'altra all'altra, tanto era smisurato!
Phláuios Philóstratos: Tà ès tòn Tyanéa' Apollṓnio [II, 3]

Difficile dire a quali tipi di tradizioni facesse capo Philóstratos, e quanto siano attendibili. La letteratura classica mostra sempre Promētheús esposto al sole e alle intemperie. Non si parla mai di caverne o prigioni sotterranee. È però anche vero che, nel dramma di Aischýlos, Herms affronta il titán, riottoso a sottomettersi alla volontà di Zeús, paventandogli un supplizio pressoché identico a quello effettivamente subito dal suo «collega» caucasico:

Hoîós se cheimṑn kaì kakn trikymía
épeis̱' áphyktos. prta mèn gàr okrída
pháranga bronti kaì kerauníāi phlogì
patḕr sparáxei tḗnde, kaì krýpsei démas
tò són, petraía d' ankálē se bastásei.
makròn dè mkos ekteleutḗsas chrónou
ápsorrhon hḗxeis eis pháos.
 

Herms: «[...] Ma se le mie parole non convincono,
rifletti alla bufera e ai marosi
che ti assaliranno. Senza fuga il padre
frantumerà nel tuono e nella folgore
questa roccia irta e ti seppellirà:
ti reggerà la morsa della pietra.
Poi dopo un lungo scorrere di tempo
risorgerai e rivedrai la luce...»
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

La tempesta, il frantumarsi della rocce, il seppellimento dell'eroe: i singoli fotogrammi della minaccia di Herms hanno una corrispondenza puntuale con quanto la versione caucasica effettivamente realizza. Si accenna anche al motivo di un ritorno alla luce dopo un tempo lunghissimo e indefinibile, ed è quanto accade nel racconto georgiano. A intervalli regolari, infatti, la roccia si squarcia e Amirani può tornare a contemplare la luce del giorno, sebbene per un tempo brevissimo. In sintesi, Aischýlos sembra accennare a una versione del mito prometeico che non è stata attuata in Grecia, ma che è fondamentale nel Caucaso. (Charachidzé 1986¹)

Parleremo in seguito del motivo dell'aquila che strazia il fegato di Promētheús. Ci preme ora, in questa serie di corrispondenze, rilevare il principale punto di distacco tra i due complessi mitici, che risiede nella psicologia dell'eroe e nella natura della sua ribellione.

Tra Promētheús e Amirani/Abrysk’yl vi è un'incolmabile differenza di carattere: il titán greco è caratterizzato dalla sua intelligenza, laddove gli eroi caucasici sono presentati soprattutto come guerrieri. A tale differenza fa da contraltare, simmetricamente, il fatto che Promētheús non è mai un guerriero. Anzi, rifiuta con decisione l'uso sistematico della violenza propugnato dai Titânes, per mettere la sua astuzia dalla parte di Zeús. I campioni caucasici, al contrario, sembrano del tutto ignari della possibilità di utilizzare strategie più complesse della semplice applicazione di un impeto che superi quello del nemico. Quando si trovano di fronte ad avversari più potenti di loro, risolvono imparando nuove tecniche di combattimento (contro il re aǯe) o chiedono al dio supremo una forza supplementare che li aiuti a superare l'ostacolo (per sollevare la gamba di Ambri Arabi).

Più significativo, in questa sede, è definire il modo in cui i vari personaggi esplicano le loro facoltà. Promētheús eccelle in intelligenza, tanto che può permettersi di gareggiare in scaltrezza con lo stesso Zeús. Nel Caucaso, Amirani e Abrysk’yl sono i più forti guerrieri del mondo: hanno sconfitto ogni possibile nemico, esterno o interno, umano o diabolico, tanto che non vi è più, sulla Terra, un avversario che possa sostenere il loro impeto: è a questo punto che, nella loro sicurezza e tracotanza, arrivano a sfidare il dio supremo.

Dunque, seppure diversi nella natura delle loro capacità, Promētheús ed Amirani/Abrysk’yl sono presentati come coloro che hanno elevato le loro capacità – rispettivamente intellettuali e guerriere – al massimo grado concepibile. Il dettaglio, come giustamente nota Charachidzé, è connaturato agli schemi ideologici delle due aree culturali, la Grecia e il Caucaso. Un campione che disputi su livelli diversi dal valore guerriero, sarebbe stato del tutto inconcepibile tra i montanari della Georgia e dell'Abxasia. La sfida che Amirani o Abrysk’yl lanciano al dio supremo è un invito a battersi; e la risposta del dio prende sempre la forma di una sfida fisica, sebbene opponga poi una resistenza ontologica. (Charachidzé 1986¹)

Quel che è importante, a questo punto, non è tanto la modalità del contendere, quanto il fatto stesso che vi sia una sfida lanciata dal campione al dio supremo. Si tratta di una sfida all'ordine cosmico: ciò che l'eroe mette in discussione è proprio l'autorità divina, il diritto legittimo del dio di imporre sul mondo un sistema di leggi che il campione non sa accettare, o che intende capovolgere.

Nello specchietto sottostante, A e H testimoniano rispettivamente le versioni greche di Aischýlos ed Hēsíodos. G1 e G2 sono le versioni georgiane, in ordine di importanza, C ed A, rispettivamente, quella circassa e quella abxasica.

    GRECIA CAUCASO
1 H Zeús incatena Promētheús. G1 Ḡmerṫi incatena Amirani.
C Tė incatena Teʒau.
A Zeús ordina alle sue guardie del corpo, Krátos e Bía, di condurre Promētheús nel Caucaso e accertarsi che il dio fabbro Hḗphaistos lo incateni. G2 Ḡmerṫi ordina ai dèmoni-fabbri, i aǯebi di catturare e incatenare Amirani.
A Anc°a ordina ai suoi inviati, gli aṗeambarc°a, di catturare e incatenare Abrysk’yl.
2 H Promētheús viene legato a una colonna. G1 Amirani viene legato a un palo o a un bastone conficcato al suolo.
A Abrysk’yl viene legato a un palo.
A Promētheús viene incatenato a una roccia. G2 Amirani viene incatenato a una roccia.
C Teʒau viene incatenato a una roccia.
3 A H Promētheús rimane a cielo aperto, sottoposto al sole, alla pioggia e alle intemperie. G2 Amirani rimane a cielo aperto.
C Teʒau rimane a cielo aperto.
A Herms minaccia il seppellimento di Promētheús sotto una cascata di rocce, da cui sarebbe tornato alla luce solo dopo moltissimo tempo. G1 Amirani viene seppellito sotto una montagna deposta su di lui come una volta di roccia. A intervalli regolari, la roccia si apre e gli permette di affacciarsi sul mondo.
A Abrysk’yl viene incatenato in una profonda caverna.

ANCORA NEL CAUCASO, MA IL FUOCO DOV'È?

Tra le difficoltà sollevate nel confronto tra il mito ellenico di Promētheús e le varianti caucasiche del gigante incatenato, una delle più pertinaci è dovuta proprio ai preconcetti degli studiosi. È difficile essere del tutto obiettivi, considerando che le opere di Hēsíodos (la Theogonía e le Érga kaì Hēmérai), tra le più antiche della letteratura occidentale, fanno parte del nostro DNA culturale. E non è facile retorica affermare che il mito greco di Promētheús sia uno dei temi più rappresentativi della cultura europea. Aischýlos vi vede l'archetipo dell'etica autonoma contro le imposizioni del potere (Promētheús desmṓtēs); Ovidius ne fa il demiurgo della sua genesi laica (Metamorphoseon [I: -]); Tertullianus, in un punto importante della sua teodicea, lo paragona addirittura a Cristo (Apologeticum [XVIII]). Né la fortuna di Promētheús si esaurisce nell'evo antico. Anzi, le interpretazioni e le rivisitazioni del suo mito accompagnano nel corso dei secoli lo sviluppo culturale dell'occidente. Rousseau condanna Promētheús per aver trascinato l'umanità fuori dal suo felice stato di natura; Goethe ne fa il demiurgo che invita gli uomini a fare a meno degli dèi; Mary Shelley lo recupera nel suo Frankenstein fornendolo del gusto faustiano della conoscenza proibita; Herder fonda su di lui il mito positivista della vittoria dell'intelletto umano e vede nel titán colui che reca sulla terra la fiamma simbolo del progresso umano, e via elencando, attraverso il XX secolo fino ai nostri giorni.

Amirani/Promētheús (2007)
Devi K̇malaʒe, Tbilisi (Georgia)

Ma ecco, a dispetto dell'incredibile fortuna toccata al Promētheús ellenico, i suoi «colleghi» orientali – il georgiano Amirani, l'abxasico Abrysk’yl, il circasso Teʒau – sono rimasti confinati per millenni tra le montagne del Caucaso, del tutto sconosciuti al resto del mondo. È solo tra il XIX e il XX secolo che i folkloristi hanno potuto raccoglierne le gesta dalla viva voce dei montanari locali. Non bisogna stupirsi se, nell'analizzare i miti caucasici, gli studiosi hanno cercato di compararli al «modello» greco, preso più o meno inconsciamente come metro di paragone di ogni altro materiale.

Abbiamo prima suddiviso il mito greco di Promētheús in quattro temi distinti:

  1. Il sacrificio di Mēkṓnē.
  2. Il sequestro del fuoco.
  3. La riconquista del fuoco.
  4. L'incatenamento di Promētheús.

Le relazioni tra il mito ellenico e il complesso mitico caucasico, come abbiamo visto, riguardano soltanto il quarto tema. Su questo punto, gli schemi coincidono alla perfezione, considerando l'enorme distanza di spazio e tempo che separa le documentazioni letterarie greche dalle assai più recenti testimonianze popolari del Caucaso. Ma per quanto riguarda i primi tre temi, i racconti caucasici non presentano alcun mito, alcuna vicenda, che possa essere messa in corrispondenza con il modello greco. Questa «lacuna» ha sempre costituito un cruccio non da poco per i caucasologi, soprattutto per quanto riguarda il motivo «principe» del sequestro e della riconquista del fuoco.

E come si può biasimarli? L'immagine di Promētheús che porta il fuoco dal cielo per donarlo agli uomini si presta alle più sublimi interpretazioni, ma anche a ciniche strumentalizzazioni ideologiche. È l'aspetto proverbiale di Promētheús, quello che ha maggiormente colpito l'immaginazione di scrittori, filosofi e poeti nel corso dei secoli. Ancora oggi la letteratura e l'arte continuano a ispirarsi alla potente figura dei titán che scende dal cielo impugnando la sua fiaccola ardente.

Il non trovare un mito corrispondente, nelle biografie di Amirani o Abrysk’yl, è stato un duro colpo per gli intellettuali caucasici, specie considerando le solite questioni di orgoglio nazionale. I Georgiani hanno preferito ignorare la questione filologica e, almeno a livello popolare, l'identificazione tra Promētheús e Amirani è spacciata per totale. La massiccia statua dedicata ad Amirani, che incombe da una collinetta nel distretto di Marneuli, impugna una spada nella mano destra e una fiaccola nella sinistra. Anche la più snella e aggraziata scultura di Devi malaʒe, inaugurata a Ṫbilisi nel 2007, protende in avanti le palme delle mani, sulle quali arde una fiamma.

Ciononostante, nel mito caucasico del campione incatenato, il tema del furto del fuoco brilla... per la sua assenza.

Trittico delle leggende caucasiche
Levars Butba (1960-)

I caucasologi si sono affannati a rovistare tutte le varianti del ciclo amiranico, cercando di rintracciare elementi che potessero suggerire l'esistenza di un perduto mito igneo. E quando si cerca disperatamente qualcosa, si finisce spesso per trovarla... anche quando non c'è. Per fare un esempio, il filosofo georgiano Šalva Nuċubiʒe (1888-1969) ha voluto interpretare il personaggio di Q‘amar, figlia del re dei aǯebi, come un'ipostasi solare. Di conseguenza, il suo rapimento da parte di Amirani rappresenterebbe un equivalente metaforico del furto del fuoco (Nuċubiʒe 1960).

Con tutto il rispetto per l'illustre cattedratico, la sua ipotesi è tirata per i capelli, e oltretutto si riferisce a un mitema differente, ben conosciuto, e attestato presso altre tradizioni tanto indoeuropee quanto caucasiche. In un racconto svanete, il dio Givargi si reca nel aǯeti per rubare ai aǯebi gli strumenti della loro fucina; al suo ritorno, rapisce tre diavolesse, una delle quali, Samʒimari, diventerà la sua sorella-sposa, fondando con lei l'istituzione matrimoniale (Šaniʒe 1934 | Tuite 2000).

Senza entrare troppo nel dettaglio, il mito del ratto della prima sposa dal regno dei dèmoni-fabbri sembra piuttosto omologo a quello esiodeo di Pandṓra, la prima donna forgiata da Hḗphaistos nella sua fucina e condotta al genere umano per rovinarlo attraverso il matrimonio (Érga kaì Hēmérai [-]) ①. Vedere il furto del fuoco, in questo complesso mitico, è solo una pia illusione. Eppure, l'ipotesi «solare» di Nuċubiʒe, nonostante la decisa opposizione dello stesso Charachidzé, è ancora piuttosto popolare tra studiosi e appassionati.

Per dirne un'altra, nel 1948 il folklorista Mixeil Čʻikʻovani affermò di aver raccolto, in uno sperduto villaggio del distretto georgiano di Imereṫi, «un frammento della leggenda di Amirani, da cui si ricava che l'eroe fu incatenato per aver rubato il fuoco» (Čʻikʻovani 1966). Di fronte a tale notizia, Charachidzé ha confessato la propria perplessità, anche perché Čʻikʻovani non fornisce alcun racconto, alcun poema, alcun testo, ma una semplice dichiarazione, non verificabile. Altre allusioni del genere, presenti in letteratura, non possono che essere accolte allo stesso modo. (Charachidzé 1986¹)

È pure attestato un racconto cabardino – ma di origine ossetica – straordinariamente vicino al mito esiodeo. Il malvagio dio Pak°ʻe, irritato contro i valorosi nartæ, che non gli hanno riservato nulla del festino sacrificale, toglie loro il fuoco: spegne con il suo soffio le fiamme in tutti i focolari degli uomini, lasciandoli senza le più piccole braci. Non sapendo più come accendere il fuoco, i nartæ invitano il loro campione Nesren ad andare a recuperare questo bene vitale. Pak°ʻe lo incatena in cima ai monti del Caucaso, poi gli lancia contro un avvoltoio gigante, le cui ali coprono l'intera vallata. Il rapace cala su Nesren e con il becco gli succhia il sangue proprio dal cuore. Interviene allora l'eroe Bataraz (il Batraʒ ossetico): uccide l'avvoltoio con due frecce e riporta indietro Nesren e il fuoco (Andreev-Krivič 1957). Questa versione del mito è talmente vicina al modello greco, persino nei più minuti particolari, da far sospettare un plagio dotto o letterario. È questa l'opinione di Georges Charachidzé, che al racconto ha addirittura dedicato un articolo di disamina, Un Prométhée tcherkesse trop prométhéen (Charachidzé 1986²).

Assai più originale e interessante, un'ulteriore variante del ciclo di Amirani (L15), segnalata sempre da Charachidzé. Il campione è alla ricerca dell'occhio del suo padre adottivo Iaman, che un dev ha rubato e incastonato nella colonna che sostiene la sua dimora. Seduto su un cinghiale, il dev fa la guardia al suo tesoro e brucia chiunque si avvicini per mezzo del «fuoco di Elia». Su consiglio di Iaman, Amirani e i suoi fratelli adottivi Badri e Usip‘ si muniscono di tre teste di cavallo disseccate, di una misura di midollo d'asino e di una misura di grano, e si recano alla dimora del dev. Il dèmone è occupato ad arrostire un pezzo di selvaggina sulle fiamme del focolare. Amirani sale sul tetto e lascia cadere nel camino una delle tre teste di cavallo: questa piomba nel focolare, sollevando un fiotto di scintille, ma il dev non ne è affatto disturbato. Anche il secondo tentativo va a vuoto. Al terzo, però, le scintille accecano il dev, il quale si riscuote, inforca il cinghiale, e armato del «fuoco di Elia», vola all'esterno della dimora. Usip‘ fugge, ma Badri spegne il fuoco spargendovi sopra il midollo d'asino, poi doma il cinghiale spandendovi sopra il grano. Amirani abbatte il dev e recupera l'occhio di Iaman. A questo punto, i tre eroi tornano a casa e restituiscono l'occhio al padre. Tuttavia, nel frattempo, il fuoco si è spento nel loro focolare, e bisogna fare qualcosa...

 

Da nessuna parte nei dintorni c'era fuoco, salvo in un luogo dove vivevano nove fratelli, uno dei quali era zoppo. Decisero che Amirani sarebbe andato a cercare il fuoco. Giunto alla casa dei nove fratelli egli si fermò ad ascoltare la loro conversazione. Il più giovane, quello zoppo, diceva:
«Se in questo istante, qualcuno entrasse, ci colpisse e rubasse il fuoco, cosa potremmo fare?»
I fratelli si irritarono con lo zoppo. «Disgraziato, chi sarà così audace da penetrare nella casa, darci uno schiaffo e portare via il fuoco?»
A queste parole, Amirani si slanciò nella casa, percosse ogni fratello, escluse lo zoppo, si impadronì del fuoco e se ne andò. [...]. Amirani portò il fuoco a casa e lo attizzarono subito.
L15

Il dio georgiano Elia – sorto per evidente sincretismo con la figura del profeta biblico – è un genio folgoratore, diffuso in tutto il Caucaso, signore del fulmine e della pioggia. Il «fuoco di Elia», di cui è armato il dev, altro non è che il fuoco sviluppato dalla folgore. Nel momento in cui questo viene spento, Amirani e i suoi fratelli, rimasti senza fiamma, si rivolgono a un'altra sorgente ignea, e la trovano nella casa dei nove fratelli. Forse non è un caso che il più giovane dei nove – l'unico a cui Amirani risparmia i suoi solenni ceffoni – sia zoppo, così come è zoppo Hḗphaistos nel mito greco. Se la casa dei nove fratelli fosse una fucina, allora ritroveremmo in L15 lo stesso rapporto tra fuoco celeste e fuoco ipoctonio già presente nello schema esiodeo: dove il primo, elargito da Zeús tramite i suoi fulmini, viene tolto all'umanità, e Promētheús ruba il secondo dalla fucina di Hḗphaistos (Charachidzé 1986¹). Certo, è un po' poco per istituire un parallelo convincente, ma l'idea è molto interessante.

A questo punto un'osservazione è d'obbligo: il mitema della conquista del fuoco sembra essere universale. È attestato in Nuova Zelanda, dove l'eroe Māui ruba il fuoco all'antenata Mahuike per farne dono all'umanità. In Nord America, dove il trickster Nanabozho, eroe culturale degli Ojibwa, s'impadronisce del fuoco per darlo agli uomini. Miti simili compaiono presso Algonchini, Cherokee, Creek, Ute e altri nativi americani. Li ritroviamo in Sud America, in Africa, in Asia orientale e in Australia. Raffaele Pettazzoni, nella sua monumentale raccolta di miti dei popoli senza scrittura, riporta non meno di venticinque versioni del mito della conquista del fuoco, alcune delle quali molto vicine al racconto esiodeo (Pettazzoni 1948-1959). Ad esempio, secondo un mito dei Tucuna dell'Amazzonia occidentale, il fuoco era originariamente in possesso della vecchia Topetine. Poiché suo figlio adottivo veniva deriso a causa della sua bruttezza, Topetine lasciò la terra degli uomini e si ritirò in cielo, irata e stizzita, lasciando il mondo senza fuoco. Suo nipote Dyoi si recò allora in cielo e, con un inganno, portò via un tizzone ardente dal focolare della nonna e restituì il fuoco agli esseri umani. Topetine, infuriata, tagliò la scala che univa il cielo e la terra, dividendo per sempre il mondo degli dèi e quello degli uomini. (Nimuendajú 1952).

Non basta segnalare un racconto dove un personaggio conquista, ruba o si procura il fuoco, per stabilire delle relazioni di omologia con il mito greco. Nella maggior parte dei casi possiamo parlare di semplici analogie. Abbiamo delle omologie solo dove si possa dimostrare che due o più miti si siano sviluppati per evoluzione da un tema comune. Bisogna poter comparare degli schemi complessi, che comprendono una rete ben precisa di relazioni tra personaggi e vicende. I motivi possono anche risultare alterati o rovesciati, nel passaggio da una cultura all'altra: è però indispensabile che gli schemi rimangano riconoscibili.

Abbiamo già notato la complessità di partenza dello schema esiodeo, che riportiamo ancora una volta:

  1. Il sacrificio di Mēkṓnē.
  2. Il sequestro del fuoco.
  3. La riconquista del fuoco.
  4. L'incatenamento di Promētheús.

Il mitema igneo occupa il secondo e il terzo tema, dove il fuoco viene prima sequestrato da Zeús, poi riconquistato da Promētheús. Questi due temi non sono necessariamente legati tra loro: in molte mitologie, infatti, manca il tema del sequestro e si ha solo la conquista del fuoco (non la riconquista). Tanto più un mito si avvicina allo schema esiodeo, quanto più si può ipotizzare un'omologia con il racconto ellenico.

Amirani, con spada e fiaccola
Marneuli (Georgia)

Ora, come abbiamo visto, i miti caucasici ignorano del tutto i primi tre temi, e presentano di regola solo il quarto, quello della sfida al dio supremo e del conseguente incatenamento.

Fa eccezione il citato racconto L15, dove il furto del fuoco, operato da Amirani, rimanda a uno schema di sequestro e riconquista, per quanto il secondo e il terzo tema appaiano slegati (il narratore tenta di imbastire un rapporto logico tra la lotta con il dev e lo spegnimento del fuoco a casa di Iaman giustificandolo con il tempo speso nell'impresa). Indipendente è il quarto tema, il motivo dell'incatenamento dell'eroe, che compare in coda alla narrazione e nelle modalità già illustrate. Per quanto rimanga un sospetto di omologia tra il furto del fuoco in Theogonía e in L15, i dati sono ambigui ed è difficile arrivare a una conclusione.

In realtà, anche l'assenza di un elemento può essere utile al fine di ricostruire il processo che ha portato alla distinzione e separazione di due o più complessi mitici. Se il quarto tema, quello della sfida al dio supremo e dell'incatenamento del campione ribelle, è il nucleo del mito «originale», bisogna forse dedurre che gli altri tre temi – il sacrificio di Mēkṓnē, il sequestro e la riconquista del fuoco – siano delle innovazioni greche, applicate successivamente al tema principale. Ma è davvero così?

Le cose, come vedremo, stanno in maniera assai più complessa, e lo schema «esiodeo» in quattro punti è più diffuso di quanto non si pensi. Per accertarcene, però, dobbiamo fare un salto in Scandinavia e fare conoscenza con il perfido Loki.

PROMĒTHEÚS E LOKI


Dalla Grecia arcaica alla Scandinavia medievale. È un balzo ardito, sia nel tempo che nello spazio, ma non senza scopo. I ruvidi vichinghi appaiono molto lontani dalla grazia classica degli Elleni, ma la loro cultura affonda le sue radici nel medesimo humus indoeuropeo. La cosmogonia scandinava ha molti tratti in comune con Hēsíodos, e non stupirà di incontrare, nel variegato pántheon scandinavo, un personaggio assai simile a Promētheús. Meno idealista del titán greco, ma altrettanto astuto, e facile all'inganno e ai voltafaccia.

Stiamo parlando di Loki, il cui simpatico epiteto era bǫlsmiðr, il «fabbro di mali». Se gli dèi vichinghi, gli Æsir, non andavano molto per il sottile per raggiungere i loro scopi, Loki spiccava tra tutti per il suo carattere subdolo, falso e ingannatore. Così ce lo presenta lo scrittore islandese Snorri Sturluson (1178-1241) in un capitolo della sua Prose Edda, ultima figura in una dettagliata galleria del pántheon scandinavo:

Sá er enn talðr með ásum er sumir kalla rógbera ásanna ok frumkveða flærðanna ok vǫmm allra guða ok manna. Sá er nefndr Loki [...]. Loki er fríðr ok fagr sýnum, illr í skaplyndi, mjǫk fjǫlbreytinn at háttum. Hann hafði þá speki umfram aðra menn er slǿgð heitir ok vélar til allra hluta. Hann kom ásum jafnan í fullt vandræði ok opt leysti hann þá með vélræðum. Kona hans heitir Sigyn, son þeira Nari eða Narfi

Si annovera ancora fra gli Æsir colui che taluni chiamano il calunniatore degli Æsir, origine della falsità e disgrazia per tutti gli dèi e degli uomini. Questi è chiamato Loki [...]. Loki è bello e avvenente alla vista, malvagio nell'animo e molto volubile nel temperamento. Egli ricevette più di ogni altro quella capacità che si chiama astuzia e ordisce inganni in tutte le occasioni. Egli condusse sempre gli Æsir a grandi affanni, anche se poi spesso li soccorse con i suoi inganni.
Snorri: Prose Edda > Gylfaginning [33]

Le affinità tra Loki e Promētheús sono state puntualmente segnalate dagli studiosi. Ciò che colpisce, innanzitutto, è il loro singolare destino: anche Loki, infatti, è destinato a venire incatenato dagli dèi in punizione delle sue malefatte. Ma non anticipiamo il finale e procediamo un passo alla volta. Mettiamo Loki e Promētheús a confronto: troveremo un gran numero di sorprendenti somiglianze e, naturalmente, degli interessanti punti di distacco.

Loki (1765-1766)
Ms. SÁM 66. Stofnum Árna Magnússonar, Reykjavík (Islanda).

Entrambi sono degli elementi inizialmente estranei ai rispettivi pánthea. Anzi, diciamolo in maniera più decisa, entrambi appartengono per nascita alla schiera dei nemici degli dèi. Promētheús è figlio di un titán, accolto sull'Ólympos da Zeús, come suo stratega, nel corso della titanomachia. Loki è figlio di due giganti, Fárbauti e Laufey, e ci piacerebbe sapere in quale modo sia stato accolto in Ásgarðr. Il mito in questione non è stato tramandato, sebbene in un poema eddico si parli di un patto di sangue che Óðinn e Loki avrebbero stipulato all'inizio dei tempi (Lokasenna [9]).

Loki è caratterizzato da un'intelligenza astuta, beffarda, capricciosa, assai affine a quella di Promētheús. Ma mentre Promētheús è incline a prendersi gioco del potere e a mettere in dubbio l'autorità costituita, Loki non sembra avere alcun intento ideologico. È una mina vagante, dalle reazioni imprevedibili, e non fa alcuna distinzione sulle vittime che prende di mira. Dèi, uomini, nani, giganti: Loki gode semplicemente nel fare scherzi atroci, nel danneggiare gli altri con i suoi tiri birboni. Sia lui che Promētheús sono essenzialmente degli anarchici, sebbene Loki appaia assai più infantile del suo corrispettivo greco. Entrambi sembrano inoltre incapaci di prevedere le conseguenze delle loro azioni. Loki, in particolare, commette le sue malefatte obbedendo al genio del momento, senza nessuna preoccupazione sulle inevitabili conseguenze delle sue azioni. La semplice considerazione che sarà scoperto e severamente punito, è ovvia a tutti, tranne che a lui.

Riguardo a Promētheús, la questione è più sottile. Nella scena del sacrificio di Mēkṓnē, narrata in Theogonía [-], il titán sembra animato principalmente dal desiderio di ingannare Zeús. La personalità che Hēsíodos gli attribuisce non è quella dell'eroe che agisce con lo scopo specifico di favorire il genere umano, ma quella del trickster che si propone di irridere l'autorità e seminare scompiglio. Ora, la tipologia di sacrificio che Promētheús stabilisce per il futuro, assegna in realtà agli dèi la parte nobile ed eterna del cadavere, le ossa, mentre all'uomo e alla sua natura mortale non possono spettare che le parti deperibili, ovvero la carne e le interiora. L'inganno che Promētheús progetta ai danni di Zeús ha il risultato di tirare una linea tra l'umanità e la divinità, separando per sempre i mortali dagli immortali, e di stabilire la norma dei rapporti cultuali tra gli uni e gli altri ①. Nel suo ruolo di mediatore, dunque, Promētheús non appare affatto padrone della situazione, ma piuttosto una sorta di arroseur arrosé, di ingannatore gabbato. La sua burla, costerà agli uomini l'uso del fuoco e, in seguito, la fine del felice status primordiale e l'inizio dell'esistenza come noi la conosciamo: una successione interminabile di affanni, malattie e dolore, caratterizzata dall'obbligo del lavoro, dall'inevitabilità della morte e dalla necessità del matrimonio.

A dispetto del significato del suo nome, il «preveggente», Promētheús sembra incapace di prevedere le conseguenze delle sue azioni. La contraddizione è talmente palese che Aischýlos sente addirittura la necessità di esplicitarla. Una volta incatenato il titán alla sua rupe, infatti, Krátos e Bíē si allontanano sibilando queste parole:

Pseudōnýmōs se daímones Promēthéa
kaloûsin. autòn gár se deî promēthéōs,
hótōi trópōi tsd' ekkylisthḗsēi téchnēs.
Krátos: «[...] Le potenze celesti hanno mentito
chiamandoti Promētheús, il preveggente,
perché hai bisogno tu, di chi preveda
come uscire da questi nodi esperti».

Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

Studiosi e appassionati hanno proposto molti altri punti di confronto tra Loki e Promētheús, a costo di avventurarsi su terreni inaspettatamente fragili. È facile, ad esempio, invocare una relazione «ignea» tra i due personaggi, basandosi sulla possibile definizione di Loki quale «dio del fuoco». Avanzata nell'Ottocento, questa ipotesi resiste in modo piuttosto pertinace nei libri di divulgazione, sebbene i filologi dubitino che il nome del dio derivi dal norreno logi «fuoco». Inoltre, non conosciamo alcun mito dove Loki venga messo in relazione con il fuoco, se si eccettua il racconto dove viene sfidato dal gigante di fuoco Logi a una gara di mangiate (Gylfaginning [46]). In tutto questo, tuttavia, non s'intravede nulla di «prometeico».

Altro fragile esempio. Miti sicuramente antichi, benché ignorati da Hēsíodos, ci informano che Promētheús aveva creato il genere umano. Vi è la possibilità che anche Loki sia coinvolto nel mito antropogonico scandinavo, ma essa dipende in realtà da un'identificazione tra Loki e il misterioso Lóðurr, che interviene insieme ad Óðinn ed Hǿnir nella creazione della prima coppia umana (Vǫluspá [17-18]). Il problema è piuttosto arduo, per non dire insolubile, e al riguardo non si possono esprimere giudizi definitivi.

Affrontiamo questi argomenti soltanto per sgombrare il campo da parallelismi poco solidi. È facile, fin troppo facile, nello studio dei miti, sottolineare punti in comune tra temi, personaggi e vicende; più difficile è stabilire quanto i parallelismi che imbastiamo siano effettivamente fondati. Di rado la ricorrenza di un singolo elemento (ad esempio, il fuoco) si rivela significativa, se non è supportata dal fitto e puntuale confronto di schemi dettagliati e complessi. È quanto cercheremo di fare nei prossimi capitoli, evidenziando relazioni tra miti diverse che, a nostra conoscenza, vengono notate ora per la prima volta. Quanto segue è un lavoro pionieristico e richiederà attente valutazioni.

IN SCANDINAVIA. DIVINITÀ AFFAMATE

Nello Skáldskaparmál, Snorri racconta il mito del rapimento della dea Iðunn da parte del gigante Þjazi trasformato in aquila: storia interessantissima e ricca di addentellati, di cui abbiamo parlato alla pagina apposita ①. Snorri trae la vicenda da una composizione dello scaldo Þjóðólfr ór Hvíni (attivo tra la fine del IX e l'inizio del X secolo), l'Haustlǫng, o «lungo come un autunno», nel quale il medesimo mito è narrato nello stile ellittico e involuto della poesia scaldica.

In entrambe le versioni – sia la composizione di Þjóðólfr, sia la rielaborazione prosastica di Snorri – il mito del rapimento di Iðunn viene fatto precedere da un lungo racconto introduttivo, nel quale si spiega in che modo Þjazi sia riuscito a convincere Loki a consegnargli la giovane dea. Ed è proprio questo episodio l'argomento della nostra indagine.

Þrír æsir fóru heiman, Óðinn ok Loki ok Hǿnir, ok fóru um fjǫll ok eyðimerkr, ok var ilt til matar. En er þeir koma ofan í dal nakkvarn, sjá þeir øxna flokk ok taka einn uxann ok snúa til seyðis. En er þeir hyggja at soðit mun vera, raufa þeir seyðinn ok var ekki soðit. Ok í annat sinn, er þeir raufa seyðinn, þá er stund var liðin, ok var ekki soðit. Mæla þeir þá sín á milli hverju þetta mun gegna.

Tre Æsir partirono da casa, Óðinn, Loki e Hǿnir, viaggiarono fra monti e lande desolate ed era dura trovare il cibo. Quando però giunsero in una certa valle, videro una mandria di buoi, ne presero quindi uno e lo prepararono per il seyðir. Quando pensarono che fosse pronto, scoprirono il seyðir, ma [il bue] non era cotto. Una seconda volta, dopo un po', scoprirono il seyðir dopo un certo tempo, ma [il bue] non era ancora cotto. [I tre] discussero fra loro su come ciò potesse accadere.
Þá heyra þeir mál í eikina upp yfir sik, at sá, er þar sat, kvazk ráða því er eigi soðnaði á seyðinum. Þeir litu til ok sat þar ǫrn ok eigi lítill. Udirono allora una voce proveniente dalla quercia sopra di loro e chi stava lassù disse di essere la causa per cui nulla si cuoceva nel seyðir. Essi si voltarono e videro un'aquila, non certo piccola.
Þá mælti ǫrninn: «Vilið þér gefa mér fylli mína af oxanum, þá mun soðna á seyðinum». Disse allora l'aquila: «Se vorrete darmi la mia parte di bue, allora il seyðir cuocerà».
Þeir játa því. Þá lætr hann sígast ór trénu ok sezt á seyðinn ok leggr upp þegar it fyrsta lær oxans tvau ok báða bógana. Essi acconsentirono, perciò l'aquila scese dall'albero, si posò sul seyðir da cui prese come prima porzione le due cosce del bue ed entrambe le spalle.
Snorri: Skáldskaparmál [2]

Il primo punto da osservare è che la vicenda del rapimento di Iðunn si regge perfettamente anche senza questo prologo. Il racconto del seyðir che non cuoce è evidentemente un mito separato. Autore della cucitura potrebbe essere lo stesso Þjóðólfr, ma forse anch'egli aveva ereditato il racconto nella forma in cui lo ha trasmesso. Non importa. Separiamo il prologo dalla vicenda principale e analizziamolo come fosse un racconto isolato.

La situazione di base è interessante: tre dèi hanno ucciso un bue e stanno cercando di cuocerlo. Il seyðir è una sorta di forno campestre, allestito in una buca scavata nel terreno; si dispone la carne tra due pietre arroventate, quindi si copre il seyðir con del terriccio, e si attende la cottura. Nonostante tutte queste accortezze, però, la carne rimane fredda e cruda. Il fuoco è stato privato della sua funzione ignea. La colpevole è un'aquila appollaiata sulla vicina quercia. Il rapace consentirà al fuoco di ardere, solo se le sarà assegnata una porzione del bue. I tre æsir accettano l'imposizione e a questo punto la carne comincia a sfrigolare.

Nella versione di Þjóðólfr, è proprio a Loki che Óðinn chiede di fare le parti. Loki esegue. Allora l'aquila vola giù dalla quercia e ghermisce i quattro quarti del bue, ovvero l'intero animale:

Fljótt bað foldar dróttinn
Fárbauta mǫg Várar
þekkiligr með þegnum
þrymseilar hval deila,
en af breiðu bjóði
bragðvíss at þat lagði
ósvífrandi ása
upp þjórhluti fjóra.
Lo splendido signore della terra
pregò il figlio di Fárbauti
di dividere in fretta fra tutti
la balena dell'arco di Vǫr.
Ma dalla larga mensa,
ingegno fertile, tolse
l'avversario degli æsir,
i quattro quarti del bue.
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [5]
Óðinn, Loki e Hǿnir attendono alla cottura del bue (1760)
Ms. SÁM 66. Stofnum Árna Magnússonar, Reykjavík (Islanda).

La situazione, nel mito vichingo, si presenta analoga a quanto avevamo visto in Grecia a proposito del sacrificio di Mēkṓnē. C'è da suddividere un animale abbattuto tra due fazioni. In Grecia, avevamo da una parte gli uomini, dall'altra parte Zeús; in Scandinavia, abbiamo da una parte gli æsir, dall'altra parte un'aquila appollaiata su una quercia. Forse non è inutile far notare che il secondo partito, nei due complessi mitici, si equivale, perlomeno a livello simbolico: l'aquila e la quercia erano rispettivamente l'uccello e l'albero sacri a Zeús. In posizione di mediatore, abbiamo Loki in Scandinavia e Promētheús in Grecia: è a loro che viene chiesto di fare le parti.

In entrambi i miti, la divisione si risolve con un inganno. In Scandinavia è l'aquila a prendersi l'intero bue, mentre in Grecia Zeús appare piuttosto la vittima della beffa (sebbene la sua porzione si rivelerà poi la migliore). Il sequestro del fuoco, in entrambi i miti, serve a impedire la cottura del bue a chi vorrebbe cibarsene, ma le finalità sono diverse: in Grecia, Zeús vuole punire coloro che si sono aggiudicati la carne con l'inganno; in Scandinavia, Þjazi impedisce l'uso del fuoco per costringerli i tre æsir a consegnargli un quarto del bue. Il racconto scandinavo sembra il più alterato: non ha senso che Þjazi renda inoperante il fuoco al fine di estorcere agli æsir la promessa di cedergli un quarto del bue, se poi ha intenzione di prenderselo tutto.

In Grecia, d'altra parte, Zeús s'infuria per un inganno che aveva previsto e che, in fondo, gioca a suo vantaggio. Detto questo, i due miti hanno rielaborato, ciascuno a suo modo, il medesimo complesso di elementi.

  1. Abbattimento di un animale. Sia a Loki che Promētheús viene chiesto di fare le parti del bue abbattuto, allo scopo di dirimere una contesa nella spartizione della carne.
  2. Inganno nella spartizione. Promētheús presenta due porzioni «taroccate» in modo che Zeús scelga quella sbagliata e tocchi agli uomini la parte commestibile. Þjazi estorce la promessa che gli toccherà una porzione, ma sarà lui stesso a trasgredire al patto prendendosi tutto il bue.
  3. Sequestro del fuoco. Zeús toglie agli uomini il fuoco per punirli dell'inganno e costringerli a mangiare cruda la parte che hanno ottenut. Þjazi rende il fuoco inoperante per estorcere loro la promessa di cedergli una porzione.

Ma non è finita qui. La reazione di Loki, nel mito scandinavo, è quantomeno comprensibile, ma l'esito è singolare:

Þá varð Loki reiðr ok greip upp mikla stǫng ok reiðir af ǫllu afli ok rekr á kroppinn erninum. Ǫrninn bregzk við hǫggit ok flýgr upp. Þá var fǫst stǫngin við kropp arnarins ok hendr Loka við annan enda. Ǫrninn flýgr hátt svá at fǿtr taka niðr grjótit ok urðir ok viðu, en hendr hans hyggr hann at slitna munu ór ǫxlum. Hann kallar ok biðr allþarfliga ǫrninn friðar, en hann segir at Loki skal aldri lauss verða nema hann veiti honum svardaga at koma Iðunni út of Ásgarð með epli sín, en Loki vill þat. Verðr hann þá lauss ok ferr til lagsmanna sinna ok er eigi at sinni sǫgð fleiri tíðindi um þeira ferð áðr þeir koma heim. Loki si infuriò, prese un grosso bastone e lo scagliò con tutta la sua forza, colpendo il corpo dell'aquila. L'aquila evitò il colpo volando in alto. Il bastone rimase però conficcato nella schiena dell'aquila e le mani di Loki dall'altra parte del bastone. L'aquila volò così in alto che i piedi di Loki prendevano contro a rocce, sassi e alberi, mentre le sue braccia gli pareva che si dovessero staccare dal tronco. Egli gridava e supplicava ripetutamente l'aquila di lasciarlo, ma ella disse che mai avrebbe lasciato andare Loki, se prima egli non le avesse giurato di portare Iðunn fuori da Ásgarðr insieme alle sue mele; Loki acconsentì. In questo modo egli tornò libero e andò dai suoi compagni e non ci sono altri fatti da raccontare sul loro viaggio, prima che tornassero a casa.
Snorri: Skáldskaparmál [2]

E nella versione di Þjóðólfr:

Þá varð fastr við fóstra
farmr Sigvinjar arma,
sás ǫll regin eygja,
ǫndurgoðs, í bǫndum;
loddi rö́ við ramman
reimuð Jǫtunheima,
en holls vinar Hǿnis
hendr við stangar enda.
Ma rimase attaccato, il fardello
delle braccia di Sigyn, al padre
della dea degli sci (ora lo guardano
in catene, tutti i potenti).
Il bastone si appiccica al robusto
tiranno del paese dei giganti,
e in fondo alla stanga, le mani
dell'amico affettuoso di Hǿnir.
Fló með fróðgum tívi
fangsæll of veg langan
sveita nagr, svát slitna
sundr ulfs faðir mundi;
þá varð Þórs of-rúni
(þungr vas Loptr of sprunginn)
mö́lunaut, hvat's mátti,
miðjungs friðar biðja.
Col dio ingegnoso se ne volò via,
fiero della cattura, un lungo tratto
l'uccello di sangue, e credeva
di cadere a pezzi, il padre del lupo.
Allora fu costretto, non aveva
scelte diverse il consigliere di Þórr,
(sul punto, Loptr, di squartarsi dal peso)
a chiedere tregua al gigante.
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [7-8]
Loki colpisce Þjazi (1760)
Ólafur Brynjúlfsson 
Copenhagen, Det Kongelige Bibliotek, Ms. NKS 1867 4°.

Una scena piuttosto grottesca. Loki sospeso in cielo, le mani incollate a un bastone, il quale aderisce a sua volta al dorso di un'aquila. Non era assai più semplice che l'aquila lo ghermisse con i suoi artigli e lo sollevasse in aria, se lo scopo era quello di estorcergli la promessa di condurre Iðunn fuori da Ásgarðr? Perché una soluzione tanto macchinosa? Quando, in un mito, troviamo elementi così ridondanti e mal combinati, è segno che l'autore cerca di rimanere fedele a una materia che non comprende del tutto. Gli elementi di questa scena appartengono senza dubbio a un mito ancora più antico, divenuto ormai incomprensibile sia a Þjóðólfr che a Snorri.

Un possibile suggerimento su come sciogliere l'enigma ci arriva proprio dal Caucaso. Vi è infatti una versione alternativa della cattura di Amirani (L22) che fa intervenire il dio Givargi, il San Giorgio degli spazi selvaggi, di cui abbiamo accennato in precedenza. In questa storia, piuttosto romanzata, Amirani tenta di sedurre e rapire la figlioccia di Givargi. Il nume si reca allora da Ḡmerṫi e gli propone di far morire Amirani. Il dio supremo preferisce però essere conciliante, e intima ad Amirani di rinunciare alla fanciulla. La risposta di Amirani è tracotante: «Non solo io farò a modo mio, ma se tu mi sbarri la strada, io lotterò con te».

Ḡmerṫi gli disse: «Se le cose stanno così, io ora lascerò libero un uccello, Tu siediti sul tuo tappeto volante e inseguilo. Se lo pigli, allora sei un valoroso».
«Bene» disse Amirani.
E si lanciò sul suo tappeto all'inseguimento dell'uccello. Ma più andavano e più cresceva la distanza tra loro. L'uccello volava sempre più in alto e finì per raggiungere il monte Ialbuzi [Ėl'brus]. Amirani non abbandonò l'inseguimento e raggiunse l'uccello sullo Ialbuzi.
Mentre si preparava ad afferrarlo, si accorse che teneva tra le mani un palo, un gran palo di ferro. Ed era incatenato a questo palo. Amirani si disperò, ma che fare?

L22

Sebbene sia lontana dalle altre versioni caucasiche, questo strano inseguimento aereo di Amirani ricorda in maniera irresistibile la scena del volo di Loki. Non deve trarci in inganno il fatto che qui l'eroe disponga di un tappeto volante, che è una trovata puramente accessoria di L22. Quello che ci interessa è piuttosto il riaffacciarsi degli stessi elementi in contesti simili, sebbene differisca la loro funzione. Nelle due vicende, un uccello è causa del sollevamento dell'eroe: Loki viene sollevato da Þjazi, trasformato in aquila, contro la sua volontà; Amirani si ritrova a inseguire un uccello che vola sempre più in alto, ben oltre le sue capacità di raggiungerlo. In entrambi i casi, si presenta il superamento di un limite: Loki viene sollevato oltre la resistenza fisica del suo corpo, Amirani si ritrova a inseguire un uccello più veloce di quanto lui stesso non riesca a volare. In entrambi i casi, infine, il contatto tra il protagonista e l'uccello non è diretto, ma mediato da un bastone, da un'asta. Loki si ritrova le mani incollate al bastone e non riesce a staccarle, mentre l'aquila lo trascina in cielo. Nella versione caucasica, Amirani, nel momento in cui sta per catturare l'uccello, si ritrova una bastone tra le mani, senza che l'autore del testo sappia dirci come e perché, e rimane incatenato ad esso. È evidente che, il materiale, è corrotto in entrambi i racconti, ma a questo punto una cosa è chiara: il bastone è il palo del supplizio.

Dopo quanto abbiamo detto, è facile pensare all'immagine di Promētheús punito da Zeús, incatenato a una colonna, sulla cima a un'altissima montagna, con un'aquila che scende a rodergli il fegato. Loki non è incatenato a una colonna, ma è avvinto a una stanga, ed anch'egli è sospeso tra il cielo e la terra; l'aquila è anche qui uno strumento di tortura, sebbene non gli frughi il ventre con il becco, ma è essa stessa a sollevarlo in cielo. Gli elementi del supplizio sono gli stessi per Loki e Promētheús, sebbene utilizzati in maniera affatto diversa.

  1. Incatenamento a una colonna o a una stanga (con lacci e/o catene nel mito greco, con un incantesimo in quello nordico).
  2. Sollevamento tra il cielo e la terra (letterale nel caso di Loki, sulla cima di una montagna per Promētheús).
  3. Presenza di un'aquila (la quale solleva Loki nel mito nordico; in quello greco si limita a torturare Promētheús rodendogli il fegato).

In conclusione, è evidente che Þjóðólfr ór Hvíni – o un suo antigrafo – ha utilizzato gli elementi di un mito assai più antico, ma tali elementi, sebbene singolarmente scombinati, appartengono al medesimo tema che in Grecia ha prodotto il complesso mitico del sacrificio di Mēkṓnē, con relativo inganno, sequestro del fuoco e condanna di Promētheús. Ed è curioso che, nel mezzo della strofa [7], Þjóðólfr infili l'inciso, «ora lo guardano | in catene, tutti i potenti» [sás ǫll regin eygja... í bǫndum], associando, all'episodio di Loki trascinato in cielo dall'aquila, il presente narrativo in cui Loki è stato incatenato dagli dèi. Ignoriamo quali scelte abbia effettuato Þjóðólfr nel combinare la sua materia, e forse l'inciso è solo una coincidenza poetica. Ma secondo la nostra ipotesi, si tratta di due esiti – o due momenti – del medesimo mito.

Al mitema del sequestro del fuoco, manca, in Scandinavia, il motivo della riconquista dello stesso. Bisogna ammettere che non esiste un mito dove Loki va a cercare o riprendersi il fuoco (anche se partirà alla ricerca di Iðunn rapita da Þjazi: ma è difficile sostenere la sostituzione di un tema con un altro tanto diverso). Dobbiamo dunque rinunciare a questo motivo, presente in Grecia, ma non in Scandinavia, e accontentarci di mettere in sequenza il resto del racconto.

IN OSSEZIA. SYRDON, L'ASTUTO

Nel complicatissimo patchwork di popoli del Caucaso, un posto d'eccezione spetta agli Osseti. Attualmente stanziati in una piccola area a cavallo sul confine tra Georgia e Russia, essi costituiscono l'ultimo residuo di un gruppo di Alani che, intorno al 200 d.C., si stabilirono sulle pendici settentrionali del Grande Caucaso. Gli Osseti sono gli unici, in mezzo a tanti idiomi caucasici, a parlare una lingua indoiranica. Le loro tradizioni leggendarie, a tutt'oggi vive e vegete, sono incentrate su un gruppo di agguerritissimi eroi, i Nartæ. I racconti delle loro imprese, i Narty kaǯǯitæ, sono divenuti così popolari, nella Ciscaucasia, da trasbordare nei corpora mitologici dei popoli circostanti, in special modo dei Circassi. Georges Dumézil, che ha dedicato una magistrale serie di studi agli Osseti, ha potuto evidenziare gli schemi trifunzionali che sottendono al loro vivido patrimonio mitologico. Pur circondati da tanti popoli caucasici, gli Osseti sono dunque, a tutti gli effetti, un rispettabilissimo membro della grande famiglia indoeuropea.

Lotta dei nartæ
Maxarbeg Safarovič Tuganov (1881-1952)
Particolare

Tra i vari eroi nartæ – il vecchio Uryzmæg, il radioso Soslan, il metallico Batraʒ – spicca in particolar modo Syrdon: una singolare figura di trickster caratterizzata da un'astuzia contorta, non di rado maligna; un personaggio ambivalente, ora utile ai nartæ, ora dannoso. Dumézil lo ha ripetutamente avvicinato a Loki, indicando le molte affinità psicologiche e funzionali tra i due personaggi (Dumézil 1947). Saremmo dunque giustificati se ci chiedessimo se sia possibile introdurre anche Syrdon nel nostro gioco di relazioni tra Loki e Promētheús. Allo scopo, bisogna richiamare un racconto di cui Georges Dumézil ha pubblicato ben sette varianti (quattro ossetiche, una čečena, una cabardina e una tatara) nel suo Légendes sur les Nartes, pur senza notare le affinità con il mito greco (Dumézil 1930).

Un giorno tutti i più famosi eroi nartæ partono per una spedizione: vi sono tra loro Uryzmæg, Xæmyc, Soslan, Batraʒ e molti altri. In partenza, invitano Syrdon affinché li diverta, con il segreto intento di prendersi gioco di lui nel corso del viaggio. Syrdon dapprima ricusa l'invito, non avendo un cavallo come gli altri, ma i nartæ lo tranquillizzano dicendo: «Non dire così, Syrdon! I nostri cavalli non sono forse i tuoi cavalli? Un po' sarai tu che andrai a piedi e noi a cavallo, un po' saremo noi che andremo a cavallo e tu a piedi». Ma quando, dopo una lunga marcia, ormai stanco, Syrdon chiede di poter salire a cavallo, i nartæ gli fanno notare l'ingannevole formulazione della promessa e lo esasperano con scherzi e dispetti.

Tempo dopo, catturato un cervo, i nartæ si accingono a cuocerlo, ma d'un tratto si accorgono di non avere più i loro acciarini. Naturalmente è stato Syrdon a farli sparire, per vendicarsi, ma i nartæ si disperano, non sapendo come fare per accendere un fuoco. A sera, scorgono da lontano una fiamma e spediscono Syrdon a farsi dare delle braci. Questi, contrariato, evita di adempiere all'incarico. I nartæ sono costretti a recarsi uno dopo l'altro all'edificio nel quale vedono brillare il fuoco. All'interno è in corso un banchetto di wæjug, orribili orchi o giganti, i quali, con la scusa di offrire agli ospiti una tazza di arak caldo, li fanno accomodare al loro tavolo. Ma sullo sgabello è stato spalmata del buræmæʒ, una colla magica che d'incanto imprigiona tutti i nartæ. Dopodiché, i wæjug cominciano ad affilare i loro coltellacci, decisi a sgozzare i nartæ per il loro banchetto.

I nartæ prigionieri (1977)
Azanbek Vasil'evič Ǯanaev (1919-1989)

Intanto, rimasto solo nell'accampamento, Syrdon ha acceso il fuoco e cotta la selvaggina. Dopo essersi rimpinzato di čačlyk di cervo, infila in uno spiedo i rognoni con il loro grasso e, quando sono belli e cotti, se li appende ai baffi e si reca alla dimora dei wæjug. Gli orchi lo fanno entrare e lo invitano alla tavolata. Notata l'innaturale immobilità dei nartæ, Syrdon rifiuta di accomodarsi, affermando di essere di rango inferiore, ma intanto passa dinanzi ai suoi affamati e spaventati compagni, leccando maliziosamente i rognoni che gli pendono dai baffi. Ottenuto infine un paiolo sfondato, Syrdon fa scorrere via la colla buræmæʒ prima di sedersi. A quel punto, i wæjug passano alle vie di fatto. Afferrano Soslan per scannarlo, quando Syrdon interviene chiedendo loro quale sia il più nobile tra gli attrezzi del fabbro, se l'incudine, il mantice, le tenaglie o il martello. La domanda scatena una violenta discussione tra gli orchi, i quali cominciano a picchiarsi gli uni con gli altri, mentre Syrdon li istiga. I wæjug si massacrano a vicenda e in breve giacciono tutti e sette al suolo, morti. A quel punto, Syrdon si alza dal paiolo e libera i suoi compagni dalle panche, strappando loro via la pelle del sedere e delle cosce.

Così conciati, i nartæ non riescono a stare a cavallo e si contorcono in sella per il dolore, tra le pazze risate di Syrdon. Esasperati, i nartæ agguantano Syrdon e, piegato un altissimo albero, ve lo legano per i baffi. Poi rilasciano l'albero e Syrdon si ritrova appeso proprio sulla sua cima.

Abbandonato tra la terra e il cielo, Syrdon è ormai convinto della sua prossima fine, quando vede passare un pastore con le sue bestie. Il pastore lo vede e gli chiede cosa faccia in cima all'albero. Dopo aver nicchiato, Syrdon gli rivela che sta contemplando il dio supremo Xucau trebbiare il grano, e che, da quando lo osserva, non sente più alcuna necessità di mangiare e bere. A quel punto l'ingenuo pastore lo implora di poter dare un'occhiata anche a lui. Libera Syrdon, il quale lo lega al suo posto e lo abbandona in cima all'albero.

«I miei occhi vedono meno chiaro di prima» protesta il pastore. Lo rassicura Syrdon: «Stai tranquillo, caro, ancora un po' e i tuoi occhi non vedranno più niente del tutto!» E radunata la mandria del pastore, la spinge fino al villaggio dei nartæ. I suoi compagni, che pensavano di essersi liberato di lui, si stupiscono grandemente di vederlo tornare, vivo e vegeto, e perdipiù con una mandria immensa. (Dumézil 1965)

Questo racconto si presenta come un innocuo divertissment. Se è un mito, manca del tutto l'impronta ideologica: siamo quasi nell'ambito della fiaba, sebbene si indovinino gli elementi del mito prometeico. A un'analisi più attenta, troviamo tutti e quattro i temi del mito esiodeo.

Abbiamo della selvaggina, un cervo è stato abbattuto, ma i nostri amici si scoprono incapaci di cuocerlo. È la stessa situazione che avevamo trovato in Grecia, quando gli uomini sono costretti a mangiare cruda la carne del bue sacrificato, perché Zeús ha tolto loro il «bagliore lungisplendente del fuoco indefesso» (Theogonía []); o in Scandinavia, dove Óðinn, Loki e Hǿnir non riescono a cuocere il bue che hanno ucciso, perché l'aquila ha reso il fuoco inoperante. Qui è Syrdon a far sparire gli acciarini dei nartæ, ottenendo lo stesso risultato. C'è la carne, ma non c'è il fuoco. I nartæ sono furiosi e mandano proprio lui a cercare il fuoco: compito che Syrdon – al contrario di Promētheús – si guarderà bene dal compiere. Manderà gli altri al suo posto. Rimasto solo, cuocerà lui il cervo e ne mangerà i bocconi migliori. Simpatica la scena in cui Syrdon si lega i rognoni ai baffi per leccarli sotto gli occhi dei suoi affamatissimi compagni, i quali non solo sono impossibilitati a mangiare, ma stanno essi stessi per diventare cibo dei wæjug. Vi riconosciamo l'astuzia trionfante di Promētheús che lascia Zeús a bocca asciutta davanti alle ossa che gli ha imbandito.

L'intervento di Syrdon che, grazie alla sua astuzia, salva i suoi compagni dall'essere uccisi dai wæjug, può essere messo in relazione con il contributo, tutto giocato sul piano della mtis, che Promētheús offre agli dèi permettendo loro di vincere la guerra contro i titânes.

Vi sono dunque molti scambi di ruolo, tra il mito ossetico, scandinavo e greco, per quanto il tema sia rimasto identico. Il racconto ossetico è l'unico in cui è il trickster a compiere tutte le azioni: sequestra il fuoco, medita l'inganno, e fa le parti del cervo a suo favore. Ma se l'inganno di Syrdon è decretato dal successo, non così in Grecia quello di Promētheús, che si risolve in un clamoroso autogol. In Scandinavia, per uno strano scambio, la parte dell'ingannatore passa a Þjazi e Loki si comporta con inaspettata onestà; quando gli viene chiesto di fare le parti del bue, lo taglia in parti uguali.

  GRECIA SCANDINAVIA OSSEZIA
Sequestra il fuoco Zeús

Þjazi

Syrdon
Medita l'inganno Promētheús

Þjazi

Syrdon
Fa le porzioni Promētheús

Loki

Syrdon
Ottiene la porzione migliore Zeús Þjazi Syrdon

Tutto l'episodio dei nartæ sequestrati dai wæjug sembra un tema intrusivo nel corpo del mito che stiamo analizzando. Il tema dei deretani incollati alle sedie, malamente strappati al momento della liberazione, ha un'eco nel racconto greco di Thēseús e Peiríthoos, i quali, nel corso del loro viaggio ipoctonio, vengono fatti accomodare su due speciali sedie in grado di trasformarsi in carne della carne dei malcapitati. Hērakls libera in seguito Thēseús con uno strappo lacerante, ma Peiríthoos rimane nel Tártaros.

È significativo che, alla fine del racconto ossetico, Syrdon venga incatenato alla cima d'un albero e abbandonato dai suoi compagni. Più che il mito di Promētheús, la punizione ricorda alcune varianti georgiane, dove Amirani viene incatenato al bastone piantato in terra dal dio supremo Ḡmerṫi, bastone che in alcune versioni è indistinguibile da un albero:

Allora Ḡmerṫi prese il bastone, lo piantò e gli ordinò di crescere in modo che le radici fossero abbastanza lunghe da cingere, a guisa di cintura, la terra intera e la sua cima raggiungesse il cielo. E quindi ordinò ad Amirani di strapparlo [dal suolo]. Amirani afferrò il bastone ma invano: poté solamente scuoterlo.
Allora Ḡmerṫi maledisse Amirani e lo incatenò a questo albero.

L1

Il bastone/albero potrebbe anche ricordare il legno a cui Loki si trova appeso, sebbene nel racconto ossetico manchi l'aquila. Il trucco con cui Syrdon riesce a trarsi d'impaccio – come Tom Sawyer davanti alla staccionata – sembra essere un'innovazione arguta del racconto ossetico.

DI NUOVO IN SCANDINAVIA. IL DESTINO DI LOKI
 
...sás ǫll regin eygja,
[...] í bǫndum...
...ora lo guardano
in catene, tutti i potenti...
Þjóðólfr ór Hvíni: Haustlǫng [7]

Se prima abbiamo introdotto il perfido Loki, è perché condivide il comune destino di tutti i prometei: venire incatenato ai confini del mondo. È a quest'immagine che accenna, in un inciso gocciolato in punta di penna, lo scaldo Þjóðólfr ór Hvíni. Si tratta di un mito importante, per la nostra definizione di Loki, e difficilmente dissociabile dal complesso ideologico che sottende l'intera mitologia nordica.

Sarà però necessario non limitarci alla descrizione della macchina di tortura che gli Æsir impongono a Loki, ma andare a localizzare le ragioni della punizione, che hanno la loro causa nell'uccisione del figlio di Óðinn. Secondo il mito narrato da Snorri, dal luminoso Baldr, signore della giustizia e della pace, sembra dipendesse la stabilità etica dell'universo. Gli Æsir prendono quindi tutte le possibili precauzioni per impedirne la morte, e impongono un giuramento a tutte le creature dell'universo, compresi armi, oggetti e piante, affinché promettano di non arrecare alcun danno al figlio di Óðinn. Com'è ovvio, Loki non resiste alla tentazione di raggirare un così ben congegnato sistema di difesa. Scopre che una pianticella di vischio non aveva prestato giuramento e la mette in mano a Hǫðr, il fratello cieco di Baldr, indicandogli la direzione in cui lanciarla. Hǫðr esegue e Baldr cade ucciso. (Gylfaginning [49-50])

Il mito della morte di Baldr è talmente complesso, in tutti i suoi addentellati, che richiederebbe uno studio a parte: su di esso sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro. Ma limitiamoci a tenere il nostro sguardo puntato su Loki. Mentre Baldr scende nel regno dei morti e gli Æsir si accingono a tributargli grandioso funerale vichingo, Loki comincia a realizzare le ovvie conseguenze del suo delitto, e si rende conto che questa volta gli Æsir non gliela faranno passare liscia. Ma diamo la parola a Snorri:

Goldit var honum þetta svá at hann mun lengi kennask. Þá er guðin váru orðin honum svá reið sem ván var, hljóp hann á braut ok fal sik í fjalli nǫkkvoru, gerði þar hús ok fjórar dyrr at hann mátti sjá ór húsinu í allar áttir. En opt um daga brá hann sér í lax líki, ok falsk þá þar sem heitir Fránangrsfors. Þá hugsaði hann fyrir sér hverja væl æsir mundu til finna at taka hann í forsinum. En er hann sat í húsinu, tók hann língarn ok reið á ræxna, svá sem net er síðan, en eldr brann fyrir honum. [Loki] fu punito per questi misfatti in modo che se ne ricorderà a lungo. Quando gli dèi divennero furibondi con lui, come ci si aspettava, egli fuggì lontano e si nascose su un monte e vi costruì una casa con quattro porte, in modo da poter guardare fuori in tutte le direzioni. Spesso, durante il giorno, egli si tramutava in salmone e si nascondeva nelle cascate dette di Fránangr. Là pensava a come gli Æsir avrebbero potuto catturarlo nelle cascate. Un giorno, mentre sedeva in casa, prese un filo di lino e lo intrecciò ottenendone un tessuto a maglie, così come da allora in poi si fanno le reti, mentre un fuoco ardeva davanti a lui.
Snorri: Gylfaginning [50]

Anche l'abxaso Abrysk’yl aveva disposto le sue dimore – una sulla cima del monte Ercax°, l'altra sulla costa del Mar Nero – in modo da poter scorgere in tempo l'arrivo dei nemici, sia che giungessero dal mare, sia dai monti, e perciò gli aṗeambarc°a non riuscivano mai a sorprenderlo e catturarlo. Ogni volta che si avvicinavano, Abrysk’yl fuggiva in groppa al suo cavallo alato Araš’, oppure usava la sua lunghissima pertica per passare con un balzo vertiginoso dall'una all'altra dimora.

Þá sá hann at æsir áttu skamt til hans, ok hafði Óðinn sét ór Hliðskjálfinni hvar hann var. Hann hljóp þegar upp ok út í ána ok kastaði netinu fram á eldinn. [Loki] si accorse a un tratto che gli Æsir gli erano vicini e che Óðinn aveva visto dal [trono] Hliðskjálf ove egli si trovasse. Immediatamente si alzò e fuggì fino al fiume, gettando la rete nel fuoco.
En er æsir koma til hússins þá gekk sá fyrst inn er allra var vitrastr, er Kvasir heitir, ok er hann sá á eldinum fǫlskann er netit hafði brunnit, þá skilði hann at þat mundi væl vera til at taka fiska, ok sagði ásunum. Því næst tóku þeir ok gerðu sér net eptir því sem þeir sá á fǫlska at Loki hafði gert. Ok er búit var netit, þá fara æsir til árinnar ok kasta neti í forsinn. Quando gli Æsir giunsero alla casa, vi entrò per primo colui che era il più saggio, che si chiama Kvasir, il quale, quando vide vicino al fuoco la cenere bianca dov'era bruciata la rete, comprese che quella poteva essere usata per prendere i pesci e lo disse agli Æsir. [Questi] si misero subito al lavoro e fecero una rete come quella che avevano visto nelle ceneri bianche, che aveva fatto Loki. Quando fu pronta, gli Æsir si recarono al fiume e lanciarono la rete nelle cascate.
Snorri: Gylfaginning [50]

Nel mito abxaso, gli aṗeambarc°a, incapaci di catturare Abrysk’yl, si rivolgono a una strega, che provvede a far scivolare il cavallo su una pelle spalmata di grasso o a sabotare la pertica in modo che si spezzi a metà di un balzo, accorgimenti che permetteranno agli aṗeambarc°a di mettere le mani sull'eroe ribelle. Nel mito scandinavo, gli Æsir usufruiscono di un aiuto analogo da parte del saggio Kvasir, il quale ricostruisce il ragionamento di Loki e reinventa la rete con la quale sarà possibile catturare il malvagio bǫlsmiðr.

La battuta di pesca è coronata dal successo. Nonostante Loki, tramutato in salmone, cerchi di insinuarsi sotto la rete o di balzarvi al di sopra, alla fine viene catturato. È il dio-tuono Þórr ad acchiapparlo per la coda. A questo punto, scatta la punizione degli dèi.

Nú var Loki tekinn griðalauss ok farit með hann í helli nǫkkvorn. Þá tóku þeir þrjár hellur ok settu á egg ok lustu rauf á hellunni hverri. Þá váru teknir synir Loka, Váli ok Nari eða Narfi. Brugðu æsir Vála í vargslíki ok reif hann í sundr Narfa, bróður sinn. Þá tóku æsir þarma hans ok bundu Loka með yfir þá þrjá eggsteina, einn undir herðum, annarr undir lendum, þriði undir knésfótum, ok urðu þau bǫnd at járni. Þá tók Skaði eitrorm ok festi upp yfir hann svá at eitrit skyldi drjúpa ór orminum í andlit honum. En Sigyn kona hans stendr hjá honum ok heldr mundlaugu undir eitrdropa, en þá er full er munnlaugin, þá gengr hon ok slær út eitrinu, en meðan drýpr eitrit í andlit honum. Þá kippisk hann svá hart við at jǫrð ǫll skelfr. Þat kallið þér landskjálpta. Þar liggr hann í bǫndum til ragnarøkrs. Loki fu dunque imprigionato senza scampo e portato dentro una caverna. Qui gli Æsir presero tre lastre di pietra, le appoggiarono su un lato e fecero un foro su ciascuna. Furono quindi presi i figli di Loki, Váli e Nari o Narfi. Gli Æsir tramutarono in lupo Váli, il quale straziò immediatamente Narfi, suo fratello. Ne presero dunque le budella e le usarono per legare Loki sulle tre lastre: una gli sta sotto le sue spalle, la seconda sotto i reni e la terza sotto le caviglie e quelle corde divennero di ferro. Skaði, poi, prese un serpente velenoso e lo fissò sopra di lui, in modo che il veleno uscisse dal serpente e cadesse sul suo volto, ma Sigyn, moglie di Loki, gli sta vicino e tiene una conca sotto la pioggia velenosa. Quando la conca è piena, ella si alza per vuotarla, ma nel frattempo il veleno cade sulla faccia di Loki, il quale si agita così violentemente che la terra tutta trema. Voi chiamate questi terremoti. Laggiù Loki resterà legato fino al ragnarøkr.
Snorri: Gylfaginning [50]
Loki incatenato (±1890)
James Doyle Penrose (1862-1932)

La prima domanda che sorge è che rapporto potrebbe esserci tra questo mito e quello citato in precedenza, dove Loki rimane incollato all'asta trascinata in cielo dall'aquila. Partiamo dal presupposto che quest'ultimo racconto sia una variante del tema prometeico. È abbastanza curioso, in tal caso, che l'alternanza delle due modalità di incatenamento (alle rocce o a un palo), già individuata tanto nel mito georgiano di Amirani quanto in quello greco di Promētheús, sia presente anche in Scandinavia.

Inoltre, il mito scandinavo realizza entrambe le possibili locazioni della tortura: la prima, dove Loki è sospeso in cielo, attaccato a un'aquila; la seconda, dov'è sprofondato in una buia caverna. Anche questa alternanza è ben presente nel Caucaso, tra le varie versioni del mito amiranico; la Grecia – come abbiamo visto – realizza unicamente la prima modalità, lasciando che la seconda riaffiori in forma di minaccia, proferita da Herms.

Nel mito nordico, invece, le due varianti non sono presentati come versioni alternative di uno stesso racconto, ma come due episodi distinti e separati. La duplicazione del mito potrebbe essere stata resa possibile dal fatto che l'episodio di Loki trascinato in cielo dall'aquila aveva ormai perduto completamente ogni rapporto con il tema prometeico, divenuto di fatto irriconoscibile. Dare un'interpretazione a queste difformità è però piuttosto difficile: per ora accontentiamoci di rilevare gli schemi. Il nostro viaggio riserverà ancora molte sorprese.

TRA L'AQUILA E IL SERPENTE

Un particolare fondamentale del mito prometeico, pressoché in ogni esito che ci sia pervenuto, è la regolare comparsa di un animale che diviene parte integrante della macchina di tortura del protagonista. La sua natura è differente nelle varie versioni: può essere un'aquila, un avvoltoio, un cane, un cavallo, un serpente. Dettaglio ancora più sfuggente, le varie versioni del mito sembrano in disaccordo sulla natura negativa o positiva dell'animale. A volte è un inviato del dio supremo e infierisce sul prigioniero torturandolo ancora di più; altre volte, è un fedele compagno dell'eroe, di cui divide la prigionia, e tenta di farlo fuggire rosicchiandogli le catene.

È possibile intravedere una correlazione tra gli esiti così divergenti di questo tema? Crediamo di sì. Ma prima, un rapido excursus sulla natura e l'inclinazione di questi «compagni animali» del nostro prometeo incatenato.

Nella versione ellenica del mito, la più popolare, ultimo e più crudele elemento della tremenda tortura messa in essere da Zeús ai danni di Promētheús, è un'aquila [aetós kaukasíos] che ogni giorno cala sul disgraziato per frugargli nel ventre con il becco. Il tremendo rapace è presente già nella versione più antica:

...kaí hoi ep' aietòn rse tanýpteron; autar hó g' hpar
ḗsthien athánaton, tò d' aéxeto îson hapántē
nyktós, hóson própan mar édoi tanysípteros órnis.
...e sopra [Zeús] gli avventò un'aquila dalle ampie ali, che gli sbranava
il fegato immortale, ma questo ricresceva
la notte, quanto il giorno ne aveva sbranato l'uccello dalle ampie ali.

Hēsíodos: Theogonía [-]

La tortura dell'aquila diviene ancor più cruenta nelle parole che Aischýlos mette in bocca ad Herms:
Diòs dé soi
ptēnòs kýōn, daphoinòs aietós, lábrōs
diartamḗsei sṓmatos méga rhákos,
áklētos hérpōn daitaleùs panḗmeros,
kelainóbrōton d' hpar ekthoinḗsetai.
toioûde móchthou térma mḗ ti prosdóka...
Herms: «[...] Il cane di Zeús, il cane alato,
l'aquila fulva come il sangue, avida,
straccerà il grande straccio del tuo corpo;
verrà senza richiamo, silenziosa,
a dilaniarti tutto il lungo giorno,
a cibarsi del tuo fegato nero,
e questa pena non avrà mai fine...»
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

L'immortalità di Promētheús è la ragione principale della sua sofferenza. Ogni giorno l'aquila gli cava con il becco brandelli di fegato dal ventre; ogni notte, il corpo immortale del titán rigenera la parte divorata. Instancabile, e altrettanto immortale, l'aquila torna ogni giorno per ripetere la sua eterna tortura.

Promētheús ( 1610)
Peter Paul Rubens (1577-1640)
Philadelphia Museum of Art

Riguardo a quest'aquila, i mitografi si sono sbizzarriti. Secondo Apollódōros, il rapace era figlio di Typhn ed Échidna (Bibliothḗkē [II: 10]): dunque rampollo di una delle più tremende progenie di mostri della mitologia greca. Typhn, mostro ctonio dalle cento teste di serpente, e la «lacrimosa» Échidna, metà donna e metà serpente, erano infatti genitori di Órthros, Kérberos, della Lernaía Hýdra, della Chímaira e, sembra, anche del serpente Ládōn. Non si trattava dunque di un essere appartenente alla classe degli uccelli: e del resto lo avevamo visto scuotere l'intera nave Argṓ con il battito delle sue poderose ali, le cui penne erano ampie come remi (Tá Argonautiká [II: -]). Riguardo alla paternità di questo uccello, Hyginus riporta tre tradizioni diverse: secondo alcuni, l'aquila era figlia di Typhn ed Échidna, secondo altri di Tártaros e G, ma secondo i più, dice Hyginus, si trattava di una creatura artificiale: era stata infatti fabbricata da Hḗphaistos e Zeús le aveva dato la vita al preciso scopo di torturare Promētheús (De Astronomia [II: 15: ]). Sempre Hyginus fornisce altrove il presunto nome dell'aquila: Æton, la «fulva», in realtà una trasparente latinizzazione del greco aetós «aquila», e afferma divorasse il cuore – e non il fegato – di Promētheús (Fabulae [31]).

Che nel mito greco l'animale torturatore assuma l'aspetto di un'aquila è una scelta quasi ovvia, visto che l'aquila era l'animale sacro a Zeús. Questi rapaci fungevano da ausiliari del re degli dèi e da esecutori della sua volontà. Nel mito di Promētheús, l'aquila diviene una proiezione dello stesso Zeús, o comunque del suo spirito di giustizia o di vendetta.

Se Aischýlos definisce l'aquila prometeica come «cane alato» [ptēnós kuón] di Zeús (Promētheús desmṓtēs []), stupisce ancor più il fatto che l'animale più rappresentativo, al fianco del prometeo caucasico, sia proprio un cane dotato di ali. Nelle versioni georgiane, esso ha un nome: Q‘urša (da q‘ur-šav «orecchio nero»). Una tradizione svanete, raccolta nel 1887, lo definisce figlio di un'aquila. Infatti, spiegano i montanari della Svanezia, capita a volte che nei nidi d'aquila, tra tanti aquilotti, si trovi un cucciolo: allora l'aquila lo afferra tra gli artigli e, dopo averlo sollevato a un'altezza vertiginosa, lo lascia cadere tra le rocce. Il nostro Q‘urša aveva avuto però la ventura di salvarsi ed era divenuto lo straordinario, fedele cane da caccia di Amirani (L2). Perciò lo troviamo accanto al suo padrone incatenato:

  Dio incatenò Amirani a un palo e lo ricoprì con una montagna immensa. Da allora, il cagnolino di Amirani lecca incessantemente per dodici mesi la catena che lega Amirani.
L4
Nascita di Q‘urša ( 2010?)
Unita Nightroud, illustrazione.

Il cane tenta di liberare Amirani e, leccando la catena, ne assottiglia gradatamente le maglie. Ma poi, il giovedì santo, i fabbri entrano nelle loro fucine, battono sulle loro incudini e d'incanto la catena riprende la sua saldezza. Così il cane ricomincia il suo paziente lavoro fino all'anno successivo.

Pur avendo aspetto canino, Q‘urša è un essere celeste, e conserva la natura e le ali dei suoi genitori. Di «cani celesti» abbonda del resto la mitologia georgiana. Presso i Xevsuri, nella Georgia orientale, gli xat‘ebi hanno al loro seguito delle mute di cani soprannaturali, i Mc‘evar, che accompagnano le divinità nelle loro spedizioni e fungono da esecutori della loro volontà. Essi sono immaginati come giganteschi cani multicolori – bianco, rosso, azzurro – con gli artigli costantemente grondanti di sangue, il collo cinto da catene d'oro. In ogni santuario ve ne sono due e le divinità xevsurete li inviano per combattere invisibili al fianco dei guerrieri in difficoltà, oppure li scagliano contro gli uomini colpevoli di delitti o di empietà.

Sempre presso i Xevsuri, il dio supremo Morige Ḡmerṫi invia lupi contro gli esseri umani per riscuotere tributi o per eseguire punizioni o condanne a morte. (Bardavelidze 1957). «Che Dio ti aizzi i suoi cani» era un'abituale formula di maledizione presso svaneti e xevsuri. Gli Svaneti si riferiscono ai lupi come ai «cani di Givargi» [Ǯgǝrǣgi žeḡær] (Tuite 2000).

  Segugi dagli unghioni insanguinati e dal collare d'oro, sguinzagliati da dio, investiti della grazia di dio! Se appaiono i lupi di dio, sguinzagliati da dio per riscuotere tributo o tassa dagli uomini, non lasciateli venire fino alle case di chi prega; se si deve, fate in modo che prendano un tributo lecito e indicate loro altre case, altre strade!
Materiale etnologico georgiano

I cani caucasici hanno dunque la stessa funzione dell'aquila ellenica: fungono da esecutori della volontà divina. Ma le due zoofanie, il cane nel Caucaso e l'aquila in Grecia, non solo si corrispondono perfettamente, nella loro funzione, ma presentano ciascuno dei tratti dell'altro: Q‘urša è un cane alato figlio di aquile, così come l'Aetós Kaukasíos è, almeno in chiave metaforica, il «cane alato» [ptēnòs kýōn] di Zeús. Queste note non spiegano tuttavia perché il cane Q‘urša, nel mito amiranico, appaia piuttosto in conflitto con la volontà divina, tentando di liberare il suo padrone.

Anche nel mondo scandinavo, il dio Óðinn è spesso accompagnato da due lupi, Freki e Geri, la cui funzione non sembra differente da quella dei cani soprannaturali che scortano gli dèi caucasici. Ma tra Caucaso e Scandinavia sembra esserci più di un collegamento: se nella prigione dove giace, incatenato, Loki, non compaiono cani, non dimentichiamo che il suo feroce figlio-lupo, Fenrir, è destinato a condividere il medesimo fato, sebbene non accanto al proprio padre. Quasi un prometeo in forma lupesca, Fenrir è destinato a venire legato con un laccio magico in un isolotto ai confini del mondo, e lì rimarrà fino al tempo escatologico (Gylfaginning [34]). Egli si libererà infatti insieme a Loki, nel giorno di Ragnarǫk, e avanzerà al suo fianco per l'ultima battaglia (Vǫluspá [51]). Riuscirà a uccidere Óðinn, ma verrà eliminato dal dio Víðarr prima che riesca a divorare il cielo e la terra (Vǫluspá [53 | 55] | Gylfaginning [34]).

Ora, sebbene appaia assai diverso dal fedele e docile Q‘urša, Fenrir sembra appartenere a un medesimo mitema. Entrambi i canidi sono fedeli al prometeo incatenato (che è il padrone del segugio nel mito caucasico, ma padre del lupo in quello scandinavo), con il quale condividono il destino di rimanere imprigionati fino alla fine del mondo. Il ruolo apocalittico di Fenrir è più esplicitamente definito di quello di Q‘urša, il quale appare soltanto nella scena della prigionia, al fianco del padrone, e tace su un suo eventuale ruolo futuro, allorché Amirani si libererà e porterà il mondo alla distruzione. È però evidente che Q‘urša, nel suo continuo tentativo di liberare il padrone, lavora affinché si affretti la catastrofe finale.

In abxasia, Abrysk’yl ha accanto a sé il suo cavallo, Araš’. Seppure incavezzato a un proprio palo, il fedele destriero è anch'esso intento a rosicchiare le catene del suo padrone, con le stesse modalità del cane georgiano. La sostituzione di un cane con un cavallo appare del tutto accessoria, tantopiù che di Q‘urša l'equino ha ereditato addirittura un bel paio d'ali. Inoltre, il motivo del cavallo ha un'origine ben chiara: Araš’ altro non è che una versione locale del mitico Raxš, il destriero dell'eroe persiano Rustem, la cui popolarità è sconfinata ben oltre i confini dell'Īrān.

Immagini di aquile o avvoltoi compaiono invece tra i Circassi o altri popoli caucasici nord-orientali, dove il modello, come abbiamo visto, si avvicina in maniera sospetta, a quello ellenico. Nella versione cabardina, il rapace non ha soltanto il compito di martoriare il corpo del prometeo, ma anche quello di precederlo alla sorgente, impedendogli di bere.

Per aumentare la punizione, Tė gli ha inviato un uccello da preda: ogni giorno un avvoltoio vola sul gigante e gli scava spietatamente il cuore. Quando poi il martoriato si curva per bere, l'avvoltoio lo precede e beve fino all'ultima goccia l'acqua che ha il meraviglioso potere di rendere immortale chi la gusta.

Versione cabardina

Nella lontana Scandinavia, invece, l'aquila è una figura che si alterna a quella del serpente. Loki viene infatti trascinato in cielo da un'aquila nel racconto «alterato» riportato tanto da Þjóðólfr ór Hvíni quanto da Snorri Sturluson. Nel racconto «canonico» dell'incatenamento, invece, è un serpente a costituire l'elemento animale della tortura:

Þá tók Skaði eitrorm ok festi upp yfir hann svá at eitrit skyldi drjúpa ór orminum í andlit honum. En Sigyn kona hans stendr hjá honum ok heldr mundlaugu undir eitrdropa, en þá er full er munnlaugin, þá gengr hon ok slær út eitrinu, en meðan drýpr eitrit í andlit honum. Þá kippisk hann svá hart við at jǫrð ǫll skelfr. Þat kallið þér landskjálpta. Skaði, poi, prese un serpente velenoso e lo fissò sopra di lui, in modo che il veleno uscisse dal serpente e cadesse sul suo volto, ma Sigyn, moglie di Loki, gli sta vicino e tiene una conca sotto la pioggia velenosa. Quando la conca è piena, ella si alza per vuotarla, ma nel frattempo il veleno cade sulla faccia di Loki, il quale si agita così violentemente che la terra tutta trema. Voi chiamate questi terremoti.
Snorri: Gylfaginning [50]

Tutti questi mitemi hanno in comune l'elemento della periodicità. Ogni giorno l'aquila strappa brandelli di fegato dal petto di Promētheús, ma di notte questo ricresce nel ventre del titán, pronto a essere divorato il giorno successivo; il cane lecca le catene di Amirani assottigliandone gli anelli ma, dopo un anno, il rumore delle incudini percosse dai fabbri le fa tornare di nuovo integre; il veleno che il serpente spunta sul volto di Loki viene raccolto in una conca dalla pietosa Sigyn, ma quando la donna va a vuotare il recipiente, il veleno arriva agli occhi del condannato, che si contorce in preda alla sofferenza, provocando terremoti.

Questa tortura procede, in questi tre esiti, in tre modi diversi, ma tutti e tre presentano ciclicità. Ripetizione del dolore in Grecia, delusione nelle proprie speranze in Georgia, interruzione della protezione in Scandinavia.

Ma analizziamo più da vicino la natura degli animali coinvolti nella tortura. Abbiamo già vista che il cane è una variante dell'aquila, ed entrambi si muovono in un medesimo ordine di idee: essi simboleggiano, in Grecia e nel Caucaso, la volontà divina. Possiamo quindi stabilire l'equazione cane = aquila. Non si può dire certamente la stessa cosa del serpente in Scandinavia. Quest'ultimo animale è, anzi, una creatura ctonia, eversiva, malefica; l'immenso serpente Jǫmungandr destinato a combattere contro Þórr è un'emanazione maligna dello stesso Loki. L'alternanza aquila ⇆ serpente dovrà essere analizzata su un diverso ordine di idee.

Notiamo innanzitutto che, nel mito scandinavo, un serpente e un aquila sono collocati agli estremi dell'asse del mondo, simboleggiato dal frassino Yggdrasill. Nella cosmologia vichinga, si ricorderà, impalcatura dell'universo è il frassino cosmico, le cui radici arrivano in tutti i mondi; l'arbor mundi è peraltro abitato da un certo numero di animali, tra cui spiccano il serpente Níðhǫggr, che ne rode incessantemente le radici, e un'aquila senza nome, che si trova appollaiata tra i suoi rami (e che ha il falco Veðrfǫlnir acquattato tra i suoi occhi).

Ǫrn einn sitr í limum asksins, ok er hann margs vitandi, en í milli augna honum sitr haukr sá er heitir Veðrfǫlnir. Íkorni sá er heitir Ratatoskr renn upp ok niðr eptir askinum, ok berr ǫfundarorð milli arnarins ok Níðhǫggs. En fjórir hirtir renna í limum asksins ok bíta barr, þeir heita svá: Dáinn, Dvalinn, Duneyrr, Duraþrór. En svá margir ormar eru í Hvergelmi með Níðhǫgg at engi tunga má telja. Un'aquila siede sui rami del frassino; essa conosce molte cose e in mezzo ai suoi occhi sta quel falco che si chiama Veðrfǫlnir. Lo scoiattolo che si chiama Ratatoskr corre su e giù per il frassino e riporta le calunnie fra l'aquila e Níðhǫggr, mentre quattro cervi corrono per i rami del frassino e brucano le foglie. Essi si chiamano Dáinn, Dvalinn, Duneyrr, Duraþrór. Ci sono poi così tanti serpenti dentro a Hvergelmir insieme a Níðhǫggr, che nessuna lingua può contarli.
Snorri: Gylfaginning [50]

Questi animali sono dannosi al grande albero, come ci informa un poema eddico citato dallo stesso Snorri:

Askr Yggdrasils
drýgir erfiði
meira enn menn viti:
hjǫrtr bitr ofan,
en á hliðo fúnar,
skerðer Níðhǫggr neðan.
Il frassino Yggdrasill
sopporta pene
più grandi di quanto gli uomini sappiano:
il cervo lo bruca in alto,
da un parte marcisce
lo rode Níðhǫggr da sotto.
Ljóða Edda > Grímnismál [35]

In Īrān, la medesima nozione viene ripartita tra due mitici alberi: (1) l'albero Vanąm yąm Saēnahe, che cresce al centro del lago cosmico Vourukaa, è considerato «l'albero di tutti i semi»; sui suoi rami fa il nido il mitico uccello Saēna (avestico mǝrǝγō Saēnō, pahlavico Sēn Murw, persiano Sīmurġ) (Yašt [XII, 14 | XIV, 41]); e (2) l'albero Gaokǝrǝna- (pahlavico Gōkarn), che produce l'haoma, l'elisir d'immortalità: in questo caso sono una rana, o una lucertola, a tentare di danneggiare l'albero, ma il pesce Kara vi gira attorno per difenderlo dai suoi nemici (Bundahišn [18, -] | Vendīdād [19, ]).

Ma il mitema è già presente in Mesopotamia in epoca antichissima. Nel poema sumerico conosciuto dagli studiosi con il titolo informale di Inanna, Gilgameš e gli inferi, ma probabilmente intitolato, dal suo incipit, Ud re-a ud su₃-ra₂ re-a, «In quei giorni, in quei giorni lontani», la giovane dea Inanna pianta nel suo giardino, a Uruk, l'albero Ḫuluppu (sumerico ḫa-lu-ub₂), che il vento aveva strappato dalla riva dell'Eufrate e gettato nel fiume. Questo attecchisce e cresce, ma tre creature soprannaturali lo infestano: un serpente tra le radici, un'aquila tra le fronde e un essere non ben identificato (forse un gufo, o la demoniessa Līlītu) nel suo tronco:

mu 5-am₃ ⸢mu⸣ [10-am₃ ba-e-zal-la-ri]
iš ba-gur₄ kuš-bi nu-mu-un-da-dar
ur₂-bi-a muš tu₆ nu-zu-e gud₃ im-ma-ni-ib-us₂
pa-bi-a mušen anzud-de₃ amar im-ma-ni-ib-ar
šab-bi-a ki-sikil lil₂-la₂-ke₄ e₂ im-ma-ni-ib-du₃
ki-sikil zu₂ li₉-li₉ šag₄ ḫul₂-ḫul₂
kug inana-ke₄ er₂ e-ne ba-še₈-še₈
Dopo che cinque anni, dopo che dieci anni furono passati,
l'albero crebbe imponente, ma il suo tronco non aveva foglie.
Nelle sue radici un serpente che non teme magia, vi aveva fatto il nido;
nei suoi rami l'aquila Anzud vi aveva deposto i suoi piccoli;
nel suo tronco Ki-sikil-lil-la-ke vi aveva costruito la sua casa;
la vergine [altrimenti] allegra e con il cuore gioioso
la pura Inanna cominciò a piangere.
Ud re-a ud su₃-ra₂ re-a [-]

Questo mitema sembra universale. Ad esempio, nella leggenda azteca, i Mexica, obbedendo al dio Huītzilopōchtli, fondano la futura capitale del loro regno, Tenōchtitlān (attuale Ciudad de México), nel luogo dove scorgono un'aquila divorare un serpente sopra un cactus nopal. Il mito è tuttora celebrato nello stemma della bandiera messicana.

L'aquila e il serpente sembrano dunque simboli collegati all'arbor mundi, all'asse terrestre, alla colonna che unisce il cielo e la terra. Come abbiamo visto, il materiale caucasico è molto eterogeneo, ma vi sono versioni dove il palo di Amirani assume connotazioni cosmologiche:

Allora Ḡmerṫi prese il bastone, lo piantò e gli ordinò di crescere in modo che le radici fossero abbastanza lunghe da cingere, a guisa di cintura, la terra intera e la sua cima raggiungesse il cielo. E quindi ordinò ad Amirani di strapparlo [dal suolo]. Amirani afferrò il bastone ma invano: poté solamente scuoterlo.
Allora Ḡmerṫi maledisse Amirani e lo incatenò a questo albero.
L1

Un albero la cui cima raggiunge il cielo e le cui radici cingono la terra. Sembra una descrizione del frassino Yggdrasill. Secondo la tradizione georgiana, ancora oggi viva e vegeta, sono proprio a causa degli sforzi con cui Amirani cerca di sradicare il palo che lo trattiene prigioniero, che si producono i terremoti che investono la terra. Questa è un'indicazione molto preziosa della natura cosmologica del palo, o dell'albero, a cui l'eroe è incatenato. La medesima nozione è presente in Scandinavia, dove i terremoti sono prodotti dal contorcersi di Loki, allorché il veleno del serpente gli arriva in volto (Gylfaginning [50]).

Alcuni studiosi hanno tentato, effettivamente, di ricondurre a questo mitema la colonna a cui Promētheús fu incatenato, almeno nella versione esiodea. Al riguardo, però, non era stato possibile portare alcuna prova, tantopiù che nelle figurazioni greche la colonna risulta spezzata a metà e piuttosto bassa. In realtà, nel mito greco, il destino di fungere da asse cosmico, tocca non tanto a Promētheús, quanto a suo fratello Átlas. Già Hómēros ce lo presenta a sorreggere le colonne che tengono la terra separata dal cielo:

 

...Átlas, dal cuore perverso, il quale del mare
tutti conosce gli abissi, regge le grandi colonne,
che terra e cielo sostengono da una parte e dall'altra...
Hómēros: Odýsseia [I: 52-54]

Stando a Hómēros, Átlas sembra emergere da qualche abisso marino: non è ben chiaro dove sia collocato. Un po' più preciso è Hēsíodos, il quale afferma che Átlas si erga «ai confini della terra», nell'estremo occidente, proprio davanti al luogo dove abitano le ninfe della sera e del tramonto, le Hesperídes.

Átlas d’ ouranòn eurỳn échei kraters hyp’ anáŋkēs
peírasin en gaíēs, própar Hesperídōn ligyphṓnōn,
hestēṑs kephal te kaì akamátēısi chéressin;
taútēn gár hoi moîran edássato mētíeta Zeús.

Átlas regge il vasto cielo, soggiacendo a dura necessità,
ai confini della terra, davanti alle Hesperídes dalla voce sonora
stando ritto, con la testa e le braccia instancabili:
tale sorte gli assegnò, infatti, Zeús prudente.
Hēsíodos: Theogonía [-]

Atlas e Promētheús ( ±530 a.C.)
Kylix laconico, da Cerveteri
Musei Vaticani, Roma (Italia)

C'è dunque Átlas condannato a sorreggere il cielo ai confini occidentali del mondo, Promētheús incatenato in quelli orientali. Sussiste una simmetria tra il destino dei due figli di Iapetós. Ma se il mito di Átlas ha una ragione cosmologica, allora forse anche quello di Promētheús appartiene a uno stessa ordine di idee. Un'immagine dipinta all'interno di un kylix laconico mette uno di fronte all'altro i due titanici fratelli, ritratti nelle condanne inflitte loro da Zeús, l'uno legato alla sua colonna, in posizione innaturale, i polsi e le caviglie unite; l'altro con le ginocchia flesse sotto il peso del cielo, che sostiene con le spalle e un tocco lievissimo del palmo sinistro. Ciascuno è affiancato da un animale: l'aquila infierisce col becco sul petto di Promētheús, mentre un serpente guizza sollevando il capo alle spalle di Átlas. E non è una serpe qualsiasi, ma Ládōn, il drákōn hespérios, che custodisce le mele d'oro nel giardino delle Hesperídes.

Condannato a sostenere il cielo sulle sue spalle, Átlas è un poderoso axis mundi vivente che mantiene in essere la macchina del firmamento. Non sarà inutile ricordare che, secondo Eratosthénēs, il serpente Ládōn era stato catasterizzato nella costellazione allora chiamata del Serpente [Óphis] (Katasterismoí [3]), divenuta in seguito del Dragone [Draco] (De Astronomia [II, 3]). Tra il quarto e il terzo millennio, la stella principale della costellazione, α Draconis (oggi Thuban, dall'arabo ṯuʿbān «basilisco»), si trovava vicino al polo celeste. Dunque, se Átlas rappresenta l'asse attorno al quale ruota il cielo, il serpente Ládōn è la costellazione contro la quale sono puntate le sue braccia. Queste note possono forse chiarire la relazione tra Átlas e Ládōn, ma non la ragione per cui la maggior parte dei mitografi collochi il titán ad ovest e non, come sembrerebbe logico, a nord, la direzione verso cui punta il polo celeste.

Non stupisce di trovare anche tradizioni alternative. È proprio a nord che Apollódōros pone il giardino delle Hesperídes e, di conseguenza, il luogo dove Átlas sorregge il cielo, polemizzando con gli altri mitografi. Apollódōros è talmente convinto della propria versione, da duplicare la catena africana dell'Atlante nella terra settentrionale degli Hyperbóreoi:

[I pomi delle Hesperídes] non si trovavano, come alcuni hanno detto, in Libia, ma sull'Atlante tra gli Hyperbóreoi, ed erano i doni che G aveva fatto a Zeús quando aveva sposato Hḗra.
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 5]

Apollódōros ci fornisce delle precise indicazioni astronomiche sulla collocazione di Átlas, e ci chiediamo se sia possibile estendere quest'ordine di idee anche a Promētheús.

Non potendo dare risposte, ci conviene forse smontare dal carro dell'astronomia per calcare i sentieri non meno aerei del mito. Átlas e il suo drákōn hespérios sembrano completare il mitema rappresentato da Promētheús e dall'aetós kaukasíos. Ci si può chiedere quali relazioni mitiche o simboliche sottendano le figurazioni dei due personaggi. Non è facile indovinare le mitodinamiche che hanno fatto di Átlas e Promētheús due gemelli speculari. Nonostante i nostri sforzi, i due titânes rimangono tenacemente separati, ciascuno racchiuso nel suo mito privato.

Dobbiamo trovare un fil rouge che connetta l'uno all'altro i due figli di Iapetós. Un sentiero che possa portare dall'aquila al serpente, e un eroe deciso a percorrerlo.

    Prigionia Animale Caratteristica
Greci Promētheús

Esterna (colonna o rocce)

Aquila

Negativa

Átlas

Esterna (colonne del cielo)

Serpente

Indifferente

Scandinavi Loki

Esterna (bastone)

Aquila

Negativa

Sotterranea (rocce)

Serpente

Negativo

Lupo

Negativo
Georgiani Amirani

Esterna (palo, albero, rocce)

Cane alato

Positivo/Negativo

Sotterranea (palo)

Abxasi Abrysk’yl

Sotterranea (palo)

Cavallo alato

Positivo

Circassi Teʒau

Esterna (rocce)

Aquila

Negativo

Sotterranea (palo)

IL DIO-TUONO E IL PROMETEO INCATENATO

Þórr e Útgarðaloki (1888)
Alfred Kappes (1850-1894)

In uno dei più vivaci racconti conservati da Snorri, il dio-tuono Þórr si mette in viaggio, in compagnia dell'astuto Loki e di altri compagni, alla volta dello Jǫtunheimr, il paese degli jǫtnar o giganti di brina. Dopo molte peripezie, il gruppo arriva a Útgarðr, luogo che, a giudicare dal nome (il «recinto esterno»), si colloca oltre i confini del Miðgarðr (o «recinto centrale»), il mondo abitato dagli uomini. Signore della fortezza è il gigante Útgarðaloki, il quale sfida i suoi ospiti a varie gare di forza o di abilità.

Loki si cimenta con il gigante Logi in una gara di mangiate, ma viene tosto battuto perché Logi è una fiamma viva: divora in un lampo la sua parte di cibo, il piatto e persino il tavolo. Þórr viene sfidato a lottare contro una vecchia gigantessa, che in realtà è Elli, la vecchiaia; a svuotare con un sorso un corno che però attinge nell'oceano; ed a sollevare un gatto che è Jǫrmungandr, il serpente che circonda il mondo; dato che le prove sono «truccate», anch'egli non darà buona prova di sé. (Gylfaginning [45-47]).

Ora, la maggior parte degli studiosi è persuasa che Loki sia tutt'uno con Útgarðaloki, il «Loki dei recinti esterni», nonostante che Snorri li tratti come fossero personaggi distinti e li fa comparire insieme nella medesima scena. L'ipotesi è in parte giustificata da una grottesca vicenda che il cronista danese Saxo Grammaticus (1150-1220), contemporaneo di Snorri, narra nel suo Historia Danorum. I racconti di Saxo sono fortemente evemerizzati: la mitologia è adattata alle necessità della cronaca storica; cangiata in una narrazione ibrida, piatta, che non ha più né la suggestione del mito, né la verosimiglianza della realtà. Ed è solo per via del curioso diminutivo che riconosciamo in Thorkillus una versione storicizzata dello stesso dio Þórr.

Secondo Saxo, Thorkillus è un marinaio islandese, agli ordini del re danese Gormo. Sobillato dai suoi consiglieri, che in realtà vogliono la morte di Thorkillus, re Gormo lo invia in un pericolosissimo viaggio verso i confini del mondo, affinché domandi al dio Utgarthilocus quale sarà la sua dimora ultraterrena, dopo la morte. Thorkillus naviga per giorni, finché la sua nave si ritrova ad avanzare sotto un cielo privo di sole e di stelle, avvolto in una notte perpetua. Una volta esaurita la legna, Thorkillus e i suoi compagni non possono più accendere il fuoco, e sono costretti a consumare crudo il loro cibo; ciò provoca nei marinai violenti malesseri. D'un tratto, essi vedono guizzare da lontano una fiamma e, sbarcati in una «terra oltremondana» [extramundanum clima], arrivano a un fuoco alimentato da due giganteschi aquili. Le strane creature forniscono il fuoco a Thorkillus e lo avvertono che dovrà navigare ancora quattro giorni prima di arrivare alla dimora di Utgarthilocus. Thorkillus si rimette in mare e, nel tempo stabilito, sbarca su una nuova isola, brulla e dirupata. Il buio è pressoché totale e, accese delle fiaccole, gli uomini penetrano all'interno di una caverna. Da ogni parte, si rilevano ai loro occhi seggi di ferro, alternati da fitti grovigli di serpenti. Attraversato un fiumiciattolo, gli uomini giungono in una sala tenebrosa e ripugnante...

Intra quod Utgarthilocus manus pedesque immensis catenarum molibus oneratus aspicitur, cuius olentes pili tam magnitudine quam rigore corneas aequaverant hastas. Quorum unum Thorkillus, adnitentibus sociis, mento patientis excussum, quo promptior fides suis haberetur operibus, asservavit; statimque tanta foetoris vis ad circumstantes manavit, ut nisi repressis amiculo naribus respirare nequirent. Dentro quella sala si vedeva Utgarthilocus, con i piedi e le mani carichi di enormi catene; i suoi peli maleodoranti erano simili, per grandezza e durezza, a rami di corniolo. Con l'aiuto dei suoi compagni, Thorkillus ne strappò uno a Utgarthilocus, senza che questi opponesse la minima resistenza, e lo conservò per ottenere una più immediata credibilità delle sue fatiche. Subito si sparse tutt'intorno un fetore talmente acuto che, se non si fossero coperti il naso con il mantello, non sarebbero stati capaci di respirare...
Saxo Grammaticus: Historia Danorum [VIII: xv, 8]
Thorkillus e Utgarthilocus (1898)
Louis Moe (1857-1945)

Thorkillus e i suoi compagni fuggono, mentre fitti nuguli di serpenti lasciano piovere sopra di loro sputi velenosi: a chi consumano un braccio, a chi staccano la testa, a chi bruciano gli occhi. I marinai riescono a tornare alla nave e salpare. In quanto a Thorkillus, è tale la ripugnanza che gli ha ispirato l'incontro con quel dio pagano, puzzolente e incatenato, che si converte al cristianesimo...

Il racconto di Saxo Grammaticus, per quanto alterato, ha conservato – quasi dei fossili viventi – sia il duplice tema del sequestro e della riconquista del fuoco, sia la presenza dei due animali collegati ai miti prometeici: l'aquila (che Saxo declina al maschile, aquilus), qui trattata come un troll o gigante, e il serpente, moltiplicato in una legione di velenosissimi rettili.

Confrontando il testo di Saxo con l'episodio mitico fornito da Snorri, si può ipotizzare l'esistenza di un racconto ancora più antico nel quale Þórr (o un suo equivalente) arrivava nel luogo, ai confini del mondo, dove Loki giaceva incatenato. È molto probabile che questo luogo fosse proprio Útgarðr, il «recinto esterno», posto fuori dal mondo abitato, così come il Caucaso rappresentava per i Greci l'ultimo lembo disabitato della terra.

È possibile che, in questo contesto, Loki fosse appunto chiamato Útgarðaloki, il «Loki del recinto esterno». Ma perché troviamo proprio Þórr al cospetto di Loki incatenato?

Nella vicenda descritta da Saxo, re Gormo è divorato dalla curiosità di comprendere i fenomeni e i segreti della natura, e invia Thorkillus nei luoghi più lontani del mondo affinché soddisfi il suo desiderio di conoscenza. Mutatis mutandis, non si può non pensare all'eroe greco per eccellenza, Hērakls, che re Eurystheús spedisce in continui viaggi dall'uno all'altro capo della terra, alla ricerca delle creature e degli oggetti più favolosi. Inoltre, alla malevolenza dei consiglieri di Gormo, che spingono il re a inviare Thorkillus in un viaggio senza ritorno, corrisponde la segreta speranza di Eurystheús, che Hērakls finisca per venire ammazzato in qualche suo érgon, o «fatica». Le due situazioni, almeno a livello narrativo, si equivalgono, e non si può escludere che Saxo si fosse ispirato, in maniera più o meno esplicita, al mito greco. In realtà, il racconto danese contiene un gran numero di corrispondenze al mitema del prometeo incatenato, da far pensare che il «plagio» sia avvenuto in epoca assai più antica, e che Saxo si sia limitato a intervenire solo a un livello successivo.

Uno degli érga più interessanti svolti da Hērakls è l'undicesimo: quello relativo ai i pomi delle Hesperídes. Questa «fatica» non è un semplice episodio nella sterminata biografia dell'eroe, ma un racconto completo e complesso, che meriterebbe un apposito studio monografico: ci limiteremo per ora a riferire i dati necessari per il nostro studio.

Quando Eurystheús gli ordina di portargli i favolosi pomi dell'immortalità, Hērakls si mette subito in viaggio ma, non avendo alcuna idea di dove si trovi il giardino delle Hesperídes, autentico mito nel mito, e si muove alla ricerca di qualcuno che possa indicargli la strada. Dopo aver risalito i Balcani, attraversato l'Eridano (il fiume Po) ed essere sceso in Libia, Hērakls torna indietro verso l'Egitto e giunge in Arabia. A quel punto, tornato verso nord, l'eroe solca il Mar Caspio – che la geografia mitica considera la sponda orientale del fiume Ōkeanós –, ascende le vette del Caucaso e qui scorge Promētheús, stagliato contro la roccia, appesantito dalle catene. Con il permesso di Zeús, Hērakls uccide l'aquila con un colpo di freccia e rende la libertà al titán.

 

[Hērakls], dopo essere passato nel continente antistante, sul Kaúkasos trafisse l'aquila, figlia di Échidna e Typhn, che rodeva il fegato di Promētheús. Così liberò Promētheús...
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 11]
Athēnâ, Hēraklês, Átlas (456 a.C.)
Metopa dal Tempio di Zeús, Olympia.
Si noti la leggerezza con cui Athēnâ aiuta Hēraklês a sostenere il peso del cielo.

Grato, Promētheús fornisce ad Hērakls tutte le dritte necessarie per portare a termine la sua impresa. Gli rivela dove sia il giardino delle Hesperídes, e anche come procurarsi le mele, protette dal serpente Ládōn. L'eroe si rimette in marcia, diretto a nord, verso la terra degli Hyperbóreoi, e giunge al cospetto di Átlas, il fratello di Promētheús, immobile, gravato dal peso del cielo.

Seguendo i consigli di Promētheús, Hērakls chiede ad Átlas di cogliere per lui le mele nel giardino; nel frattempo sosterrà il cielo in sua vece. Átlas accetta, lieto di scrollarsi quel peso cosmico dalle spalle. E mentre Hērakls si carica dell'intera sfera celeste, il titán torna recando tre mele. A questo punto, Átlas pretende che Hērakls continui a reggere il cielo al suo posto, mentre lui porterà le mele a Eurystheús.

Hērakls finge di accettare, ma prega Átlas che sostenga il cielo ancora per qualche minuto, lasciandogli il tempo di sistemarsi una benda attorno al capo. Ingenuamente, Átlas depone a terra le mele e riprende sulle spalle la sfera celeste. Ma Hērakls raccoglie le mele e, lasciandolo lì, riprende la strada del ritorno.

Subito dopo aver riferito questa curiosa vicenda, Apollódōros aggiunge, quasi per un ripensamento, una variante meno interessante, ma evidentemente non tanto «minore» da poter essere ignorata:

 

Altri tuttavia dicono che Hērakls non ebbe i pomi da Átlas, ma che li colse egli stesso, dopo aver ucciso il serpente [Ládōn] che li custodiva.
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 11]

Ed è proprio grazie allo scrupolo di Apollódōros, se disponiamo del percorso che collega Promētheús ad Átlas, l'aquila al serpente. La composizione dei titânes incatenati e delle loro fiere (e sia l'aetós kaukasíos che il drákōn hespérios sono stati entrambi eliminati da Hērakls) ha assunto una distribuzione simmetrica, e non può essere né un caso, né una trovata di Apollódōros, ché l'erudito mitografo non aveva gli strumenti di correlazione a cui noi ci stiamo affidando.

Inoltre, il mito della mancata liberazione di Átlas ricorda irresistibilmente le varianti caucasiche dove Amirani chiede a un viandante di liberarlo dal luogo dov'è incatenato, senza che costui vi riesca. È abbastanza curioso che, sebbene il mito greco liberi Promētheús – ed è l'unico dei nostri eroi incatenati a venire graziato –, la condanna viene trasferita su suo fratello Átlas, che continua a rimanere immobile al suo posto, a sorreggere il cielo «ritto, con la testa e le braccia instancabili» [hestēṑs kephal te kaì akamátēısi chéressin] (Theogonía [, ]).

Ci chiediamo cosa abbiano in comune Hērakls e Thorkillus (Þórr), questi errabondi visitatori dei prometei incatenati. Ovvio, sono due figure omologhe, gli esiti ellenico e germanico dell'antico dio-tuono indoeuropeo. Inesausti viaggiatori, Hērakls e Þórr girano il mondo per abbattere, a colpi delle loro armi funzionali, rispettivamente una clava e un martello, i mostri e giganti che minacciano l'ordine cosmico. La loro affinità era ben nota anche nel mondo classico: anche Tacitus li identifica (Germania [9]). Appartengono al medesimo mitema molti altri personaggi tratti da tutte le regioni del dominio indoeuropeo, e possiamo citare l'anatolico Tarḫunta, l'indiano Indra, il celtico Taranis, il baltico Perknas/Pērkons, lo slavo Perunŭ, e via dicendo, tutti personaggi disegnati a partire da una comune figura mitologica, la cui origine affonda nella più remota antichità.

Ma qual è esattamente il loro rapporto con il prometeo incatenato?

UN'ORIGINE INDOIRANICA?

Fermiamoci qui, sulla cima del Gran Caucaso, come eracli affaticati, e guardiamoci intorno. Ecco la «montagna delle lingue», con il suo inestricabile viluppo di popoli, e i mille rivoli narrativi del campione incatenato: Amirani, Abrysk’yl, Teʒau Nesren... Dal Caucaso ci siamo rivolti dapprima ad est, verso la Grecia, dove Promētheús è stato punito per aver tentato di ingannare il re degli dèi; poi ci siamo spostati a nord, in Scandinavia, per fare conoscenza con lo sgradevole Loki; e infine abbiamo dato un'occhiata proprio qui, nell'Ossezia, dove Syrdon ne starà sicuramente architettando un'altra delle sue. Promētheús, Loki, Syrdon: tre imprevedibili imbroglioni, ricchi di astuzie e di malizie.

Ma ora voltiamoci, e giriamo il nostro sguardo verso sud, dove, all'ombra del monte Ararat, l'Armenia ha custodito la cupa storia di Artawazd. E poi ancora più a sud, dove s'innalzano i poderosi altopiani dell'Īrān. Laggiù pulsa il cuore di una delle più potenti e organizzate nazioni della storia, l'impero persiano. Achemenidi, Selelucidi, Parti, Sassanidi: per oltre due millenni, l'ombra iranica non ha smesso di incombere sull'Armenia e sul Caucaso, e anche sul Medio Oriente, e addirittura sulla Grecia. Paese dalla cultura raffinata, sofisticata in tutte le sue espressioni letterarie e artistiche, profonda nelle speculazioni religiose e filosofiche, l'Īrān ha influenzato il Caucaso – e in realtà tutto l'occidente – in più modi di quanti si possano immaginare.

Com'è noto, Īrān e India affondano le loro radici in un comune retroterra culturale, che è a sua volta uno dei rami della grande diaspora indoeuropea. Nonostante la sua complessità e ricchezza, la tradizione indoiranica non si presenta però così trasparente, così facilmente penetrabile alle analisi degli studiosi. I testi più antichi, quali il Ṛgveda o l'Avestā, sono piuttosto criptici: si limitano ad accennare a questo o quel mito nel corso di interminabili invocazioni, e gli studiosi sono costretti a interpretare le loro laconiche allusioni attraverso i dati forniti dalla letteratura più tarda, sempre diversamente sviluppata, adattata, deformata. Aggiungiamo poi il singolare destino a cui è andato incontro il pensiero mitico nei due paesi. L'India non ha smesso di sviluppare la propria mitologia, sia in senso filosofico che religioso, rielaborandola nelle Upaniṣad, nei Brāhmaṇa e nella letteratura epica, fino ad arrivare alla moderna «sommatoria» dell'Induismo. In Īrān, la riforma religiosa operata da Zaraθuštra ha smontato e ricostruito l'intero patrimonio mitologico secondo un sistema essenzialmente dualista, dove spazio e tempo divengono i luoghi dialettici del confronto/scontro tra lo spirito del bene Ahura Mazdāh e quello del male Aŋra Mainyu. L'alterazione iranica è stata talmente radicale che gli antichi dèi indoiranici (daēvā) sono stati ribaltati in dèmoni nel sistema zoroastriano: e come orribili devebi li abbiamo ritrovati nel Caucaso, a combattere contro Amirani.

Sulla scolta dei primi studi indoeuropeistici, nell'Ottocento, gli studiosi si affannarono a cercare tracce di Promētheús nella mitologia indiana, nell'indifferenza – o nell'aperta ostilità – dei classicisti. A furia di rivoltare la sterminata letteratura sanscrita, finirono infine per trovare una coppia di fratelli chiamati Manthu e Pramanthu, subito considerati dei prototipi di Epimētheús e Promētheús (Graves 1955). Senonché i due nomi compaiono in un'unica fonte, che è una semplice genealogia:

madhoḥ sumanasi vīravratas Nel grembo di Sumanā, Madhu generò Vīravrata.

tato bhojāyāṁ manthu-pramanthū jajñāte

Nel grembo di Bhoja, Vīravrata generò Manthu e Pramanthu.
manthoḥ satyāyāṁ bhauvanas Nel grembo di Satyā, Manthu generò Bhauvana...
Śrīmad Bhāgavatam [V: 15: -]

E non c'è davvero nulla che permetta di collegare questi Manthu e Pramanthu ai nostri Epimētheús e Promētheús, se non una vaga rassomiglianza dei nomi e un semplice rapporto di fratellanza. Sebbene questa si rivelasse una pista poco fruttuosa, gli indologi notarono subito che, in sanscrito, pramantha è il nome dell'asticella verticale del trapano da fuoco, la quale, sfregata contro un'esca, permette di accendere una fiamma. L'immagine di Promētheús che porta il fuoco, rubato agli dèi, nel cavo di una canna, assumeva d'un tratto nuovi significati.

Nella seconda metà dell'Ottocento, il filologo Adalbert Kuhn (1812-1881), iniziatore di una scuola di studi mitologici basati sulla filologia comparativa, ipotizzò che proprio dal verbo sanscrito ma(n)thati, nel significato di «predare», si fosse sviluppato il greco manthánō «imparare», visto come istruzione compiuta appropriandosi del sapere altrui. Il nome di Promētheús si sarebbe formato, secondo Kuhn, da una polisemia tra le parole sanscrite pramātha «rapina» e pramantha «asticella del trapano da fuoco» (Kuhn 1886). Sebbene avversatissima dai classicisti, questa ipotesi ebbe vita lunga, tanto che, settant'anni dopo, nel suo lessico antico-indiano, l'indologo Manfred Mayrhofer trovava «credibile» il collegamento tra il sanscrito pra-math- (nel significato di «predare») e il greco Promētheús, dorico Promatheús (Mayrhofer 1956). Il mitologo-poeta Robert Graves non si faceva scrupolo di derivare direttamente il greco dal sanscrito, affermando – in spregio a ogni verosimiglianza glottologica – che il nome di Promētheús «ebbe forse origine da un'errata interpretazione greca della parola sanscrita pramantha, indicante la svastica o fiaccola che, si dice, Promētheús avrebbe inventato» (Graves 1955).

In questo studio, pur non negando l'interesse della pseudo-etimologia Promētheús/pramantha, preferiamo seguire piste diverse.

E notiamo subito che la mitologia iranica conosce un personaggio che condivide il fato di tutti i prometei, quello di venire incatenato. È Ẓaḥḥāk, un antico sovrano che, secondo la leggenda cantata da Ferdowsī nello Šāhnāmeh o «Libro dei re» (composto tra il 977 e il 1010), tiranneggiò l'Īrān per mille anni. Di origine araba, e quindi con tutto il peso ideologico dell'ancora recente conquista della Persia, Ẓaḥḥāk governava con una ferocia e una crudeltà eccessive persino secondo i canoni dei satrapi orientali. Due orrendi serpenti gli spuntavano dalle spalle e, per acquietarli, il re dava loro in pasto, ogni giorno, il cervello di due ragazzi. Ẓaḥḥāk venne poi sconfitto dall'eroe Fereydūn. Trascinato tra le cime dell'Elborz, fu incatenato sulla loro vetta più alta, il monte Damāvand.

Ma questo sgradevole personaggio era già presente nell'Avestā e nei più antichi libri sacri zoroastriani sotto il nome di Aži Dahāka, dove era considerato una delle più malvagie creature appartenenti alla schiera di Aŋra Mainyu.

ažīm dahākǝm θrizafanǝm θrikamǝrǝδǝm xṣvaš-aṣīm hazaṅrā-ýaoxštīm ašaoǰaṅhǝm daēvīm druǰǝm aγǝm gaēθāvyō drvaṇtǝm ýãm ašaoǰastǝmãm druǰǝm fraca kǝrǝṇta aṅrō mainyuš aoi ýãm astvaitīm gaēθãm mahrkāi aṣahe gaēθanãm. Aži Dahāka dalle tre teste, dalle tre possenti mascelle, dai sei terrificanti occhi, dai mille sensi e dalle mille capacità, una druǰ, un daēva mentitore, nemico dei nostri insediamenti, un dèmone che il malvagio spirito Aŋra Mainyu aveva creato come il più potenti tra le druǰ [contro il mondo materiale] per distruggere i nostri insediamenti e trucidare i seguaci di Aša!
Avestā > Yasna [9: -]

Descritto come un orribile tricefalo, Aži Dahāka viene sconfitto dall'eroe Θraētaona (Fereydūn). I libri dell'Avestā non aggiungono altro sul destino di questo sgradevole personaggio, e sono i testi pahlavici, composti più di mille anni dopo, a confermare che Aždahag (Ẓaḥḥāk) venne effettivamente incatenato sul monte Damāvand da Frēdōn (Fereydūn). Il mito pahlavico è pure completato con un degno finale escatologico. Si dice che, all'inizio del millennio di Ušēdarmāh, quando il tempo stabilito per la storia del il confronto tra gli spiriti del bene e del male sarà ormai esaurito, Azdahāg spezzerà le sue catene, nel tentativo di divorare il mondo, con tutte le sue creature e l'intero genere umano. Secondo un testo apocalittico redatto tra il IX e il X secolo, sarà l'eroe Keresāsp (l'avestico Kǝrǝsāspa), riportato in vita da Ōhrmazd (Ahura Mazdāh), a scontrarsi con Azdahāg, uccidendolo prima che distrugga l'universo (Zand ī Wahman Yasn [9]).

 

In Scandinavia, Loki appare come un personaggio ambiguo, adesso utile agli dèi, adesso dannoso, ma la decisa negatività del suo ruolo si chiarisce soltanto nel ragnarǫk, quando assume un senso definitivo. L'Īrān, nel suo eccessivo dualismo, non è in grado di gestire tali sfumature, e Aži Dahāka non può che mostrarsi in ogni momento ciò che realmente è: un rappresentante della druǰ, unicamente interessato alla distruzione della terra e del genere umano. È malvagio in ogni momento, sebbene si scatenerà soltanto in un futuro apocalittico. Questa tema escatologico è molto importante, per quanto andrebbe meglio analizzato nel contesto delle idee zoroastriane del tempo e della storia. Può avere influenzato le concezioni armena e caucasica del prometeo incatenato, la cui liberazione segnerà l'abbattimento dell'ordine cosmico e la fine del mondo come lo conosciamo, oppure il ristabilimento della situazione primordiale.

Se l'India non conosce il mitema dell'incatenato, ha comunque una vicenda analoga a quella greca della titanomachia. Ma Deva e Asura non sono direttamente comparabili a Titânes e Olýmpioi. A dirla tutta, le relazioni reciproche tra le due classi di divinità indiane sono non ben definibili. Nella tradizione vedica, Deva e Asura sono posti a un medesimo livello, due gruppi di divinità ugualmente discesi da Prajāpati. Nel Ṛgveda, la differenza è funzionale: gli Asura presiedono al principi morali e sociali (Varuṇa è il guardiano della ṛta, l'ordine cosmico, Aryaman dei matrimoni, etc.), mentre i Deva presiedono perlopiù alle forze e ai fenomeni naturali (Indra personifica il tuono, Vāyu il vento, Uṣas l'alba, etc.). È solo nelle speculazioni successive che gli Asura acquistano qualità negative. La tendenza si intravede già nei Brāhmaṇa; nella Bhagavadgītā, gli Asura vengono descritti come esseri presuntuosi, rissosi e ignoranti; nei Purāṇa divengono del tutto malvagi, affini ai dèmoni. Nel corso della sterminata letteratura indiana, la competizione tra Deva e Asura – definita in sanscrito daivāsura – assume una moltitudine di aspetti divergenti. Nei testi epici è descritta nei termini di uno scontro apocalittico (Doniger 1975 | Panikkar 1977).

Abbiamo analizzato altrove la versione indiana della titanomachia ②. Se ne accenniamo in questa sede, è soltanto perché, nei miti prometeici – tranne in quelli caucasici che fanno classe a sé – il prometeo-imbroglione accede al pántheon provenendo dalla schiera nemica. Prometheús è un titán, Loki uno jǫtunn. Poiché ora siamo in India, ci aspettiamo di trovare un imbroglione che arrivi dalla schiera degli asura.

Un caso emblematico potrebbe essere rappresentato da Viśvarūpa, il figlio del divino architetto Tvaṣṭṛ. È detto Triśiras, il «tricefalo», in quanto – proprio come Aži Dahāka – è dotato di tre teste e, soprattutto, di tre bocche. Il mito della sua uccisione, eseguita con il concorso di Indra (ne vedremo altrove le particolarità), viene narrata già in Ṛgveda [X, 8]. I Brāhmaṇa sviluppano il suo mito in maniera piuttosto interessante.

Nonostante sua madre sia di stirpe asura, Viśvarūpa viene accolto tra i deva come sacerdote officiante [purohita]. Ed è anche un sacerdote molto efficiente, che compie da solo il lavoro di tre, in quanto con le tre teste canta, loda e recita contemporaneamente. Trovandoci in India, la capacità intellettiva, la mtis prometeica, viene sostituita dall'esasperazione delle capacità sacerdotali. Ma anche Viśvarūpa è un individuo astuto e perverso, e ha il brutto vizio di speculare sulle offerte sacrificali. Elargisce pubblicamente ai deva la parte che loro assegnata, ma passa di nascosto ampie porzioni agli asura. Insomma, Viśvarūpa non solo detiene il medesimo ruolo assegnato a Promētheús al banchetto di Mēkṓnē, ma agisce sottobanco nella stessa maniera ingannevole e disonesta.

 

Pubblicamente [Viśvarūpa] promise una porzione [del sacrificio] ai deva, ma in segreto agli asura, perché si promette in segreto a colui che si preferisce. Indra ebbe paura, perché il figlio di Tvaṣṭṛ era figlio di una asura, e perché era molto potente. Allora Indra disse: «È demoniaco questo figlio di una asura, e parla in segreto a favore dei dèmoni. Devo ucciderlo». E con la folgore tagliò le teste di Viśvarūpa.
Jaiminīya Brahmaṇa [II, -]

Il mito viene raccontato nei dettagli, e con molte interessanti variazioni, nel Mahābhārata, dove dal corpo abbattuto di Viśvarūpa sorge il serpente Vṛtra, deciso a distruggere Indra. Secondo altri testi, è invece Tvaṣṭṛ a creare questo serpente... ma ora stiamo allontanandoci dal nostro tema.

Il problema, è come considerare Viśvarūpa. Siamo arrivati a lui attraverso la caratteristica della tricefalia, partendo da Aži Dahāka. Detto questo, gli elementi che Viśvarūpa condivide con il mitema prometeico sono secondari (arrivo tardivo nel pántheon, imbroglio nel sacrificio, accesa volontà di distruzione), e manca del tutto il tema dell'incatenamento. Si può sicuramente parlare di analogie: difficile imbastire omologie convincenti. Anche perché Viśvarūpa/Triśiras appartiene a buon diritto un altro mitema: quello del tricefalo.

Stiamo parlando di una classe ben nota di miti indoeuropei, incentrati dalla lotta del dio-tuono, o di un suo sodale eroico, con un avversario tricefalo o triplice. Al riguardo sono stati composti studi piuttosto dettagliati, che non è ora il caso di approfondire ③. È dunque possibile che i temi «prometeici» qui segnalati riguardo a Viśvarūpa/Triśiras siano soltanto delle somiglianze accessorie, oppure elementi ereditati da personaggi più antichi. Quali? Difficile dirlo. Si può pensare ad esempio all'asura Namuci, la cui relazione con Indra ricorda il patto di sangue tra Loki e Óðinn, sebbene anche qui sia assente il tema dell'incatenamento.

Ma anche Aži Dahāka appartiene alla classe dei tricefali: gli studiosi hanno sottolineato profonde differenze tra il suo mito e quello di Viśvarūpa/Triśiras (si confronti Yašt [5:  | 14: ] con Ṛgveda [X, 8, -]) (Benvéniste ~ Renou 1934 | Dumézil 1968). Ma di questi tricefali indoiranici, Aži Dahāka è il personaggio in cui i temi prometeici appaiono più evidenti, a partire dall'incatenamento fino alla sua liberazione escatologica. Si noti che il personaggio era ben conosciuto in Armenia nel V secolo: nella sua monumentale cronaca storica, Movsēs Xorenac‘i fornisce sia la leggenda persiana (straordinariamente vicina al racconto di Ferdowsī, sebbene precedente di oltre mezzo millennio) (Hayoc‘ Partmowt‘yown [I, α-β]), sia la versione armena, opportunamente storicizzata, dove Aždahak è un sovrano medo che si allea con re Mec Tigran, sposandone la sorella, ma complotta contro di lui e viene ucciso (Hayoc‘ Partmowt‘yown [I: 24-29]). Nella leggenda armena, però, il tema dell'incatenamento non riguarda Aždahak; come abbiamo visto, a venire incatenato sarà un discendente dello stesso Tigran, il ribelle principe Artawazd.

È piuttosto arduo definire tutti gli addentellati di questo complesso gioco di miti. Tutto quello che possiamo sostenere è che, in qualche fase nello sviluppo della mitologia indoiranica, il mitema del tricefalo è stato caratterizzato da alcuni temi prometeici. Questi sono attestati in Īrān; meno evidenti in India. Impossibile definire l'epoca e l'ordine di tali sviluppi: l'esito iranico ha sicuramente influenzato il mondo armeno e caucasico, sebbene in queste due aree siano rimaste profonde differenze: segno di un'eredità più antica, o innovazioni recenti?

Miti: [Promētheús incatenato. Il furto del fuoco]►
Miti: [Titanomachia > Daivāsura. La guerra dell'immortalità]►
Studi: [Il tricefalo e il serpente]►

IL TEMA ESCATOLOGICO

A lungo rinviata, la liberazione di Promētheús si realizza finalmente, nel mito greco, allorché l'eroe Hērakls sale sui monti del Caucaso, uccide l'aquila con un colpo di freccia e rende la libertà al titán incatenato. Il mito, argomento della perduta tragedia Promētheús Lyómenos di Aischýlos, è già presente in Hēsíodos:

Tòn mèn ár’ Alkmḗnēs kallisphýrou álkimos hyiòs
Hērakléēs ékteine, kakḕn d’ apò noûson álalken
Iapetionídēı kaì elýsato dysphrosynáōn
ouk aékēti Zēnòs Olympíou hypsimédontos...
La uccise [l'aquila] il prode figlio di Alkmḗnē dalle belle caviglie,
Hērakls, che allontanò dalla sciagura
il figlio di Iapetós e lo liberò dai tormenti;
tutto questo non contro il volere di Zeús che alto regna sull'Ólympos...

Hēsíodos: Theogonía [-]

...e confermata, tra gli altri, da Apollódōros:

 

[Hērakls], dopo essere passato nel continente antistante, sul Caucaso trafisse l'aquila, figlia di Échidna e Typhn, che rodeva il fegato di Promētheús. Così liberò Promētheús...
Apollódōros: Bibliothḗkē [II: 11]

Un frammento di Aischýlos afferma, esagerando, che Promētheús era rimasto incatenato per trentamila anni; Hyginus stabilisce, minimizzando, che le sue pene non durarono che trent'anni (Fabulae [54 | 144]). Ma tutte le fonti classiche concordano che il titán venne liberato da Hērakls (cfr. Diódōros Sikeliṓtēs (Bibliothḗkē Historikḗ [IV: 15, ]); Pausanías (Periḗgēsis [V: 11, ]); Hyginus (De Astronomia [II: 15]), etc.). Non vi sono indicazioni di versioni alternative. Alcuni fonti, ricordando che Zeús aveva decretato che Promētheús non sarebbe mai stato liberato dai ceppi, aggiungono che il titán, per non infrangere la parola del dio supremo, dovette da allora portare al dito un anello fatto con il ferro delle proprie catene.

Hērakls libera Promētheús (610 a.C.)
Cratere attico. Museo Archeologico Nazionale, Atene (Grecia)

Questa pacifica liberazione di Promētheús è evidentemente un'innovazione del mito greco. Tutti gli altri prometei qui esaminati sono infatti destinati a rimanere incatenati. La loro liberazione, continuamente differita secondo le modalità previste dai vari miti, è destinata ad attuarsi solo alla fine del mondo. Come abbiamo visto, l'atteggiamento dei fruitori del mito è piuttosto diverso caso per caso. Gli Abxasi attendono la liberazione di Abrysk’yl con trepidazione: l'eroe sconfiggerà tutti i nemici dell'Abxasia e ricondurrà il paese alla felice età dell'oro dei primordi; gli Armeni pagani hanno un analogo atteggiamento nei confronti di Artawazd, che dovrà regnare su un mondo restaurato ai valori precristiani. Questi due schemi vanno considerati, con ogni probabilità, ricostruiti secondo il mitema nazionalista dell'eroe dormiente, estraneo all'ideologia del mito prometeico.

Riguardo ad Amirani, Georgiani e Svaneti hanno un atteggiamento più ambiguo. Come ha notato Charachidzé, l'eroe desta la simpatia e la partecipazione del popolo, il quale però si assicura che rimanga ben legato nella sua grotta. I fabbri georgiani picchiano sulle loro incudini ogni giovedì santo, in modo che le catene dell'eroe rimangano ben salde e lo tengano imprigionato al suo posto. Secondo lo studioso franco-georgiano, la liberazione di Amirani corrisponderebbe alla fine dell'ordine imposto dal dio supremo Ḡmerṫi e al ritorno a uno stadio pre-civile, prefigurato dall'ideologia propugnata dallo stesso Amirani: un guerriero solitario in lotta contro qualsiasi forma di vita (Charachidzé 1986¹).

L'incatenamento di Promētheús, in Grecia, è legato al passaggio dell'umanità dallo stato primordiale al mondo così come lo conosciamo, voluto in questo caso da Zeús come punizione per gli inganni di Promētheús e il furto del fuoco, punizione ereditata da tutti gli esseri umani ①. Nel mondo scandinavo, Loki viene punito per aver ucciso Baldr, dio della giustizia e della pace, e aver conseguentemente provocato il crollo etico dell'umanità. Lo stato del mondo che segue all'uccisione di Baldr, e che prelude alla catastrofe finale, è descritto dal poema eddico Vǫluspá con parole e termini che appartengono, in fondo, alla tradizione universale:

Bræðr munu berjask
ok at bǫnum verðask,
munu systrungar
sifjum spilla,
hart 's í heimi,
hórdómr mikill,
skeggǫld, skalmǫld,
skildir klofnir,
vindǫld, vargǫld,
áðr verǫld steypisk
mun engi maðr
ǫðrum þyrma.
Si colpiranno i fratelli
e l'un l'altro si daranno la morte;
i cugini spezzeranno
i legami di parentela;
crudo è il mondo,
grande l'adulterio.
Tempo d'asce, tempo di spade,
gli scudi si fenderanno,
tempo di venti, tempo di lupi,
prima che il mondo crolli.
Neppure un uomo
un altro ne risparmierà.
Ljóða Edda > Vǫluspá [45]

Il mondo scandinavo, che presenta un'escatologia piuttosto complessa, ha uno dei suoi motori proprio nella liberazione di Loki dalla sua prigione. L'evento finale, in questo sistema mitico, è il ragnarǫk o ragnarøkr, il «destino [tramonto] delle potenze divine», termine tecnico per indicare la battaglia escatologica che metterà fine tanto agli dèi quanto al mondo. Essa sarà causata allorché, le potenze eversive, esiliate ai confini dello spazio, si libereranno e attaccheranno l'ordine istituito e garantito dagli dèi. Il principale nemico è Loki: è la sua liberazione dalla prigione sotterranea a segnare l'inizio del ragnarǫk. Con lui vi sono i suoi due tremendi figli: il lupo Fenrir e il serpente Jǫrmungandr, i quali si uniscono alla spaventosa armata degli Jǫtnar, o giganti di brina, e marceranno contro l'esercito degli dèi per l'ultima battaglia.

Le battaglie escatologiche, a cui accenna la Vǫluspá, sono descritte in dettaglio da Snorri in Gylfaginning [51]. Il lupo Fenrir ingoierà Óðinn, ma poi, allorché minaccerà di divorare l'universo, verrà ucciso dal dio Víðarr. Il serpente Jǫrmungandr scuoterà le acque dell'oceano, che inonderanno il mondo, sterminando l'umanità: Þórr scenderà a contrastarlo ma entrambi morranno nello scontro. In quanto a Loki, dice Snorri, si batterà con il dio Heimdallr, e nessuno dei due sopravvivrà. Per ultimo, giungerà Surtr in testa all'armata dei Múspells megir, i giganti di fiamma provenienti dal Múspellsheimr: nelle fiamme ecpirotiche arderà l'intero universo.

Non è ora il caso di entrare nei dettagli di questo grandioso affresco: dobbiamo sforzarci di seguire il filo prometeico. Il mito scandinavo è esplicito: la distruzione finale è propedeutica alla nascita di un nuovo mondo, al ristabilimento dell'età dell'oro. Patrono di questa nuova età sarà proprio Baldr, il figlio di Óðinn di cui Loki aveva causato la morte. Esiliato nel regno di Hel per tutto il corso della storia umana, egli ritornerà insieme al cieco fratello Hǫðr, e stabilirà un regno felice. Così Snorri descrive questo futuro stato edenico:

Upp skýtr jǫrðunni þá ór sænum ok er þá grǿn ok fǫgr, vaxa þá akrar ósánir. [...]. Því næst koma þar Baldr ok Hǫðr frá Heljar, setjask þá allir samt ok talask við ok minnask á rúnar sínar ok rǿða of tíðindi þau er fyrrum hǫfðu verit, of Miðgarðsorm ok um Fenrisúlf. La terrà emergerà dal mare e sarà allora verde e bella. I campi cresceranno senza esser stati seminati. [...]. Arriveranno anche Baldr e Hǫðr da Hel, allora tutti siederanno insieme e converseranno, ricorderanno la loro arcana sapienza e parleranno degli avvenimenti accaduti prima, del Miðgarðsormr e del lupo Fenrir.
  Snorri: Prose Edda > Gylfaginning [53]

In Grecia, non troviamo nulla di tutto ciò, almeno in apparenza. Sebbene il mito esiodeo presenti un doppio passaggio di consegne nella regalità divina (da Ouranós a Krónos, quindi da Krónos a Zeús), il regno di Zeús viene percepito come immutabile ed eterno. In un passo, Hēsíodos allude a un futuro crollo morale dell'umanità, seguito dalla fine del mondo (Érga kaì Hēmérai [-]), con parole quasi identiche a quelle della vǫlva nordica, sebbene non vi sia alcun legame con il mito di Promētheús, e soprattutto non venga mai messa in discussione la regalità di Zeús.

Se dunque, nel mondo nordico, la liberazione di Loki è legata, oltre che al motivo della fine del mondo, a un passaggio di consegne nella suprema regalità, da Óðinn a Baldr, nel mondo greco la regalità di Zeús sembra non subire scosse. Ma è davvero così? La risposta, inaspettatamente, è no. Ed è proprio Aischýlos a seminare questi dubbi. Il suo Promētheús, incatenato alle vette del Caucaso, così grida rivolto al cielo:

È mḕn éti Zeús, kaíper authádēs phronn,
éstai tapeinós, hoîon exartýetai
gámon gameîn, hòs autòn ek tyrannídos
thrónōn t' áiston ekbaleî. patròs d' arà
Krónou tót' ḗdē pantels kranthḗsetai,
hḕn ekpítnōn ērâto dēnain thrónōn.
toinde móchthōn ektropḕn oudeìs then
dýnait' àn auti plḕn emoû deîxai saphs.
egṑ tád' oîda ch trópōi. pròs taûta nŷn
tharsn kathḗsthō toîs pedarsíois ktýpois
pistós, tinássōn t' en cheroîn pýrpnoun bélos.
oudèn gàr auti taût' eparkései tò mḕ ou
peseîn atímōs ptṓmat' ouk anaschetá.
toîon palaistḕn nŷn paraskeuázetai
ep' autòs hauti, dysmachṓtaton téras.
hòs dḕ keraunoû kreísson' heurḗsei phlóga,
bronts th' hyperbállonta karteròn ktýpon,
thalassían te gs tinákteiran nóson,
tríainan aichmḕn tḕn Poseidnos, skedâi.
ptaísas dè tide pròs kaki mathḗsetai
hóson tó t' árchein kaì tò douleúein dícha.
Promētheús: «Eppure Zeús, anche se è superbo,
sarà meschino. Si prepara nozze
che lo rovesceranno dal suo trono,
l'annienteranno. E la maledizione
che Krónos gli andava rovinando
dal seggio antico, si farà in tutto vera.
Nessuno degli dèi può rivelargli
come sfuggire a questa sorte: io solo.
Io lo so, io so come. Riposi, allora,
forte del tuono di cui trema il cielo,
lanciando la sua folgore di fuoco.
Perché non basteranno tuono e folgore
quando cadrà per sempre e senza gloria.
Da sé ora si prepara un avversario
molto duro da vincere, un prodigio,
e la sua fiamma sarà più che una folgore,
la sua percossa sarà più che tuono,
e sperderà il funebre tridente
del mare, che agita la terra,
lancia di Poseidn: a questi mali
urterà Zeús, e allora imparerà
se servire è altra cosa che regnare».

Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

Ciò che Promētheús, dal suo luogo di tortura, profetizza a Zeús, è evidente. Anche il grande signore degli dèi è destinato ad essere spodestato dal proprio figlio, un dio ancora più potente del padre, che però deve ancora nascere. E l'unico che sa come evitare questa sventura è proprio lui, Promētheús. Herms arriva al cospetto del titán incatenato e cerca di indurlo a rivelare qualcosa di più su questa sibillina profezia, ma Promētheús non si smuove, e così investe il nuovo arrivato:

Néon néoi krateîte kaì dokeîte dḕ
naíein apenth pérgam'. ouk ek tnd' egṑ
dissoùs tyránnous ekpesóntas ēisthómēn?
tríton dè tòn nŷn koiranoûnt' epópsomai
aíschista kaì táchista. mḗ tí soi dok
tarbeîn hypoptḗssein te toùs néous theoús?
polloû ge kaì toû pantòs elleípō.
Promētheús: «[...] Siete signori nuovi, e vi pensate
di abitare la rocca dell'eterna
serenità: ma da quella rocca
ho sentito cadere due sovrani.
Il terzo lo vedrò crollare presto
e con più obbrobrio. Credi che io tremi,
che m'inginocchi innanzi ai nuovi dèi?
Come poco ci penso!»

Aischýlos: Promētheús desmṓtēs [-]

Di cosa sta parlando Promētheús? Si rifiuta di svelare a Herms (e a noi) quel che conosce sul futuro re dell'universo. È probabile che questo enigma venga sciolto da Aischýlos nelle successive tragedie del ciclo prometeico, le quali però sono andate perdute. Il motivo è tuttavia ben attestato presso altri mitografi. Apollódōros afferma quanto segue:

 

Alcuni dicono che, quando Zeús partì per sedurre Téthis, Promētheús lo avvisò che il figlio che avrebbe avuto da lei sarebbe diventato il sovrano del cielo.
Apollódōros: Bibliothḗkē [III: 13, ]

Questa Téthis era una delle Nērēḯdes, figlie del dio marino Nēreús. A seguito della profezia di Promētheús, Zeús rinuncia a unirsi a lei, ed ella in seguito sposa il mortale Pelías: loro figlio sarebbe stato l'eroe Achilleús. Ora, può sembrar strano che Promētheús, che Aischýlos mostra così restio a rivelare chi fosse il discendente destinato a spodestare Zeús, sia così facilmente disposto, in Apollódōros, a rendere questo servigio al re degli dèi. Il motivo è attestato in molte varianti, dove il medesimo oracolo viene attribuito anche ad altri personaggi (Thémis, o Prōteús), ma il ruolo di Promētheús riaffiora continuamente, fino a trovare definitiva consacrazione nei mitografi più tardi. Leggiamo in Hyginus:

 

Era destino che il figlio della nereide Téthis sarebbe stato più forte del padre. Solo Promētheús conosceva questo segreto. Così, quando Zeús fu preso dal desiderio di unirsi a lei, Promētheús promise di rivelarglielo se fosse stato liberato dalle catene: il patto fu giurato e allora Promētheús ammonì Zeús ad astenersi da Téthis, per evitare di dare alla luce un figlio più forte di lui che l'avrebbe cacciato dal regno come lui aveva fatto con Krónos. Così, Téthis fu data in sposa a Pelías, figlio di Aiakós, ed Hērakls fu mandato a uccidere l'aquila che rodeva il cuore di Promētheús. Essa fu abbattuta, e Promētheús venne liberato dal Caucaso dopo una prigionia di trent'anni.
Hyginus: Fabulae [54]

Lo stesso racconto è riportato con alcune varianti, sempre da Hyginus, in De Astronomia [II: 4]. Loukianós lo utilizza come pretesto per un dialogo scoppiettante di ironia, che riportiamo per intero:

 

Promētheús: «Liberami, Zeús: ho già patito sofferenze terribili».
Zeús: «Liberarti, dici? Ma se dovrei farti mettere ceppi ancora più pesanti e l'intero Caucaso in testa, con sedici avvoltoi che non solo ti divorino il fegato, ma ti cavino anche agli occhi, in cambio delle belle creature che ci hai plasmato, gli uomini, e dell'aver rubato il fuoco e creato le donne! E dei raggiri che mi hai fatto nella distribuzione delle carni, imbandendomi ossa rivestite di grasso e serbando per te le parti migliori, cosa si dovrebbe dire?»
Promētheús: «Non ho dunque pagato un fio sufficiente, restando inchiodato per tanto tempo al Caucaso e nutrendo col mio fegato l'aquila, il più maledetto degli uccelli?»
Zeús: «Questa non è neanche una minima parte di ciò che devi soffrire».
Promētheús: «Eppure non mi libererai senza ricompensa, ma ti rivelerò una cosa davvero importante, Zeús».
Zeús: «Tu mi vuoi abbindolare con dei bei discorsi, Promētheús».
Promētheús: «E che vantaggio ne avrò? In futuro non ti scorderai mica dov'è il Caucaso, né ti mancheranno le catene, se verrò sorpreso a macchinare qualcosa».
Zeús: «Di' prima quale ricompensa così importante per noi pagherai».
Promētheús: «Se ti dirò lo scopo per cui adesso sei in viaggio, sarò per te degno di fede anche quando ti predirò il resto?»
Zeús: «Come no?»
Promētheús: «Vai da Téthis per giacere con lei».
Zeús: «Di questo sei a conoscenza: e che cosa accadrà in seguito? Mi sembra che dirai qualcosa di importante».
Promētheús: «Non unirti alla figlia di Nēreús, Zeús. Se resterà incinta di te, il figlio che darà alla luce ti farà le stesse cose che tu hai fatto...»
Zeús: «Dici che sarò scacciato dal mio dominio?»
Promētheús: «Che non accada, Zeús. Se non che l'unione che lei minaccia qualcosa del genere.
Zeús: «Tanti saluti a Téthis, allora. E in quanto a te, grazie a queste notizie, che Hḗphaistos ti liberi».
Loukianós hò Samosateús: Theṓn diálogoi [5] > Promēthéōs kaì Diós

Ciò che traspare da questo raffronto, è che il mito prometeico, in Grecia, ha rielaborato il rapporto tra la liberazione del titán e la fine del mondo. L'incatenamento del prometeo è, dovunque, garanzia della continuità del mondo che noi conosciamo. Alla sua liberazione, corrisponde la fine dell'ordine cosmico e il ristabilimento del tempo primordiale. Quest'ultimo è caratterizzato dal ritorno a uno stato che potremo chiamare «di natura», e quindi coincidente con la fine della società umana, con le sue necessità del lavoro e del matrimonio. Si tratta di quello che, in gergo religioso-filosofico, più che mitologico, è definito come «apocatastasi»: ritorno allo stato originario.

Poiché è il dio supremo a garantire l'attuale stato delle cose, l'apocatastasi è possibile solo abbattendo il suo dominio. Ciò è visto, in molte tradizioni, come un ulteriore passaggio di consegne della suprema regalità. In Scandinavia, Loki ha sia la funzione di esiliare agli inferi il futuro re dell'universo, ma anche quella di sgombrare il campo per il suo ritorno, causando la fine del mondo e la caduta degli dèi. Il pensiero teologico greco, che pone l'autorità di Zeús come stabile ed eterna, ha invece rielaborato questo mito, eliminando in primis ogni idea di un futuro ristabilimento dell'età aurea sotto gli auspici di un futuro sovrano.

Mentre Loki causa la morte del figlio di Óðinn, Promētheús impedisce la nascita del figlio di Zeús. Assassinio e aborto sono, ai fini del processo mitico, rielaborazioni dello stesso concetto. Nell'elaborazione dei due miti, tuttavia, il rapporto di causa/effetto è praticamente rovesciato, e con effetti contrapposti: il misfatto di Loki produce il suo incatenamento, l'avvertimento di Promētheús la sua liberazione. D'altra parte, mentre la futura liberazione di Loki produce la fine del mondo e del regno di Óðinn, la liberazione di Promētheús, espressa come evento mitico concluso, ha prodotto l'attuale stabilità del mondo e la continuazione indefinita del regno di Zeús.

CONCLUSIONE PROVVISORIA

Ed eccoci arrivati alla fine di questa vertiginosa sarabanda di prometei. Dovunque ci è parso di udire frammenti sempre uguali e sempre diversi di una medesima, perduta sinfonia. Abbiamo seguito molte piste e ognuna non ha fatto che dividersi in sempre nuovi sentieri. Alcuni li abbiamo seguiti, altri li abbiamo dovuti tralasciare: per quanto affascinanti, ci avrebbero irrimediabilmente portato fuori strada. Più volte abbiamo forzato quella cautela che lo studio della mitologia richiede a chi cerchi di dipanarne i fili: il rischio è di lasciare prendere dalla vertigine delle affinità e di mettere tutto in correlazione con tutto, fino a perdere di vista il rigore necessario per evidenziare le relazioni davvero significative.

Abbiamo esposto una visione abbastanza variegata dei molti esiti del mito del prometeo incatenato. L'estrema varietà e vastità della materia, oltre alla fondata possibilità che il nostro materiale non sia esaustivo, soprattutto sul versante caucasico, rendono difficile arrivare a delle conclusioni definitive. Quanto segue è da intendere come un'ipotesi di lavoro, peraltro modificabile o migliorabile qualora sovvengano nuovi dati o nuove idee, o vengano rilevati degli errori.

Uno sguardo generale del dossier prometeico mostra due classi di elaborazione, che potremmo definire, in maniera generale, indoeuropea e caucasica.

  • Elaborazione indoeuropea (EI).
    Attestata in Grecia (Promētheús), Scandinavia (Loki), Ossezia (Syrdon).
    Il prometeo è un imbroglione: un personaggio astuto, anarchico, deciso a sfidare l'autorità e l'ordine divino. Il mito comune, sotteso a queste tre aree, sembra svolgersi in modo simile a questo:
  1. Origine. Un imbroglione, associato ai nemici degli dèi, viene accolto nel pántheon.
    Vicenda particolare.
    Un animale viene abbattuto per un banchetto. L'imbroglione è chiamato a fare la parti. La cottura non può essere portata a termine perché qualcuno sequestra o rende inoperante il fuoco. L'imbroglione parte a recuperare il fuoco.
  2. Incatenamento. L'imbroglione viene punito e incatenato in un luogo posto tra il cielo e la terra e/o in una caverna.
    Liberazione. La liberazione dell'imbroglione è collegata a un motivo escatologico: il personaggio è destinato a liberarsi alla fine del mondo, in uno schema di successione nella regalità universale e di ritorno dell'età aurea.
  • Elaborazione caucasica (EC).
    Attestata nel Caucaso, presso Georgiani (Amirani) Abxasi (Abryskʼyl) e Circassi (Teʒau, Nesren); escludiamo qui la versione armena.
    Il prometeo è un campione: un guerriero invincibile, superbo, che sfida dio in combattimento. Il mito comune, sotteso all'area caucasica, si svolge in modo simile a questo:
     
    1. Vicenda particolare. Il campione percorre una via di combattimenti contro nemici umani e soprannaturali sempre più forti, accrescendo il proprio valore e le proprie capacità guerriere. Giunto al massimo del suo valore, il campione sfida l'autorità del dio supremo.
    2. Incatenamento. Il campione viene incatenato in una caverna, e/o sulla cima di montagne altissime, in un luogo posto tra il cielo e la terra.
      Liberazione. La liberazione del campione è collegata a un motivo escatologico: il personaggio è destinato a liberarsi alla fine del mondo, in uno schema di distruzione o restaurazione.

Le due classi di elaborazione sono differenti innanzitutto nella psicologia del personaggio, che è un imbroglione nella EI, ma un campione nella EC. Divergono poi nella vicenda generale (punto A). A un mito specifico, che nella EI comprende un inganno nella spartizione di un animale, con sequestro e rielaborazione del fuoco, le EC sostituiscono una carriera eroica, il cui disegno appare di impronta nazionalista nella versione abxasica, ma è per lo più tratto dal mito indoiranico del dio-tuono in quella georgiana. Nell'una e nell'altra classe, rimane il motivo finale della sfida all'autorità del dio supremo, sebbene virata funzionalmente: sul piano dell'intelligenza nella EI, della forza guerriera nella EC.

Le due classi di elaborazione coincidono invece nei temi dell'incatenamento e della liberazione escatologica (punto B). È questo il nucleo centrale del mitema prometeico, a cui dobbiamo ora cercare di trovare un'interpretazione storica.

L'ampia diffusione geografica (Grecia, Ossezia, Scandinavia), mostra l'antichità della EI, la quale è stata probabilmente diffusa in luoghi tanto lontani insieme alla diaspora indoeuropea. D'altra parte, la EC è assai più concentrata geograficamente, ma non per questo è da considerarsi più recente. Poiché il tema B (incatenamento e liberazione escatologica) presenta schemi strettamente confrontabili nelle due elaborazioni, dobbiamo presumere una sua diffusione nell'una o nell'altra direzione. Ma in quale? (a) Caucaso → Indoeuropei, o (b) Indoeuropei → Caucaso?

(a) CaucasoIndoeuropei. Se il tema B fosse originario del Caucaso, il suo passaggio al mondo indoeuropeo dovrebbe essersi svolto ben prima della diaspora indoeuropea, il ché ci ricondurrebbe senza alcun dubbio a un'epoca antichissima. Questa ipotesi implica anche una vicinanza geografica tra proto-caucasici e proto-indoeuropei.
(b) Indoeuropei → Caucaso. Il passaggio inverso comporta meno problemi, vista la compattezza geografica dell'area caucasica. In tal caso, il tema B può essere arrivato nel Caucaso dall'una e/o dall'altra di due direzioni: da nord, insieme agli Sciti, Sarmati, Alani, Osseti; ovvero da sud, dal mondo iranico.

Il Caucaso ha certamente assorbito dei complessi mitici di origine indoeuropea, in particolare alcuni miti relativi alla carriera del dio-tuono. È assai probabile che siano arrivati dall'Īrān e/o dall'Armenia (pur senza escludere la mediazione di Alani, Sciti e Sarmati). Infatti:

  • Īrān. Aži Dahāka è un personaggio piuttosto stratificato, in cui si fondono sia il mitema del tricefalo che il tema del prometeo incatenato. Ben conosciuto in Armenia, sia nella versione persiana che in quella locale, questo mito è sicuramente strabordato anche nel Caucaso.
  • L'Armenia conosce sia il tema del tricefalo (Aždahāk) che quello del prometeo incatenato fino alla fine del mondo (Artawazd). Entrambi i racconti sono arrivati a noi nella versione evemerizzata di Movsēs Korenacʻi, dove i temi mitologici sono stati adattati alla necessaria verosimiglianza della cronaca storica. È ragionevole presumere che nell'antichità il racconto fosse mitico a tutti gli effetti.

Il tema caucasico dell'incatenamento del campione fino a un futuro escatologico potrebbe essere arrivato nel Caucaso sia dall'Īrān che dall'Armenia. Un'influenza iranica è evidente nello stesso mito di Amirani. L'episodio della lotta contro il dev tricefalo Baqʻbaqʻ, le cui teste mozzate generano tre mostruosi serpenti, o vešapʻebi, è evidentemente derivata dalla figura di Aži Dahāka, nelle sue varie evoluzioni letterarie (il tricefalo avestico; il dèmone pehlevico che genera nuguli di serpenti; il re persiano con i serpenti che crescono dalle spalle); ma si può anche pensare al tricefalo indiano Viśvarūpa dal cui cadavere nasce il serpente Vṛtra. (Il motivo di Vṛtra che ingoia Indra, non attestato in Īrān, è presente nel mito di Amirani).

Detto questo, il racconto georgiano tiene ben separati i personaggi del tricefalo (Baqʻbaqʻ) e dell'incatenato (Amirani), segno di un'ideologia che tendeva ad identificare Amirani nell'avversario del tricefalo e non nel tricefalo stesso. Non dimentichiamo che i popoli caucasici non sono indoeuropei, e quindi non ragionano secondo le categorie funzionali indoeuropee. Nel mondo indoiranico – e indoeuropeo in generale – l'avversario del tricefalo è di solito un personaggio di seconda funzione, un guerriero legato alla sfera del dio-tuono, se non il dio-tuono stesso. Ciò spiega perché i Georgiani lo sentissero assai vicino alla loro sensibilità eroica che non il tricefalo stesso. E sebbene in origine il prometeo fosse un personaggio ben distinto dal dio-tuono, i Georgiani finirono per cucirgli addosso l'episodio dell'abbattimento del tricefalo. Nulla di cui stupirsi se, nell'elaborazione del tema prometeico, la sfida al dio supremo sia slittata dalla prima alla seconda funzione, ovvero dal campo dell'intelligenza a quello della forza guerriera.

Rimane il fatto che i Georgiani, a differenza degli iraniani, non confondono mai il tricefalo e l'incatenato. La medesima situazione sussiste in Armenia, dove i due ruoli sono affidati a personaggi distinti, rispettivamente Aždahāk e Artawazd. È dunque assai probabile che i due miti siano arrivati in Georgia separatamente o già separati. Quindi: o per tramite armeno, o in una versione indoiranica più antica di quelle attestate in letteratura.

L'EC del campione incatenato dovranno quindi essere considerate varianti locali del mitema indoeuropeo, inserite negli ambiti mitologici dei popoli caucasici e opportunamente adattati alla loro ideologia guerriera.

L'EI dell'imbroglione incatenato è sparsa in un ambiente più vasto: in Ossezia, in Grecia, in Scandinavia. Versioni analoghe sono presenti anche in Īrān e, forse, in India. Le differenze sono più marcate, forse perché più antiche, o forse perché la distanza geografica e le influenze di substrato hanno loro permesso di divergere maggiormente. Tentiamo di costruire uno schema per evidenziare le possibili correlazioni tra quanto abbiamo scoperto confrontando gli esiti scandinavo, greco e ossete, da noi considerati omologhi; teniamo conto solo accessoriamente e con prudenza delle versioni iranica e indiana, forse soltanto analoghe, in quanto possono avere assorbito e conservato motivi omologhi.

  • Un personaggio appartenente alla schiera dei nemici degli dèi (asura, titán, jǫtunn, etc.), entra a far parte del pántheon. Il prometeo in questione ha un carattere generalmente negativo, con sfumature che possono cangiare da una sorta di astuzia capricciosa (Promētheús, Syrdon) a una malvagità senza limiti (Aži Dahāka).
  • Una volta entrato nel pántheon, il prometeo imbroglia sulla spartizione delle offerte sacrificali, o sulla divisione del cibo, danneggiando coloro che lo hanno accolto. Questo mito è legato al tema del sequestro e della riconquista del fuoco, presente in Grecia, in Ossezia e in Scandinavia (il tema manca del tutto nel mondo indoiranico).
  • L'intenzione del prometeo è eversiva: intende scardinare l'ordine cosmico e mettere in dubbio, se non rovesciare, l'autorità imposta dagli dèi.
  • Il prometeo viene incatenato (all'axis mundi?) e relegato ai confini dello spazio. Animali come aquile e serpenti sono legati alla sua sorte, secondo modalità diverse.
  • Il prometeo riceve la visita del dio-tuono.
  • In un futuro escatologico, il prometeo si libererà dalle sue catene, deciso a distruggere il mondo, e dovrà essere abbattuto. Intanto ha messo in moto un meccanismo che porterà alla distruzione dell'universo e all'apocatastasi finale, con ristabilimento dell'età aurea. Questo motivo è presente in tutti gli esiti indoeuropei, con le seguenti eccezioni: in India fa parte di una cosmologia ciclica, e non è legato a personaggi specifici; in Grecia è stato alterato secondo modalità caratteristiche.

In uno schema siffatto, l'innovazione più netta risulta proprio quella presente nella mitologia ellenica. Mentre i prometei indoeuropei sono essenzialmente personaggi eversivi, il Promētheús ellenico, nel suo impeto di ribellione contro l'autorità costituita, si rivela una figura positiva, eretta a difesa del genere umano. Peraltro Promētheús è anche considerato creatore degli uomini: un motivo caratteristico della Grecia, che non troviamo in altri luoghi del dominio indoeuropeo. Questa visione di un Promētheús filantropo, fondata soprattutto da Aischýlos, ha reso difficile agli studiosi associarlo a tutta una categoria di dèmoni, giganti e anti-dèi che devono venire eliminati o incatenati per impedire loro di distruggere l'ordine cosmico.

A che cosa si deve questo rovesciamento? A nostro parere, al fatto che il mito greco ha risentito di una forte influenza medio-orientale, mesopotamica in particolare, dove la figura di Zeús ha assorbito parte del mito di Enlil «nemico degli uomini». Per contrasto, Promētheús ha assorbito la mitologia di Enki, il dio della sapienza, il difensore degli uomini, e diviene dunque il creatore e l'amico del genere umano. Questa interprætatio babylonica di Promētheús era probabilmente giustificata sia dai tratti di astuzia e conoscenza che caratterizzavano entrambi i personaggi, sia dalla faccia tosta con la quale entrambi sfidavano l'ordine imposto dal dio supremo. Non siamo sicuri se mettere nel mazzo anche un comune ruolo di eroi culturali, inventori di tecniche e strumenti, che Promētheús potrebbe aver tratto da Enki. Il risultato è che l'hýbris di Promētheús assume in Grecia un senso etico, e il suo incatenamento viene composto contro la giustizia.

L'ordine imposto dagli dèi, in Mesopotamia, era visto come un'imposizione indifferente al destino umano, e l'unico tipo di rapporto tra uomini e dèi non era di natura etica, ma quasi di schiavitù. È proprio grazie a Promētheús se il rapporto tra uomini e dèi, in Grecia (e in tutto l'occidente) si è poi trasformato in una relazione contrattuale.

Questo studio lascia molte domande aperte, a cui speriamo di poter fornire qualche ipotesi in futuro. Tra di esse:

  • L'ambivalenza tra incatenamento sotterraneo e incatenamento aereo. Quasi tutti i personaggi riescono a realizzare in qualche modo entrambe le modalità. Sono semplici varianti di un medesimo tema, oppure miti separati?
  • Il significato dell'aquila e del serpente, e la relazione tra loro.
  • Il rapporto tra Promētheús ed Átlas. Duplicazione di un medesimo personaggio... o qualcosa che non sappiamo?
  • La funzione del dio-tuono nel mito prometeico. Perché proprio Thorkillus ed Hērakls fanno visita ai prometei incatenati? Si può forse pensare a una relazione con il mito indoiranico del tricefalo, abbattuto dal un esito del dio tuono, come Θraētaona o Indra?
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Rubrica: Studi - Anubis.
Materia: Cultura classica - Ianus Bifrons.
Materia: Cultura caucasica - Samзimari.
Ricerche e testi di Dario Giansanti e Oliviero Canetti.
Hanno collaborato Daniele Bello e Claudia Maschio.
Ricerche e traduzioni dai testi russi di Anna Gulidova.
Theogonía: traduzione di Daniele Bello.
Creazione pagina:19.06.2012
Ultima modifica: 01.06.2016
 
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