MITI

ELLENI
Greci

MITI ELLENICI
PROMĒTHEÚS INCATENATO
IL FURTO DEL FUOCO
1 - L'AMICO E IL MAESTRO DEGLI UOMINI

romētheús, il sapiente titán, dagli accorti e ritorti pensieri, fu sempre un amico per il genere umano. Quando Zeús, assunta la regalità, divise le timaí tra gli immortali, non contò gli esseri umani, gli infelici che giacevano sulla terra. Anzi, aveva deciso di sterminare il loro seme e seminare un'altra stirpe umana.

L'unico a opporsi fu Promētheús, e fu grazie a lui se i mortali non vennero dispersi dalla morte.

Promētheús si recava spesso sulla terra per recare conforto agli uomini, che allora vivevano ancora allo stato ferino. Ignari delle più elementari conoscenze e dei cicli del tempo, gli uomini vivevano nelle caverne, come formiche.

Avevano gli occhi e non vedevano,
avevano le orecchie e non udivano,
somigliavano a immagini di sogno,
e perduravano un tempo lungo e vago...

Promētheús insegnò loro a lavorare il legno, modellare i mattoni, costruire le case. Mostrò come allevare le greggi, aggiogare i buoi agli aratri e coltivare i campi. Costruì i primi carri e le prime navi. Insegnò agli uomini l'astronomia, i tempi della levata e dal tramonto degli astri, i cicli della luna e del sole. Insegnò agli uomini a contare, e li istruì nei segni scritti che conservano la memoria delle cose. Indicò agli uomini le erbe medicamentose, e come preparare le misture, gli unguenti e le bevande per guarire le malattie. Rivelò ai mortali i doni nascosti nella terra e l'uso dei metalli. Introdusse l'umanità nelle prime nozioni sociali ed etiche.

Per primo, Promētheús chiarì le molte forme della mantica, svelò le voci oscure dei presagi, gli incontri profetici, e insegnò agli uomini come interpretare i sogni. Distinse per primo i voli dei rapaci, e come trarne auspici fausti. Istituì i sacrifici agli dèi, e insegnò a leggere le viscere delle bestie immolate sugli altari. Guidò gli occhi velati dei mortali ai vividi presagi delle fiamme, insegnando loro a trarne conoscenze misteriose e profonde.

Come ebbe a dichiarare egli stesso: — Ogni cosa che gli uomini conoscono, proviene da Promētheús.

2 - IL SACRIFICIO DI MĒKṒNĒ

l tempo della prima età del bronzo, si era accesa una contesa, nella città di Mēkṓnē, tra gli uomini e gli dèi immortali. Allora, abbattuto un bue di notevole mole, Promētheús intervenne a dividerne le parti gli dèi e i mortali. Da un lato, egli pose le carni e le parti più buone, avvolgendole nello stomaco dell'animale, in modo da farne un mucchio assai poco gradevole alla vista; dall'altra, con astuto artifizio, ammucchiò le bianche ossa del bue, nascondendole però sotto un appetitoso strato di bianco grasso. In questo modo, Promētheús cercava di ingannare il pensiero di Zeús.

— O figlio di Iapetós, illustre tra tutti i sovrani, hai davvero diviso le parti in modo iniquo! — lo riproverò Zeús.

E Promētheús dai torti pensieri, cosciente della sua beffa, rispose con un lieve sorriso: «O Zeús, il più illustre, il più grande degli immortali, scegli quella delle due parti, che il cuore ti comanda nel petto!»

Pur presentendo l'inganno, Zeús sollevò con entrambe le mani il bianco grasso e si adirò grandemente nel cuore, non appena vide le bianche ossa del bue lì approntate per irriderlo. — O figlio di Iapetós, sapiente di saggi consigli, non hai davvero dimenticato la tua scaltrezza ingannatrice!

Da quel giorno, sulla terra, gli uomini bruciano agli dèi le bianche ossa delle vittime sopra gli altari odorosi di incenso, ma consumano le carni delle vittime.

— E dunque, le vostre carni, mangiatele crude! — concluse Zeús, sdegnato dalla beffa.

3 - REAZIONE DI ZEÚS. SEQUESTRO DEL FUOCO

ino a quel giorno, la vita per gli uomini era stata piuttosto facile: essi si procuravano quanto loro serviva in un sol giorno, rimanendosene in ozio per il resto dell'anno. Ma Zeús, sdegnato per l'inganno di Promētheús, nascose agli uomini i mezzi della vita, e da quel giorno il lavoro e la fatica fecero parte del mondo.

Fino ad allora, inoltre, gli esseri umani, incapaci di produrre il fuoco da soli, avevano tratto la fiamma dai frassini colpiti dalla folgore. Da quel momento in poi Zeús non concesse più il suo dono agli esseri mortali, che rimasero al freddo e al buio, del tutto privi della possa infaticabile del fuoco.

4 - PROMĒTHEÚS RUBA IL FUOCO

a sempre amico degli uomini, Promētheús escogitò uno stratagemma per carpire agli dèi il privilegio del fuoco. Alcuni dicono rubasse la fiamma direttamente nella dimora di Zeús. Altri ancora dicono che, impossibilitato a giungere sul monte sul monte Ólympos, dove Krátos e Bía stavano di guardia alle dimore del dio supremo, si recasse sull'isola di Lḗmnos, dove Hḗphaistos aveva la sua fucina.

Il titán ghermì le faville del fuoco e, nascostele in una canna di nartece, le portò ai mortali. Da allora e solo da allora i nostri antenati riuscirono a carpire il segreto della fiamma e a cessare di tremare per il freddo e per la paura durante la notte, poiché Promētheús sfidò l'inevitabile vendetta degli dèi per rischiarare le tenebre dell’umanità.

Promētheús incatenato da Hḗphaistos (1623)
Dirck van Baburen (1595-1624)
Olio su tela. Rijksmuseum, Amsterdam (Paesi Bassi)
5 - PROMĒTHEÚS INCATENATO

a vendetta di Zeús non tardò ad arrivare. Promētheús fu condotto agli estremi e deserti limiti della Skythía, sulle rupi scoscese del monte Kaúkasos.

Secondo alcuni Zeús stesso legò Promētheús a una colonna, con lacci indissolubili. Altri dicono che furono i figli di Stýx, gli implacabili Krátos e Bía, a trascinare Promētheús sul luogo del supplizio, mentre Hḗphaistos fu incaricato di incatenarlo alla roccia.

Nonostante Promētheús avesse rubato il fuoco nella sua stessa fucina, Hḗphaistos non fu felice dell'ordine ricevuto da Zeús. Gli ripugnava commettere una tale violenza su un individuo della sua stessa origine, ma d'altra parte non osava rifiutare agli ordini del dio supremo. Disse a Promētheús:

— Tu hai amato gli uomini,
e questo è il frutto. O dio che non ti pieghi
all'ira degli dèi, hai onorato gli uomini
come dèi, contro la legge.
E ora veglierai la triste roccia
diritto e insonne, senza inginocchiarti
e leverai al cielo molte grida
per l'angoscia e lamenti senza ascolto.
Ma il cuore di Zeús non si riconcilia.

Krátos e Bía insistettero più volte affinché Hḗphaistos si decidesse ad obbedire, e rimasero lì a sincerarsi che il lavoro venisse eseguito a regola d'arte. L'ambidestro chiuse anelli di ferro intorno ai polsi e alle caviglie di Promētheús, e fece passare cinture metalliche attorno al suo torace e alla sua vita, inchiodando quindi le catene alle roccia, in modo che non fosse possibile scalzarle.

Concluso il triste compito, Hḗphaistos si allontanò. Krátos e Bía lanciarono un ultimo sguardo a Promētheús.

— Oltraggia, ora! Saccheggia i privilegi degli dèi! Offrili a chi vive un giorno soltanto! I mortali sono forse qui ad alleviarti le pene? Coloro che ti chiamarono Promētheús, il «preveggente», hanno mentito. Tu hai solo bisogno di qualcuno che preveda come liberarti di queste catene!

Quando le due implacabili guardie del corpo di Zeús si furono allontanate, Promētheús gemette:

— Cielo divino, aliti di vento,
rapide ali di vento,
sorgenti di fiumi,
sorriso interminabile del mare,
terra madre di tutto,
e tu, occhio del sole onniveggente,
io vi invoco! Guardate
un dio che soffre a causa degli dèi.
Guardate quale pena mi consuma
immeritata e mi torturerà
nel tempo, per anni interminabili...

E poi:

— Non posso tacere né gridare
la mia sorte, il mio essere. Ho spartito
con i mortali un dono divino:
per questo fui incatenato al mio destino.
Cercai la scaturigine segreta
del fuoco che si cela nel midollo
della canna, maestro d'ogni arte,
via che si apre. Questo fu il peccato
di cui pago la pena
inchiodato e in catene in faccia al cielo!
[...]
Guardate il dio incatenato e doloroso,
il nemico di Zeús, il detestato
da tutti gli dèi, che varcano la soglia
della reggia di Zeús
perché amo i mortali oltre misura!
6 - VINTO, MA NON DOMATO

Promētheús (1610)
Peter Paul Rubens (1577-1640)
Philadelphia Museum of Art

nsoddisfatto di una pena pur così atroce, Zeús incitò contro di lui un'aquila dalle larghe ali [Aetós Kaukasíos], figlia di Ékhidna e Typhn. Ogni giorno, il rapace calava su di lui e gli divorava brandelli di fegato. La notte, il fegato dell'immortale Promētheús ricresceva.

A nulla valsero i lamenti di Ōkeanós e delle ninfe del mare; la vendetta del signore di tutti gli dèi era implacabile e non conosceva la misericordia.

Promētheús, tuttavia, non si abbassò mai a chiedere pietà al suo carnefice; egli, invece, gridò al cielo che un giorno anche Zeús sarebbe stato spodestato dal trono qualora si fosse unito in nozze fatali con una dea che avrebbe generato un figlio più forte di lui. Il «preveggente» conosceva il nome della donna che avrebbe potuto partorire una creatura così potente, ma mai ne avrebbe rivelato il nome se prima Zeús non si fosse deciso a liberarlo.

Ma questo sarebbe avvenuto molto tempo dopo, per mano di Hērakls.

Fonti

1 Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs
2 Hēsíodos: Theogonía [535-561]
3 Hēsíodos: Theogonía [562-564]
Hēsíodos:
Érga kaì Hēmérai [42-48]
4 Hēsíodos: Theogonía [565-569]
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [49-52]
Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs
Cfr. Plátōn: Prōtagóras [320c-320d]
Cfr. Loukianós hò Samosateús: Promētheús ē Kaúkasos
5-6 Hēsíodos: Theogonía [521-531]
Aiskhýlos:
Promētheús desmṓtēs
Loukianós hò Samosateús:
Promētheús ē Kaúkasos

I - PROMĒTHEÚS. UN MITO PER L'OCCIDENTE

Non è esagerato affermare che il racconto di Promētheús sia uno dei miti più importanti che la Grecia ci abbia trasmesso: il racconto del titán incatenato per aver portato il fuoco agli uomini ha alimentato nel corso dei secoli il pensiero, l'arte, la filosofia, la politica e la letteratura dell'Occidente, divenendo uno dei temi più rappresentativi della cultura europea. Idealizzato, attualizzato, rielaborato, il simbolismo di Promētheús si è rivelato pressoché inesauribile, ed è vivo e vegeto ancora ai giorni nostri.

Queste rende paradossalmente più difficile andare alle origini del personaggio, cercare di analizzare il mito nelle sue fonti classiche... fonti che sono poi, ancora una volta, rielaborazioni letterarie di un racconto ancora più antico. Il Promētheús di Hēsíodos non è lo stesso Promētheús di Aiskhýlos, per quanto l'uno e l'altro rielaborino un comune materiale mitico, ciascuno secondo i suoi scopi letterari. Altri dettagli sono aggiunti da molti altri autori, ma Hēsíodos ed Aiskhýlos rimangono le due fonti principali: sicuramente quelle più affidabili per un'attenta analisi del mito prometeico.

Abbiamo parlato altrove del Promētheús demiurgo, creatore degli uomini ①. In questa pagina ci soffermiamo al cuore del racconto, o per lo meno al suo episodio più famoso: il furto del fuoco, o piuttosto, la sua riconquista. Esso è costituito da quattro momenti distinti:

  1. Il sacrificio di Mēkṓnē. Promētheús stabilisce le parti nei sacrifici cercando di ingannare Zeús.
  2. Il sequestro del fuoco. Zeús, infuriato che agli uomini sia rimasta la parte migliore, cessa di elargire loro il fuoco.
  3. La riconquista del fuoco. Promētheús ruba il fuoco agli dèi e lo restituisce ai mortali.
  4. L'incatenamento. Per punizione, Promētheús viene incatenato a una rupe, nel Caucaso.

Questo mito prometeico – da noi distinto in quattro temi – è a sua volta parte di un ciclo più ampio, ed è inseparabile da un complesso mitico più vasto, di cui il racconto di Pandṓra ne costituisce il seguito e la conclusione. Questo «ciclo di Promētheús e Pandṓra», visto nel suo insieme, stabilisce i presupposti della conditione humaine, così come noi la conosciamo: ci spiega com'è stato che l'uomo, inizialmente sospeso in una felice esistenza pre-temporale, ha dovuto assoggettarsi alla fatica del lavoro, allo scopo di procurarsi il cibo, alla gravosa necessità di convivere con la propria controparte femminile per perpetuarsi. Ma tratteremo in seguito del ciclo nel suo complesso: ci preme ora focalizzare la nostra attenzione su Promētheús.

II - SEQUESTRO E RICONQUISTA DEL FUOCO

Il racconto del sequestro del fuoco da parte di Zeús, e della sua riconquista a opera di Promētheús, è un mito della conoscenza, o più tecnicamente, un racconto eziologico che rivela le origini di una conquista culturale – l'uso del fuoco, o più precisamente, la tecnica della sua accensione e conservazione, – sentita importantissima per il progresso del genere umano.

La vendetta di Zeús nei confronti di Promētheús, a causa dell'inganno perpetrato a Mēkṓnē, è infatti privare i mortali del fuoco. Il racconto è riferito da Hēsíodos in entrambe le sue opere. In una di esse è piuttosto laconico: «Per questo [Zeús] procurò ai mortali tristi affanni: nascose loro il fuoco» (Érga kaì Hēmérai [49-5]); nell'altra rivela però dettagli piuttosto interessanti:

...ek toútou dḕ épeita dólou memnēménos aieì
ouk edídou melíēısi pyròs ménos akamátoio
thnētoîs anthrṓpois, hoì epì khthonì naietáousin.
...e da quel giorno, sempre memore della frode,
[Zeús] negò ai frassini la forza del fuoco indomabile
agli uomini mortali che hanno dimora sulla terra.

Hēsíodos: Theogonía [562-564]

Dunque, in quella lontana epoca antidiluviana, gli uomini alimentavano i loro focolari con le fiamme che ardevano sugli alberi, allorché Zeús li colpiva con le sue folgori. Gli uomini raccoglievano direttamente il fuoco celeste, ma non erano in grado di accenderlo con mezzi tecnici; né evidentemente erano in grado di mantenere il fuoco acceso, visto che, nel momento in cui Zeús smise di far cadere i suoi fulmini, l'umanità si ritrovò sprovvista di ogni sorgente ignea e incapace di accendere anche la più piccola e rudimentale fiammella.

Come e dove Promētheús abbia rubato il fuoco è taciuto dalla maggior parte delle fonti, che paiono dare i particolari per scontati. Hēsíodos si limita a citare l'avvenuto furto, sottolineando piuttosto il dettaglio che il fuoco venne portato ai mortali dentro una canna di nartece. L'episodio è narrato in meno di tre versi sia nelle Érga kaì Hēmérai [5-52] che nella Theogonía [565-56], e quasi con le medesime parole:

Allá min exapátēsen eùs páis Iapetoîo
klépsas akamátoio pyròs tēléskopon augḕn
en koḯlōı nárthēki...
Ma il prode figlio di Iapetós lo ingannò
e rubò il bagliore lungisplendente del fuoco indomabile
e lo mise in una cava ferula di nartece...

Hēsíodos: Theogonía [565-567]

Pittoreschi dettagli dell'episodio sono riferiti nella tarda versione di Hyginus, il quale razionalizza sia le ragioni dell'inganno di Promētheús, attribuendole al fatto che gli uomini non potevano permettersi di fare sacrifici visto l'elevato costo degli animali da abbattere sugli altari, e sia il tema del sequestro del fuoco da parte di Zeús con argomentazioni che chiameremmo di propaganda politica, e afferma che Promētheús si sarebbe recato di nascosto sulla cima dell'Ólympos, per giungere al «fuoco di Zeús»:

Iuppiter cum factum rescisset, animo permoto mortalibus eripuit ignem, ne Promethei gratia plus deorum potestate valeret, neve carnis usus utilis hominibus videretur, cum coqui non posset. Prometheus autem consuetus insidiari, sua opera ereptum mortalibus ignem restituere cogitabat. Itaque ceteris remotis, devenit ad Iovis ignem; quo deminuto et in ferulam coniecto, laetus, ut volare non currere videretur [?] ferulam iactans, ne spiritus interclusus vaporibus extingueret in angustia lumen. Itaque homines adhuc plerumque, qui laetitiae fiunt nuntii, celerrime veniunt. Praeterea in certatione ludorum cursoribus instituerunt ex Promethei similitudine, ut currerent lampadem iactantes.

Quando Zeús venne a sapere l'accaduto, adirato, tolse il fuoco ai mortali, perché i meriti di Promētheús non prevalessero sul potere divino e il consumo della carne sembrasse loro inutile, dato che non poteva essere cotta. Promētheús, abituato agli inganni, si studiava di restituire ai mortali il fuoco di cui erano stati privati per sua colpa. Così, dopo avere eluso tutti gli altri, giunse sino al fuoco di Zeús, lo smorzò e lo nascose in una canna; felice al punto che sembrava volare più che correre, agitava la canna per evitare che la scintilla chiusa dentro venisse soffocata dal fumo. Ecco il motivo per cui quando un uomo porta una notizia felice cammina più velocemente che può. Inoltre, nei giochi si usa far correre gli atleti, sull'esempio di Promētheús, tenendo in mano una fiaccola.
Hyginus Astronomus: De Astronomia [II: 15, 2]

Rimane, in quel Iovis ignis, un sospetto di contraddizione, in quanto Zeús dominava piuttosto i fulmini. Il «fuoco di Zeús» erano dunque le folgori? Hyginus non entra in dettagli. Aggiunge però che dall'episodio di Promētheús che corre via con il fuoco nascosto in una canna sarebbe derivato il rito olimpionico dei dadofori (De Astronomia [II: 15, 2]).

Poetica, sebbene di poca sostanza, la versione riferita da Servius nel suo commento alla sesta egloga di Virgilius (Carmina Bucolica [VI: 42]), dove si dice che Promētheús abbia raggiunto il sole e abbia acceso la sua fiaccola sulla ruota solare.

Meno conservata, ma più insistente, e convincente, una versione alternativa, nella quale Promētheús si sarebbe invece recato a Lḗmnos, l'isola dove Hḗphaistos aveva la sua fucina, e proprio lì abbia rubato il fuoco. Lo apprendiamo di sfuggita in Aiskhýlos, dalle parole che Krátos, uno dei due esecutori della condanna ordinata da Zeús, rivolge ad Hḗphaistos per esortarlo a incatenare il titán alla roccia.

Hḗphaiste, soì dè khrḕ mélein epistolàs
hás soi patḕr epheîto, tónde pròs pétrais
hypsēlokrḗmnois tòn leōrgòn okhmásai
adamantínōn desmn en arrhḗktois pédais.
tò sòn gàr ánthos, pantékhnou pyròs sélas,
thnētoîsi klépsas ṓpasen.
Krátos: «[...] Ora, è tua cura ciò che il padre impone,
Hḗphaistos: ora avvincerai il colpevole
a queste rocce ardue sull'abisso
con catene più dure del diamante.
La luce artefice di tutto, il fuoco,
il fiore tuo, egli lo ha rubato
e ne ha fatto partecipi i mortali.»

Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [3-8]

E poiché Hḗphaistos è riluttante ad assumersi il ruolo di carnefice, Krátos insiste:

Eîhen, tí mélleis kaì katoiktízēi mátēn?
tí tòn theoîs ékhthiston ou stygeîs theón,
hóstis tò sòn thnētoîsi proúdōken géras?
Krátos: «Perché indugi? Hai pietà per nulla?
Non odi un dio che gli dèi maledicono,
che ai mortali donò il tuo privilegio?»

Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [36-38]

Per due volte Aiskhýlos precisa, in termini molto chiari, che Promētheús rubò il fuoco ad Hḗphaistos, del quale costituiva il «fiore» [ánthos] e il «privilegio» [géras]. Il motivo ritorna in Loukianós Samosateús, dove Hḗphaistos accusa Promētheús: «Tu mi rubasti il fuoco e mi lasciasti fredda la fucina» (Promētheús ē Kaúkasos [5]). Allo stesso furto si riferisce probabilmente anche Marcus Tullius Cicero quando parla del «furto Lemnio» [furtum Lemnium], pur senza fornire altre precisazioni (Tuscolanae [XI: 10, 23]).

Premesso tutto questo, possiamo contestualizzare l'apologo in forma di mito che Plátōn riporta nel suo Prōtagóras, dove il furto del fuoco viene compiuto per permettere all'umanità, appena creata, nuda e inerme, di sopravvivere:

 

Promētheús, allora, trovandosi in difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l'uomo, ruba ad Hḗphaistos e ad Athēnâ la loro sapienza tecnica, insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all'uomo. Grazie ad essa l'uomo possedeva la sapienza necessaria a sopravvivere, ma gli mancava ancora la sapienza politica, perché questa era in mano a Zeús. Promētheús non aveva più accesso all'acropoli, dimora di Zeús; per di più c'erano anche le terribili guardie di Zeús. Egli allora si introduce furtivamente nell'officina che Athēnâ ed Hḗphaistos avevano in comune, in cui essi lavoravano insieme e, rubata l'arte del fuoco di Hḗphaistos e quell'altra arte che apparteneva ad Athēnâ, le dona all'uomo: di qui vennero all'uomo i mezzi per vivere. Ma in seguito, come si racconta, Promētheús [...] venne punito per quel furto.
Plátōn: Prōtagóras [321c-322a]

Ma Plátōn non è una attendibile fonte mitologica. È un filosofo, e non si fa scrupolo di reinventare i racconti mitici per i suoi scopi espositivi. Bisogna dunque prendere il suo racconto cum grano salis. Affiorano tuttavia alcuni interessanti motivi, prima di tutto la conferma che il furto di Promētheús sarebbe stato compiuto ai danni di Hḗphaistos. Plátōn dà anche una spiegazione sul perché Promētheús si sia rivolto al fuoco ipoctonio e non a quello celeste: l'Ólympos era sorvegliato dagli inflessibili guardiani di Zeús (Krátos e Bía). Il motivo del furtum Lemnium – qui ribadito con forza – presenta però alcuni interessanti addentellati.

Ricapitoliamo. Inizialmente, gli uomini utilizzavano il fuoco celeste, inviato da Zeús sulla terra attraverso le folgori. Allorché l'invio di fulmini viene sospeso, è necessario rivolgersi a un'altra fonte ignea, e questa è rappresentata dal fuoco ipoctonio: le fiamme che ardono all'interno della terra. Promētheús attinge appunto ad esse, raccogliendole dalla fucina di Hḗphaistos.

Ma Plátōn esplicita anche un altro dettaglio: possedere il fuoco non basta. Bisogna che gli uomini imparino ad accenderlo: ecco perché, insieme al fuoco, bisogna insegnare loro la tekhnḗ. Il furto diviene doppio: del fuoco (da Hḗphaistos), e della tecnica di accensione (da Athēnâ).

In quanto al modo di conservare e trasportare il fuoco, le fonti insistono sul motivo della ferula di nartece: una tecnica antichissima, ancora in uso nelle isole Egee nel xviii o xix secolo. Diódōros Sikeliṓtēs, che accenna di sfuggita all'episodio del furto, si sofferma a spiegare che l'uso di trasportare il fuoco in una canna era stato inventato dallo stesso Promētheús (Bibliothḗkē Historikḗ [V: 67, 1]).

In questo modo, Promētheús si assicura che gli uomini non rimarranno più senza il «bagliore lungisplendente del fuoco indefesso» (Theogonía [566]).

III - IL TEMA DELL'INCATENAMENTO

In punizione del suo furto, per aver dato il fuoco ai mortali, Promētheús viene incatenato alle vette del Caucaso. È la parte più importante del mito, ma anche quella più delicata, soprattutto per la nostra difficoltà a far combaciare i testi. Hēsíodos, come al solito, è piuttosto avaro di dettagli. Afferma che Promētheús venne legato a una colonna, con lacci indissolubili, e direttamente da Zeús.

Dse d' alyktopédēısi Promēthéa poikilóboulon
desmoîs argaléoisi méson dia kíon' elássas...
Egli legò con inestricabili lacci Promētheús mente sottile,
con legami tremendi, spingendo una colonna nel mezzo...

Hēsíodos: Theogonía [521-522]

L'espressione méson dia kíon’ elássas è piuttosto problematica. Si è voluto vedere Promētheús impalato, il corpo trafitto longitudinalmente da un palo, sebbene un tale supplizio renderebbe inutili le corde. L'interpretazione più semplice è che Promētheús sia stato legato a una colonna, così come del resto compare in molte figurazione d'epoca greca. In quanto al luogo del supplizio, Hēsíodos non lo rivela.

È Aiskhýlos a introdurre la visione, in seguito diventa «canonica», di Promētheús incatenato direttamente alle rocce. Nel suo dramma, sono Krátos e Bía, il «potere» e la «forza», le due guardie del corpo di Zeús, a trascinare Promētheús nel luogo del supplizio, indicato qui come «l'estrema plaga della terra, la Scizia solitaria, inaccessibile» [khthonòs mèn es tēlouròn hḗkomen pédon, Skýthēn es hoîmon, ábroton eis erēmían] (Promētheús desmṓtēs [1-2]).

Che il Caucaso fosse considerato una vetta della Scizia, lo testimonia Apollódōros (Bibliothḗkē [I: 7]). Che fosse anche questa la concezione di Aiskhýlos, lo apprendiamo da un'annotazione di Marcus Tullius Cicero, il quale, traducendo in latino una ventina di versi della perduta tragedia Promētheús luómenos, riporta un passo dove si dice che Promētheús venne appunto incatenato sulla vetta del monte Caucaso (Tusculanae [II: 23]).

In Aiskhýlos, l'operazione di incatenamento viene compiuta da Hḗphaistos, insostituibile tecnico esperto in lavori metallici. Il dio-fabbro si presenta piuttosto riluttante a obbedire all'ordine di Zeús, e la pietà traspare più volte dai suoi gesti e dalle sue parole, ma non può disobbedire al comando che gli è stato ingiunto, e del resto Krátos e Bía lo esortano, con i loro modi spietati, a imprigionare il titán. Hḗphaistos esegue, soffrendo egli stesso. Gli attacca morsi di ferro ai polsi e alle caviglie, e questi vengono fissati alla roccia; un cuneo di ferro dinanzi al petto, un altro a mo' di cintura. L'incatenamento di Promētheús viene descritto nei dettagli, in un passo dialogato di grande forza drammaturgica:

Hḗphaistos: «kaì dḕ prókheira psália dérkesthai pára.
Krátos: «balṓn nin amphì khersìn enkrateî sthénei
rhaistri theîne, passáleue pròs pétrais.
»
Hḗphaistos: «peraínetai dḕ kou matâi toúrgon tóde.»
Krátos: «árasse mâllon, sphínge, mēdami khála.
deinòs gàr heureîn kax amēkhánōn póron.
»
Hḗphaistos: «áraren hḗde g' ōlénē dyseklýtōs.»
Krátos: «kaì tḗnde nŷn pórpason asphals, hína
máthēi sophistḕs ṑn Diòs nōthésteros.
»
Hḗphaistos: «plḕn toûd' àn oudeìs endíkōs mémpsaitó moi.»
Krátos: «adamantínou nŷn sphēnòs authádē gnáthon
stérnōn diampàx passáleu' errhōménōs.
»
Hḗphaistos: «aiaî, Promētheû, sn hýper sténō pónōn.»
Krátos: «
sỳ d' aû katokneîs tn Diós t' ekhthrn hýper
sténeis? hópōs mḕ sautòn oiktieîs pote.
»
Hḗphaistos: «horâis théama dysthéaton ómmasin.»
Krátos: «hor kyroûnta tónde tn epaxíōn.
all' amphì pleuraîs maskhalistras bále.
»
Hḗphaistos: «drân taût' anánkē, mēdèn enkéleu' ágan.»
Krátos: «
 mḕn keleúsō kapithōýxō ge prós.
khṓrei kátō, skélē dè kírkōson bíāi.
»
Hḗphaistos: «kaì dḕ pépraktai toúrgon ou makri pónōi.
Krátos: «errhōménōs nŷn theîne diatórous pédas.
hōs houpitimētḗs ge tn érgōn barýs.
»
Hḗphaistos: «hómoia morphi glssá sou gērýetai.»
Krátos: «sỳ malthakízou, tḕn d' emḕn authadían
orgs te trakhytta mḕ 'píplēssé moi.
»
Hḗphaistos: «steíkhōmen. hōs kṓloisin amphíblēstr' ékhei.»
Hḗphaistos: «Ecco, li guardi il padre, il morso è pronto.»
Krátos: «Mettili ai polsi e batti con il maglio
con grande forza, inchiodalo alla rupe.»
Hḗphaistos: «E l'opera si compie. E non si perde.
Krátos: «Picchia più forte, chiudi, stringi bene.
È terribile, scopre l'impossibile.»
Hḗphaistos: «Un braccio è già fissato. Non si libera.»
Krátos: «Aggancia duro anche l'altro braccio.
Impari, il savio, che è più tardo di Zeús
Hḗphaistos: «Nessuno può rimproverarmi: se non lui.»
Krátos: «E il cuneo di ferro, una mascella splendida,
inchioda forte, fissala sul petto.»
Hḗphaistos: «Promētheús, quanta pena al tuo patire!»
Krátos: «Esiti ancora? Soffri per chi è nemico di Zeús?
Che tu non debba avere pietà per te, un giorno.»
Hḗphaistos: «È visione di orrore a questi occhi.»
Krátos: «Visione di una sorte meritata.
Via, applica ai suoi fianchi la cintura.»
Hḗphaistos: «Farlo si deve: dunque, perché ordini?»
Krátos: «Ordinerò, aizzerò ancora. Càlati,
inanella le gambe con la forza.»
Hḗphaistos: «Fatto. Non era fatica lunga.»
Krátos: «Ora ribatti i ceppi in ogni foro:
il giudice dell'opera è severo.»
Hḗphaistos: «Somiglia al tuo aspetto il tuo parlare.»
Krátos: «E sii tu mite, ma non mi accusare,
per l'ira o la superbia o la durezza.»
Hḗphaistos: «Andiamo. È imprigionato membro a membro.»
Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [54-81]

Poche aggiunte vengono compiute dagli autori successivi. Secondo Apollódōros, Hḗphaistos, su ordine di Zeús, inchiodò il corpo di Promētheús alle rocce del monte Caucaso (Bibliothḗkē [I: 7]). In Loukianós, sono Herms e Hḗphaistos a condurre Promētheús al suo luogo di tortura, e Hḗphaistos appare molto meno pietoso che in Aiskhýlos (Promētheús ē Kaúkasos [5]). Anche Apollṓnios Rhódios situa il «banchetto dell'aquila» sulle cime occidentali del Caucaso e descrive il volo del rapace in versi che si suppone siano ispirati a una delle perdute tragedie di Aiskhýlos. Il poeta sapeva bene che la nave Argṓ, già in vista della costa della Colchide, si avvicinava al luogo del supplizio di Promētheús, e descrive il supplizio del titán dal punto di vista di Iásōn e degli uomini del suo equipaggio:

  E già ai naviganti appariva il seno segreto del Póntos
e si levavano le cime impervie dei monti del Kaúkasos,
là dove, le membra inchiodate dalle catene di bronzo
all'aspra roccia, Promētheús nutriva col proprio fegato l'aquila,
che sempre e sempre tornava a scagliarsi contro di lui.
La videro, a sera, volare vicino alle nuvole,
con uno stridore acuto, alta sopra la nave,
eppure sconvolse tutte le vele col battito delle sue ali,
perché non aveva natura d'uccello del cielo,
ma muoveva le ali simili a remi politi.
Poco dopo udirono anche la voce, il lamento
del titán straziato nel fegato; dei suoi gemiti
risuonava l'aria, finché di nuovo dal monte
videro l'aquila ingorda scagliarsi allo stesso bersaglio.

Apollṓnios Rhódios: Tá Argonautiká [II: 1251-1259]

IV - L'AQUILA, AETÓS KAUKASÍOS

Ultimo elemento della tremenda tortura messa in atto da Zeús nei confronti di Promētheús, è appunto l'aquila [Aetós Kaukasíos] che ogni giorno scende a divorargli il fegato. Dettaglio aggiuntivo, che unisce crudeltà alla crudeltà, il tremendo rapace è presente già in Hēsíodos:

...kaí hoi ep' aietòn rse tanýpteron; autar hó g' hpar
ḗsthien athánaton, tò d' aéxeto îson hapántē
nyktós, hóson própan mar édoi tanysípteros órnis.
...e sopra gli avventò un'aquila dalle ampie ali, che gli sbranava
il fegato immortale, ma questo ricresceva
la notte, quanto il giorno ne aveva sbranato l'uccello dalle ampie ali.

Hēsíodos: Theogonía [523-525]

La tortura dell'aquila diviene ancor più cruenta nelle parole che Aiskhýlos mette in bocca ad Herms:

Diòs dé soi
ptēnòs kýōn, daphoinòs aietós, lábrōs
diartamḗsei sṓmatos méga rhákos,
áklētos hérpōn daitaleùs panḗmeros,
kelainóbrōton d' hpar ekthoinḗsetai.
toioûde mókhthou térma mḗ ti prosdóka...
Herms: «[...] Il cane di Zeús, il cane alato,
l'aquila fulva come il sangue, avida,
straccerà il grande straccio del tuo corpo;
verrà senza richiamo, silenziosa,
a dilaniarti tutto il lungo giorno,
a cibarsi del tuo fegato nero,
e questa pena non avrà mai fine...»
Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [1021-1026]

Ogni giorno l'aquila gli strappa con il becco brandelli di fegato dal ventre; ogni notte, il corpo immortale del titán rigenera la parte divorata. Instancabile, e altrettanto immortale, l'aquila torna ogni giorno per ripetere la sua eterna tortura.

Promētheús  (?) e  l'Aetós Kaukasíos (560-550 a.C.)
Kylix laconico, attribuito al Pittore di Naucrati
Musée du Louvre, Parigi (Francia)
L’interpretazione di quest'immagine è duplice, poiché nell’uomo seduto di fronte al quale sta planando un’aquila, si può vedere Zeús col suo animale sacro o Promētheús pochi istanti prima dell’attacco dell'Aetós Kaukasíos. Entrambe le versioni sono attendibili in quanto l’uomo si presenta con un abito regale, e acconciatura e barba sono quelle con cui tipicamente vengono rappresentati gli dèi. D’altra parte di questo uomo non si vedono le braccia, motivo per cui potrebbero essere legate.

Riguardo a quest'aquila, i mitografi si sono sbizzarriti. Secondo Apollódōros, il rapace era figlio di Typhn ed Ékhidna (Bibliothḗkē [II: 10]): dunque rampollo di una delle più tremende progenie di mostri della mitologia greca. Typhn, mostro ctonio dalle cento teste di serpente, e la «lacrimosa» Ékhidna, metà donna e metà serpente, erano infatti genitori di Órthros, Kérberos, della Lernaía Hýdra, della Chímaira e, sembra, anche del serpente Ládōn. Non si trattava dunque di un essere appartenente alla classe degli uccelli: e del resto lo avevamo visto scuotere l'intera nave Argṓ con il battito delle sue poderose ali, le cui penne erano ampie come remi (Tá Argonautiká [II: 1251-1259]). Riguardo alla paternità di questo uccello, Hyginus riporta tre tradizioni diverse: secondo alcuni, l'aquila era figlia di Typhn ed Ékhidna, secondo altri di Tártaros e G, ma secondo i più, dice Hyginus, si trattava di una creatura artificiale: era stata infatti fabbricata da Hḗphaistos e Zeús le aveva dato la vita al preciso scopo di torturare Promētheús (De Astronomia [II: 15: 3]). Sempre Hyginus fornisce altrove il presunto nome dell'aquila: Aeton, la «fulva», in realtà una trasparente latinizzazione del greco aetós «aquila», e afferma divorasse il cuore – e non il fegato – di Promētheús (Fabulae [31]).

Che nel mito greco l'animale torturatore assuma l'aspetto di un'aquila è una scelta quasi ovvia, visto che l'aquila era l'animale sacro a Zeús. Questi rapaci fungevano da ausiliari del re degli dèi e da esecutori della sua volontà. Nel mito di Promētheús, l'aquila diviene una proiezione dello stesso Zeús, o comunque del suo spirito di giustizia o di vendetta.

V - PROMĒTHEÚS E IL PRAMANTHA

Sulla scolta dei primi studi indoeuropeistici, molti studiosi si premurarono di cercare tracce di Promētheús nella mitologia indiana e non tardarono a trovare, nella sterminata letteratura sanscrita, una coppia di fratelli chiamati Manthu e Pramanthu. Robert Graves li presentò come dei prototipi di Epimētheús e Promētheús, seguìto da altri studiosi. Senonché i due nomi compaiono in un'unica fonte, che è una semplice genealogia:

madhoḥ sumanasi vīravratas Nel grembo di Sumanā, Madhu generò Vīravrata.

tato bhojāyāṁ manthu-pramanthū jajñāte

Nel grembo di Bhoja, Vīravrata generò Manthu e Pramanthu.
manthoḥ satyāyāṁ bhauvanas Nel grembo di Satyā, Manthu generò Bhauvana...
Śrīmad Bhāgavatam [V: 15: 14-15]

Ma non c'è davvero nulla che permetta di collegare questi Manthu e Pramanthu ai nostri Epimētheús e Promētheús, se non una vaga rassomiglianza dei nomi e un rapporto di fratellanza. Sebbene la pista si rivelasse poco fruttuosa, gli indologi non tardarono a notare che, in sanscrito, pramantha è il nome dell'asticella verticale del trapano da fuoco che, sfregata contro un'esca, permette di accendere una fiamma. L'immagine di Promētheús che porta il fuoco, rubato agli dèi, nel cavo di una canna, assumeva d'un tratto nuovi significati.

Più che interpretare un'etimologia, bisognava in realtà spiegare un'assonanza. E ad aumentare la confusione, contribuiva il vasto numero di possibili impieghi delle radice manth-, legata al movimento rotatorio alternato. La parola manthana significa peraltro «frullatura», indicando l'operazione di produzione del burro in una zangola; in uno scenario mitico, il termine rimanda all'Amṛtamanthana, la frullatura dell'oceano di latte dalla quale era stata prodotta l'amṛta, la bevanda d'immortalità degli dèi indiani, di cui abbiamo parlato in proposito della titanomachia. Il verbo manth/math significa «mescolare, agitare, strofinare, suscitare, affliggere», ma anche «produrre fuoco per frizione»; da cui pramath, «colpire, strappare, trascinare via».

Nella seconda metà dell'Ottocento, il filologo Adalbert Kuhn (1812-1881), iniziatore di una scuola di studi mitologici basati sulla filologia comparativa, ipotizzò che proprio dal verbo sanscrito ma(n)thati, nel significato di «predare», si fosse sviluppato il greco manthánō, «imparare», visto come istruzione compiuta appropriandosi del sapere altrui. Il nome di Promētheús si sarebbe formato, secondo Kuhn, da una polisemia tra le parole sanscrite pramātha, «rapina», e pramantha, «asticella del trapano da fuoco» (Kuhn 1886). Sebbene assai criticata dai classicisti, questa ipotesi ebbe vita lunga, tanto che, settant'anni dopo, nel suo lessico antico-indiano, l'indologo Manfred Mayrhofer trovava «credibile» il collegamento tra il sanscrito pra-math- (nel significato di «predare») e il greco Promētheús, dorico Promatheús (Mayrhofer 1956). Anche Robert Graves non si fece scrupolo di derivare direttamente il greco dal sanscrito e scrisse che il nome di Promētheús «ebbe forse origine da un'errata interpretazione greca della parola sanscrita pramantha, indicante la svastica o fiaccola che, si dice, Promētheús avrebbe inventato» (Graves 1955).

L'ipotesi è stata ripresa in tempi recenti da Giorgio de Santillana ed Hertha von Dechend nel loro monumentale Hamlet's Mill. Sebbene criticando gli eccessi etimologici degli indoeuropeisti, i due studiosi analizzano la figura di Promētheús e il suo mito di furto e ri-accensione del fuoco in termini astronomici (De Santillana ~ Von Dechend 1969). Il loro studio, per molti versi imprescindibile, è tuttavia lontano dai nostri scopi.

VI - UNO SGUARDO NEL CAUCASO

Che gli antichi Elleni collocassero il supplizio di Promētheús tra le più aspre vette del Caucaso non era certamente dovuto a un semplice gusto di esotismo, sebbene non si possa celare – nella sua fase più antica – una sorta di intuizione cosmologica, visto che il Caucaso era considerato il più remoto lembo orientale del mondo conosciuto. Scrive Strábōn:

 

I Greci hanno chiamato questi monti Caucaso, pur se distano dall'India più di tremila stadi. Lì si svolge il racconto mitico di Promētheús e del suo incatenamento: ma questo perché, allora, il Caucaso era l'estremo limite orientale conosciuto!
Strábōn: Geōgraphiká [XI, 5, 5]

Eppure, questo paese lontanissimo, la Colchide (greco Kolkhís, georgiano Kʻolxeṫi), meta degli Argonaûtai nella loro leggendaria spedizione alla ricerca del vello d'oro, era ben noto al mondo egeo, con il quale aveva stretto una fitta rete di traffici già dalla prima metà del Primo Millennio a.C. Intorno al VII sec. a.C. i mercanti milesi avevano stabilito i primi emporia commerciali sulla costa del Mar Nero, poi divenuti vere e proprie colonie. Vi furono dunque intensi scambi culturali tra il Caucaso e la Grecia, per quanto sia difficile stabilirne entità e direzioni.

Ciò che è certo è che, già nell'antichità, un'intera tradizione affermava che il mito di Promētheús provenisse proprio dal Caucaso.

Lucius Flavius Arrianus (±95-±175), che esplorò il Ponto Eusino intorno al 130, annota che, presso Dioskouriás, nella Colchide, gli fu indicato il monte dove, secondo le tradizioni locali, era stato incatenato Promētheús: «Ci mostrarono un cima del Caucaso, chiamata Strobil, sulla quale, come dicono i miti, Promētheús era stato incatenato da Hḗphaistos, per comando di Zeús» (Periplus Ponti Euxini [II, 5]). Secondo Doûris di Samo (±340-±270 a.C.), a sua volta citato dallo scoliaste di Apollṓnios Rhódios, il personaggio di Promētheús era così popolare presso gli abitanti del Caucaso occidentale, che essi si rifiutavano di praticare il culto di Zeús e di Athēnâ, ritenuti responsabili del suo supplizio, ma celebravano invece Hērakls, suo liberatore. Il sofista Phlávios Philóstratos (170/172-247/250) riporta tutta una serie di interessanti indicazioni a proposito delle leggende locali legate a un personaggio incatenato sulle vette del Caucaso:

 

Riguardo a queste montagne circolano tra i barbari le stesse tradizioni dei poeti greci, che cioè vi era stato incatenato Promētheús, per la sua filantropia, e che Hērakls, non avendo sopportato tale cosa, uccise con una freccia l'uccello che dilaniava le viscere di Promētheús. Secondo gli uni, egli era incatenato in una caverna sul fianco della montagna, che viene ancora indicata. Dámis dice addirittura che nella roccia sono ancora infisse le sue catene, la cui grandezza è inimmaginabile. Secondo altri, [Promētheús era incatenato] sulla vetta di una certa montagna: questo monte ha due cime che distano tra loro più di uno stadio, e si dice che egli era incatenato con una mano a una e con l'altra all'altra, tanto era smisurato! Quanto all'aquila, gli abitanti del Caucaso la considerano nemica e dànno fuoco, per mezzo di frecce incendiarie, ai nidi da essa costruiti sulle rocce e le tendono insidie, spiegando questo modo d'agire col desiderio di vendicare Promētheús: questo mostra fino a che punto essi sono convinti della verità della tradizione.
Phlávios Philóstratos: De vita Apollonii Tyanensis [II, 3]

Difficile dire quanto siano effettivamente «caucasiche» le notizie riferite da Doûris, Philóstratos e Arrianus, e se non siano state piuttosto colorate a tinte elleniche. Dioskouriás, l'attuale Soxumi in Abxasia, era una colonia greca: i racconti riferiti dagli autoctoni ai viaggiatori e mercanti greci avevano avuto tutto il tempo di ispirare, influenzare e fondersi con i miti ellenici.

Ma a ritrovare la figura di Promētheús tra le inviolate vette del Caucaso, a duemila anni di distanza, furono proprio i folkloristi russi e georgiani, i quali, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX raccolsero, presso diversi popoli caucasici, una mutrita serie di leggende popolari incentrate su un titanico guerriero incatenato sulla cima di una montagna per aver sfidato la collera del dio supremo. Il suo nome è Amirani presso Georgiani e Svaneti, Abrysk’yl presso gli Abxasi, Teʒau presso i Circassi Adǝgė, Nesren presso i Circassi Cabardini, sebbene siano registrate anche altre lezioni. Il suo ciclo ha avuto il suo massimo sviluppo in Georgia dove è stato raccolto in quasi duecento varianti, e ancora oggi sembra vivo e produttivo. La data recente di queste raccolte non deve trarre in inganno: la storia dell'eroe incatenato è infatti molto antica. La troviamo attestata in un romanzo medievale, l'Amiran-Dareǯaniani, di Mose Xoneli (✍ XII sec.), opera giudicata tuttavia troppo letteraria e distante dalla materia orale per essere di qualche utilità per il mitologo. Una versione ancora più antica è contenuta nella Hayoc‘ Patmowt‘yown, la «Storia della Grande Armenia» di Movsēs Xorenac‘i (✍ IV sec.?).  ①

Amirani, con spada e fiaccola
Marneuli (Georgia)

A rendere noto in Occidente questo ciclo di leggende ha pensato soprattutto lo studioso franco-georgiano Georges Charachidzé (Giorgi Šarašiʒe, 1930-2010), nel suo magistrale studio, Prométhée ou le Caucase (Charachidzé 1986). Secondo il «mito di riferimento» utilizzato da Charachidzé per la sua analisi, Amirani è concepito in tre notti dagli amori melusiniani di un cacciatore e della dea Dali, protettrice della selvaggina cornuta. Questa, sorpresa dalla moglie del suo amante, deve allontanarsi dal mondo. Ma prima di andarsene, costringe l'uomo a squarciarle il ventre, ed egli ne estrae un bambino prematuro, la cui gestazione sarà portata a termine successivamente nel ventre di un torello e di una giumenta. Esposto presso una sorgente, il bimbo viene «battezzato» da un vecchio, il quale non è altri che Morige Ḡmerṫi, il dio supremo degli antichi Cartveli. Il padrino gli conferisce, oltre al nome, anche capacità sovrumane. Poi un contadino lo raccoglie e lo alleva con i suoi due figli Badri e Usip‘.

Divenuti adolescenti, Amirani, Badri e Usip‘ lasciano la propria abitazione e si avviano verso una serie di imprese eroiche. Lasciatisi ben presto alle spalle i due fratelli, troppo «umani» al confronto delle proprie capacità, Amirani si batte contro avversari soprannaturali sempre più potenti. Sconfigge dapprima un dev tricefalo, Baq‘baq‘, quindi i tre serpenti [vešapʻebi] che fuoriescono dalle sue tre teste: il terzo lo ingoia ed Amirani deve strapparsi dal suo ventre ed emergere dal mondo sotterraneo. Dopo di che rapisce Q‘amar, figlia del re dei dèmoni-fabbri aǯebi, per farne la propria sposa, ma deve combattere contro il padre di lei e tutta l'armata demoniaca. Ucciso, quindi riportato in vita, Amirani prosegue un'esistenza solitaria ed errabonda, combattendo contro ogni possibile avversario e uscendo sempre vincitore. Ha un momento di défaillance quando non riesce a sollevare la gamba del defunto gigante Ambri Arabi, ma il dio Morige Ḡmerṫi gli accorda una forza supplementare, pur sapendo che l'eroe non ne avrebbe fatto buon uso. Una biografia guerriera, dunque, che abbiamo qui riassunto in pochi tratti (per i dettagli rimandiamo il lettore al nostro studio apposito ②), estranea al complesso prometeico: si tratta infatti di un complesso mitico di origine indo-iranica, di cui troviamo elementi nella lotta tra Θraētaona e Aži Dahāka. ③

Arrivato al culmine delle proprie forze, sterminati tutti gli avversari, Amirani si ritrova senza nessuno con cui battersi. Il mondo è divenuto un deserto. Sfida allora il suo padrino, Morige Ḡmerṫi. Il dio supremo rifiuta la lotta, ma gli impone una sfida: di sradicare il bastone che egli pianterà al suolo. Amirani accetta. Il dio pianta il bastone al suolo, ma l'eroe riesce a sradicarlo per due volte. La terza volta, il bastone mette radici talmente profonde che Amirani non riesce nemmeno a smuoverlo. È allora che Ḡmerṫi, per punirlo della sua tracotanza, incatena Amirani al bastone, ormai divenuto un inamovibile palo di ferro (Č‘ič‘inaʒe 1896). Molte sono le varianti registrate riguardo al motivo della punizione di Amirani. In in un caso, Amirani viene sfidato a sollevare una pietra, ma non riesce neppure a smuoverla e rimane con le mani attaccate alla pietra (Čʻikʻovani 1947). Diverse varianti specificano che il dio non incatena personalmente Amirani, ma manda dei aǯebi, i quali lo assicurano al palo.

Il castigo, però, non è ancora terminato. Dio scuote le montagne e fa cadere su Amirani la cima dell'odierno monte Qazbegi (o lo Ialbuzi/Ėlbrus, nelle versioni occidentali). L'eroe si ritrova così ricoperto da un'immensa cupola di roccia, che lo isola completamente dal mondo. Come compagno di prigione, ha il cane alato Q‘urša, figlio di un'aquila. Il cane lecca giorno e notte una maglia della catena, assottigliandola sempre di più. Ma all'alba del lunedì di Pasqua, nel momento in cui la catena sta per cedere all'usura e Amirani è sul punto di essere liberato, i fabbri di tutta l'umanità entrano nella fucina e, nel più assoluto silenzio, percuotono a tre riprese l'incudine o plasmano un piccolo oggetto simbolico. Immediatamente, le catene di Amirani riprendono la loro saldezza, l'eroe rimane prigioniero e il cane alato ricomincia il suo lavoro, fino all'anno successivo.

È impossibile riportare nei dettagli tutti gli addentellati della splendida ricerca di Charachidzé, e d'altra parte ci interessano qui soltanto le relazioni con la figura di Promētheús. Tra Promētheús e Amirani vi è infatti un'incolmabile differenza di carattere: il titán greco è caratterizzato dalla sua intelligenza, laddove gli eroi caucasici sono presentati come guerrieri. A tale differenza fa da contraltare, simmetricamente, il fatto che Promētheús non è mai un guerriero. Anzi, rifiuta con decisione l'uso sistematico della violenza propugnato dai Titânes, per mettere la sua astuzia dalla parte di Zeús. Il campione caucasico, al contrario, sembra del tutto ignaro della possibilità di utilizzare strategie più complesse della semplice applicazione di un impeto superiore a quello del nemico. Quando si trova di fronte ad avversari più potenti di lui, Amirani risolve imparando nuove tecniche di combattimento o chiede al dio supremo una forza supplementare che lo aiuti a superare l'ostacolo.

Più significativo, in questa sede, è il modo in cui i due personaggi esplicano le loro facoltà. Promētheús eccelle in intelligenza, tanto che può permettersi di gareggiare in scaltrezza con lo stesso Zeús. Nel Caucaso, Amirani è il più forte guerriero del mondo: ha sconfitto ogni possibile nemico, umano o diabolico, tanto che non vi è più, sulla Terra, un avversario che possa sostenere il suo impeto: è a questo punto che, nella sua sicurezza e tracotanza, Amirani arriva a sfidare il dio supremo.

Dunque, seppure diversi nella natura delle loro capacità, Promētheús ed Amirani sono presentati come coloro che hanno elevato le loro capacità – rispettivamente intellettuali e guerriere – al massimo grado concepibile. Il dettaglio, come giustamente nota Charachidzé, è connaturato agli schemi ideologici delle due aree culturali, la Grecia e il Caucaso. Un campione che disputi su livelli diversi dal valore guerriero sarebbe stato del tutto inconcepibile tra i montanari della Georgia e dell'Abxasia. La sfida che Amirani lancia al dio supremo è un invito a battersi; e la risposta del dio prende sempre la forma di una sfida fisica, sebbene opponga poi una resistenza ontologica. (Charachidzé 1986¹)

I popoli caucasici sembrano ignorare il tema della riconquista del fuoco, cosa che ha indotto molti studiosi a ricercarne presunte tracce nel ciclo amiranico. Ad esempio, si è voluto interpretare il personaggio di Q‘amar, figlia del re dei aǯebi, come una figura solare, e quindi il suo rapimento da parte di Amirani avrebbe rappresentato un equivalente metaforico del furto del fuoco (Nucubiʒe 1960). Analogamente, il folklorista Mixeil Čʻikʻovani afferma di aver raccolto, nel 1948, nel villaggio di Imereti, «un frammento della leggenda di Amirani, da cui si ricava che l'eroe incatenato fu punito per aver rubato il fuoco» (Čʻikʻovani 1966); notizia che lascia lo stesso Charachidzé piuttosto perplesso, sia perché non si tratta né di un racconto, né di un poema, ma di una semplice dichiarazione del folklorista; sia perché il motivo, così com'è riferito, gli sembra troppo vicino al modello greco – troppo «prometeico» – per essere autentico. Stessa cosa si può dire su un racconto cabardino su Nesren, talmente vicino al racconto esiodeo da far sospettare il plagio (Charachidzé 1986). ⑤

VII - PROMĒTHEÚS, SYRDON E LOKI. LO SCHEMA INDOEUROPEO

Le relazioni rilevate tra leggende greche e caucasiche hanno suscitato un vivo interesse tra gli studiosi, e al riguardo è sorta un'interessantissima letteratura comparatistica, a cui rimandiamo per ulteriori studi. Ciò che è sfuggito, o comunque è rimasto in sottotono, è il fatto che il complesso caucasico trova una corrispondenza con il mito greco solo nel quarto punto dello schema che avevamo rilevato in precedenza:

  1. Il sacrificio di Mēkṓnē. Promētheús stabilisce le parti nei sacrifici cercando di ingannare Zeús.
  2. Il sequestro del fuoco. Zeús, infuriato che agli uomini sia rimasta la parte migliore, cessa di elargire loro il fuoco.
  3. La riconquista del fuoco. Promētheús ruba il fuoco agli dèi e lo restituisce ai mortali.
  4. L'incatenamento. Per punizione, Promētheús viene incatenato a una rupe, nel Caucaso.

Nei vari esiti del mito del prometeo caucasico troviamo solo il motivo dell'incatenamento. La biografia di Amirani è infatti una biografia guerriera e, nonostante gli sforzi degli studiosi – soprattutto georgiani – di trovare tracce del mito del furto del fuoco nella leggenda amiranica, esso ha continuato semplicemente a eluderli. La leggenda di Amirani è un collage in cui riconosciamo tradizioni caucasiche, miti iranici legati alle gesta di Θraētaona e il tema prometeico dell'incatenamento.

Eppure, lo schema da noi delineato, in quattro punti, non è casuale, bensì perfettamente rintracciabile in ambito indoeuropeo. Un primo esito è attestato presso gli Osseti, unico popolo del Caucaso a parlare un idioma indoiranico, in un racconto del ciclo dei Nartæ, di cui Georges Dumézil ha pubblicato ben sette varianti (quattro ossetiche, una čečena, una cabardina e una tatara) nel suo Légendes sur les Nartes, senza però notare le affinità con il mito greco (Dumézil 1930). Protagonista di questo racconto è Syrdon, il narte astuto e ingannatore, che Dumézil ha giustamente avvicinato a Loki, ma che non sfigurerebbe neppure di fronte a Promētheús.

Nel racconto in questione, riportato nell'antologia Narty kaǯǯitæ, tutti i più famosi eroi narty (Uryzmæg, Xæmyc, Soslan, Batraʒ, etc.) partono per una spedizione, e portano con loro Syrdon, allo scopo di prendersi gioco di lui. Esasperato dai continui scherzi dei suoi compagni, Syrdon fa sparire loro gli acciarini, e così, venuto il momento di arrostire un cervo, i nartæ si scoprono impossibilitati ad accendere il fuoco. Syrdon viene allora spedito a cercare del fuoco, ma egli escogita invece un tranello per liberarsi dei suoi compagni, i quali cadono nelle mani di un branco di wæjug, orchi o giganti delle leggende ossete. Finalmente solo, Syrdon accende il fuoco per suo conto e arrostisce il cervo, con sua grande soddisfazione. In seguito, grazie alla sua astuzia, Syrdon salva i compagni dall'essere a loro volta divorati dai wæjug, ma questi, per tutta ricompensa, lo legano sulla cima di un albero e lo lasciano lì, tra cielo e terra, a morire di fame. Ma Syrdon riesce a convincere un pastore a liberarlo, mettendolo poi al suo posto. I nartæ, che pensavano di essersi liberati di Syrdon una volta per tutte, si stupiscono grandemente di vederlo tornare, vivo e vegeto, e con una mandria immensa. (Dumézil 1965). ①

Loki (1765-1766)
Ms. SÁM 66. Stofnum Árna Magnússonar, Reykjavík (Islanda).

La tradizione scandinava presenta un mito simile incentrato su Loki. Anch'esso personaggio ambiguo, astuto, di animo malvagio e volubile, facile alle falsità e agli inganni, Loki è chiamato bǫlsmiðr, «fabbro di mali» e, proprio come Promētheús, è destinato a venire incatenato dagli dèi in punizione delle sue malefatte. Un confronto tra Loki e Promētheús, più volte proposto da studiosi e appassionati, non è mai stato delineato con sufficiente chiarezza. Eppure, i due personaggi presentano un gran numero di sorprendenti somiglianze e, naturalmente, anche degli interessanti punti di distacco.

Entrambi sono degli elementi inizialmente estranei ai rispettivi panthea. Anzi, appartengono per nascita alla schiera dei nemici degli dèi. Promētheús è figlio di un titán, accolto sull'Ólympos da Zeús, come suo stratega, nel corso della titanomachia. Loki è figlio di due giganti, Fárbauti e Laufey, e ci piacerebbe sapere come sia entrato in Ásgarðr: il mito in questione non è stato tramandato, sebbene in un poema eddico si parli di un patto di sangue che Óðinn e Loki avrebbero stipulato all'inizio dei tempi (Lokasenna [9]).

Loki è caratterizzato da un'intelligenza astuta, assai affine a quella di Promētheús. Ma mentre Promētheús dirige la sua astuzia contro l'autorità costituita, Loki non fa alcuna distinzione sulle vittime che prende di mira, siano essi dèi, nani o giganti, e gode semplicemente nel danneggiare gli altri con i suoi scherzi atroci. Loki commette le sue malefatte obbedendo al genio del momento: l'idea che sarà scoperto e severamente punito non lo tocca nemmeno. Ma anche Promētheús, a dispetto del significato del suo nome, il «preveggente», sembra incapace di prevedere le conseguenze delle sue azioni ②. La contraddizione è talmente palese che Aiskhýlos sente addirittura la necessità di esplicitarla. Una volta incatenato il titán alla sua rupe, infatti, Krátos e Bíē si allontanano sibilando queste parole:

«Pseudōnýmōs se daímones Promēthéa
kaloûsin. autòn gár se deî promēthéōs,
hótōi trópōi tsd' ekkylisthḗsēi tékhnēs.
»
Krátos: «[...] Le potenze celesti hanno mentito
chiamandoti Promētheús, il preveggente,
perché hai bisogno tu, di chi preveda
come uscire da questi nodi esperti.»

Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [85-87]

Nello Skáldskaparmál, Snorri racconta il mito del rapimento della dea Iðunn da parte del gigante Þjazi trasformato in aquila: storia interessantissima e ricca di addentellati, di cui abbiamo parlato alla pagina apposita ③. Snorri trae la vicenda da una composizione dello scaldo Þjóðólfr ór Hvíni (attivo tra la fine del  e l'inizio del  secolo), l'Haustlǫng, o «Lungo come un autunno», nel quale il medesimo mito è narrato nello stile ellittico e involuto della poesia scaldica.  In entrambe le versioni, il mito del rapimento di Iðunn viene fatto precedere da un lungo racconto introduttivo nel quale Óðinn, Loki e Hǿnir, durante un viaggio, uccidono un bue e mettono a cuocerlo nel seyðir, una sorta di forno campestre allestito in una buca scavata nel terreno. Ma il bue rifiuta di cuocersi. I tre æsir scoprono che a rendere il fuoco inoperante è un'aquila appollaiata su una vicina quercia. L'aquila li informa che il bue cuocerà solo se le offriranno una porzione. Gli dèi accettano e Loki viene chiamato a fare quattro parti uguali. Ma l'aquila vola giù dalla quercia e ghermisce i quattro quarti del bue, ovvero l'intero animale.

La situazione, nel mito vichingo, si presenta analoga a quanto avevamo visto in Grecia a proposito del sacrificio di Mēkṓnē. C'è da suddividere un animale abbattuto tra due fazioni. In Grecia, avevamo da una parte gli uomini, dall'altra parte Zeús; in Scandinavia, abbiamo da una parte gli æsir, dall'altra parte un'aquila appollaiata su una quercia. Forse non è inutile far notare che il secondo partito, nei due complessi mitici, si equivale, perlomeno a livello simbolico: l'aquila e la quercia erano rispettivamente l'uccello e l'albero sacri a Zeús. In posizione di mediatore, inoltre, abbiamo Loki in Scandinavia e Promētheús in Grecia: è a loro che viene chiesto di fare le parti.

In entrambi i miti, la divisione si risolve con un inganno. In Scandinavia è l'aquila a prendersi l'intero bue, mentre in Grecia Zeús appare piuttosto la vittima della beffa (sebbene la sua porzione si rivelerà la migliore). Il sequestro del fuoco, in entrambi i miti, serve a impedire la cottura del bue a chi vorrebbe cibarsene, ma le finalità sono diverse: in Grecia, Zeús toglie il fuoco per punire coloro che si sono aggiudicati la carne con l'inganno; in Scandinavia, Þjazi impedisce l'uso del fuoco per costringere i tre æsir a consegnargli una porzione del bue. Il racconto scandinavo sembra il più alterato: non ha senso che Þjazi renda inoperante il fuoco al fine di estorcere agli æsir la promessa di cedergli un quarto del bue, se poi ha intenzione di prenderselo tutto. Ma i due miti hanno rielaborato, ciascuno a suo modo, il medesimo complesso di elementi.

  1. Abbattimento di un animale. Sia a Loki che Promētheús viene chiesto di fare le parti del bue abbattuto, allo scopo di dirimere una contesa nella spartizione della carne.
  2. Inganno nella spartizione. Promētheús presenta due porzioni «taroccate» in modo che Zeús scelga quella sbagliata e tocchi agli uomini la parte commestibile. Þjazi estorce la promessa che gli toccherà una porzione, ma sarà lui stesso a trasgredire al patto prendendosi tutto il bue.
  3. Sequestro del fuoco. Zeús toglie agli uomini il fuoco per punirli dell'inganno e costringerli a mangiare cruda la parte che hanno ottenuto. Þjazi rende il fuoco inoperante per estorcere loro la promessa di cedergli una porzione.

Ma non è finita qui. Loki reagisce picchiando l'aquila con un bastone. Accade però una cosa inaspettata: il bastone aderisce alla schiena dell'aquila e lo stesso Loki non può più staccare le mani dal bastone. Come risultato, l'áss viene trascinato in cielo da Þjazi, in un volo spaventoso. Inutilmente Loki, in preda al dolore, implora l'aquila di lasciarlo andare: Þjazi acconsente solo quando Loki gli giura che gli avrebbe condotto la giovane dea Iðunn.

Non solo i due episodi risultano maldestramente collegati, ma la scena di Loki attaccato a un'asta che a sua volta aderisce al dorso di un'aquila, appare piuttosto grottesca e macchinosa. Quando, in un mito, troviamo elementi così ridondanti e mal combinati, è segno che l'autore cerca di rimanere fedele a una materia che non comprende del tutto. Gli elementi di questa scena appartengono senza dubbio a un mito ancora più antico, divenuto ormai incomprensibile sia a Þjóðólfr che a Snorri. Un possibile suggerimento su come sciogliere l'enigma ci arriva proprio dal Caucaso. Vi è infatti una versione alternativa della cattura di Amirani (LA22) che fa intervenire il dio Givargi, il san Giorgio degli spazi selvaggi. In questa storia, piuttosto romanzata, Amirani tenta di sedurre e rapire la figlioccia di Givargi. Il nume si reca allora da Ḡmerṫi e gli propone di far morire Amirani. Il dio supremo preferisce però essere conciliante e intima ad Amirani di rinunciare alla fanciulla. La risposta di Amirani è tracotante: «Non solo io farò a modo mio, ma se tu mi sbarri la strada, io lotterò con te.

Ḡmerṫi gli disse: «Se le cose stanno così, io ora lascerò libero un uccello, Tu siediti sul tuo tappeto volante e inseguilo. Se lo pigli, allora sei un valoroso.»
«Bene» disse Amirani.
E si lanciò sul suo tappeto all'inseguimento dell'uccello. Ma più andavano e più cresceva la distanza tra loro. L'uccello volava sempre più in alto e finì per raggiungere il monte Ialbuzi [Ėl'brus]. Amirani non abbandonò l'inseguimento e raggiunse l'uccello sullo Ialbuzi.
Mentre si preparava ad afferrarlo, si accorse che teneva tra le mani un palo, un gran palo di ferro. Ed era incatenato a questo palo. Amirani si disperò, ma che fare?
LA22

Sebbene sia lontana dalle altre versioni caucasiche, questo strano inseguimento aereo di Amirani ricorda in maniera irresistibile la scena del volo di Loki. Non deve trarci in inganno il fatto che qui l'eroe disponga di un tappeto volante, che è una trovata puramente accessoria di LA22. Quello che ci interessa è piuttosto il riaffacciarsi degli stessi elementi in contesti simili, sebbene differisca la loro funzione. Nelle due vicende, un uccello è causa del sollevamento dell'eroe: Loki viene sollevato da Þjazi, trasformato in aquila, contro la sua volontà; Amirani si ritrova a inseguire un uccello che vola sempre più in alto, ben oltre le sue capacità di raggiungerlo. In entrambi i casi, si presenta il superamento di un limite: Loki viene sollevato oltre la resistenza fisica del suo corpo, Amirani si ritrova a inseguire un uccello più veloce di quanto lui stesso non riesca a volare. In entrambi i casi, infine, il contatto tra il protagonista e l'uccello non è diretto, ma mediato da un bastone, da un'asta. Loki si ritrova le mani incollate al bastone e non riesce a staccarle, mentre l'aquila lo trascina in cielo. Nella versione caucasica, Amirani, nel momento in cui sta per catturare l'uccello, si ritrova una bastone tra le mani, senza che l'autore del testo sappia dirci come e perché, e rimane incatenato ad esso. Il materiale è corrotto in entrambi i racconti, ma a questo punto una cosa è chiara: il bastone è il palo del supplizio.

Dopo quanto abbiamo detto, è facile pensare all'immagine di Promētheús punito da Zeús, incatenato a una colonna, sulla cima a un'altissima montagna, con un'aquila che scende a rodergli il fegato. Loki non è incatenato a una colonna, ma è avvinto a una stanga ed anch'egli è sospeso tra il cielo e la terra; l'aquila è anche qui uno strumento di tortura, sebbene non gli frughi il ventre con il becco, ma è essa stessa a sollevarlo in cielo. Gli elementi del supplizio sono gli stessi per Loki e Promētheús, sebbene utilizzati in maniera affatto diversa.

  1. Incatenamento a una colonna o a una stanga (con lacci e/o catene nel mito greco, con un incantesimo in quello nordico).
  2. Sollevamento tra il cielo e la terra (letterale nel caso di Loki, sulla cima di una montagna per Promētheús).
  3. Presenza di un'aquila (la quale solleva Loki nel mito nordico; in quello greco si limita a torturare Promētheús rodendogli il fegato).

In conclusione, è evidente che Þjóðólfr e Snorri abbiano utilizzato gli elementi di un mito assai più antico, ma tali elementi, sebbene singolarmente scombinati, appartengono al medesimo tema che in Grecia ha prodotto il complesso mitico del sacrificio di Mēkṓnē, con relativo inganno, sequestro del fuoco e condanna di Promētheús. Non esiste però un mito dove Loki va a riprendersi il fuoco (anche se partirà alla ricerca di Iðunn rapita da Þjazi: ma è difficile sostenere la sostituzione di un tema con un altro tanto diverso). Dobbiamo dunque rinunciare a questo motivo, presente in Grecia, ma non in Scandinavia, e accontentarci di mettere in sequenza il resto del racconto. ④

Il nostro studio, a questo punto, ha dunque evidenziato tre racconti omologhi diffusi in ambiti indoeuropei: quello di Promētheús in Grecia, di Loki in Scandinavia, di Syrdon in Ossezia. I tre miti mostrano una serie di strette correlazioni:

  GRECIA SCANDINAVIA OSSEZIA
0 Promētheús è caratterizzato dalla mtis, l'intelligenza astuta. È un personaggio dall'ingegno fervido, inventore di tecniche e strumenti. A dispetto del suo nome, sembra incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Loki è caratterizzato da un'astuzia maligna, incline a fare dispetti e scherzi. È l'inventore della rete da pesca e di altri strumenti. È incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Syrdon è caratterizzato da un'astuzia maligna, incline a fare dispetti e scherzi. È l'inventore di uno strumento musicale. È incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azioni.
1 Promētheús discende dai titânes, ma si schiera dalla parte degli dèi e mette la sua intelligenza al loro servizio. Grazie ai consigli di Promētheús, Zeús vince la guerra  contro i titânes. Loki discende dagli jǫtnar, ma stringe un patto di sangue con Óðinn e viene accolto in Ásgarðr. Assai ambiguo, utilizza la sua intelligenza ora al servizio degli æsir, ora a loro danno. Syrdon viene accolto nel villaggio dei narty, pur essendo un estraneo. Ambiguo, utilizza la sua intelligenza ora al servizio dei narty (come quando li salva dai wæjug), ma più spesso a loro danno.
2 Promētheús viene chiamato a spartire la carne di un bue tra gli dèi e gli uomini, ma ordisce un tranello in modo da riservare agli uomini la parte migliore. Zeús, in punizione, toglie il fuoco agli uomini. A Loki viene chiesto di dividere la carne di un bue abbattuto tra gli æsir e il gigante Þjazi. Quest'ultimo, ha reso inoperante il fuoco in vista di un inganno che gli assicurerà l'intero bue. Syrdon, dopo aver rubato gli acciarini ai narty, impedendo loro di accendere il fuoco, li inganna, facendoli cadere nelle mani dei wæjug, e si assicura l'intero cervo.
3 In punizione, Promētheús viene legato a una colonna, sui monti del Caucaso, e lasciato lì a soffrire. Ogni giorno, un'aquila gli rode il fegato. Loki rimane con le mani avvinte a un bastone, e il gigante Þjazi, trasformato in aquila, lo solleva in cielo, fino ai limiti della resistenza fisica. I narty puniscono Syrdon appendendolo in cima a un altissimo albero e lasciandolo lì a morire di fame e di sete.

Questo schema, già piuttosto dettagliato, non mostra tuttavia il motivo escatologico, legato a fino doppio questo schema mitico, e che vedremo nel prossimo capitolo.

VIII - IL MOTIVO ESCATOLOGICO

Il mitema dell'incatenamento del prometeo è solitamente legato a un motivo escatologico. Abbiamo visto che, nel Caucaso, si cerca di evitare che Amirani si liberi delle proprie catene, perché quando questo accadrà, sarà la fine del mondo ①. Un simile mito veniva narrato per l'eroe Artawadz in Armenia ②. Tale motivo appare soltanto implicito nel racconto greco di Promētheús, sebbene trovi compiuta realizzazione sia nel mito scandinavo di Loki.

Nel mito scandinavo, Loki viene incatenato dagli dèi per aver causato la morte di Baldr, figlio di Óðinn. Baldr è il dio della giustizia e della pace. E la sua morte, orchestrata da Loki, è l'ultimo atto di un crollo etico e morale che investirà tutto il mondo, conducendolo in quello che è lo stato attuale delle cose: violenza, ingiustizia, impudicizia, slealtà e crudeltà. Si tratta di uno degli episodi più importanti del mito scandinavo e più efficacemente esplorati dagli studiosi. Catturato, Loki viene incatenato in un'oscura caverna e non gli si risparmia un'orrendo supplizio. ③

Nú var Loki tekinn griðalauss ok farit með hann í helli nǫkkvorn. Þá tóku þeir þrjár hellur ok settu á egg ok lustu rauf á hellunni hverri. Þá váru teknir synir Loka, Váli ok Nari eða Narfi. Brugðu æsir Vála í vargslíki ok reif hann í sundr Narfa, bróður sinn. Þá tóku æsir þarma hans ok bundu Loka með yfir þá þrjá eggsteina, einn undir herðum, annarr undir lendum, þriði undir knésfótum, ok urðu þau bǫnd at járni. Þá tók Skaði eitrorm ok festi upp yfir hann svá at eitrit skyldi drjúpa ór orminum í andlit honum. En Sigyn kona hans stendr hjá honum ok heldr mundlaugu undir eitrdropa, en þá er full er munnlaugin, þá gengr hon ok slær út eitrinu, en meðan drýpr eitrit í andlit honum. Þá kippisk hann svá hart við at jǫrð ǫll skelfr. Þat kallið þér landskjálpta. Þar liggr hann í bǫndum til ragnarøkrs. Loki fu dunque imprigionato senza scampo e portato dentro una caverna. Qui gli Æsir presero tre lastre di pietra, le appoggiarono su un lato e fecero un foro su ciascuna. Furono quindi presi i figli di Loki, Váli e Nari o Narfi. Gli Æsir tramutarono in lupo Váli, il quale straziò immediatamente Narfi, suo fratello. Ne presero dunque le budella e le usarono per legare Loki sulle tre lastre: una gli sta sotto le sue spalle, la seconda sotto i reni e la terza sotto le caviglie e quelle corde divennero di ferro. Skaði, poi, prese un serpente velenoso e lo fissò sopra di lui, in modo che il veleno uscisse dal serpente e cadesse sul suo volto, ma Sigyn, moglie di Loki, gli sta vicino e tiene una conca sotto la pioggia velenosa. Quando la conca è piena, ella si alza per vuotarla, ma nel frattempo il veleno cade sulla faccia di Loki, il quale si agita così violentemente che la terra tutta trema. Voi chiamate questi terremoti. Laggiù Loki resterà legato fino al ragnarøkr.
Snorri: Prose Edda > Gylfaginning [50]

L'incatenamento di Promētheús è legato al passaggio dell'umanità dallo stato edenico primordiale al mondo così come lo conosciamo, voluto in questo caso da Zeús come punizione, ereditata dal genere umano, per gli inganni di Promētheús e il furto del fuoco. Nel mondo scandinavo, le relazioni di causa-e-effetto sono opposte: Loki viene punito per aver ucciso Baldr, e quindi aver provocato il crollo dello stato di giustizia e pace in cui si trovava l'umanità prima di allora. Lo stato che segue all'uccisione di Baldr e prelude alla fine del mondo, è descritto dalla Vǫluspá con parole e termini che appartengono, in fondo, alla tradizione universale:

Bræðr munu berjask
ok at bǫnum verðask,
munu systrungar
sifjum spilla,
hart 's í heimi,
hórdómr mikill,
skeggǫld, skalmǫld,
skildir klofnir,
vindǫld, vargǫld,
áðr verǫld steypisk
mun engi maðr
ǫðrum þyrma.
I fratelli si aggrediranno
e alla morte giungeranno,
tradiranno i cugini
i vincoli di stirpe,
prova dura per gli uomini,
immane l'adulterio.
Tempo di asce, tempo di spade
s'infrangeranno scudi,
tempo di venti, tempo di lupi,
prima che il mondo crolli.
Neppure un uomo
un altro ne risparmierà.
Ljóða Edda > Vǫluspá [45]

Il ragnarǫk o ragnarøkr, il «destino [tramonto] delle potenze divine», è il termine tecnico per indicare la battaglia escatologica che metterà fine tanto agli dèi quanto al mondo, ed essa sarà causata allorché, le potenze eversive, esiliate dagli dèi ai confini dello spazio e del tempo, si libereranno e attaccheranno l'ordine istituito e garantito dagli dèi. La principale è appunto Loki: è la sua liberazione a segnare l'inizio del ragnarǫk; con lui vi sono due dei suoi figli: il lupo Fenrir e il serpente Jǫrmungandr, i quali uccideranno, rispettivamente, Óðinn e Þórr. Quindi, il mondo arderà nelle fiamme ecpirotiche. Nel mito scandinavo, tuttavia, la distruzione dell'universo è propedeutica alla nascita di un nuovo mondo, che sarà posto sotto la tutela di Baldr. Il figlio di Óðinn, ucciso da Loki ed esiliati negli inferi, tornerà infatti per governare un universo ricondotto alla felice età aurea.

In Grecia, nulla di tutto questo, almeno in apparenza. Sebbene il mito greco abbia visto un doppio passaggio di consegne nella regalità divina (da Ouranós a Krónos, quindi da Krónos a Zeús), il regno di Zeús viene visto come stabile ed eterno. In un passo, Hēsíodos allude a un futuro crollo morale dell'umanità, seguìto dalla fine del mondo (Érga kaì Hēmérai [14-21]), con parole quasi identiche a quelle della vǫlva nordica, sebbene non vi sia alcun legame con il mito di Promētheús, e soprattutto la regalità di Zeús non venga mai messa in discussione. Se dunque, nel mondo nordico, la liberazione di Loki è legata, oltre che al motivo del ragnarǫk, a un passaggio di consegne nella suprema regalità, da Óðinn a Baldr, nel mondo greco la regalità di Zeús non subisce scosse. Ma è davvero così? La risposta, inaspettatamente, è no. Ed è Aiskhýlos a seminare questi dubbi. Il suo Promētheús, incatenato alle vette del Caucaso, così grida rivolto al cielo:

«È mḕn éti Zeús, kaíper authádēs phronn,
éstai tapeinós, hoîon exartýetai
gámon gameîn, hòs autòn ek tyrannídos
thrónōn t' áiston ekbaleî. patròs d' arà
Krónou tót' ḗdē pantels kranthḗsetai,
hḕn ekpítnōn ērâto dēnain thrónōn.
toinde mókhthōn ektropḕn oudeìs then
dýnait' àn auti plḕn emoû deîxai saphs.
egṑ tád' oîda kh trópōi. pròs taûta nŷn
tharsn kathḗsthō toîs pedarsíois ktýpois
pistós, tinássōn t' en kheroîn pýrpnoun bélos.
oudèn gàr auti taût' eparkései tò mḕ ou
peseîn atímōs ptṓmat' ouk anaskhetá.
toîon palaistḕn nŷn paraskeuázetai
ep' autòs hauti, dysmakhṓtaton téras.
hòs dḕ keraunoû kreísson' heurḗsei phlóga,
bronts th' hyperbállonta karteròn ktýpon,
thalassían te gs tinákteiran nóson,
tríainan aikhmḕn tḕn Poseidnos, skedâi.
ptaísas dè tide pròs kaki mathḗsetai
hóson tó t' árkhein kaì tò douleúein díkha.
»
Promētheús: «Eppure Zeús, anche se è superbo,
sarà meschino. Si prepara nozze
che lo rovesceranno dal suo trono,
l'annienteranno. E la maledizione
che Krónos gli andava rovinando
dal seggio antico, si farà in tutto vera.
Nessuno degli dèi può rivelargli
come sfuggire a questa sorte: io solo.
Io lo so, io so come. Riposi, allora,
forte del tuono di cui trema il cielo,
lanciando la sua folgore di fuoco.
Perché non basteranno tuono e folgore
quando cadrà per sempre e senza gloria.
Da sé ora si prepara un avversario
molto duro da vincere, un prodigio,
e la sua fiamma sarà più che una folgore,
la sua percossa sarà più che tuono,
e sperderà il funebre tridente
del mare, che agita la terra,
lancia di Poseidn: a questi mali
urterà Zeús, e allora imparerà
se servire è altra cosa che regnare.»

Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [908-943]

Ciò che Promētheús, dal suo luogo di tortura, profetizza a Zeús, è che anche il grande signore degli dèi è destinato ad essere spodestato dal proprio figlio. Da un dio ancora più potente del padre, che deve ancora nascere. E l'unico che sa come evitare questa sventura è proprio lui, Promētheús. Presto, arriva Herms al cospetto del titán incatenato, cercando di indurlo a rivelare qualcosa di più su questa sibillina profezia, ma Promētheús non si smuove, e così investe il nuovo arrivato:

«Néon néoi krateîte kaì dokeîte dḕ
naíein apenth pérgam'. ouk ek tnd' egṑ
dissoùs tyránnous ekpesóntas ēisthómēn?
tríton dè tòn nŷn koiranoûnt' epópsomai
aískhista kaì tákhista. mḗ tí soi dok
tarbeîn hypoptḗssein te toùs néous theoús?
polloû ge kaì toû pantòs elleípō.
»
Promētheús: «[...] Siete signori nuovi, e vi pensate
di abitare la rocca dell'eterna
serenità: ma da quella rocca
ho sentito cadere due sovrani.
Il terzo lo vedrò crollare presto
e con più obbrobrio. Credi che io tremi,
che m'inginocchi innanzi ai nuovi dèi?
Come poco ci penso!»

Aiskhýlos: Promētheús desmṓtēs [955-959]

Di cosa sta parlando Promētheús? Si rifiuta di rivelare a Herms quel che sa sul futuro re dell'universo. È probabile che Aiskhýlos abbia sciolto l'enigma nelle successive tragedie del ciclo prometeico, le quali però sono andate perdute. Il motivo è tuttavia ben attestato presso altri mitografi. Apollódōros afferma quanto segue:

 

Alcuni dicono che quanto Zeús partì per sedurre Téthis, Promētheús lo avvisò che il figlio che avrebbe avuto da lei sarebbe diventato il sovrano del cielo.
Apollódōros: Bibliothḗkē [III: 13, 5]

Questa Téthis era una delle Nērēḯdes, figlie del dio marino Nēreús. A seguito della profezia di Promētheús, Zeús rinunciò a unirsi a lei ed ella in seguito sposò il mortale Pelías: loro figlio sarebbe stato l'eroe Akhilleús. Ora, può sembrare strano che Promētheús, che Aiskhýlos mostra così restio a rivelare chi fosse il discendente destinato a spodestare Zeús, sia così facilmente disposto, in Apollódōros, a rendere questo servizio al re degli dèi. Il motivo è attestato in molte varianti, dove l'oracolo viene attribuito anche ad altri personaggi (Thémis, o Prōteús). Ma la presenza di Promētheús in questo luogo riaffiora continuamente, fino a trovare consacrazione nei mitografi più tardi. Leggiamo in Hyginus:

 

Era destino che il figlio della nereide Téthis sarebbe stato più forte del padre. Solo Promētheús conosceva questo segreto. Così, quando Zeús fu preso dal desiderio di unirsi a lei, Promētheús promise di rivelarglielo se fosse stato liberato dalle catene: il patto fu giurato e allora Promētheús ammonì Zeús ad astenersi da Téthis, per evitare di dare alla luce un figlio più forte di lui che l'avrebbe cacciato dal regno come lui aveva fatto con Krónos. Così, Téthis fu data in sposa a Pelías, figlio di Aiakós, ed Hērakls fu mandato a uccidere l'aquila che rodeva il cuore di Promētheús. Essa fu abbattuta, e Promētheús venne liberato dal Caucaso dopo una prigionia di trentamila anni.
Hyginus: Fabulae [54] 

Lo stesso racconto, è riportato sempre da Hyginus, con alcune varianti, in De Astronomia [II: 4]. Loukianós lo utilizza come pretesto per un dialogo scoppiettante di ironia, che riportiamo per intero:

 

Promētheús: «Liberami, Zeús: ho già patito sofferenze terribili.»
Zeús: «Liberarti, dici? Ma se dovrei farti mettere ceppi ancora più pesanti e l'intero Caucaso in testa, con sedici avvoltoi che non solo ti divorino il fegato, ma ti cavino anche agli occhi, in cambio delle belle creature che ci hai plasmato, gli uomini, e dell'aver rubato il fuoco e creato le donne! E dei raggiri che mi hai fatto nella distribuzione delle carni, imbandendomi ossa rivestite di grasso e serbando per te le parti migliori, cosa si dovrebbe dire?»
Promētheús: «Non ho dunque pagato un fio sufficiente, restando inchiodato per tanto tempo al Caucaso e nutrendo col mio fegato l'aquila, il più maledetto degli uccelli?»
Zeús: «Questa non è neanche una minima parte di ciò che devi soffrire.»
Promētheús: «Eppure non mi libererai senza ricompensa, ma ti rivelerò una cosa davvero importante, Zeús
Zeús: «Tu mi vuoi abbindolare con dei bei discorsi, Promētheús
Promētheús: «E che vantaggio ne avrò? In futuro non ti scorderai mica dov'è il Caucaso, né ti mancheranno le catene, se verrò sorpreso a macchinare qualcosa.»
Zeús: «Di' prima quale ricompensa così importante per noi pagherai.»
Promētheús: «Se ti dirò lo scopo per cui adesso sei in viaggio, sarò per te degno di fede anche quando ti predirò il resto?»
Zeús: «Come no?»
Promētheús: «Vai da Téthis per giacere con lei.»
Zeús: «Di questo sei a conoscenza: e che cosa accadrà in seguito? Mi sembra che dirai qualcosa di importante.»
Promētheús: «Non unirti alla figlia di Nēreús, Zeús. Se resterà incinta di te, il figlio che darà alla luce ti farà le stesse cose che tu hai fatto...»
Zeús: «Dici che sarò scacciato dal mio dominio?»
Promētheús: «Che non accada, Zeús. Se non che l'unione che lei minaccia qualcosa del genere.»
Zeús: «Tanti saluti a Téthis, allora. E in quanto a te, grazie a queste notizie, che Hḗphaistos ti liberi.»
Loukianós hò Samosateús: Theṓn diálogoi [5] > Promēthéōs kaì Diós

Ciò che traspare da questo raffronto, è che il mito prometeico, in Grecia, ha rielaborato il rapporto tra la liberazione del titán e la fine del mondo. L'incatenamento del prometeo è, dovunque, garanzia della continuità del mondo che noi conosciamo. Alla sua liberazione, corrisponde la fine dell'ordine cosmico e il ristabilimento del tempo primordiale. Poiché è il dio supremo a garantire l'attuale stato delle cose, l'apocatastasi è possibile solo abbattendo il suo dominio.

Ciò è visto, in molte tradizioni, come un ulteriore passaggio di consegne della suprema regalità. In Scandinavia, Loki ha sia la funzione di esiliare agli inferi il futuro re dell'universo, ma anche quella di sgombrare il campo per il suo ritorno, causando la fine del mondo e la caduta degli dèi. Il pensiero teologico greco, che pone l'autorità di Zeús come stabile ed eterna, ha invece rielaborato questo mito, eliminando in primis ogni idea di un futuro ristabilimento dell'età aurea sotto gli auspici di un futuro sovrano.

Mentre Loki causa la morte del figlio di Óðinn, Promētheús impedisce la nascita del figlio di Zeús. Assassinio e aborto sono, ai fini del processo mitico, rielaborazioni dello stesso concetto. Nell'elaborazione dei due miti, tuttavia, il rapporto di causa/effetto è rovesciato, e con effetti contrapposti: il misfatto di Loki produce il suo incatenamento, la profezia di Promētheús la sua liberazione. D'altra parte, mentre la futura liberazione di Loki produce la fine del mondo e del regno di Óðinn, la liberazione di Promētheús, espressa come evento mitico concluso, ha prodotto l'attuale stabilità del mondo e la continuazione indefinita del regno di Zeús.

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BIBLIOGRAFIA
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Ellenica - Odysseús
Testi di Daniele Bello.
Ricerche di Daniele Bello e Dario Giansanti.
Theogonía: traduzione di Daniele Bello.
Creazione pagina:14.11.2012
Ultima modifica: 31.03.2022
 
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