STUDI

 

ARGILLA, SPIRITO E CARNE
 
   
Dalla Mesopotamia alla Grecia, fin nel cuore della Bibbia:
venture e sventure nella creazione dell'uomo.
DALLA TERRA, L'UOMO

L'idea, antichissima, che l'uomo sia stato creato dalla terra, è probabilmente il risultato della semplice osservazione che, dopo la morte, il corpo umano si disfà e torna a essere tutt'uno con la terra. Mentre la nascita sembra legata all'acqua, la morte è connaturata alla terra. I nostri antenati dovettero dedurre, e giustamente, che il corpo umano aveva la stessa natura e origine della terra impastata con l'acqua, morbida e malleabile. Ma al contrario di quella, che era solo materia inanimata, l'immagine umana era viva e calda, cosciente e dotata di ragione. C'era dunque, nella terra in cui era stato impresso lo stampo dell'uomo, un misterioso ingrediente che sosteneva la magia della vita e l'enigma della coscienza. Qualunque cosa fosse questo respiro vivente che permeava la materia umana, abbandonava il corpo al momento della morte, e l'uomo tornava a mescolarsi con la terra.

Questa concezione sembra connaturata all'idea che gli uomini hanno sempre avuto della loro natura. In ebraico la parola āḏām «uomo» è etimologicamente legata ad ăḏāmāh «terra», e anche in latino le parole homo e humus mostrano una certa correlazione. Creato dagli dèi sulla ruota di un vasaio, quindi come creazione artigianale di una divinità, l'uomo presentava una natura che non poteva essere però ridotta alla pura materia che lo componeva. I miti antropogonici si premurano a spiegare il mistero di questa presenza soprannaturale che tiene insieme la creta altrimenti inanimata dei nostri corpi: siamo insieme materia e spirito, corpo grossolano e anima soprannaturale. I miti cercano di spiegare la natura e il perché di questa scintilla divina e lo fanno mettendo in atto una consustanzialità tra l'uomo e il dio che lo aveva plasmato.

Ma rimane il problema più grande: se un dio ci ha creati e ci ha dato il suo sangue, il suo respiro, ci ha reso partecipi della sua natura divina, perché in noi esiste l'imperfezione? Perché, dopo averci creati, gli dèi ci hanno condannato al dolore, alla sofferenza e alla morte?

  Il Creatore, allorquando plasmò adorne forme e nature,
per qual ragione mai le gettò sotto imperio di morte?
Se ben riuscita era l'Opera, perché mandarla in frantumi?
E se mal riuscita era, di chi, dunque, la colpa?

ʿOmar Ḵayyām: Robāʾiyyāt [31]

Di chi, dunque, la colpa?

IN MESOPOTAMIA: «QUANDO GLI DÈI ERANO UOMINI»

Tavolette del «Poema di Atraḫasîs»
British Museum, Londra

Iniziamo il nostro viaggio alle origini della condizione umana, da un testo di epoca paleobabilonese, i cui primi frammenti furono trovati da John Smith, negli anni '30 del secolo scorso, tra le rovine della Biblioteca di Aššur-bâni-apli (Assurbanipal, 668-627 a.C.), negli scavi dell'antica Ninive. Il testo venne subito conosciuto come «poema di Atraḫasîs», in quanto il frammento che era venuto alla luce trattava una delle varie versioni mesopotamiche del mito del diluvio e Atraḫasîs era appunto il nome del noè in questa versione della vicenda. Si sarebbe poi scoperto che il testo era solo una copia recente di un poema assai più antico. Nel corso degli anni successivi vennero alla luce una ventina di altri frammenti, appartenenti a epoche e luoghi diversi. Spesso si trattava di rielaborazioni di testi più antichi piuttosto che copie fedeli, a testimonianza della fortuna del poema originale. Il frammento più antico, minuziosamente ricopiato da un «giovane scriba» chiamato Nûr-Aya, risaliva al regno di Ammiṣadûqa (1646-1626 a.C.), dunque di epoca paleobabilonese.

Il coscienzioso scriba aveva annotato anche la data precisa in cui le tavolette erano state ultimate e vi aveva aggiunto dei sunti col numero di linee di ogni tavoletta, nemmeno avesse previsto il duro lavoro di ricostruzione del testo che avrebbe impegnato gli archeologi trentacinque secoli più tardi. Soltanto nel 1956, dopo aver collegato tra loro tutti i frammenti, l'assiriologo danese J. Læssøe ricostruì l'ordine giusto del testo e dimostrò che il «Poema di Atraḫasîs» era in realtà una sorta di Genesi babilonese, che abbracciava tutta la storia dell'umanità dalla creazione alla nascita della civiltà.

Il titolo originale era Enûma ilû awîlum «Quando gli dèi erano uomini», dall'incipit del poema.

i-nu-ma i-lu a-wi-lum
ub-lu du-ul-la iz-bi-lu šu-up-ši-[i]k-ka
šu-up-ši-ik i-li ra-bi-[m]a
du-ul-lu-um ka-bi-it ma-a-ad ša-ap-ša-qum
ra-bu-tum a-nun-na-ku si-bi-it-tam
du-ul-lam ú-ša-az-ba-lu i-〈gi-gi〉
a-nu a-bu-šu-nu ša[r-r]u
[m]a-li-ik-šu-nu qú-ra-d[u] en-lil
[gu₅-u]z-za-lu-šu-n[u] [ni]n-urta
[ù] gal-lu-šu-nu [en]-nu-gi
[q]a-tam i-ḫu-zu qa-ti-ša
is-qá-am id-du-ú i-lu iz-zu-zu
〈a-nu〉 i-te-li š[a-me]-〈e〉-ša
[× ×] × × × 〈er〉-ṣe-tam ba-ú-la-〈tu〉-uš-šu
[ši-ga-ra n]a-aḫ-ba-li ti-a-am-tim
[it-ta-a]d-nu a-na en-ki na-aš-ši-〈ki〉
[iš-tu a-nu-u]m i-lu-〈ú ša〉-me-e-ša
[ù en-ki a-na a]p-si-〈i〉 [i]-ta-ar-du
...] ú × [š]a-ma-i
...] × [e]-lu i-gi-gi
...] i-ḫe-er-ru-nim
...n]a-pí-íš-ti ma-tim
...i]-ḫe-er-ru-nim
...na-p]í-íš-ti ma-tim
...idi]glat na-ra-am
...] ×-di/ki-tam
Quando gli dèi erano uomini
erano di servizio e portavano il canestro di lavoro;
il canestro di lavoro degli dèi era troppo grande,
pesante il lavoro, infinita la fatica.
Infatti i grandi Anunnaki, i sette,
avevano imposto il servizio agli Igigi!
Padre di tutti, Anu, ne era il re;
il prode Enlil il consigliere;
Ninurta, il comandante,
ed Ennugi il caposquadra.
Essi avevano battuto le mani (?)
 gli dèi avevano gettato le sorti e suddiviso i propri domini:
Anu era salito in cielo;
Enlil aveva avuto la terra come dominio (?),
[e il chiavistello] che barrica il mare
era stato assegnato al principe Enki.
[Quelli di An]u salirono al cielo,
[quelli di Enki] scesero nell'Apsû;
[allora gli Anunnaki] celesti
[imposero] agli Igigi il canestro di lavoro.
[E gli dèi] scavarono i corsi d'acqua,
[e aprirono canali] che vivificarono la terra.
[Gli Igigi] scavarono i corsi d'acqua,
[e aprirono canali] che vivificarono la terra.
[Così crearono] il corso del Tigri
e dopo [quello dell'Eufrate].

Enûma ilû awîlum [I: -]

Troviamo, alle origini del mondo, una situazione di semi-schiavitù. Divinità maggiori che impongono il lavoro alle minori. Questo testo non dice come gli dèi fossero nati, e nemmeno perché appartenessero a due schiatte distinte: gli Anunnaki e gli Igigi, con i primi che impongono sui secondi la loro autorità. Il testo ci dice soltanto che i tre massimi dèi avevano tirato a sorte i propri domini, e che Anu aveva ricevuto il cielo, Enlil la terra e ad Enki era stato assegnato il compito di trattenere al suo posto le debordanti acque dell'abisso.

L'idea che gli dèi siano costretti a lavorare ha una sua logica, in quanto nell'antichità si riteneva che gli dèi venissero nutriti dagli uomini attraverso i sacrifici. Offrire primizie o immolare un agnello richiede un lungo lavoro preliminare: bisogna pascolare le greggi e coltivare i campi; per far questo è necessario che i pascoli siano fertili e i terreni ben irrigati: bisogna scavare canali e portare l'acqua dal fiume. Bisogna costruire muretti divisori e rendere solidi i canali, e servono dunque mattoni, e qualcuno dovrà trovare l'argilla, impastarla, metterla negli stampi e farla seccare. Altri dovranno portare i mattoni, e i capimastri dovranno vagliare i progetti. Ecco dunque che gli dèi stessi sono costretti a sobbarcarsi questi ingrati lavori, affinché le primizie possano essere offerte e gli agnelli giungano agli altari.

Non c'è dunque da stupirsi se gli dèi più antichi obblighino i più giovani a dure corvée di lavoro. Integrando il testo di Nûr-Aya, in questo punto lacunoso, con la posteriore recensione assira, risultano fatiche massacranti:

ma i-za-bi-lu tup-ši-ka
ma i-za-bi-lu tup-ši-ka
ma i-za-bi-lu tup-ši-ka
ma i-za-bi-lu tup-ši-ka
[Per 10 (?) anni], essi portarono il canestro di lavoro...
[Per 20 (?) anni], essi portarono il canestro di lavoro...
[Per 30 (?) anni] essi portarono il canestro di lavoro...
[Per 40 (?) anni] essi portarono il canestro di lavoro...

Enûma ilû awîlum [K8562: -]

E ritornando al testo paleobabilonese:

...k]a?-la ša-dì-i
[šanâtim im-nu-ú] ša šu-up-ši-ik-ki
...] × ṣú-ṣi-a ra-bi-a
[šanâtim im]-nu-ú ša šu-up-ši-ik-ki
...] × 40 šanâtim at-ra-am
[× × du]-ul-lam iz-bi-lu mu-ši ù ur-ri
[Quando ebbero ammucchiato (?)] tutte le montagne,
[fecero il conto dei loro anni] di servizio.
[Quando ebbero organizzato (?)] la grande pianura meridionale
[fecero il conto] dei loro anni di servizio:
[Duemila e] cinquecento anni, e più,
che essi avevano, giorno e notte, sopportato questo pesante servizio!

Enûma ilû awîlum [I: -]

A questo punto gli Igigi si ribellano. All'inizio sono un po' incerti sul da farsi e sperano che Ninurta, il loro comandante, li sollevi dall'incarico, quindi decidono di recarsi dallo stesso Enlil. Ma gli animi sono esacerbati e la protesta si trasforma in aperta rivolta. Un dio il cui nome è scomparso a causa di una lacuna della tavoletta, si leva e lancia un appello ai suoi fratelli Igigi perché dichiarino guerra a Enlil. Allora gli Igigi gettano nel fuoco le zappe, bruciano gli utensili, dànno le gerle alle fiamme, e nella notte illuminata dalla luce rossastra dei fuochi, si recano in massa all'Ekur, la «casa-montagna», e circondano il palazzo di Enlil. Si profila una vera e propria sommossa contadina, che il testo descrive con estremo realismo. Sembra che le guardie dell'Ekur cerchino di contenere la folla e si accende un tafferuglio che si propaga fino alle porte del palazzo.

È Kalkal, il custode delle porte dell'Ekur, a correre da Nuska, il messaggero di Enlil, che a sua volta si precipita nella camera dove il sovrano degli dèi sta riposando, ignaro di quanto sta accadendo alle porte della sua dimora. Il testo insiste sulla totale ignoranza del dio riguardo agli avvenimenti, quasi voglia mettere in evidenza il contrasto tra il beato ozio di Enlil e la dura fatica a cui sono costretti gli Igigi.

Enlil, sorpreso e spaventato per l'arrivo degli insorti, fa subito barricare le porte. Nuska gli dice: «Mio signore, sei pallido per il terrore. Là fuori sono i tuoi figli: cosa temi?» Ma anche questo richiamo alla consanguineità tra Enlil e i giovani Igigi, non calma il re degli dèi. Allora Nuska consiglia a Enlil di far scendere Anu dal cielo e di far salire Enki dagli abissi per avere il loro aiuto.

Tutti gli Anunnaki giungono nell'Ekur e si riuniscono in un'assemblea [puḫrum] assai concitata. Enlil spiega ai grandi dèi la situazione, dicendosi stupito che la folla degli Igigi infuri dinanzi alla porta della sua dimora. Anu suggerisce che Nuska vada a informarsi presso gli Igigi della ragione che li ha spinti ad agire con tanta violenza. Invece, Enlil ordina a Nuska di presentarsi armato dinanzi agli dèi in rivolta e di chiedere loro di denunciare gli istigatori della battaglia. La differenza tra il consiglio moderato di Anu e il messaggio che Enlil invia agli Igigi attraverso Nusku, rivela una diversa valutazione della situazione. Anu ed Enlil sembrano rappresentare rispettivamente il potere legislativo e quello esecutivo: il dio-cielo cerca di comprendere la causa del malcontento, mentre il dio-vento non si interessa che alla ricerca di un colpevole da punire.

Nusku obbedisce, esce dal palazzo e trasmette agli Igigi il messaggio di Enlil. Il portavoce degli Igigi risponde:

ni-iš-ku-u[n × × -ni]
i-na k[ala-ak-ki] [...]
šu-up-ši-ik-[ku at-ru id-du-uk-ni-a-ti]
ka-bi-it du-[ul-la-ni-ma ma-a-ad ša-ap-ša-qum]
«Noi abbiamo impegnato tutte le nostre [forze]
in questo [continuo smuovere terra (?)] [...]
l'eccessiva fatica ci ha uccisi!
Troppo pesante era il nostro [lavoro, infinita la nostra fatica]!»
Enûma ilû awîlum [I: -]

Nusku riferisce al consiglio degli Anunnaki la risposta degli Igigi. A quelle parole, Enlil comincia a versare lacrime, poi chiede ad Anu di dividere con lui la funzione regale e di assumere il potere per fronteggiare la guerra, e lo invita infine a convocare un dio fra gli ammutinati e dargli la morte in presenza di tutti gli Anunnaki, per impartire un esempio. Ma Anu ed Enki sono più concilianti. Fanno notare che le fatiche imposte agli Igigi sono effettivamente troppo pesanti e che per troppo tempo il loro grido di protesta è stato ignorato. Così agli dèi viene chiesto di trovare una soluzione, di trovare un sostituto che possa sollevare gli Igigi dal loro lavoro e che si accolli la fatica al loro posto.

Enki si rivolge allora alla dea madre e le chiede di creare un lullû, un nuovo tipo di essere vivente, perché porti il giogo del lavoro in vece degli dèi. Costei viene qui chiamata Nintu «signora del parto», ma la tradizione mesopotamica le attribuisce molti altri nomi, tra cui Mami «levatrice» e, in accadico, Bêlit-ilî «signora degli dèi», mentre compare come Aruru nello Ša nagba îmuru, l'epopea di Gilgameš. Il poema prosegue in tal modo:

wa-aš-〈ba-at〉 b[e-le-et-ì-lí šà-as-s]ú-ru
[š]à-as-sú-ru li-gim?-ma?-a 〈li〉-ib-ni-ma
šu-up-ši-ik ilim a-wi-lum li-iš-ši
il-ta-am is-sú-ú i-ša-lu
tab-sú-ut ilî e-ri-iš-tam ma-mi
at-ti-i-ma šà-as-sú-ru ba-ni-a-〈at〉 a-wi-lu-ti
bi-ni-ma lu-ul-la-a li-bi-il₅ ab-ša-nam
ab-ša-nam li-bi-il ši-pí-ir en-líl
šu-up-ši-ik ilim a-wi-lum li-iš-ši
«Poiché Bêlit-ilî è qui,
è lei che metterà al mondo e creerà
l'uomo per compiere il lavoro degli dèi!»
Interpellando dunque la dea domandarono
alla levatrice degli dèi, Mami l'esperta:
«Sarai tu la matrice per produrre gli uomini?
Crea il prototipo umano [lullû]: che porti il nostro giogo
che porti il giogo imposto da Enlil.
Che l'uomo si carichi della fatica degli dèi!»
Enûma ilû awîlum [I: -]

Ha inizio così lo splendido e complesso racconto della creazione dell'uomo. Per cominciare, la dea esige che Enki le porti l'argilla adatta con cui operare, la quale costituirà materia prima da cui saranno tratti i feti. Enki prepara dei bagni di purificazione, perché ora sarà necessario procedere al sacrificio di un dio: ma ciò non avverrà per dare l'esempio agli insorti, come Enlil aveva proposto, ma perché solo così è possibile conferire alla nuova creatura uno spirito immortale.

en-ki pi-a-šu i-pu-ša-am-ma
is-sà-qar a-na ilî ra-bu-ti
i-na ar-ḫi se-bu-ti ù ša-pa-at-ti
te-li-il-lam lu-ša-aš-ki-in ri-im-ka
ilam îš-te-en li-iṭ-bu-ḫu-ma
li-te-el-li-lu ilû i-na ṭi-〈i〉-bi
i-na ši-ri-šu ù da-mi-šu
nin-tu li-ba-al-li-il ṭi-iṭ-ṭa
i-lu-um-ma ù a-wi-lum
li-ib-ta-al-li-lu pu-ḫu-ur i-na ṭi-iṭ-ṭi
aḫ-ri-a-ti-iš u₄-mi up-pa i ni-iš-me
i-na ši-i-ir i-li e-ṭe-em-mu li-ib-ši
ba-al-ṭa it-ta-šu li-še-di-〈šu〉-ma
aš-šu la mu-uš-ši-i e-ṭe-em-mu li-ib-ši
i-na pu-úḫ-ri i-pu-lu a-an-na
ra-bu-tum a-nun-na
pa-qí-du ši-ma-ti
Enki aprì allora la bocca
e si rivolse ai grandi dèi:
«Il primo del mese, il sette o il quindici,
decreterò una purificazione con abluzione.
Allora si immolerò un dio,
prima che (?) gli dèi si purifichino con l'immersione.
Con la sua carne e il suo sangue
Nintu mescolerà dell'argilla,
in modo che il dio e l'uomo,
siano mescolati insieme nell'argilla,
e d'ora innanzi, saremo liberi!
Grazie alla carne divina, vivrà nell'uomo uno spirito
che lo manterrà sempre vivo anche dopo la morte,
e questo Spirito esisterà per preservarlo dall'oblio!»
E risposero «Sì!» tutti insieme,
i grandi Anunnaki,
assegnatori dei destini.

Enûma ilû awîlum [I: -]

Il dio scelto per il sacrificio ha nome Weʾe (o, secondo i sumerogrammi, Gešti-e). Difficile dire chi sia questa divinità, che non compare precedentemente, a meno che non sia l'anonimo personaggio che aveva istigato gli Igigi alla rivolta. Il testo lo presenta con una frase assai significativa: «Weʾe il dio che ha l'intelligenza» [Weʾe ilu ša išu ṭêma] [I: ]. L'espressione Weʾe ilu, «Weʾe il dio», è foneticamente simile alla parola accadica per «uomo» [awîlu/amêlu]. Ed è proprio nella differenza tra il dio [ilu] e l'uomo [awîlu] che gioca, anche sul piano linguistico, l'intero poema; un gioco dichiarato fin dal suo paradossale incipit, «quando gli dèi erano uomini», con quell'allitterazione ilû awîlum, che prelude già alla trasfigurazione Weʾe ilu awîlu.

we-e-i-la ša i-šu-〈ú〉 ṭe-e-ma
i-na pu-úḫ-ri-šu-nu iṭ-ṭa-ab-ḫu
i-na ši-ri-šu ù da-mi-šu
nin-tu ú-〈ba〉-li-il ṭi-iṭ-ṭa
Weʾe il dio che ha l'intelligenza
essi immolarono nell'assemblea.
Con la sua carne e il suo sangue
Nintu mescolò l'argilla.

Enûma ilû awîlum [I: -]

Mescolando la carne [širu] e il sangue [damu] di Weʾe con l'argilla che Enki le ha recato, la dea Nintu infonde nella materia inanimata un eṭemmu, senza il quale l'argilla evidentemente non può essere pervasa dal calore e dalla pulsazione della vita. E tale eṭemmu sarà anche quell'elemento indeperibile che dopo la morte non ritorna alla terra e non ridiventa polvere, ma continua ad esistere. L'eṭemmu è il «doppio» dell'uomo, è l'anima che si cala negli inferi, oppure lo spettro che si aggira per il mondo reclamando ai viventi offerte, preghiere o una corretta sepoltura.

Creata così questa «argilla vivente», Nintu chiama tutti i grandi dèi [ilâni rabûti], termine con cui non sono compresi soltanto gli Anunnaki, ma anche, per la prima volta, gli Igigi, ormai divenuti pari agli altri, invitandoli a sputare nell'impasto, cosa che essi fanno. In questa azione è certo presente l'uso dei vasai mesopotamici che sputavano effettivamente sulla pasta prima di staccarne delle porzioni, ma sottolinea anche il rifiuto da parte degli Igigi del loro antico destino di manovalanza, destino di cui ora verrà caricata la nuova creatura.

[m]a-mi pi-a-ša te-pu-ša-am-ma
[is-s]à-qar a-na i-li ra-bu-tim
[ši-i]p-ra ta-aq-bi-a-ni-im-ma ú-ša-ak-lì-il
i-lam ta-aṭ-bu-ḫa qá-du ṭe-mi-šu
ka-ab-tam du-ul-la-ku-nu 〈ú-ša-as〉-sí-ik
šu-up-li-ik-ka-ku-nu a-wi-[l]am e-mi-id
ta-aš-ta-ʾi-ṭa ri-ig-ma a-na 〈a-wi-lu〉-ti
ap-ṭú-ur ul-la an-du-ra-[ra aš-ku-u]n
Poi Mami aprì bocca
e si rivolse ai grandi dèi:
«[Il lavoro] che mi avete ordinato io l'ho compiuto!
Voi avete immolato questo dio con la sua intelligenza,
io vi ho liberato dal vostro pesante lavoro,
io ho imposto la vostra fatica all'uomo.
Voi avete imposto il lamento all'umanità,
io ho reciso la vostra catena e voi siete liberi!»

Enûma ilû awîlum [I: -]

A questo punto tutti gli dèi corrono grati ad abbracciare le ginocchia di Nintu/Mami e le dànno il nuovo nome di Bêlit-kala-ilî «signora di tutti gli dèi». Ora non resta che trarre, dall'informe argilla, i primi esseri umani, ma disgraziatamente il testo s'interrompe qui, essendo il seguito andato perduto. Altri frammenti di diversa provenienza (uno da Ninive, un altro neo-assiro, un terzo paleo-babilonese) ci aiutano tuttavia a ricostruire il proseguo del mito.

L'azione si sposta nel bît šimti, «la sala dei destini», dove assistiamo ai diversi processi che porteranno dalla formazione del feto, dalla permanenza nell'utero fino alla sua espulsione al momento del parto. Enki e Nintu entrano da soli in questo sacro luogo, portandovi l'impasto di argilla e carne e sangue, e iniziano un processo compiuto ora da Enki, ora da Nintu, in cui l'alternanza dei gesti permette a ciascuno di definire il campo d'azione che gli è proprio. Enki provvede a plasmare l'argilla sotto gli occhi di Nintu, la quale ripete le formule che Enki le detta coscienziosamente. Quando ha terminato di declamare le formule, Nintu stacca quattordici pani d'argilla: ne mette sette a destra e sette a sinistra di una bassa parete di mattoni. I quattordici pani sembra vengano pressati in altrettanti stampi o «uteri»: da sette di essi nasceranno degli uomini, dagli altri sette delle donne, i quali si disporranno in altrettante coppie. Nintu stabilisce così le regole della gravidanza e della nascita, che da allora faranno parte del mondo. Il testo paleo-babilonese sembra descrivere la maturazione di questi archetipi umani: lo sviluppo dei seni nelle fanciulle e l'apparire della barba nei ragazzi. Nintu, accovacciata, tiene il conto del tempo. Quando alla fine arriva il momento fissato per il parto, al decimo mese lunare, la dea, felice e con la testa coperta, fa da levatrice.

Viene così creato l'uomo, che può accollarsi il duro lavoro che era stato degli dèi.

al-li ma-ar-ri ib nu-ú eš-[re]-ti
i-ki ib-nu-ú ra-bu-t[im]
bu-bu-ti-iš ni-ši ti-i-ti-iš [i-li]
[E gli uomini] costruirono nuovi picconi e zappe,
poi edificarono grandi dighe di irrigazione
per provvedere alla fame degli uomini e al cibo degli dèi.
Enûma ilû awîlum [I: -]

Altri testi mesopotamici – sumeri e accadici – narrano differenti versioni del mito antropogonico. Nella maggior parte di esse viene confermato il ruolo creatore di Enki/Ea nel plasmare l'umanità dall'argilla, e viene anche confermato che gli uomini esistono per sopperire al lavoro degli dèi. Nel mito antropogonico della tavoletta KAR 4, informalmente intitolato dagli studiosi «Racconto bilingue della creazione» o «Sacrificio degli dèi alla», un testo sicuramente anteriore alla fine del II millennio, di cui possediamo una trascrizione goffamente redatta in duplice versione sumerica e accadica, l'impresa viene compiuta in un luogo chiamato «fabbrica della carne» [uzu.mu₂.a]:

  E i grandi dèi, là presenti, con gli Anunnaki che assegnano i destini,
risposero in coro ad Enlil:
«Nella fabbrica della carne [uzu.mu₂.a] di Duranki [Nippur]
dobbiamo immolare due (?) alla divini,
e dal loro sangue far nascere gli uomini!
Il lavoro degli dèi sarà il loro lavoro:
delimiteranno i campi una volta per tutte,
e prenderanno in mano zappa e cesta,
per il profitto della casa dei grandi dèi, degna sede dell'alto podio!
Aggiungeranno zolla a zolla,
delimiteranno i campi una volta per tutte.
Metteranno in funzione il sistema d'irrigazione
per irrigare ovunque
e far germogliare ogni specie di pianta...»

KAR 4 [-]

Viene così generata la prima coppia umana: Ullegarra e Annegarra, rispettivamente «creato per il cielo» e «creato per l'eternità». I loro compiti sono dichiarati dal testo: essi dovranno far prosperare i campi di grano degli Anunnaki, curare il bestiame, accrescere l'abbondanza del paese e celebrare a tempo debito le feste degli dèi.

Chi siano esattamente gli alla (o lamga come si leggeva nelle vecchie traduzioni) non lo sappiamo: ma è evidente che anche qui la creazione degli uomini, destinati al lavoro e alla fatica, viene compiuta tramite il sacrificio di uno o due dèi. Come nell'Enûma ilû awîlum, si riteneva evidentemente che lo spirito umano non potesse essere un prodotto dell'argilla di cui l'uomo era composto, ma potesse provenire soltanto dagli dèi. Questo motivo ricomparirà ancora nell'Enûma elîš babilonese, dove è Ea (nomen babilonese di Enki) a creare l'umanità, ma questa volta a essere sacrificato è Qingu, alleato e amante di Tiâmat, che Marduk aveva sconfitto nella grande battaglia contro le acque primordiali. Questa scena aggiunge ben poco a ciò che sappiamo dell'antropogonia mesopotamica, ma conferma i punti fino ad ora enumerati.

  [Marduk] aprì dunque la bocca e disse a Ea
spiegandogli il progetto che aveva chiuso nel cuore:
«Voglio condensare del sangue, costituire un'ossatura
e creare così un prototipo di essere che si chiamerà Uomo!
Questo prototipo, questo Uomo, voglio crearlo
perché gli siano imposte le fatiche degli dèi e che essi abbiano tempo libero.
Nuovamente, voglio render più gradevole la loro esistenza,
affinché anche se separati in due gruppi siano ugualmente onorati».
Come risposta, Ea gli pronunciò queste parole,
comunicandogli il suo progetto per il divertimento degli dèi:
«Che mi sia dato uno dei loro fratelli:
costui perirà perché siano creati gli uomini!
Che i grandi dèi si riuniscano
affinché sia scelto il colpevole, gli altri saranno sani e salvi!»
Marduk, radunati dunque gli dèi,
li comandò benevolmente e diede i suoi ordini;
e quando aprì la bocca tutti gli dèi ascoltarono con rispetto.
Il re [Marduk] rivolse dunque queste parole agli Anunnaki:
«Fino ad ora voi non avete mai detto che la Verità, certo!
Ebbene, non pronunciate ancora che parole veritiere!
Chi ha ordito il combattimento,
spinto alla rivolta Tiâmat e organizzato la battaglia?
Che me lo si porti, colui che ha ordito il combattimento,
che gli infligga il suo castigo affinché voi stiate in ozio!»
Gli Igigi, i grandi dèi, gli risposero,
a lui, lugal-dimmer-an-ki-a, il re del cielo e della terra, loro signore:
«Qingu soltanto ha ordito il combattimento,
spinto alla rivolta Tiâmat e organizzato la battaglia!»
Venne dunque [Qingu] incatenato e messo di fronte ad Ea:
poi per infliggergli il suo castigo, fu dissanguato,
e con il suo sangue Ea creò l'Umanità
alla quale impose il lavoro degli dèi liberando questi ultimi.

Enûma elîš [VI: -]

Nell'Enûma elîš il motivo della creazione dell'uomo è secondario: lo troviamo associato alla grande narrazione della guerra che oppone gli dèi ad Apsû e Tiâmat e coscienziosamente sbrigato prima di passare alla glorificazione di Marduk. Tutti i dettagli narrati nell'Enûma ilû awîlum qui si dànno per scontati: agli autori dell'Enûma elîš preme soltanto di dividere tra Enki/Ea e Marduk la responsabilità della creazione dell'uomo. L'antica antropogonia sumerica viene integrata nell'Enûma elîš ed adattata alle nuove necessità teologiche.

Il sacrificio del dio Weʾe, nell'Enûma ilû awîlum, si era reso necessario per creare l'uomo e risolvere l'incresciosa situazione di liberare gli Igigi dalla necessità e dal peso del lavoro; anche se permane il dubbio che proprio Weʾe fosse stato l'istigatore della rivolta degli Igigi, la sua uccisione non si configura, nel testo, come una vera e propria punizione. È vero, Enlil aveva richiesto un castigo, ma alla sua rabbia erano subentrati gli inviti alla moderazione di Anu ed Enki. Al contrario, Weʾe sembra essere stato ucciso perché dotato di «intelligenza» [ṭêmu]. La sua carne e il suo sangue, mescolati con l'argilla, costituiscono la materia prima del prototipo umano, ma è proprio dall'«intelligenza» [ṭêmu] di Weʾe che deriva lo «spirito» [eṭemmu] dell'uomo.

Invece, nell'Enûma elîš, Qingu viene punito per essersi ribellato. In questo testo la fedeltà di tutti gli dèi al loro nuovo re Marduk è totale, e anzi, dèi sembrano ben felici e ansiosi di compiacere Marduk con le loro opere. È lo stesso Marduk, sovrano benigno e compiacente, che si premura a liberarli in anticipo del gravame del loro lavoro. La novità del poema babilonese è che qui è Marduk ad avere l'idea di creare un «prototipo di uomo», anche se il delicato compito della creazione spetta, come sempre, al saggio Enki/Ea. Ed è sempre Enki/Ea, qui come nell'Enûma ilû awîlum, a richiedere il sacrificio di un dio affinché la nuova creatura possa venire creata. La punizione di Qingu servirà affinché gli dèi possano «stare in ozio». Sussiste dunque qui la duplice motivazione: viene ribadita l'autorità giudiziaria di Marduk, e intanto dal sacrificio di Qingu sarà creato l'uomo.

IN GRECIA: ANTROPOGONIE IN COMPETIZIONE

Il mito della creazione dell'uomo non è centrale nella mitologia greca, assai più interessata a descrivere le relazioni, sempre conflittuali e appassionate, tra divinità ed esseri umani. Scartabellando la vastissima letteratura classica, non si fatica a trovare accenni a molti distinti motivi antropogonici, evidente risultato di una complessa stratificazione di miti e leggende, ed è arduo riuscire trarne un quadro unitario. Manca in Grecia, ancor più che in Mesopotamia, un racconto «canonico», che possa fungere da guida attraverso le frastagliate contraddizioni del corpus mitologico ellenico. E se da un lato la cosa è meno perdonabile, vista la maggiore coerenza linguistica e culturale che la Grecia presenta rispetto alla sovrapposizione di popoli dell'antico Medio Oriente, dall'altro, la presenza, nel mondo ellenico, di tante distinte tradizioni in competizione tra loro, rende la nostra analisi assai più interessante.

Scartabellando il materiale greco, rinveniamo molte distinte modalità sul modo in cui l'uomo venne ad esistere:

  1. I primi uomini spuntano dal suolo, figli della madre terra . È una tradizione di origine pre-ellenica, attestata in diverse versioni regionali (in Beozia, ad esempio, si diceva che Alalkomeneús fosse stato il primo uomo a scaturire dalla terra; in Arcadia, Pelasgós era emerso dal suolo già prima che in cielo splendesse la luna; a Eleusi il primo uomo a sorgere dalla terra fu Dysaúlēs, etc.), come testimonia Hippolytus Romanus (Refutatio Omnium Heresium [V: vi: 3]). Secondo una notizia riferita da Plátōn, gli ateniesi si ritenevano autoctoni del fertile suolo attico, dal quale affermavano di essere spontaneamente scaturiti (Menéxenos [237d-237e]).
  2. Gli uomini nascono dalle pietre. Variante del precedente mitema, attestata nel mito di Deukalíōn e Pýrrha, dove le pietre sono le «ossa» della madre terra.
  3. Gli uomini si originano dagli alberi. Hēsíodos afferma che Zeús trasse la stirpe violenta dell'età dell'oro dai frassini (Érga kaì Hēmérai [-]). È un mitema di probabile origine indoeuropea, almeno a giudicare dai motivi omologhi attestati in Īrān e in Scandinavia.
  4. Gli uomini vengono plasmati nella terra, inumidita con l'acqua, per opera di uno o più demiurghi. A effettuare l'operazione è di solito Promētheús, ma possono comparire nel ruolo anche Hḗphaistos, Athēnâ o lo stesso Zeús. Di probabile origine medio-orientale, è il mitema più diffuso presso gli autori antichi.
  5. Tra le varianti minori, ricordiamo la nascita degli Spartoí da una seminagione di denti di drago, attestata nel mito di Kádmos, e quella del popolo dei Myrmidónes, creato da Zeús a partire dalle formiche dell'isola di Egina.

In questa straordinaria varietà di fantasie antropogoniche, quella che interessa a noi è l'operazione demiurgica, nella quale un dio plasma i primi uomini a partire dalla terra, inumidita nell'acqua o seccata dal fuoco. Il mito greco assegna questo compito a uno dei personaggi più misteriosi e affascinanti del mito greco, Promētheús.

Sanctius his animal mentisque capacius altae
deerat adhuc et quod dominari in cetera posset:
natus homo est, sive hunc divino semine fecit
ille opifex rerum, mundi melioris origo,
sive recens tellus seductaque nuper ab alto
aethere cognati retinebat semina caeli.
quam satus Iapeto, mixtam pluvialibus undis,
finxit in effigiem moderantum cuncta deorum,
pronaque cum spectent animalia cetera terram,
os homini sublime dedit caelumque videre
iussit et erectos ad sidera tollere vultus:
sic, modo quae fuerat rudis et sine imagine, tellus
induit ignotas hominum conversa figuras.
Ma ancora mancava un essere più nobile di questi [gli animali]
dotato di di più alto intelletto e capace di dominare sugli altri.
Nacque l'uomo, o fatto con divina semenza
da quel grande artefice, principio di un mondo migliore,
o plasmato dal figlio di Iapetós [Promētheús],
a immagine degli dèi che tutto regolano,
impastando la terra ancora recente con acqua piovana,
che, da poco separata dall'alto etere, ancora conservava qualche germe celeste.
Mentre gli altri animali stanno curvi e guardano il suolo,
all'uomo egli dette un viso rivolto verso il cielo
e ordinò che fissasse, eretto, il firmamento.
Così, quella terra che fino a poco prima era grezza e informe,
subì una trasformazione e assunse figure mai viste di uomini.

Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [I: -]

È la penna leziosa di Ovidius a fornirci il paradigma di sette secoli di speculazione mitologica. Certo, siamo nel periodo augusteo, alla fine del percorso mitografico classico. Il mito è ormai diventato materia per artisti, e Ovidius ci gioca senza nemmeno più crederci. Rimane tuttavia la consapevolezza, fortissima, che la creta umana debba possedere un quid impalpabile, e con un colpo di genio Ovidius fa arrivare la scintilla divina al prototipo umano mescolando l'impasto terreo con l'acqua pluviale, che ancora contiene in sé la natura soprannaturale dell'etere celeste.

Che nel mito classico l'uomo sia creato a «immagine divina» [in effigiem deorum], ci stupisce molto meno: è anzi, un divertente rovesciamento logico, visto che i Greci, prima dei Romani, avevano disegnato le loro divinità con spiccati tratti antropomorfi. Un secolo e mezzo più tardi, il siriano Loukianós Samosateús (120-180/192) affronta il racconto antropogonico con piglio irriverente, e così imbastisce l'autodifesa di Promētheús, a cui gli dèi contestano il «delitto» di aver voluto creare il genere umano, di cui non si sentiva affatto il bisogno.

«Vengo ora a parlare della formazione degli uomini. Questa accusa, o Hērmês, ha due parti; e io non so di che più m'incolpate, o che gli uomini non dovevano esistere affatto, ed era meglio che rimanevano terra inerte ed informe; o pure che dovevano esser fatti, ma di forma e d'aspetto diversi da quel che sono. [...]. In principio v'era la sola specie divina e abitatrice del cielo; la terra era una cosa selvaggia ed informe, tutta ispida di foreste dove non penetrava il giorno, e non aveva altari né templi: dov'erano allora le statue, i simulacri, e gli altri monumenti che or si vedono dovunque, e con tanto onore venerati? Io, che sempre penso al bene comune, e considero come accrescere la gloria degli dèi, [...] mi dissi che sarebbe stata una cosa buona prendere un po' di creta, e comporne degli animali dando loro una forma simile alla nostra [...]. Però volli che quest'essere fosse mortale, ma pieno d'industria, di senno, e di sentimento del bene. E dunque mescendo terra ed acqua, come dicono i poeti, e fattane una poltiglia, plasmai gli uomini: e chiamai Athēnâ per aiutarmi nell'opera. [...].
«Il bene che io ho fatto agli dèi per mezzo degli uomini, vedilo, getta uno sguardo su la terra non più squallida ed orrida, ma abbellita di città, di campi coltivati, di alberi fruttiferi; vedi il mare coperto di navi, le isole abitate, altari, sacrifici, templi, solennità in ogni parte, piene tutte le vie e le piazze di immagini di Zeús. [...]. Non essendovi gli uomini, la bellezza dell'universo sarebbe rimasta senza spettatori; e noi immortali saremmo ricchi di una ricchezza priva di ammiratori. [...].
«Ma gli uomini sono ribaldi tra loro, tu mi dirai; compiono adulteri, si sgozzano nelle guerre, sforzano le sorelle, insidiano alla vita dei genitori. E fra noi non si fanno assai di queste cose? Dobbiamo allora accusare Ouranós e che ci han data l'esistenza? Forse mi dirai, che per aver cura degli uomini è necessità che ci sobbarchiamo la noia di molte faccende. Dunque anche il pastore si lamenterà di possedere greggi, perché poi è costretto ad averne cura. Questa fatica è in realtà una dolcezza. È un pensiero non privo di diletto, perchè ci dà un'occupazione. Che faremmo noi se non avessimo a pensare a nulla? Ce la passeremmo in ozio a bere il nettare, a riempirci d'ambrosia, senza far niente. Ma il maggior mio dispetto è che voi, i quali mi biasimate di aver formati gli uomini, e massimamente le donne, vi innamorate di esse, e non cessate di scender sulla terra divenendo ora tori, ora satiri, ora cigni, e non disdegnate di generare semidèi con esse.
«Ma si doveva, forse dirai, plasmare gli uomini, sì, ma d'altra forma, e non simili a noi. E quale altra forma migliore della nostra, di cui conosco l'altissima bellezza, avrei mai potuto propormi? Conveniva forse che l'uomo fosse un animale stupido, feroce, e selvaggio? E come avrebbe fatto sacrifici agli dèi, e resi altri onori a voi, se egli non fosse stato quale egli è? Eppure quando vi offrono le ecatombe, voi non le rifiutate, ancorché doveste andare sino all'Oceano, agl'incolpabili Etiopi.»

Loukianós hò Samosateús: Promētheús ē Kaúkasos

Alla poesia leziosa di Ovidius, Loukianós oppone una penna intinta nel vetriolo. Scrittore piacevolissimo e intelligente, Loukianós utilizza l'antichissimo tema antropogonico a fini polemici, ma mostra di averne ben presenti gli addentellati mitici. È d'accordo con Ovidius sul fatto che gli uomini partecipino della natura divina, anche se nel caustico retore siriano non sono soltanto le facoltà razionali e spirituali, che gli uomini hanno in comune con gli dèi, ma anche la capacità di compiere misfatti e indulgere ai vizi. In un mondo che oppone uomini teomorfi a divinità antropomorfe, questo rapporto di «immagine e somiglianza» tra mortali e immortali copre l'intero spettro del nostro agire, sia in quel che ci riempie di orgoglio, sia in ciò di cui dovremmo vergognarci.

Il secondo motivo, accennato in Ovidius ma meglio sviluppato in Loukianós, è che la presenza umana sia un ulteriore passo nel discorso cosmogonico. Che senso avrebbe avuto un mondo deserto e selvaggio? L'uomo può addomesticarlo con strade e città, civilizzarlo con edifici e giardini; colmarlo di letteratura, opere d'arte e poesia. I miti antichi non distinguono tra elementi naturali e culturali: il mondo presuppone allo stesso modo gli uni e gli altri. L'antropizzazione del territorio è il necessario punto di arrivo nel processo dal cháos al kósmos.

Ma c'è ancora un altro punto, sul quale è bene insistere, sebbene sia assente in Ovidius e sia appena accennato in Loukianós: cosa sarebbe la divinità senza uno specchio in cui confrontarsi? Gli uomini sacrificano agli dèi. Senza il genere umano, gli dèi sarebbero rimasti privi di onori, offerte e sacrifici. Loukianós la prende alla lontana ma, come vedremo, il mito antropogonico greco – come quello mesopotamico – non fa che girare attorno a questo punto fondamentale.

Promētheús modella il primo uomo, Athēnâ gli infonde il pensiero
Frammento di un sarcofago romano (180-190 a.C.)
Museo del Prado, Madrid (Spagna)

PROMĒTHEÚS, IL DEMIURGO

Siamo partiti da Ovidius e Loukianós perché sono loro a tirare le somme della mitografia classica, in epoca tarda, e anche perché ci forniscono alcuni degli esempi letterariamente più completi del mito della creazione dell'uomo per mano di Promētheús. Ma questo racconto era affiorato più volte nel corso della sterminata letteratura greca e romana, a volte divenendo motivo centrale in opere di altissimo valore poetico o filosofico. Non è agevole fornire una cernita completa delle testimonianze letterarie su Promētheús, ma non si può trascurare di citare innanzitutto il ciclo di tragedie che gli dedicò Aischýlos (525-456 a.C.). Di tre, ci resta solo la prima, il Promētheús desmṓtēsPromētheús incatenato»), dove il figlio di Iapetós è presentato come creatore, maestro e difensore dell'uomo.

Plátōn (428/427-348/347 a.C.) prende spunto dal mito di Promētheús per trarne un interessante apologo sulla natura politica dell'uomo. Uomini e animali vengono creati insieme nel sottosuolo. Giunto il momento di farli emergere sulla superficie della terra, Epimētheús si offre di distribuire equamente le capacità tra tutte le specie, in modo da dare a ciascuna i mezzi adeguati per sopravvivere. Ma dopo aver operato un'attenta suddivisione, Epimētheús si accorge di aver esaurito tutte le qualità con gli animali e di aver lasciato gli esseri umani nudi e indifesi. Suo fratello Promētheús, dona allora agli uomini il fuoco e la téchnē, rubati rispettivamente ad Hḗphaistos e ad Athēnâ: per questo furto verrà punito. In seguito Zeús donerà agli uomini la sapienza politica, in modo da permettere loro di unirsi in gruppi sociali e collaborare per il comune vantaggio. (Prōtagóras [320c-320d]).

Echi del mito compaiono in molte altre fonti: un frammento di Sapphṓ [207] e un altro di Kallímachos [493] si limitano a citarlo en passant. Il favolista Aísōpos (±620-±560 a.C.) ne effettua delle variazioni allegoriche [515 | 516 | 517 | 527 | 530 | 535].

Ma stiamo parlando di rielaborazioni letterarie, in cui il racconto prometeico viene piegato a fini poetici, polemici, drammaturgici, filosofici, moralistici. Nessuna di queste fonti riferisce il racconto nella sua nudità «originale». Unico mitografo, Apollódōros risolve il mito antropogonico in due sole righe:

Dall'acqua e dalla terra, Promētheús plasmò gli uomini e inoltre donò loro il fuoco racchiudendolo, di nascosto da Zeús, dentro una canna.
Apollódōros: Bibliothḗkē [I: 7]

Nient'altro. Ma che il mito demiurgico su Promētheús fosse ben conosciuto a livello popolare, lo attesta il geografo Pausanías (110-180), con una deliziosa indicazione turistica: a Panopeús, nella Focide, si potevano ammirare due macigni argillosi, del colore e del profumo della pelle umana; la gente del luogo affermava fossero il residuo dell'impasto utilizzato da Promētheús per modellare i primi uomini (Periḗgēsis [X: 4]).

Nonostante le numerose citazioni e rielaborazioni che s'inseguono in un millennio di letteratura classica, il racconto demiurgico su Promētheús sembra mancare di una versione principale. Gli autori greco-latini non fanno che rifarsi a una tradizione comune e diffusa, ma non abbiamo una Urquelle, una fonte primaria, originale. Se risaliamo fino all'epoca pre-classica, quando la letteratura e la filosofia greca sono ancora a stento distinguibili dal substrato mitologico, il mito antropogonico si fa vago, evanescente, e ci scompare tra le dita. Escluso Hómēros, assai più interessato alle imprese dei suoi re e guerrieri, rimane Hēsíodos, nostra unica guida in questi stadi antichissimi. È con Hēsíodos che i miti ellenici assumono la configurazione destinata a divenire canonica per la civiltà occidentale. E Promētheús è un personaggio chiave nei due libri di Hēsíodos, per quanto non venga mai presentato come creatore dell'uomo.

La porta per entrare nel mondo esiodeo è un verso degli Érga kaì Hēmérai, le «Opere e i giorni», dove leggiamo che...

...hōs homóthen gegáasi theoì thnētoí t' ánthrōpoi. ...uomini e dèi hanno la stessa origine.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai []

I primi tre dèi della stirpe olimpica, Zeús, Poseidôn e Aḯdēs, erano figli di Krónos, il più giovane dei Titânes. Il racconto viene sviluppato da Hēsíodos nell'altra sua opera, la Theogonía, dove Zeús sconfigge i Titânes in un'apocalittica battaglia, e, spodestato il padre Krónos, diviene il nuovo re dell'universo.

A questo punto, affidandosi alla sorte, Zeús divide la potestà sull'universo con i suoi fratelli, e ciascuno prende possesso della sua timḗ, in una scena calma e maestosa:

Treîs gár t' ek Krónou eimèn adelpheoì hoùs téketo Rhéa
Zeùs kaì egṓ, trítatos d' Aḯdēs enéroisin anássōn.
trichthà dè pánta dédastai, hékastos d' émmore timês;
ḗtoi egṑn élachon poliḕn hála naiémen aieì
palloménōn, Aḯdēs d' élache zóphon ēeróenta,
Zeùs d' élach' ouranòn eurỳn en aithéri kaì nephélēısi;
gaîa d' éti xynḕ pántōn kaì makròs Ólympos.
Tre sono i figli di Krónos che Rhéa generò.
Zeús, io [Poseidôn], e terzo Aḯdēs signore degli inferi.
E tutto in tre fu diviso, ciascuno ebbe una parte:
a me toccò di vivere sempre nel mare canuto,
quando tirammo le sorti, Aḯdēs ebbe l'ombra nebbiosa,
e Zeús si prese il cielo fra le nuvole e l'etere;
comune a tutti la terra e l'alto Ólympos rimane.

Hómēros: Iliás [XV: -]

Se al lettore cominciano a fischiare le orecchie, ne ha ben donde: non avevamo forse letto una scena simile nell'Enûma ilû awîlum, anzi, talmente vicina al testo greco, da rappresentarne un calco impressionante? I tre maggiori dèi, anch'essi tirando le sorti, si dividono la potestà sulle sfere cosmiche che costituiscono l'universo:

[q]a-tam i-ḫu-zu qa-ti-ša
is-qá-am id-du-ú i-lu iz-zu-zu
〈a-nu〉 i-te-li š[a-me]-〈e〉-ša
[××]××× 〈er〉-ṣe-tam ba-ú-la-〈tu〉-uš-šu
[ši-ga-ra n]a-aḫ-ba-li ti-a-am-tim
[it-ta-a]d-nu a-na en-ki na-aš-ši-〈ki〉
Raggiunto un accordo (?)
i grandi dèi avevano estratto a sorte i propri domini:
Anu era salito in cielo;
Enlil aveva avuto la terra come dominio (?),
[e il chiavistello] che barrica il mare
era stato assegnato al principe Enki.

Enûma ilû awîlum [I: -]

Sappiamo come prosegue il mito mesopotamico: Anu e il suo seguito salgono in cielo, Enki e il suo corteo scendono nell'Apsû, Enlil diviene signore della terra; quindi gli Anunnaki impongono agli Igigi il canestro del lavoro, al fine di produrre la materia prima per i sacrifici. In seguito questi ultimi si ribellano ed Enki, dopo aver sacrificato uno degli Igigi, impasta il suo sangue alla creta e crea l'uomo affinché si sobbarchi il mantenimento gli dèi.

La Theogonía esiodea mette in scena un'analoga serie di rapporti di potere, risolvendoli in vario modo. Zeús usa dapprima la forza contro i Titânes e, dopo averli sconfitti, li scaraventa nel Tártaros; si affida poi a un tiro di astragali per dividere le timaí con i suoi fratelli. Se il secondo motivo deriva direttamente dal tema mesopotamico, la battaglia tra Olýmpioi e Titânes sembra derivare da un mitema differente: qui i collegamenti sono piuttosto indoeuropei. Nello schema, tuttavia, la titanomachia occupa la nicchia che in Mesopotamia è assegnata alla ribellione degli Igigi.

A questo punto, il mito paleobabilonese metteva in scena la creazione dell'uomo. Il racconto ellenico sembra prendere una strada diversa... ma non fermiamoci all'apparenza. Ricordiamoci dell'affermazione di Hēsíodos: «uomini e dèi hanno la stessa origine». Affermazione destinata a rimanere ingiustificata, in quanto Hēsíodos, pur narrando delle primissime età del genere umano, è piuttosto reticente sui dettagli antropogonici. Non lo è tuttavia su molti altri elementi. Infatti, mentre da Krónos discendono gli Olýmpioi, suo fratello Iapetós è padre di Promētheús, il creatore del genere umano.

Questo Iapetós non è che una trasparente ellenizzazione di Yāẹṯ, uno dei tre figli di Noḥ, biblico antenato delle stirpi elleniche e indoeuropee in generale. In un passo degli Oracoli Sibillini, testi apocalittici giudaico-ellenistici, composti tra il II e il I sec. a.C., la divisione del mondo in tre parti veniva effettuata tra i fratelli Krónos, Iapetós e Titán, dopo il crollo della torre di Babele (Oracula Sibyllina [III: -]). Tale tradizione sembra fosse una versione ellenizzata del mito biblico di Šēm, Ḥām e Yāẹṯ, i quali si spartirono il mondo dopo il diluvio.

L'andamento della Theogonía non è sempre consequenziale: Hēsíodos si muove avanti e indietro, svolgendo i molteplici fili delle sue genealogie; sovente usa la tecnica dell'hýsteron próteron, raccontando i fatti a partire dalle loro conseguenze, rendendoci difficile il compito di disporre gli eventi in un sicuro percorso cronologico. È il caso della titanomachia. Quando Titânes e Olýmpioi sono sul punto di ormai scagliarsi gli uni contro gli altri, e il lettore è carico nella spasmodica attesa della grande battaglia, Hēsíodos si blocca, cambia discorso e, agguantato un altro dei suoi innumerevoli fili, si mette a parlarci della discendenza di Iapetós. E che discendenza! Quattro figli, tutti quanti eccessivi nella loro ambizione, forza, sottigliezza o imprevidenza; tutti situati ai margini dell'ordine cosmico, se non apertamente ribelli.

Koúrēn d’ Iapetòs kallísphyron Ōkeanínēn
ēgágeto Klyménēn kaì homòn léchos eisanébainen.
Hḗ dé hoi Átlanta krateróphrona geínato paîda;
tíkte d’ hyperkýdanta Menoítion ēdè Promēthéa,
poikílon aiolómētin, hamartínoón t’ Epimēthéa,
hòs kakòn ex archês génet’ andrásin alphēstêsin...
Iapetós, l' oceanina, fanciulla dalle belle caviglie
sposò, Kliménē, e ascese il suo talamo.
Ed ella generò Átlas dal cuore violento,
e partorì l'orgoglioso Menoítios, e Promētheús
versatile e astuto, e Epimētheús senza senno,
che fu causa del male per gli uomini che mangiano pane...

Hēsíodos: Theogonía [-]

I figli di Iapetós sono destinati tutti, in un modo o nell'altro, a venire puniti, o a divenire essi stessi strumenti di punizione. Átlas verrà condannato a sostenere il cielo sulle spalle, sembra in punizione di aver guidato i Titânes nella battaglia contro gli Olýmpioi; Menoítios cadrà fulminato dallo stesso Zeús a causa della sua arroganza e scelleratezza; Promētheús finirà incatenato alle rocce del Caucaso, Epimētheús verrà indotto ad accettare il «male» costituito dalla prima donna, una condanna destinata a ripercuotersi su tutto il genere umano. Ma non anticipiamo il nostro dramma, e procediamo un passo alla volta.

È una strana coppia contrastiva, quella costituita da Promētheús ed Epimētheús. Due personaggi dai nomi parlanti: il «preveggente» e il «postveggente», il primo presentato fin da subito come «versatile» [poikílos] e «astuto» [aiolómētis], il secondo «senza senno» [amartínoon].

Stando ad Aischýlos, Promētheús fu stratega di Zeús durante la titanomachia, e possiamo immaginare quali preziosissimi servigi gli abbia recato nel corso della battaglia, contribuendo alla sua vittoria finale. Ma mentre la tragedia di Aischýlos insiste su questi dettagli, Hēsíodos li ignora per concentrarsi su un episodio «minore»: quello del sacrificio di Mēkṓnē (è questo l'antico nome della città di Sikyônos/Sicione, nel nord del Peloponneso).

L'incipit è enigmatico:

Kaì gar hót’ ekrínonto theoì thnētoí t’ ánthrōpoi
Mēkṓnēı...
Infatti, quando la loro contesa dirimevano gli dèi e i mortali
a Mēkṓnē...

Hēsíodos: Theogonía [-]

Una contesa tra dèi e uomini mortali? Di cosa stiamo parlando? Il problema non è da poco, tantopiù che, fino ad ora, la Theogonía è stata tutto un susseguirsi di generazioni titaniche e divine: non si era mai parlato di esseri umani. È solo negli Érga kaì Hēmérai che Hēsíodos ci assicurerà sul fatto che essi esistevano già all'epoca di Krónos. La Theogonía dà per scontata la loro esistenza, e se ne ricorda d'un tratto.

Giunto al punto in cui Olýmpioi e Titânes stanno ormai per scagliarsi gli uni contro gli altri, nella grande battaglia che deciderà il destino dell'universo, Hēsíodos interrompe il racconto e, lasciandoci con il fiato sospeso, inizia la non breve divagazione del sacrificio di Mēkṓnē, e la inizia in modo abrupto, dando tutte le premesse per scontate.

A questa ignota contesa tra dèi e uomini mortali accenna forse Aischýlos, nel suo Promētheús desmṓtēs, in cui il titán afferma di essere intervenuto per salvare gli uomini da Zeús, che voleva sterminarli.

  «Come si assise al trono di suo padre
[Zeús] divise le timaí tra gli dèi,
a ognuno i suoi, distribuì i poteri:
e non contò i mortali, gl'infelici,
ma voleva annientare il loro seme
e seminare un'altra stirpe umana.
Nessuno gli si oppose, tranne me.
Io l'osai. E liberai i mortali
dall'essere dispersi nella morte.»
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs

Sappiamo poco o nulla su questo mito, che pure ha un riscontro nel seguito dell'Enûma ilû awîlum, dove il crudele Enlil tenta di distruggere a più riprese il genere umano, ma Enki riesce ogni volta a salvarlo. Il braccio di ferro tra le due divinità, che ha per posta la sopravvivenza umana, culmina, sia in Mesopotamia che in Grecia, nel diluvio universale, scatenato rispettivamente da Enlil e da Zeús, e nel quale tutta l'umanità viene annegata. Ma di nuovo, saranno Enki e Promētheús, nei rispettivi miti, a suggerire ai due noè della situazione (Atraḫasîs e Deukalíōn) di costruire un'arca per salvarsi. Ma tratteremo in altra sede del diluvio: ci preme ora sapere con quali argomenti Promētheús abbia potuto convincere Zeús a risparmiare il genere umano.

Gli argomenti in realtà sono abbastanza ovvi. Sono già presenti nella brillante autodifesa che Loukianós mette in bocca a Promētheús, nel suo Promētheús ē Kaúkasos, ma anche nelle antropogonie mesopotamiche: gli uomini sono indispensabili agli dèi in quanto tributano loro un culto e li nutrono con offerte e sacrifici. Ed è con un ovvio sacrificio che Atraḫasîs si riappacifica con Enlil, dopo il diluvio; e Nōḥ non si comporterà in maniera differente nel mito ebraico.

Ma a ben guardare, c'è in atto un sacrificio anche a Mēkṓnē, e sembra posto a chiusura dell'enigmatica «contesa» tra uomini e dèi, contesa di cui Hēsíodos non specifica la natura. Quel che gli interessa è che Promētheús sia stato chiamato a officiare al sacrificio.

Kaì gar hót’ ekrínonto theoì thnētoí t’ ánthrōpoi
Mēkṓnēı, tót’ épeita mégan boûn próphroni thymōı
dassámenos proéthēke, Diòs nóon exapaphískōn
.
Toîs mèn gar sárkas te kaì éŋkata píona dēmōı
en hrinōı katéthēke kalýpsas gastrì boeíēı,
tōı d’ aût’ ostéa leyka boòs dolíēı epì téchnēı
euthetísas katéthēke kalýpsas argéti dēmōı.
Dḕ tóte min proséeipe patḕr andrôn te theôn te;
«Iapetionídē, pántōn arideíket' anáktōn,
ô pépon, ōs heterozḗlōs diedássao moíras».
Hṓs pháto kertoméōn Zeùs áphthita mḗdea eidṓs.
Tòn d' aûte proséeipe Promētheùs aŋkylomḗtēs
êk' epimeidḗsas, dolíēs d' ou lḗtheto téchnēs;
«Zeû kýdiste mégiste theôn aieigenetáōn,
tôn d' héle', hoppotérēn se enì phresì thymòs anṓgei».
Phê hra dolophronéōn...
Infatti, quando la loro contesa dirimevano gli dèi e i mortali
a Mēkṓnē, [Promētheús] con subdola mente, spartì un bue
dopo averlo diviso, volendo ingannare la mente di Zeús
.
Da una parte egli pose le carni e le interiora
ricche di grasso nella pelle del bue, ben coperte nel ventre,
dall'altra dispose ad arte le candide ossa
spolpate, nascoste nel bianco grasso.
E allora [Zeús], padre degli uomini e degli dei, disse:
«Figlio di Iapetós, illustre fra tutti i signori,
mio caro, con quanta ingiustizia hai fatto le parti!»
Così disse Zeús che conosce gli eterni consigli;
E Promētheús dai torti pensieri rispose,
ridendo sommesso, e non dimenticava le arti dell'inganno:
«Nobilissimo Zeús, sommo tra gli dèi immortali,
scegli la tua parte come ti suggerisce il cuore».
Così disse, tramando l'inganno...

Hēsíodos: Theogonía [-]

Promētheús esegue per la prima volta gli stessi gesti che i Greci ripeteranno sui loro altari nei secoli a venire. Il bue viene abbattuto e scuoiato. Le ossa delle zampe, i cosiddetti ostéa leuká, vengono accuratamente spolpati. Dopodiché, l'astuto titân fa un bel mucchietto delle ossa del bue e lo copre con uno strato di grasso, bianco e appetitoso. Poi, raccoglie tutti i kréa, le carni commestibili, staccate dalle ossa, e le mette dentro la gastḗr, lo stomaco del bue, viscido e poco gradevole a vedersi. Sono queste le due porzioni che il figlio di Iapetós pone dinanzi a Zeús, il quale nota quanto disuguale sia la suddivisione: è evidente che quel furbacchione di Promētheús ne ha escogitata una delle sue. Zeús lo spia beffardo, e Promētheús gli ricambia uno sguardo malizioso. Hēsíodos dirige la scena con mano lesta e sicura.

Quando il titân offre a Zeús di scegliere, tra i due mucchi, quello che preferisce, il lettore sa subito cosa sta per accadere. Tra un attimo, il goloso re degli dèi sceglierà il pacco che gli appare più appetitoso ma, sotto lo strato di grasso, troverà solo un mucchio di bianche ossa. Così immancabilmente avviene:

...Zeùs d’ áphthita mḗdea eidṑs
gnô hr' oud' ēgnoíēse dólon; kaka d' ósseto thymōı
thnētoîs anthrṓpoisi, ta kaì teléesthai émellen.
Chersì d' hó g' amphotérēısin aneíleto leykòn áleiphar.
Chṓsato dè phrénas amphí, chólos dé min híketo thymón,
ōs íden ostéa leyka boòs dolíēı epì téchnēı.
Ek toû d’ athanátoisin epì chthonì phûl’ anthrṓpōn
kaíous’ ostéa leyka thyēéntōn epì bōmôn.
...ma Zeús che conosce gli eterni consigli
riconobbe la frode, non gli sfuggì; e nel suo cuore
meditava sciagure contro i mortali e si preparava a porle in essere.
Raccolse il bianco grasso con ambedue le mani,
si adirò nell'animo e l'ira raggiunse il suo cuore,
quando vide le ossa bianche del bue, frutto dell'inganno:
da qui proviene l'usanza per cui gli uomini bruciano
le ossa bianche sugli altari fragranti per gli immortali.

Hēsíodos: Theogonía [-]

E così immancabilmente è avvenuto. Ma Hēsíodos, invece di prendere la strada diritta, è avanzato per un sentiero irto di ambiguità. Zeús sapeva, aveva riconosciuto l'inganno. E allora perché ha scelto di cadere nel tranello? Suona sinistro quel preludio ai mali che Zeús «meditava dentro il suo cuore per gli uomini mortali».

A gli uomini sono toccate invece le carni gustose e croccanti? «Che le mangino crude!» è la reazione di Zeús, che toglie il fuoco agli uomini, per punirli dell'inganno. Si diparte qui un altro grandioso racconto, ché Promētheús dovrà andare a rubare il fuoco agli dèi per restituirlo agli esseri umani: per punirlo, Zeús lo incatenerà alle rocce del Caucaso. Ma questo è un mitema differente, che dovrà essere affrontato separatamente.

Il terreno di Mēkṓnē, su cui stiamo avanzando, è ben noto agli interpreti del mito, che lo hanno calcato ripetutamente per più di duemilacinquecento anni: eppure, conserva ancora i suoi enigmi, le sue asperità. Quello a cui abbiamo assistito – Hēsíodos lo dice chiaramente – è il mito di istituzione della pratica sacrificale. Da questo momento, per tutti i secoli a venire, gli uomini immoleranno bestie sugli altari: per gli dèi, saranno bruciate le ossa, mentre le parti commestibili verranno consumate dagli uomini. L'inganno di Promētheús si risolve, insomma, nelle modalità di istituzione dei sacrifici. L'umanità sarà legata, in Grecia come in Mesopotamia, al mantenimento degli dèi attraverso le pratiche cultuali.

Ma questa è solo l'eziologia, il mito di istituzione del rapporto che, nei secoli a venire, legherà dèi e uomini nel reciproco vincolo dell'esistenza, con gli dèi che conservano i presupposti del kósmos e della vita, e gli uomini che mantengono in essere le divinità con offerte e sacrifici. Ma nell'iniqua spartizione del bue effettuata da Promētheús, viene tracciata una linea ancora più sottile, ed è quella che divide tra loro mortali e immortali. È un punto che Jean-Pierre Vernant ha opportunamente sottolineato: nella divisione tra ossa e carni, le une destinate agli dèi e le altre agli uomini, la parte peggiore è proprio la seconda.

Le ossa sono infatti – al contrario delle carni – la parte indeperibile degli animali. Sono l'architettura del corpo, il loro archetipo immutabile ed eterno. Agli dèi basta annusarne il profumo, quando le ossa ingrassate bruciano sugli altari, per condurre un'esistenza immortale. Gli uomini no: gli uomini hanno continuo bisogno di alimentarsi, per mantenere la propria esistenza; gli uomini sono fatti di carne, si nutrono di carne; e al contrario delle ossa, la carne si decompone, è paradigma di natura mortale. Che agli uomini tocchi la parte commestibile del bue è indice dei bisogni e delle necessità della condition humaine. Nel fare le parti del bue, Promētheús tira una riga, dividendo per sempre mortali e immortali.

Hómēros fa scorrere non sangue, ma una sostanza chiamata ichṓr, dal polso della dea Aphrodítē, ferita mentre tenta di salvare il figlio Aineías dalla furia di Diomḗdēs. E puntualizza:

Ou gàr sîton édous', ou pínous' aíthopa oînon,
toúnek' anaímonés eisi kaì athánatoi kaleontai.
Essi [gli dèi] non mangiano pane, non bevono vino di fiamma,
non hanno sangue perciò, e son chiamati immortali.

Hómēros: Ilías [V: -]

Il pane e il vino sono dunque cibo degli uomini: l'alimentazione, a cui Promētheús condanna il genere umano, è ragione della loro mortalità. Questo dà una nuova profondità all'espressione, dal sapore quasi proverbiale, con cui Hēsíodos indica gli esseri umani: «uomini che mangiano pane» [andrói alphēsteîs] (Theogonía []). Tale espressione non è una banale specificazione alimentare, ma oppone gli esseri mortali agli dèi che non hanno bisogno di nutrirsi con il nostro stesso cibo. Ploútarchos spiega il distico omerico in modo assai chiaro, sebbene un po' razionalizzando: «[Il pane] non è solo un mezzo che contribuisce alla vita, ma è anche uno strumento di morte. È dal cibo infatti che si sviluppano le malattie che invadono il corpo...» (Moralia: Tôn heptà sophôn sympósion [16]).

L'inganno di Promētheús si ripercuote sull'intero genere umano. La necessità di procurarsi giornalmente il cibo comporta l'inizio del lavoro e della fatica. Come gli uomini della Mesopotamia vengono creati per lavorare, al fine di mantenere gli dèi con i loro sacrifici, i loro affini, in Grecia, subendo l'inganno di un fraudolento sacrificio, si ritrovano condannati al medesimo fato. Il mondo diviene quello che noi conosciamo:

Krýpsantes gàr échousi theoì bíon anthrṓpoisin:
rhēidíōs gár ken kaì ep’ ḗmati ergássaio,
hṓste se keis eniautòn échein kaì aergòn eónta:
aîpsá ke pēdálion mèn hypèr kapnoû katatheîo,
érga boôn d’ apóloito kaì hēmiónōn talaergôn.
allà Zeùs ékrypse, cholōsámenos phresìn hêisin,
hótti min exapátēse Promētheùs ankylomḗtēs.
Gli dèi tengono infatti nascosta agli uomini la fonte della vita;
se così non fosse, in un sol giorno ti procureresti di che vivere
magari per un anno, e rimartene in ozio,
e subito al focolare appenderesti il timone,
tralasciando il lavoro dei buoi e delle mule pazienti.
Ma Zeús l'aveva nascosta, sdegnato nell'animo,
ché Promētheús, l'astuto, l'aveva ingannato.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

L'analisi del mito rischia di rivelarsi piuttosto intricata, per non dire ambigua. Se Promētheús è il «preveggente», come leggiamo sull'etichetta, perché il suo agire ai danni di Zeús si ripercuote poi sugli uomini mortali? E se Zeús era conscio del tranello, perché finge di caderci, per poi punire gli uomini? È difficile districarsi da questo gioco di cause ed effetti, che paiono contraddirsi le une con le altre. Hēsíodos ha risistemato dei miti antichissimi secondo le concezioni teologiche del suo tempo; sul canone esiodeo, gli autori successivi hanno sovrapposto le loro interpretazioni, rendendo la materia ancora più stratificata e complessa.

Promētheús modella l'uomo (±1515)
Dipinto di Piero Di Cosimo (1461-1522)
Olio su tavola, 68x120 cm. Alte Pinakothek, Monaco (Germania)

WEʾE E PROMĒTHEÚS: INTELLIGENZE A CONFRONTO

In questa comparazione tra il mito antropogonico paleobabilonese, rappresentanto dall'Enûma ilû awîlum, e quello ellenico, costruito dai due testi di Hēsíodos, ci troviamo di fronte a due personalità «ribelli», o comunque associate a schieramenti che si oppongono all'ordine divino: Weʾe e Promētheús.

Una comparazione tra i due personaggi è destinata a rimanere sul piano della semplice analogia. Il terreno su cui ci stiamo avventurando è irrimediabilmente fragile: se Promētheús è un personaggio concreto, dalle molte e interessanti sfaccettature, la figura di Weʾe rimane indefinita, priva di spessore. Il suo dossier è piuttosto scarno e non offre elementi su ci lavorare: ma quei pochi trovano regolari agganci con il mito prometeico.

Entrambi i personaggi sono caratterizzati in primis dalla loro intelligenza. Weʾe era definito tout-court come «il dio che ha l'intelligenza» [ilu ša išu ṭêma] (Enûma ilû awîlum [I: ]); Promētheús viene presentato tramite le sue qualità di astuzia e scaltrezza. Si tratta però di due intelligenze diverse: in accadico, ṭêmu indica l'attività del pensiero in senso generale, e dunque la capacità di comprendere, pensare, esprimere giudizi e pigliare decisioni. L'«intelligenza» di Weʾe è la facoltà razionale, facoltà che gli uomini condividono con gli dèi. Nel concetto di ṭêmu sembrano anche comprese la coscienza individuale e la personalità. Certamente, è dal ṭêmu di Weʾe che deriva – anche etimologicamente – l'eṭêmmu posseduto dagli esseri umani, cioè la loro parte divina, la continuità spirituale, l'anima indeperibile ed eterna.

L'intelligenza di Promētheús è assai più specializzata. Hēsíodos lo definisce aiolómētis «scaltro» [], poikilóboulos «dalle molte astuzie» [], aŋkylómētis «dai torti pensieri» []. E non a torto: Promētheús è ingegnoso, creativo, astuto, dispettoso. Egli possiede al massimo grado la mêtis, l'intelligenza astuta. È in grado di congegnare piani contorti e di portarli a compimento. E sebbene Zeús si sia affidato al suo consiglio in questioni di primaria importanza, come nel corso della titanomachia, Promētheús rimane un elemento imprevedibile, a volte sleale, spesso ribelle. Il suo amore per il genere umano, si sviluppa soltanto nei testi più tardi, nelle tragedie di Aischýlos; in Hēsíodos, Promētheús non sembra affatto animato dalla volontà di aiutare gli uomini, ma solo da quella di prendersi gioco di Zeús. Non è semplice arrivare a una conclusione. La figura di Promētheús è stato certamente rielaborata nel corso del tempo, ma anche una rigida ermeneutica esiodea difficilmente ci consegnerà una fedele rappresentazione del personaggio in epoca arcaica. Il mito di Promētheús rivela elementi di diversa origine e provenienza, che non è possibile ricondurre a un'unica fonte. Hēsíodos lascia affiorare soltanto la punta dell'iceberg.

Entrambi definiti per via delle loro capacità intellettive, sia Promētheús che Weʾe contribuiscono alla creazione degli esseri umani e, in particolar modo, sono responsabili della presenza di quel quid di natura divina presente nell'uomo.

Weʾe lo è maniera passiva: egli viene sacrificato dagli Anunnaki affinché la sua carne e il suo sangue, mescolati all'argilla, forniscano all'uomo l'eṭemmu. Al contrario, Promētheús agisce attivamente, come demiurgo, creando gli esseri umani contro il volere degli dèi. La partecipazione dell'uomo alla natura divina, in Grecia, è vista innanzitutto come somiglianza fisica. Nel dialogo di Loukianós, Promētheús si difende dall'accusa di aver voluto fabbricare gli uomini a immagine degli dèi, immagine che si riflette inevitabilmente sia sul piano della facoltà razionale, sia su quello etico. In diverse figurazioni antiche, Athēnâ è rappresentata accanto a Promētheús, nell'atto di toccare la testa dell'uomo appena creato, per infodergli le capacità razionali. Il motivo, escogitato da Ovidius, della terra impastata con l'acqua piovuta dal cielo, appare di troppo, nel mondo ellenico. I Greci sono fin troppo concreti per perdersi dietro le speculazioni metafisiche di stampo semitico: l'intelligenza che avvicina gli uomini agli dèi è definita piuttosto dalla conoscenza, che è innanzitutto conoscenza pratica, téchnē. È attraverso l'istruzione che Promētheús libera gli uomini dalla bestialità e li consegna all'esistenza come individui civili.

Il motivo è ben sottilineato da Aischýlos, il quale mette in bocca a Promētheús queste parole:

  «[Gli uomini] avevano occhi e non vedevano,
avevano le orecchie e non udivano,
somigliavano a immagini di sogno,
perduravano un tempo lungo e vago
e confuso, ignoravano le case di mattoni,
le opere del legno:
vivevano sotterra come labili
formiche, in grotte fonde, senza il sole;
ignari di certi segni dell'inverno
o della primavera che fioriva,
o dell'estate che portava i frutti,
operavano sempre e non sapevano,
finché indicai come sottilmente
si conoscono il sorgere e il calare
degli astri, e infine per loro scoprii
il numero, la prima conoscenza,
e i segni scritti, come si compongono,
la memoria di tutto, che è la madre
operosa del coro delle Moûsai...»
Aischýlos: Promētheús desmṓtēs

Il testo si prolunga elencando tutte le tecniche, le arti e le conoscenze che Promētheús ha introdotto presso gli uomini, tra cui le corrette pratiche di sacrificio e, in ultimo, il dono inestimabile del fuoco, rubato agli dèi ed elargito al genere umano. «Sappilo in breve», è l'amara conclusione del titán, «tutto ciò che gli uomini conoscono, viene da Promētheús».

Una volta individuata un'omologia tra due schemi mitologici e messi in parallelo i punti fondamentali dell'uno e dell'altro scenario, così da rivelare la presenza una medesima struttura di base, si può scoprire che le differenze sono altrettanto interessanti delle somiglianze. La forma in cui un medesimo mitema affiora in luoghi e tempi diversi ci insegna sempre qualcosa sui contesti culturali che l'hanno rielaborato e interpretato. Il sacrificio di Weʾe, che nel mito mesopotamico è propedeutico alla creazione dell'uomo come essere dotato di anima e ragione, in quello greco si configura come punizione per aver conferito agli uomini conoscenze e tecniche possedute dagli dèi, in particolare per aver restituito loro l'uso del fuoco. Per tali azioni, Promētheús, come sappiamo, verrà incatenato ai monti del Caucaso.

  ACCADI
(Enûma ilû awîlum)
ELLENI
(Hēsíodos et al.)
1 I tre dèi maggiori si dividono a sorte il dominio dell'universo: Anu prende il cielo, Enlil la terra ed Enki l'abisso acqueo. I tre dèi maggiori si dividono a sorte il dominio dell'universo: Zeús prende il cielo, Poseidôn il mare ed Áıdēs gli inferi. La terra rimane territorio comune.
2 Gli Igigi si ribellano agli Anunnaki, governati da re Enlil. Scontro tra i Titânes e gli Olýmpioi, guidati dal futuro re Zeús.
3 Tra gli Igigi, Weʾe è definito il «dio che ha intelligenza» Tra i Titânes, Promētheús è caratterizzato da un'intelligenza astuta e contorta
4 Enki e Nintu plasmano i primi uomini dall'argilla. Promētheús plasma il genere umano dall'argilla, dandogli l'aspetto e l'intelligenza degli dèi.  In alcune figurazioni è Athēnâ a conferire loro le capacità razionali. Insegna agli uomini tecniche e arti per migliorare la loro esistenza, e gli restituisce il fuoco rubato agli dèi.
5 Dalla carne e dal sangue di Weʾe, mescolati all'argilla, deriva l'eṭemmu, lo spirito immortale che permette agli uomini di partecipare all'essenza divina.
6 La creazione degli uomini è finalizzata al mantenimento dei sacrifici e del culto degli dèi. Promētheús istituisce le pratiche sacrificali, a Mēkṓnē, e stabilisce quali parti debbano toccare agli dèi.
7 Weʾe è stato sacrificato dagli Anunnaki (è possibile che ciò sia avvenuto in punizione per la ribellione degli Igigi). L'avere sostenuto gli uomini a danno degli dèi costa a Promētheús un'atroce punizione: incatenato da Zeús alle rocce del Caucaso.
FIGLI DI UN DIO UBRIACO

Ma ora dobbiamo lasciare un attimo la Grecia per tornare in Mesopotamia. Lo schema mitico che stiamo esplorando presenta ancora molte lacune. Un dio ha permesso all'uomo di partecipare alla natura divina, ma il prezzo è stato alto: Weʾe è stato ucciso, Promētheús incatenato alle rocce del Caucaso. Ma, grazie ai loro sforzi, ai loro sacrifici, ora l'uomo detiene un'anima immortale, possiede la coscienza e l'intelligenza degli dèi.

Ma tra uomo e dio è stata tirata una linea ben definita. Nonostante siano simili agli dèi in aspetto e in facoltà razionali, gli esseri umani rimangono soggetti alla malattia e alla morte. E sebbene le pratiche cultuali e sacrificali abbiano stabilito una sorta di contratto tra mortali e immortali, lo iato tra gli uni e gli altri rimane incolmabile. Il contratto tra le due specie è un contratto-capestro, a tutto vantaggio degli dèi, i quali non si faranno problemi a violarlo a loro capriccio.

La vita umana, in Mesopotamia, appare totalmente inserita in un progetto originario superiore, che fa capo al mondo divino. Ogni essere umano, fin dalla nascita, si ritrova incastrato in un sistema serratissimo, regolato dalla religione, dallo status sociale, dall'ideologia; un sistema dove il destino individuale sembra stenti ad esistere come tale. Egli esiste all'unico fine di mantenere il lavoro necessario al culto divino: e attraverso la continua riattualizzazione degli antichi miti, i re e le caste sacerdotali possono mantenere lo status quo, e con esso, i loro privilegi e il loro potere.

Nella sua grandiosa giustificazione del destino umano, l'Enûma ilû awîlum è forse il documento più compiuto, di più ampio respiro, giunto a noi dalla letteratura mesopotamica. Ma non è certo l'unico: il principio dell'uomo-lavoro era già presente, nella sua ideologia, nei più antichi testi sumerici. In un poema del II millennio, l'Ene nidue pa naamined, meglio conosciuto come «Invenzione della zappa» o «Lode alla zappa», Enlil costruisce per prima cosa l'utile strumento e, dopo averlo adornato, lo usa per raccogliere una zolla di terra, che depone nel primo stampo umano, nella «fabbrica della carne» [uzu-mu₂-a] di Duranki. L'uomo viene creato in funzione dell'attrezzo agricolo che è destinato ad essere da lui maneggiato:

en-e al mu-un-šid nam mi-ni-ib-tar-re
ki-in-du men kug sa-a₂ mu-ni-in-al₂
uzu-mu₂-a al am₃-mi-ni-in-du₃
sa nam-lu₂-ulu₃ u₃-šub-ba mi-ni-in-ar
en-lil₂-še₃ kalam-ma-ni ki mu-un-ši-in-dar-re
sa gig₂-ga-ni-še₃ igi zid mu-ši-in-bar
a-nun-na mu-un-na-sug₂-sug₂-ge-eš
šu-bi giri₁₇-ba mu-un-ne-al₂
en-lil₂ a-ra-zu-a mu-ni-in-ḫu-e-ne
u₃ sa gig₂-ga al mu-un-da-be₂-ne
Dopo aver ammirato la zappa, il signore [Enlil] ne fissò il destino,
e dopo averla cinta di una corona verdeggiante (?)
la porta in Uzumua, la fabbrica della carne.
Depone la forma dell'umanità nello stampo.
È allora che, davanti a lui, il popolo germoglia come erba sulla terra!
[Enlil] guarda benevolmente le sue teste nere.
Gli Anunna che formano la sua corte,
alzano le mani, con gesto pio, sulla bocca,
lodano allora Enlil con le loro preghiere
e trasmisero la zappa alle teste nere.
Ene nidue pa naamined [-]

Ma se l'uomo ha natura divina, perché è soggetto alla sofferenza e alla morte? Se un dio lo ha creato, perché lo ha gettato in balia del male? Una risposta interessante, e nient'affatto consolante, ci arriva da un testo sumerico risalente all'inizio del II millennio a.C., la cui ricostruzione, eseguita su una mezza dozzina di esemplari frammentari, ha messo a dura prova gli orientalisti. Termini sconosciuti e loci obscuri ne hanno reso azzardata la lettura e, in diversi, punti, le traduzioni degli specialisti divergono notevolmente. Questo testo, il cui titolo informale è «Enki e Ninmaḫ» (quello originale era forse Ud reata, «Nei giorni remoti»), oltre ai temi che già conosciamo – creazione dell'uomo al fine di sostenere il lavoro cultuale –, si interroga sull'origine e la natura del male e della sofferenza.

L'incipit ci riporta, ancora una volta, ai tempi primordiali, subito dopo separazione tra il cielo e la terra. La situazione è parallela a quella dell'Enûma ilû awîlum: gli dèi sono divisi in due classi, con le divinità maggiori [diir šar₂-šar₂] che costringono le divinità minori [diir tur-tur] al lavoro: scavare canali, accumulare terra, dragare il fango; ad eseguire quelle faticose, noiose operazioni necessarie per far arrivare le vittime agli altari.

ud re-a-ta ud an ki-bi-ta ba-an-[dim₂-ma-ba]
i₆ re-a-ta i₆ an ki-bi-ta 〈ba〉-[an-dim₂-ma-ba]
[mu re]-a-〈ta〉 mu nam ba-[tar-ra-ba]
[a]-〈nun〉-na-ke₄-ne ba-tu-ud-da-a-ba
ama-inana nam-NIR.PA-še₃ ba-tuku-a-ba
ama-inana an ki-a ba-ḫal-ḫal-la-a-ba
ama-inana [...] ba-a-peš u₃-tu-da-a-ba
diir kurum₆-ma-bi A × × unu₂?-bi-še₃ ba-ab-KEŠ₂-a-〈ba〉
diir šar₂-šar₂ ki₂-a₂ al-sug₂-ge-eš
       diir tur-tur du₂-lum im-il₂-il₂-e-ne
diir id₂ <im> dun-dun-u₃-ne saḫar-bi
       ḫa-ra-li im-dub-dub-be₂-ne
diir im-ur₅-ur₅-re-ne zi-bi inim am₃-ma-ar-re-ne
Nei giorni antichi, nei giorni in cui cielo e terra furono [separati]
nelle notti antiche, nelle notti in cui cielo e terra furono [separati]
negli anni antichi, negli anni, in cui i destini furono [fissati],
quando gli Anunna furono generati,
quando le dee furono prese in moglie,
quando le dee furono assegnate al cielo e alla terra,
quando le dee furono messe incinte e partorirono,
quando gli dèi erano obbligati al duro lavoro per il sostentamento,
i grandi dèi sorvegliavano il lavoro
       e i piccoli portavano il canestro del lavoro!
Gli dèi scavavano i canali
       e accumulavano terra in Ḫarali;
essi dragavano il fango e si lamentavano della loro vita!
Ud reata [-]

Mentre i piccoli dèi crollano sotto l'immane fatica, uno dei grandi dèi riposa nell'ozio più beato. Non è Enlil, questa volta, ma lo stesso Enki, il «saggio per eccellenza», il «creatore che ha fatto esistere tutti gli dèi». I piccoli dèi piangono e si lamentano, ma nessuno osa ribellarsi, nessuno osa entrare nella stanza dove Enki dorme. È però Namma, la madre primigenia, «colei che ha partorito tutti gli dèi», a destare Enki, con queste parole:

× mu-un-ši-nu₂-u₃-nam u₃ mu-un-ši-ku-ku-na-nam
[×]-TE BA [... nu-mu-un]-zi-zi
dim₃-mi-ir šu dim₂-dim₂-ma-zu × gu₂?-bi im-tu₁₀-tu₁₀-ne
du₅-mu-u₁₀ ki-nu₂-zu zig₃-ga 
       [i₃-bi₂]-ma-al-la-zu-ta na-a₂-kug-zu u₃-mu-e-ki₂-a₂
ki₂-sig₁₀ dim₃-mi-ir-e-ne-ke₄ 
       u₃-mu-[e]-dim₂ du₂-lum-bi ḫa-ba-tu-lu-〈ne〉
«Figlio mio, tu giaci, tu in verità dormi,
[...] e non ti alzi!
Gli dèi percuotono il corpo delle loro creature!
Figlio mio, àlzati dal tuo letto,
       tu che in virtù della tua saggezza comprendi ogni arte;
crea un sostituto degli dèi,
       affinché essi possano liberarsi del canestro del lavoro!»
Ud reata [-]

Enki si leva dal suo giaciglio e, dopo una lunga riflessione, si mette al lavoro. L'operazione antropogonica è risolta in pochi versi. Enki crea dapprima un SIG₇.EN.SIG₇.DUG₃, parola interpretata come «utero, matrice, ovaie». Sembra che un feto venga fatto crescere all'interno di questa specie di incubatrice, a cui Enki infonde parte della sua intelligenza... ma il testo è di difficile lettura, e gli studiosi hanno dato anche altre interpretazioni, del tutto diverse.

Poi, Enki si rivolge a sua madre Namma e le dà delle istruzioni, anche qui irte di difficoltà interpretative:

ama-u₁₀ mud mu-ar-ra-zu
       i₃-al₂-la-am₃ zub-sig₃ diir-re-e-ne KEŠ₂-i₃
šag₄ im ugu abzu-ka u₃-mu-e-ni-in-šar₂
SIG₇.EN.SIG₇.DUG₃ im mu-e-kir₃-kir₃-re-ne za-e
       me-dim₂ u₃-mu-e-ni-al₂
nin-maḫ-e an-ta-zu ḫe₂-ak-e
nin-imma šu-zi-an-na nin-ma-da nin-barag
nin-mug ŠAR.ŠAR.GABA nin-gun₃-na
tu-tu-a-zu ḫa-ra-gub-bu-ne
ama-u₁₀ za-e nam-bi u₃-mu-e-tar
       nin-maḫ zub-sig₃-bi ḫe₂-KEŠ₂
«Madre mia, alla creatura che avrai formato,
       imponi il canestro del lavoro!
Dopo che avrai mescolato l'argilla presa dalle sponde dell'Abzu,
si darà forma (?) all'argilla di questa matrice (?),
       e quando vorrai, tu stessa, modellarne (?) la natura (?).
Ninmaḫ ti assisterà:
Ninimma, Šuzianna, Ninmada, Ninbarag,
Ninmug, Dududuḫ ed Erešgunna
saranno le tue aiutanti!
Tu fisserai allora il suo destino, o madre mia,
       e Ninmaḫ gli ordinerà di lavorare per gli dèi»
Ud reata [-]

L'impressione è quella di assistere a un parto, a cui attendono alcune dee. La prima di esse, colei che sembra ricoprire il ruolo di levatrice, è Ninmaḫ, la «nobile signora», anche chiamata nei testi sumerici con il nome di Ninḫursa, «signora della montagna». Si tratta probabilmente della stessa Nintu che avevamo visto all'opera nell'Enûma ilû awîlum: di certo ha un ruolo analogo. Le sette dee che assistono alla nascita del prototipo umano non sono ben conosciute, ma le ritroveremo ancora, sotto vesti inaspettate, in altre tradizioni mitologiche. In quanto a Namma, è difficile definire il suo ruolo: nella traduzione di Jean Bottéro, spetta a lei stabilire il destino della creatura che sta per nascere; in quella di Giovanni Pettinato, è proprio lei a partorire. Per correttezza, ci asteniamo dall'approfondire la questione.

In una serie di versi rovinati e incomprensibili [-] doveva essere narrata la nascita degli uomini. Quando il testo si rende di nuovo intellegibile, gli dèi stanno celebrando la riuscita antropogonia con un banchetto in onore di Namma e Ninmaḫ. Sono stati arrostiti dei capretti e scorre birra a profusione. Tutti gli animi sono lieti, i cuori allegri. Gongola Enki, oggetto dei più ammirati complimenti da parte di tutti gli dèi. Quando d'un tratto, Ninmaḫ, che immaginiamo incupita dalla birra e dalla gelosia, esordisce con una cupa riflessione: «Poiché la natura degli uomini può essere sia buona che cattiva, io potrei assegnar loro un destino, lieto o infelice, a mio piacimento!»

Ribatte Enki, anche lui piuttosto brillo: «Se così è, io in persona correggerò quel destino, buono o infelice che sia!»

Raccolta dell'argilla dalle rive dell'Abzu, Ninmaḫ la modella fino a farne un uomo con le braccia deformi e anchilosate, incapace dei lavori più futili. Enki lo osserva e sorride: «Ebbene, costui entrerà al servizio del lugal, il re!»

Ninmaḫ non si dà per vinta e, raccolto un altro grumo di argilla, insiste nella grottesca sfida che le è stata lanciata, e foggia un uomo senza occhi, cieco: Enki gli conferisce il dono del canto. Ninmaḫ produce allora uno storpio, dalle gambe paralizzate, incapace di camminare: Enki lo assegna ai lavori di argenteria.

Per quarto, Ninmaḫ foggia un uomo incapace di trattenere l'urina o lo sperma: Enki lo guarisce con un lavacro e un appropriato esorcismo. Per quinto, Ninmaḫ plasma una donna sterile, incapace di avere figli: Enki la assegna alla «casa delle donne». Il sesto che Ninmaḫ produce, non ha né pene né vulva: Enki lo conduce dal re affinché lo usi come eunuco.

«A ognuno degli esseri che tu hai prodotto, io ho assegnato un destino e dato di che guadagnarsi il pane» sogghigna Enki. «Ma ora, vediamo se tu riuscirai ad assegnare un destino a ciò che io produrrò».

Enki si mette al lavoro e, sotto lo sguardo di Ninmaḫ, produce un umul, un individuo orribilmente deforme. Ninmaḫ gli rivolge la parola, ma l'umul non è in grado di rispondere; gli offre dal pane, ma l'umul non può afferrarlo. Incapace di stare in piedi, incapace di coricarsi; impossibilitato a compiere i gesti più semplici, l'umul non è né morto né vivo. La reazione di Ninmaḫ è di rabbia: una lacuna nel testo ci impedisce però di comprenderne le conseguenze. La dea ha perso la scommessa, Enki ha trionfato ancora una volta, e la tavoletta termina con una lode al dio creatore.

Lode che a noi suona piuttosto cupa. I nostri Sumeri sanno essere cinici al punto giusto. Quale altra ragione, se non l'ubriachezza di un dio, può giustificare i mali che affliggono l'umanità? Se gli dèi ci hanno plasmati a loro immagine, se ci hanno conferito qualcosa della loro sostanza divina, a cosa dobbiamo i nostri limiti fisici? Perché le deformità, le malattie, la sofferenza, la vecchiaia, la morte? Una contraddizione non da poco, che i Sumeri risolvono mettendo in scena una scommessa tra due divinità ubriache.

Anche il mito cinese chiama in causa una coppia primordiale di demiurghi, Fú Xī e Nǚ Wā. Quest'ultima, crea l'umanità, raccogliendo manciate di terra gialla dal letto del fiume Jiāng (lo Yáng Zǐ) e modellando bamboline fatte a sua immagine, che subito prendono vita, balzandole intorno con grida di gioia. All'inizio, Nǚ Wā modella le bambole una ad una con le sue mani. Ma dopo un po', comincia a stancarsi: l'impresa di popolare il mondo plasmando gli uomini uno ad uno sembra superiore alle sue forze. Così infila una canna di giunco nel fango del fiume, e come la scuote, gocce di fango cadono sul terreno, rapprendendosi in forme umane approssimative e scadenti. Perciò, gli uomini modellati con la terra gialla, diverranno i progenitori dei nobili; i secondi, quelli plasmati col fango, diverranno gli individui di bassa estrazione sociale, rozzi, ignoranti e sgradevoli alla vista.

Al confronto di Enki e di Nǚ Wā, Zeús non ha neppure l'attenuante dell'ubriachezza, o della noia. Anch'egli riempirà il mondo di mali e perfidie, ma agirà per astio, per vendetta, in modo sottile e subdolo.

LA PRIMA DONNA: LA CADUTA DELL'UOMO

Abbiamo lasciato Promētheús incatenato alle rocce del Caucaso. È nudo, esposto al sole, sferzato dal vento e dalla pioggia, mentre le stagioni scorrono lente sul suo capo e gli anni si susseguono generazione dopo generazione. Ogni giorno, un'aquila di bronzo scende dal cielo e, con il becco affilato, gli strappa crudelmente un pezzo di fegato. La notte, il fegato ricresce nell'addome di Promētheús. Per l'astuto titán, l'immortalità è un'indicibile sofferenza.

Così Zeús gli aveva sibilato:

Iapetionídē, pántōn péri mḗdea eidṓs,
chaíreis pŷr klépsas kaì emàs phrénas ēperopeúsas,
soí t’ autôi méga pêma kaì andrásin essoménoisin.
toîs d’ egṑ antì pyròs dṓsō kakón, hôi ken hápantes
térpōntai katà thymòn, heòn kakòn amphagapôntes,
hṑs éphat’, ek d’ egélasse patḕr andrôn te theôn te.
«O figlio di Iapetós, tu che sei il più ingegnoso di tutti,
ti rallegri di aver rubato il fuoco e di avere eluso i miei voleri:
ma hai preparato grande pena a te stesso e agli uomini che verranno.
Qual pena del fuoco, io darò loro un male del quale si rallegreranno
in cuore, stringendosi con amore al loro stesso male.»
Così parlò, e poi rise, il padre degli dèi e degli uomini.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Ora, per quanto i testi ellenici non siano molto espliciti, l'umanità, in quei tempi primordiali, era costituita unicamente da maschi. Agli dèi si accompagnavano le dee, e il mare e la terra erano gremiti di ninfe, naiadi e oceanine. Ma gli uomini appartenevano a un solo sesso, quello maschile.

Ed è appunto un kalòs kakós, un «bel male», il dono che Zeús ha deciso di elargire a questa primordiale razza di maschi, quale punizione per l'hýbris di Promētheús. Così come Promētheús aveva plasmato l'uomo a immagine degli dèi, Zeús ordina ora di creare la donna [gynḗ] a somiglianza delle dee. Hḗphaistos, il dio-artefice, modella allora la terra in una bellissima figura di fanciulla, ed Athēnâ la veste e l'adorna. La Theogonía si dilunga a descrivere l'abbigliamento e gli ornamenti della prima donna mortale, segni concreti e visibili della sua femminilità e capacità seduttiva:

...gaíēs gar sýmplasse periklytòs Amphigyḗeis
parthénōı aidoíēı íkelon Kronídeō dia boulás.
Zôse dè kaì kósmēse thea glaukôpis Athḗnē
argyphéē esthêti; kata krêthen dè kalýptrēn
daidaléēn cheíressi katéschethe, thaûma idésthai;
[amphì dé hoi stephánous, neothēléos ánthea poíēs,
himertoùs períthēke karḗati Pallas Athḗnē.
amphì dé hoi stephánēn chryséēn kephalêphin éthēke,
tḕn autòs poíēse periklytòs Amphigyḗeis
askḗsas palámēısi, charizómenos Diì patrí.
...infatti l'inclito ambidestro [Hḗphaistos] formò con la terra
un'immagine di vergine vereconda, per il volere del figlio di Krónos,
l'ornò di cintura la dea glaukôpis Athēnâ e la vestì
di candida veste; dall'alto del capo un velo
dai mille ricami di sua mano le fece vedere, meraviglia a vedersi;
e intorno collane di fiori d'erba appena fiorita
amabili, pose sulla sua testa Pallàs Athēnâ:
e intorno alla testa un aureo diadema le pose
che fabbricò apposta l'illustre ambidestro,
con le sue mani operando, per compiacere Zeús padre.
Hēsíodos: Theogonía [-]

Accennato nella Theogonía, il mito viene sviluppato da Hēsíodos nelle Érga kaì Hēmérai, dove altre divinità affiancano Hḗphaistos ed Athēnâ nella creazione della prima donna. Il risultato è un cocktail micidiale: una bella fanciulla, virginale nel contegno, ma dal fascino irresistibile e dall'animo volubile e falso.

Hḗphaiston d’ ekéleuse periklytòn hótti táchista
gaîan hýdei phýrein, en d’ anthrṓpou thémen audḕn
kaì sthénos, athanátēis dè theêis eis ôpa eískein,
parthenikês kalòn eîdos epḗraton: autàr Athḗnēn
érga didaskêsai, polydaídalon històn hyphaínein:
kaì chárin amphichéai kephalêi chryséēn Aphrodítēn
kaì póthon argaléon kaì gyiobórous meledṓnas:
en dè thémen kýneón te nóon kaì epíklopon êthos
Hermeíēn ḗnōge, diáktoron Argeiphóntēn.
[Zeús] comandò all'inclito Hḗphaistos che subito impastasse
terra con acqua e vi infondesse voce umana e vigore,
e il tutto fosse d'aspetto simile alle dee immortali, e di bella,
virginea, amabile presenza. E quindi che Athēnâ
le insegnasse le arti: il saper tessere trame ben conteste.
Di spargerle sul capo grazia, ordinò all'aurea Aphrodítē,
tormentosi desideri e le pene che struggono le membra;
e ad Hermês, messaggero Argeiphôn, di darle
un'indole ingannatrice e l'anima di una cagna.
Hṑs éphath’: hoi d’ epíthonto Diì Kroníōni ánakti.
autíka d’ ek gaíēs plásse klytòs Amphigyḗeis
parthénōi aidoíēi íkelon Kronídeō dià boulás:
zôse dè kaì kósmēse theà glaukôpis Athḗnē:
amphì dé hoi Chárités te theaì kaì pótnia Peithṑ
hórmous chryseíous éthesan chroḯ, amphì dè tḗn ge
Hôrai kallíkomoi stéphon ánthesin eiarinoîsin:
pánta dé hoi chroï̀ kósmon ephḗrmose Pallàs Athḗnē.
En d’ ára hoi stḗthessi diáktoros Argeiphóntēs
pseúdeá th’ haimylíous te lógous kaì epíklopon êthos
teûxe Diòs boulêisi baryktýpou: en d’ ára phōnḕn
thêke theôn kêryx, onómēne dè tḗnde gynaîka
Pandṓrēn, hóti pántes Olýmpia dṓmat’ échontes
dôron edṓrēsan, pêm’ andrásin alphēstêisin.
Così egli parlò; ed essi obbedirono al sovrano, il cronide Zeús.
E senza indugio, l'inclito ambidestro plasmò con la terra
un'immagine simile a una casta fanciulla, per volere del cronide;
Athēnâ occhi azzurri le annodò la cintura e l'adornò;
attorno al collo le Chárites e la veneranda Peithṓ
le misero aurei monili; la incoronarono
le Hôrai, chiome fluenti, con fiori di primavera;
sul corpo le adattò ogni ornamento Pallàs Athēnâ.
Quindi, nel suo petto le infuse, l'araldo Argeiphôn,
le menzogne, gli astuti d'scorsi e un 'indole ingannatrice,
così come voleva Zeús dal cupo fragore, e voce
infine le diede l'araldo divino. Questa donna fu chiamata
Pandṓra
perché tutti gli abitanti dell'Ólympos
le dettero doni, sciagura per gli uomini che si nutrono di pane.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Tutta la scena della creazione della donna viene svolta da Hēsíodos utilizzando il genere neutro, come per sottolineare l'innaturalità della sua origine e conferire artificiosità alla comparsa del genere femminile. La donna è una costruzione, un simulacro, un dáidalon vivente. L'essenza femminile si racchiude qui in una sorta di paradosso, dove «la donna assomiglia a una donna» (Loraux 1989). A differenza delle servitrici d'oro di Hḗphaistos, automi meccanici che imitano gli esseri viventi (Iliás [XVIII, -]), Pandṓra è un artificio vivente.

Il mito antropogonico, perduto come racconto primario, viene recuperato da Hēsíodos nell'episodio della creazione di Pandṓra. Il confronto con le antropogonie mesopotamiche è piuttosto agevole, a partire dal fatto che, in entrambi gli schemi, è una coppia di dèi a impegnarsi nell'opera demiurgica. A Enki e Nintu (creatori dell'umanità nell'Enûma ilû awîlum), o Enki e Ninmaḫ (nell'Ud reata), corrispondono qui Hḗphaistos ed Athēnâ. La presenza di Hḗphaistos in luogo di Promētheús non desta problemi: i due personaggi sono in parte sovrapponibili, entrambi caratterizzati da un fertile ingegno e dalla capacità creativa, e in certi casi addirittura interscambiabili (si veda il rispettivo ruolo nelle versioni del mito della nascita di Athēnâ).

Le Érga kaì Hēmérai fanno intervenire anche Aphrodítē ed Hermês, in ruoli a loro congegnali: la prima al fine di rendere Pandṓra irresistibile agli uomini; il secondo per plasmarle un animo menzognero e volubile. Curiosa la presenza delle sette dee che intervengono all'operazione: le tre Chárites (le «grazie»), Peithṓ (la «persuasione») e le tre Hôrai (le «stagioni»), che sembrano occupare la nicchia delle sette dee che affiancano Ninmaḫ nell'Ud reata.

Creazione di Pandṓra (±475-425 a.C.)
Cratere attico a figure rosse
Ashmolean Museum, Oxford (Regno Unito)
Da sinistra: Diónysos, Hermês, Hḗphaistos e Pandṓra; in alto a destra, Érōs.

Sebbene Hēsíodos sia l'unica fonte letteraria importante su Pandṓra, sono pervenute alcune immagini che ne rappresentano la creazione e vestizione. In particolare, un cratere attico a figure rosse, risalente al V secolo a.C., sembra mettere in scena una versione alternativa della creazione di Pandṓra: la fanciulla, vestita di tutto punto, velata e col capo incoronato, è raffigurata dalla vita in su, mentre emerge dalla terra; accanto a lei, reggendo nella mano destra un martello da scultore, Hḗphaistos stende verso di lei la sinistra. Sul capo di Pandṓra si libra un piccolo Érōs alato; a sinistra si riconoscono Hermês e Diónysos.

L'immagine sembra combinare due modalità antropogoniche: il mitema degli uomini che emergono dalla terra e l'opera demiurgica di Hḗphaistos. A seconda di come leggiamo la figura, il dio-artigiano potrebbe essere colto nell'atto di invitare Pandṓra a uscire dalla terra, quanto in quello di modellarla nella creta. Mentre nel caso della creazione maschile le due modalità ci sono pervenute come miti alternativi, nell'immagine della nascita di Pandṓra sono strettamente intrecciate: l'antropogonia propone qui una combinazione tra concorso femminile (l'emersione dalla madre terra) e concorso maschile (il lavoro del demiurgo).

Ma c'è veramente differenza tra le due modalità antropogoniche, o esse vengono in qualche modo a coincidere? In fondo, l'argilla utilizzata dai vari demiurghi per plasmare gli esseri umani viene essa stessa dalla terra. Abbiamo già rilevato la correlazione tra āḏām e ăḏāmāh, e tra homo e humus. Il nome Pandṓra, «tutti i doni», è un trasparente epiteto della dea-terra . Se gli esseri umani sono emanazioni del suolo materiale, Pandṓra lo è in un senso assai più esplicito. È la Terra stessa che prende vita e si fa donna.

Condotta da Hḗphaistos al consesso degli dèi, la prima femmina umana viene accolta con stupore e ammirazione. «Inganno senza scampo per gli uomini» la definisce Hēsíodos (Theogonía []). Ed a ben ragione. Il nome Pandṓra può essere inteso come «colei a cui tutti gli dèi hanno elargito doni», oppure, con maggiore sottigliezza, «colei che tutti gli dèi hanno portato in dono». E è proprio questo il destino della fanciulla, che gli dèi recano in regalo ad Epimētheús.

Promētheús lo aveva avvertito: «Non accettare doni da Zeús». Ma Epimētheús è indifeso, di fronte alla sfrontatezza di Zeús, e ancor più dinanzi al fascino irresistibile di Pandṓra. Coerente con il suo nome, il «postveggente», cade nella trappola ordita dagli dèi e sposa la fanciulla. Il povero Epimētheús si accorgerà dell'inganno solo quando sarà troppo tardi: il «bel male» è ormai entrato a far parte della vita umana. A questo punto, Hēsíodos tira un sospiro rassegnato, elencandoci tutte i danni e le molestie provocati dalle donne:

Tês gar olṓión esti génos kaì phûla gynaikôn,
pêma még’ haì thnētoîsi met’ andrási naietáousin
ouloménēs peníēs ou sýmphoroi, alla kóroio.
Hōs d’ hopót’ en smḗnessi katērephéessi mélissai
kēphênas bóskōsi, kakôn xynḗonas érgōn;
haì mén te própan êmar es ēélion katadýnta
ēmátiai speúdousi titheîsí te kēría leyká,
hoì d’ éntosthe ménontes epērephéas kata símblous
allótrion kámaton sphetérēn es gastér’ amôntai;
hṑs d’ aútōs ándressi kakòn thnētoîsi gynaîkas
Zeùs hypsibremétēs thêken, xynḗonas érgōn
argaléōn; héteron dè póren kakòn ant’ agathoîo;
hós ke gámon pheúgōn kaì mérmera érga gynaikôn
mḕ gêmai ethélēı, oloòn d’ epì gêras híkoito
chḗteϊ gērokómoio; hó g’ ou biótou epideyḕs
zṓei, apophthiménou dè dia ktêsin datéontai
chērōstaí; hôı d’ aûte gámou meta moîra génētai,
kednḕn d’ éschen ákoitin arēruîan prapídessi,
tōı dé t’ ap’ aiônos kakòn esthlōı antipherízei
emmenés; hòs dé ke tétmēı atartēroîo genéthlēs,
zṓei enì stḗthessin échōn alíaston aníēn
thymōı kaì kradíēı, kaì anḗkeston kakón estin.
Hṓs ouk ésti Diòs klépsai nóon oudè pareltheîn.
Da lei [Pandṓra]proviene il nefasto genere femminile,
grande sciagura per gli uomini mortali,
poiché non sono compagne della povertà ma del lusso.
Come quando negli ombrosi alveari le api
nutrono i fuchi, che sono compagni di opere malvagie:
esse per tutto il giorno si affrettano sollecite
e riempiono i candidi favi, sino al tramonto del sole;
i fuchi rimangono dentro gli ombrosi alveari,
raccolgono nel ventre la fatica altrui;
così, a danno degli uomini, Zeús alto tonante
pose le donne, compagne di opere malvagie;
e un altro male inflisse, al posto di un bene.
Colui che fugge le nozze e le moleste opere delle donne
non si sposa e giunge alla triste vecchiaia
privo di sostegno; nulla gli manca,
ma alla sua morte i lontani parenti
si divideranno i suoi beni; chi si sposa,
anche se trova una buona moglie, saggia nel cuore,
per tutta la vita bilancia il bene con il male.
Ma chi si imbatte in una schiatta funesta,
vive tenendo nel petto un dolore incessante,
nel cuore e nell'animo, e non c'è rimedio per il suo male.
Non si può ingannare il volere di Zeús, né ad esso sottrarsi...
Hēsíodos: Theogonía [-]

Ma l'eclatante quanto banale misoginia di Hēsíodos non centra mai il vero bersaglio. Il poeta sta cercando di convincerci dei motivi per cui le donne sarebbero un male per gli uomini, ma non fa che imbastire un elenco di insignificanti luoghi comuni, di chiacchiere da osteria. La nostra impressione è che Hēsíodos stia cercando di mettere una pezza, di fornire una giustificazione, laddove gli manca un motivo assai più netto e profondo.

Non siamo in una commedia di Molière, o di Goldoni, ma nel territorio del mito. Stiamo indagando gli archetipi stessi della natura umana, e lo schema è teleologico. Cosa ha comportato l'introduzione del genere femminile? Riformuliamo la domanda: com'era il mondo, prima che Zeús ci fornisse le donne? Senza le gioie e i travagli del sesso, è ovvio. Ma soprattutto senza la necessità del sesso. Il mito non fornisce informazioni su come gli uomini si riproducessero, prima di incontrare le donne. Ma ha poca importanza se spuntassero dalla terra o cadessero dagli alberi. Hēsíodos ci fa balenare suggestivi scenari delle più età remote dell'uomo (dell'oro, dell'argento, del bronzo, etc.), caratterizzate perlopiù da uno stato di paradisiaca innocenza (Érga kaì Hēmérai [-]): ma sono immagini che appartengono a una tradizione parallela, non direttamente comparabili con il nostro problema immediato.

Tra l'altro, affermare che l'umanità, prima dell'introduzione di Pandṓra, fosse costituita unicamente da maschi, contiene una sorta di forzatura logica. Il maschile è tale solo in relazione al femminile: mancando l'altro polo della sessualità umana, esso non è più distinguibile dal concetto stesso di umanità. Poiché la posta in gioco è proprio l'estensione di tale concetto, Hēsíodos ne incentra la questione su un attento gioco di termini. Prima della nascita di Pandṓra, egli usa sempre, per indicare gli «uomini», la parola ánthrōpoi, che in greco indica gli esseri umani in generale, distinti dagli dèi. È solo dopo la creazione di Pandṓra che gli «uomini» cesseranno di essere chiamati ánthrōpoi e diverranno soltanto ándres «maschi» (Theogonía []), cioè metà dell'umanità.

Il prima non ha importanza. Stiamo parlando di un passato «assoluto», secondo la bella formula di Michail Bachtin, di un'epoca che si colloca prima del tempo. Non va spiegata, tantomeno dobbiamo sforzarci di renderla coerente dal punto di vista logico. Bisogna solo accettarla come punto di partenza: è un calco, in negativo, del mondo che conosciamo. È un'epoca che ci viene mostrata solo nel momento in cui termina. Da allora in poi il genere umano sarà com'è sempre stato: dissociato nella complementarietà dei due sessi, nella necessità dell'incontro, della seduzione, del matrimonio, della riproduzione. Ed è solo questo che conta, ai fini del mito.

A partire sacrificio di Mēkṓnē, da quella linea tirata a separare i destini degli dèi e dell'umanità, la natura umana ne è uscita drasticamente ridimensionata. Gli dèi hanno nascosto le sorgenti della vita, dice Hēsíodos, e dunque dobbiamo lavorare, faticare, strappare alla terra il nutrimento necessario per sopravvivere. Siamo esseri effimeri, mortali, e ci perpetuiamo attraverso i nostri figli. L'introduzione della morte richiede la scoperta della riproduzione, e dunque della scissione dei sessi. Non è difficile indovinare, nel pensiero mitico greco, un certo rimpianto per il tempo precedente al giorno funesto in cui le donne furono create e il desiderio di potersi riprodurre senza di esse (cfr. Eurypídēs: Mḗdeia [-]; Hippólytos stephanophóros []).

La condanna di Zeús colpisce l'umanità in due punti fondamentali, l'alimentazione e la sessualità, di cui Promētheús ed Epimētheús appaiono essere i diretti responsabili:

  1. Sacrificio di Mēkṓnē (Promētheús) → Alimentazione: lavoro quotidiano per strappare il cibo alla terra
  2. Dono di Pandṓra (Epimētheús) → Sessualità: introduzione della divisione in sessi e dell'accoppiamento

Cibo e sesso sono le due necessità/condanne dell'esistenza umana. Ma l'esito finale del nostro stato sulla terra non è stato ancora raggiunto: Pandṓra ha una ancora una freccia al suo arco. Anzi, un vaso.

L'episodio del proverbiale píthos di Pandṓra produce più problemi di quanti non ne risolva. L'unica fonte del mito rimane Hēsíodos, che peraltro ci lascia pieni di domande e non entra in dettagli. Lasciamo a lui la parola:

Prìn mèn gàr zṓeskon epì chthonì phŷl’ anthrṓpōn
nósphin áter te kakôn kaì áter chalepoîo pónoio
noúsōn t’ argaléōn, haí t’ andrási Kêras édōkan.
aîpsa gàr en kakótēti brotoì katagēráskousin.
Allà gynḕ cheíressi píthou méga pôm’ apheloûsa
eskédas̱’: anthrṓpoisi d’ emḗsato kḗdea lygrá.
Moúnē d’ autóthi Elpìs en arrhḗktoisi dómoisin
éndon émimne píthou hypò cheílesin, oudè thýraze
exéptē: prósthen gàr epéllabe pôma píthoio
aigióchou boulêisi Diòs nephelēgerétao.
Álla dè myría lygrà kat’ anthrṓpous alálētai:
pleíē mèn gàr gaîa kakôn, pleíē dè thálassa:
noûsoi d’ anthrṓpoisin eph’ hēmérēi, hai d’ epì nyktì
autómatoi phoitôsi kakà thnētoîsi phérousai
sigêi, epeì phōnḕn exeíleto mētíeta Zeús.
Fino ad allora viveva sulla terra, lontana dai mali, la stirpe mortale,
senza la sfibrante fatica e senza il morbo crudele
che trae gli umani alla morte:
rapidamente, infatti, invecchiano gli uomini nel dolore.
Ma la donna, levando di sua mano il grande coperchio del píthos,
disperse i mali, preparando agli uomini affanni luttuosi.
Soltanto Elpís, la speranza, là nella casa intatta,
dentro rimase sotto i labbri del píthos, né volò fuori,
perché prima Pandṓra rimise al vaso il coperchio,
secondo il volere dell'egioco Zeús, adunatore di nembi.
Ma gli altri, i mali infiniti, errano in mezzo agli umani;
piena, infatti, di mali è la terra, pieno ne è il mare,
e le malattie si aggirano di notte e di giorno fra gli uomini,
in silenzio portando dolore ai mortali;
e questo perché Zeús tolse loro la voce.
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Il testo originale è piuttosto scarno. Non viene detto da dove venisse il vaso, né come fosse finito tra le mani di Pandṓra. Non sappiamo per quale ragione la fanciulla ne sollevò il coperchio, ma le sue motivazioni personali passano in secondo piano, rispetto al fatto che tutto avveniva per volere di Zeús. Riconosciamo però di essere di fronte a un motivo letterario: un passo di Hómēros parla di due vasi, piazzati sulla soglia della dimora di Zeús, da cui tutte le cose buone e le cose cattive vengono distribuite ai mortali (Iliás [XIV: -]). Ma rimane il fatto che, nel mito esiodeo, Zeús si serva proprio di una donna per colmare di mali la vita degli uomini. Più esattamente della prima donna, archetipo di tutto il genere femminile.

Ancora un motivo medio-orientale? Sembrerebbe proprio di sì. Hēsíodos descrive i suoi kakói soprattutto come malattie che abbreviano e rendono penosa l'esistenza umana. Anche nel mito mesopotamico, Ninmaḫ è responsabile di tutti i malanni e le deformità, e le trovate di Enki di ricondurre ogni tipo di disgrazia a un ordine delle cose appare, ai nostri occhi, un tentativo fino imbarazzante di integrare gli handicappati nel tessuto sociale. Alla fine, è la presenza stessa della sofferenza nel mondo a rimanere irrisolta: il gratuito capriccio di due divinità ubriache. Ma i kakói di Hēsíodos hanno vita propria: si muovono a loro piacere tra gli uomini, in silenzio, di giorno e di notte, portando malattie e sofferenze. I popoli del Medio Oriente personificavano il propagarsi delle malattie nell'immagine di dèmoni vaganti, invisibili, spietati. Si confronti la descrizione di Hēsíodos con questo scongiuro paleobabilonese contro i dèmoni:

  Essi sono liberi di muoversi,
essi schiamazzano sopra, essi schiamazzano sotto.
Essi sono la bile venefica degli dèi.
Essi sono una grande tempesta proveniente dal cielo;
essi sono la civetta che alberga in città.
Essi sono generati dal seme di An, essi sono i figli partoriti dalla terra.
Sugli alti tetti e sulle ampie terrazze essi turbinano come una tempesta.
Essi non sono impediti né dalle porte né dai chiavistelli,
essi sgusciano attraverso le porte come i serpenti.
Essi portano via la moglie dal seno del marito,
essi rimuovono il bambino dalle ginocchia del padre;
essi portano via il fidanzato della casa del suocero;
essi sono il silenzio e lo stupore che perseguita l'uomo alle spalle...
Udug-ḫul-a-meš [V: i: -]

L'ultimo dramma si è concluso. Il mondo è ormai divenuto come noi lo conosciamo. Ma prima di sbarcare in altri e nuovi lidi, alla ricerca di schemi e omologie, concediamoci un piccolo intermezzo nella profumata terra d'Egitto.

Mito di Promētheús ed Epimētheús (±1515)
Dipinto di Piero Di Cosimo (1461-1522)
Olio su tavola, 64x116 cm. Musée des Beaux-Arts, Strasburgo (Francia)
DALL'EGITTO: UOMINI COME VASI

Se in Mesopotamia la creazione dell'uomo si configurava come un progetto tracciato a tavolino da divinità ciniche e interessate, gli Egiziani preferivano vedervi piuttosto l'opera di un abile artigiano. Alle incubatrici e le «fabbriche della carne» in cui Enki aveva posto argilla mista a sangue, corrispondevano in Egitto eleganti ruote di vasaio su cui il dio Ḫnûm lavorava morbide masse del fertile limo del Nilo.

Ḫnûm era uno dei più antichi dèi egizi, adorato sin dall'epoca predinastica nella regione della prima cateratta del Nilo, sul confine meridionale dell'Egitto. Il suo centro di culto si trovava ad Abû (Elefantina), capitale del primo nomós dell'Alto Egitto. La cittadina sorgeva su un isolotto in mezzo al Nilo, di fronte all'odierna città di Aswān. Ḫnûm era il custode delle caverne dell'isola di Senmet (ar. Bigaḥ), oggi sommersa, donde si credeva si trovassero le sorgenti del Nilo. Reggendo le briglie del fiume, Ḫnûm ne dirigeva le piene, lasciando che ogni anno il Nilo straripasse ricoprendo i campi e che, ritraendosi, vi depositasse il suo fertile strato di limo. Su questa terra, gli agricoltori egizi coltivavano orzo, frumento e granturco in abbondanza. Ḫnûm era il primo dispensatore della fertilità e della prosperità dell'Egitto.

Tempio di Ḫnûm a Isnā
Sala ipostila romana (I sec.)

In origine Ḫnûm era forse venerato in aspetto di ariete, o più esattamente dell'ariete dalle corna piatte [Ovis longipes palæoægypticus] anticamente diffuso nell'Alto Egitto e già estinto già intorno al 2000 a.C. Già nell'Antico Regno l'immagine del dio si era antropomorfizzata, conservando dell'animale soltanto la testa. Ma l'ariete che ne rappresentava la manifestazione divina sulla terra non perse per questo il suo carattere sacro: la necropoli di Abû ci ha restituito i corpi mummificati degli arieti, seppelliti in sarcofagi di legno dorato. Dio-ariete, Ḫnûm era legato al vigore sessuale, e quindi all'incessante procreazione del mondo naturale. Era il dio della forza irresistibile della vita. Nessuna sorpresa che, nel culto che gli veniva tributato a Senât (ar. Isnā, it. Esna), nell'Alto Egitto, Ḫnûm fosse finito per essere considerato il dio-artigiano che modellava le forme umane sulla sua ruota da vasaio.

Il santuario principale del dio era però il tempio di Senât, costruito soltanto verso la fine della storia egizia e consacrato non solo a Ḫnûm, ma anche a diverse altre divinità. Oggi la città di Isnā è uno squallido agglomerato urbano e tutto ciò che sopravvive del tempio è la grande sala ipostila con ventiquattro colonne, eretta dagli imperatori Claudius e Vespasianus nel I secolo. Pareti e colonne sono iscritte a geroglifici, ed è proprio da tali iscrizioni che veniamo a conoscere più chiaramente il ruolo di Ḫnûm nella creazione degli uomini. I miti eliopolitani ed ermopolitani si occupavano poco della creazione dell'uomo, preferendo dedicarsi alle grandi cosmogonie; il mito esnaico si concentra invece sul dettaglio umano, mostrandoci come fosse proprio Ḫnûm, il dio criocefalo, a determinare il legame tra gli dèi e gli abitanti del mondo. Nell'inno a lui dedicato, la scienza anatomica si fondeva all'artigianato, l'una e l'altra trasfigurate su un piano metafisico.

  Egli [Ḫnûm] ha creato l'uomo riproduttore
e ha posto sulla terra la stirpe femminile.
Egli ha organizzato la corsa del sangue nelle ossa
formando all'interno del suo laboratorio a forza di braccia.
Ed ecco che il soffio della vita impregnava ogni cosa
mentre il sangue formava [...] con il germe nelle ossa
per costruire la materia prima di [nuove] ossa.
Egli ha fatto che gli esseri femminili partoriscano
quando il loro ventre ha raggiunto il momento giusto [...].
Egli ha diminuito le sofferenze secondo il loro cuore;
egli ha confortato le gole
dando l'aria a quelli che respirano
allo scopo di animare di vita le creature giovani
all'interno del seno materno.
Egli ha fatto crescere i ciuffi di capelli,
egli ha fatto spuntare la capigliatura
modellando la pelle sulle membra.
Egli ha costruito il cranio;
egli ha modellato il volto
per dare un aspetto caratteristico alle facce.
Egli ha fatto aprire gli occhi;
egli ha aperto l'accesso alle orecchie.
Egli ha posto il corpo in contatto stretto con l'atmosfera;
egli ha fatto la bocca per mangiare;
egli ha costruito la dentatura per masticare.
E così ha staccato la lingua perché essa si esprima
e le due mascelle, in modo da poterle allargare.
La gola per deglutire e la faringe per ingoiare
ma anche per spuntare.
La spina dorsale per sostenere [...].
L'ano per compiere la sua funzione,
la faringe per ingoiare,
le mani con le loro dita per compiere la loro opera,
il cuore per servire di guida,
i testicoli per portare il fallo
e anche per l'atto sessuale.
Gli organi anteriori per consumare ogni cosa,
l'organo posteriore per fornire l'aria ai visceri,
e anche per star comodi al momento dei pasti,
per dar vita agli organi interni al momento della notte.
Il membro per l'unione sessuale
e l'organo femminile per ricevere il seme
e moltiplicare le generazioni in Egitto.
La vescica per urinare [...]
il membro vivile per eiaculare
e per aumentare quando è stretto fra le due gambe.
Le tibie per camminare,
le cosce per andare,
mentre le ossa adempiono alla loro funzione
a disposizione del cuore.

Inno a Ḫnûm

Come nel movimento circolare della ruota la massa inizialmente amorfa della creta viene trasformata nell'elegante simmetria di un vaso, così Ḫnûm modellava gli uomini con perfetta conoscenza dell'anatomia umana. Nel suo inno, l'opera antropogonica viene descritta nei più minuti dettagli anatomici. E non si tratta più della misurata operazione dei miti mesopotamici, ma di un atto che è «creativo» anche in senso artistico. Vi è ammirazione nel modo in cui Ḫnûm fa scorrere il sangue sulle ossa e attacca la pelle al corpo, escogita il sistema respiratorio e quello digerente, fa in modo che gli organi sessuali consentano il massimo piacere senza perdere in efficienza durante l'accoppiamento, progetta corpi femminili in modo che supportino tutte le fasi della gravidanza, dal concepimento al parto.

Ma Ḫnûm fa molto di più di questo, perché in questo caso la creazione dell'uomo, a differenza della maggior parte delle altre mitologie, non è un evento mitico fissato una volta per sempre nel passato, ma è continuo e puntuale. Ḫnûm non si limita a plasmare il primo uomo, ma ripete il miracolo della creazione per ogni singolo essere umano: ogni volto viene singolarmente modellato dal dio in modo che abbia una sua fisionomia, un aspetto caratteristico, un carattere unico e irripetibile. Le ruote di vasaio di Ḫnûm si identificano con l'utero femminile.

In molti testi, Ḫnûm viene chiamato in causa nella nascita di qualche personaggio più o meno importante. Nell'iscrizione che il presuntuoso sacerdote Ḏed-ḫonsu-ef-ʿanḫ, vissuto durante la XXII dinastia, fece incidere sul suo monumento, leggiamo:

nûm mi ha formato al suo tornio da vasaio come un savio, come un consigliere perfetto. Egli ha fatto il mio carattere migliore di quello delle altre persone. Egli ha diretto la mia lingua verso la perfezione...

Iscrizione di Ḏed-ḫonsu-ef-ʿanḫ

Dunque Ḫnûm non si limitava a plasmare soltanto i corpi degli uomini sulla sua ruota di vasaio, ciascun viso secondo il suo aspetto caratteristico, ma per ogni uomo ne forgiava il carattere, l'intelligenza, le capacità, le qualità morali e le caratteristiche interiori. Da Ḫnûm provenivano tutti i costituenti dell'essere. Nella metafisica egiziana, ogni uomo era formato da tutta una serie di princìpi spirituali che ne definivano e ne stabilivano la natura più intima e il destino escatologico. Non è facile penetrare le concezioni antroposofiche degli antichi egizi e gli stessi studiosi tradiscono il loro imbarazzo quando si trovano a dover definire il preciso significato di ogni termine di questa antichissima terminologia. A scorrere la letteratura scientifica, le definizioni si confondono le une con le altre. È triste constatare che le lingue moderne, con la loro generica nozione di «anima», sono poca adatte per penetrare le sottigliezze dell'antica metafisica egiziana.

Possiamo dunque dire che secondo gli egiziani ogni essere umano era composto da:

  • Ḫat - Corpo materiale privo di spirito vitale.
  • Get - Corpo materiale vivificato dallo spirito vitale.
  • - La forza vitale universale, ma anche il «doppio» dell'individuo.
  • Ren - Il nome, la firma dell'essere, la sua identità.
  • b - L'intelligenza profonda, che aveva sede nel cuore.
  • Ḫaybit - L'anima che si stacca dal corpo alla morte, la proiezione eterica, il fantasma.
  • Ba - L'anima-uccello che esce dal defunto per riunirsi al principio da cui proviene.
  • Šût - L'ombra, la proiezione metafisica di ogni corpo, anche in funzione artistica.
  • Âḫ - L'individuo nel suo aspetto trascendente.

Questi costituenti dell'essere erano irrinunciabili all'essere umano, connaturati nella sua natura metafisica. Ma facendo parte dell'uomo nella sua completezza fisica e metafisica, dovevano venire anch'essi plasmati, insieme all'individuo, sulla ruota di vasaio di Ḫnûm. Una serie di iscrizioni incise sulle pareti dell'imponente Ḏeser Ḏeserû, il tempio funerario della faraonessa Hatšepsût (1479-1457 a.C.), presso Wâst (gr. Thêbai, it. Tebe), riportano la storia del concepimento e della nascita della stessa regina, da cui traspaiono le concezioni degli egiziani riguardo le tecniche e le modalità di creazione dell'uomo. Nella storia, lo stesso dio Amûn-Raʿ, colpito dalla grande bellezza della regina Aḥmôse, avrebbe assunto l'aspetto del faraone Â-Ḫepr-ka-Raʿ per unirsi a lei. La scena è di grande bellezza e suggestione:

Così Amûn, signore dei troni delle Due Terre, prese l'aspetto del regale sposo di lei [Aḥmôse], il re della Valle e re del Delta Â-Ḫepr-ka-Raʿ, e la trovò che si riposava nei penetrali del suo palazzo. Ella si destò al profumo divino e sorrise alla sua maestà. Ed ecco, egli [Amûn] le fu subito accanto, arse d'amore di lei, e pose in lei il suo desiderio. Egli le concesse di contemplarlo nel suo aspetto divino, e dopo essersi accostato a lei che esultava a vedere la sua bellezza, egli ebbe desiderio di possederla nelle sue membra. E il palazzo era inondato dal profumo del dio, intenso come tutti i balsami della terra di Punt. [...]. La maestà di questo dio fece tutto quel che desiderava con lei, ed essa lasciò che egli godesse di lei, e lo baciò...

Iscrizione funeraria del tempio di Haʾtšepsût

Ḫnûm crea Ha’tšepsût e il suo , assistito da Ḥeqet
Rilievo nel tempio funerario di Hatšepsût
Dayr al-Baḥrī (Egitto)

Da questa unione nasce una figlia, il cui stesso nome viene suggerito dal dio alla regina da lui amata e che è destinata a ereditare il potere di suo padre sull'Alto e sul Basso Egitto. Ḫnûm si mette al lavoro per crearla. In un rilievo su pietra calcarea rinvenuto nel medesimo tempio, è raffigurata una scena dove il criocefalo è seduto su uno sgabello, davanti alla sua ruota da vasaio, intento a plasmare l'immagine della futura regina. La cosa curiosa è che le figurine sulla ruota sono due: Ḫnûm sta infatti plasmando contemporaneamente Hatšepsût e il suo . Le sue mani sono protese su entrambe le statuette. È evidente che il lavoro di creazione effettuato da Ḫnûm procede contemporaneamente sia sul piano materiale che su quello metafisico. Inginocchiata ai piedi del criocefalo, Ḥeqet, la dea-levatrice dalla testa di rana, tiene nella mano destra un ʿanḫ, che sta avvicinando alle due immaginette plasmate da Ḫnûm, simbolo della vita che sta per essere insufflata in esse, mentre regge un secondo ʿanḫ nella sinistra. Nei testi che accompagnano l'immagine, il dio Ḫnûm viene chiamato per adempiere alla volontà di Amûn.

Nel testo, Ḫnûm spiega ad Amûn:

«Ho creato questa tua figlia Ka-maʿt-Raʿ [Hatšepsût] con vita forza e salute; con offerte, con abbondanza, con rispetto, con amore, con ogni cosa bella. Innalzo la sua immagine fino agli dèi nella sua nobiltà grande di re della Valle e re del Delta...»

Iscrizione funeraria del tempio di Haʾtšepsût

E poi Ḫnûm aggiunge, evidentemente rivolto all'immagine della regina che sta plasmando sulla ruota:

«...Io vengo a te per crearti dappiù di tutti gli dèi. Io do a te ogni vita e stabilità, durata, gioia che è in mio potere. Io ti do tutta la salute e tutti i paesi. io ti do tutti i paesi stranieri e tutti i suoi popoli quali sudditi. Io ti do tutte le offerte e ogni abbondanza. Io ti do di sorgere sul trono di Ḥûrr come Raʿ. Io ti do di essere alla testa dei di tutti i viventi, quando tu sorgi come re della Valle e re del Delta, nel sud e nel nord, come ha decretato il padre tuo Amûn-Raʿ che ti ama.»

Iscrizione funeraria del tempio di Haʾtšepsût

Da questo punto si evince un altro punto molto interessante. Nel momento della creazione, come abbiamo visto, Ḫnûm plasma le membra, l'aspetto personale e il carattere dell'individuo, e anche i suoi costituenti metafisici, a partire dal . Ma fa di più: egli traccia anche la vita, le imprese, il destino di ciascuno, iscrivendolo a quanto pare nello stesso limo da cui trae il loro corpo e la loro anima. Ad ogni persona da lui modellata, Ḫnûm concede un punto di vista prestabilito, quello che gli egiziani chiamavano šay «ciò che è deciso», talvolta impersonato da una dea a sé stante. È quel principio che i Greci resero poi col loro concetto di agathodaímōn. In questa ottica di Ḫnûm quale dio del fato, è evidente come le dee del destino Mesḫenet e Renenûtet finirono poi per essere considerate le inseparabili compagne del criocefalo.

Nella favola egiziana Bâta ḫr Anûp informalmente nota come «Storia dei due fratelli», conservata nel Papiro d'Orbiney (Papyrus British Museum 10183) e risalente al regno del faraone Setẖî-merî-na-Ptaḥ (Seti II, 1209-1205 a.C.), XIX dinastia, Ḫnûm viene chiamato a plasmare una moglie per il protagonista che è rimasto solo, e il testo ci informa che nel momento stesso della creazione, il destino della donna è stato già deciso e già assicurato:

Raʿ-Hšaraḫt disse a Ḫnûm: «Fabbrica una donna per Bata, che non sieda più solo». Allora Ḫnûm gli fece una compagna: era bella di corpo più di ogni donna che fosse nella terra intera e il seme di ogni dio era in lei. Allora le sette Ḥût-ḥûr vennero a vederla e dissero a una sola bocca: «Farà una morte d'arma tagliente».
Bâta ḫr Anûp

Il destino della donna è già stabilito fin dalla nascita. Nelle sette Ḥût-ḥûr non vediamo soltanto le sette levatrici che adiuvano Ninmaḫ nel decidere il destino del primo uomo creato, o le sette dee che si riuniscono attorno ad Hḗphaistos ed Athēnâ per vestire e ornare Pandṓra; qui hanno la stessa funzione delle Moîrai o Parcæ, le dee del destino che filano la vita degli individui nel mito classico, e addirittura preludono alle fate madrine delle fiabe medievali, che si radunano intorno alla culla dei neonati per deciderne il corso della vita.

Si è anche pensato che la scena della creazione della moglie di Bata sia alla base del mito della creazione della stessa Pandṓra, pure plasmata nella creta da un dio-artigiano e adornata dai doni di tutti gli dèi, come narra Hēsíodos nelle Érga kaì Hēmérai. Il progetto di Zeús di modellare Pandṓra per arrecare infinite miserie e disgrazie al genere umano, non coincide con lo spirito filantropico di Ḫnûm, artigiano evidentemente innamorato del suo lavoro. Vi sono comunque molte attinenze tra la storia di Pandṓra e la vicenda di Bâta ḫr Anûp, che gli studiosi hanno puntualmente rilevato. In entrambi i casi, la donna creata dal dio artigiano (Ḫnûm/Hḗphaistos) sarà oggetto di una fatale contesa.

Il motivo tuttavia degli uomini creati sulla ruota di vasaio, comune anche in altri miti mediorientali, si diffonderà nei secoli, lungo i mille rivoli della cultura umana. Ne ritroviamo un eco in Irān, nelle splendide quartine di ʿOmar Ḵayyām, laddove il motivo è invertito. Qui sono i vasai a fare anfore e vasi dai corpi degli uomini, tornati dopo la morte ad essere terra:

  Fin quando saremo prigionieri di questo dozzinale intelletto?
Che importan cent'anni nel mondo, che importa un sol giorno?
Versa tu, nella coppa Vino limpido, prima
che mipasti vasi di noi, nell'officina, il Vasaio.

ʿOmar Ḵayyām: Robāʾiyyāt [126]

È un circolo immenso, aperto nell'antico Egitto tremila anni prima di Cristo, che viene a chiudersi idealmente in Irān, quattromila anni dopo...

PRESSO GLI EBREI: ĀḎĀM E ḤAWWĀH

Il mito mesopotamico è indispensabile per comprendere le origini del più famoso mito antropogonico dell'occidente, quello biblico. Come detto altrove, la Bibbia fu compilata probabilmente durante l'epoca della deportazione babilonese (586-538 a.C.) o subito dopo, e i teologi che si occuparono di dare una forma canonica agli scritti sacri cucirono testi di diversa antichità e provenienza. Gli antichi miti ebraici provenivano dal comune fondo mitologico cananeo, nel quale si intrecciavano concezioni di provenienza mesopotamica. Durante il periodo dell'esilio a Babilonia, gli Ebrei vennero in stretto contatto con la raffinata teologia babilonese, il cui confronto fu decisivo per l'elaborazione e la distinzione dei miti ebraici.

Secondo l'ipotesi documentaria, messa a punto dal biblista tedesco Julius Wellhausen (1844-1918) ai primi del XX secolo, il Pentateuco sarebbe il risultato del lavoro di cucitura di quattro tradizioni distinte, diverse nel tono e non sempre coerenti tra loro. I biblisti si riferiscono ad esse come alla tradizione Yahvista (J), Elohista (E), Deuteronomista (D) e Sacerdotale (P). La tradizione Yahwista (J) è la più antica: risalente al periodo monarchico (circa 850-700 a.C.), quando l'Assiria era il regno più potente della Mesopotamia, raccoglie le più arcaiche leggende diffuse tra le genti di Israele e di Giuda. Dio vi è descritto in termini antropomorfici ed è chiamato Yǝhwāh. Questo nome è il frutto di una convenzione creatasi col tempo nel tentativo di evitare di pronunciare il Nome Divino: allo scheletro consonantico del nome, YHWH [יהוה], venivano aggiunte le mozioni vocaliche della parola Ăḏōnāy «signore» e, con qualche passaggio fonetico, si arrivava alla forma Yǝhwāh o Yǝhōwāh. La Tradizione Elohista (E) si sarebbe formata in epoca successiva, dopo la divisione del regno di Israele; sicuramente prima del 720 a.C., data in cui il Regno Settentrionale fu  conquistato dagli Assiri. Dio è qui chiamato lōhîm, plurale di maestà del termine generico el «dio», ed è descritto con accenti piuttosto astratti. Secondo Wellhausen, le due tradizioni vennero integrate tra il 720 e il 620 a.C. La tradizione Deuteronomista (D), così chiamata perché prevalente nei Dǝḇārîm, o «Deuteronomio», e di carattere prevalentemente giuridico, risalirebbe al VII secolo a.C. Ultima, infine, la tradizione Sacerdotale (P) risulta essere un insieme di testi molto antichi, sviluppati all'epoca della cattività babilonese (VI sec. a.C.). Dio vi è chiamato sia lōhîm che Yǝhwāh, presenta una teodicea trascendentale ed è del tutto esente dagli antropomorfismi: motivo che sarà ancor più sviluppato nel giudaismo successivo. In epoca post-esilica, la tradizione Sacerdotale, utilizzata quale impianto cronologico e teologico della storia sacra, servirà ai compilatori del Pentateuco come cornice per inquadrare i temi tramandati dalle altre tradizioni.

Nel corso del XX secolo, gli apporti dell'archeologia, la migliore conoscenza della storia e della cultura dell'antico Medio Oriente, nonché delle letterature sumerica, accadica, ḫittita, cananea ed egiziana, l'affinarsi del metodo comparativo in critica e in filologia, hanno messo in crisi la cronologia di Wellhausen. Nonostante ciò, l'ipotesi documentaria è ancora efficacemente utilizzata dai biblisti, almeno nei suoi contorni generali.

Ma concentriamoci sul Bǝrēʾšîṯ, la «Genesi», il primo e più giustamente famoso dei libri mosaici. Il mito di creazione dell'uomo risulta essere una giustapposizione delle tradizioni Yahwista e Sacerdotale. Quest'ultima è astratta, stringata, e sembra presentare una creazione simultanea dell'uomo e della donna.

Wayyōʾmẹr lōhîm naʿăśe āḏām bǝṣalmēnû; kiḏmûṯēnû; wǝyirdû biḏaṯ hayyām wûḇǝʿô haššāmayim, wûḇabbǝhēmāh wûḇǝḵāl-hāʾārẹṣ wûbǝkāl-hārẹmẹs,́ hārōmēś ʿal-hāʾārẹṣ.

Finalmente lōhîm disse: «Facciamo l'uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sulla terra».

Wayyiḇrāʾ lōhîm ẹṯ-hāʾāḏām bǝṣalmô, bǝṣẹlẹm lōhîm bārāʾ ōṯô: zāḵār wûnǝqēḇāh, bārāʾ ōṯām.

Ed lōhîm creò gli uomini a norma della sua immagine, a norma dell'immagine di lōhîm li creò, maschio e femmina li creò.

Wayḇārẹḵ ōtām lōhîm wayyōʾmer lāhẹm lōhîm pǝrû wûrǝḇû wûmilʾû ẹṯ-hāʾārẹṣ, wǝḵiḇšuhā; wûrǝḏû biḏaṯ hayyām, wûḇǝʿô haššāmayim, wûḇǝḵāl-ḥayyāh hārōmẹśẹṯ ʿal-hāʾārẹṣ. Quindi lōhîm li benedisse e disse loro lōhîm: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra».

Bǝrēʾšîṯ (P) [1: -]

Null'altro viene aggiunto dalla tradizione Sacerdotale. È soltanto l'istantanea della creazione. Il passaggio dell'uomo dal non-essere all'essere è completamente sostenuto da un'unica parola, il verbo «creò», e qualunque particolare è subordinato all'unico dettaglio che l'autore del testo avverta come importante: «a norma dell'immagine di lōhîm li creò». Non vi è altro da aggiungere. La tradizione Sacerdotale si risolve in questa unica definitiva illuminazione.

La versione più popolare, quella a cui dobbiamo i dettagli più pittoreschi e gustosi dell'antropogonia biblica, ci deriva invece dalla tradizione yahwista, che, nel secondo capitolo del Bǝrēʾšîṯ, ri-narra daccapo la creazione del mondo e dell'uomo, talora concordando nei dettagli col primo testo, talora distaccandosene, il tutto con un tono affatto diverso e che per molti versi ci ricorda le più antiche cosmogonie semitiche. Così infatti inizia:

...Bǝyôm ʿăśôt Yǝhwāh lōhîm ereṣ wǝšāmāyim, ...Quando Yǝhwāh lōhîm fece la terra e il cielo,

wǝkōl śîḥa haśśāḏeh ṭerem yihǝyeh ḇāʾārεṣ wǝkāl-ʿēśεḇ haśśāḏeh ṭerem yiṣǝmāḥ kî lōʾ himǝṭîr Yǝhwāh lōhîm ʿal-hāʾāreṣ wǝʾāḏām ayin laʿăḇōḏ ʾet-hāʾăḏāmāh

ancora nessun cespuglio della steppa vi era sulla terra, né ancora alcuna graminacea della steppa vi era spuntata, perché Yǝhwāh lōhîm non aveva fatto piovere sulla terra, né c'era l'uomo a coltivare il terreno

Wǝʾēd yaʿăleh min-hāʾāreṣ wǝhišǝqāh et-kāl-pǝnê-hāʾăḏāmāh.

e a far salire dalla terra un canale per irrigare tutta la superficie del terreno.

Wayyîṣer Yǝhwāh lōhîm et-hāʾāḏām ʿāār min-hāʾăḏāmāh wayyippaḥ bǝʾappâw nišǝmat ḥayyîm wayǝhî hāʾāḏām lǝneeš hayyāh.

Allora Yǝhwāh lōhîm dalla polvere del terreno modellò l'uomo, e soffiò sulle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.

Bǝrēʾšîṯ (J) [2: -]

«Né c'era l'uomo a coltivare il terreno e a far salire dalla terra un canale per irrigare tutta la superficie del terreno». In questo passo sentiamo riecheggiare l'Enûma ilû awîlum, laddove gli Anunnaki avevano creato gli Igigi affinché scavassero corsi d'acqua e aprissero canali che vivificassero la terra, lavoro che dopo la ribellione degli Igigi passa all'umanità. Nel testo biblico la situazione, per quanto più astratta, non appare diversa: sicuramente ha ereditato il motivo dell'uomo-lavoro dal mito mesopotamico. Yǝhwāh lōhîm, dopo aver creato il cielo e la terra, si trova di fronte una terra ancora priva di vita, e questo perché non aveva ancora mandato la pioggia, ma anche perché non c'era ancora l'uomo a costruire canali e irrigarne la superficie. Allora, dice il testo, Yǝhwāh lōhîm modellò l'uomo. Traspare da questo «allora» l'intenzione teleologica: il motivo antropogonico sembra ancora una volta finalizzato al lavoro che l'uomo dovrà fare per coltivare e irrigare la terra, ché tale lavoro completerà l'opera della creazione iniziata da dio.

È lo stesso motivo che avevamo colto sulle parole del Promētheus di Loukianós: la creazione dell'uomo è propedeutica al completamento del kósmos, in quanto è solo con il lavoro e l'opera umana che il mondo sarà amministrato e ordinato, per conto e in onore degli dèi.

«Il bene che io ho fatto agli dèi per mezzo degli uomini, vedilo, getta uno sguardo su la terra non più squallida ed orrida, ma abbellita di città, di campi coltivati, di alberi fruttiferi; vedi il mare coperto di navi, le isole abitate, altari, sacrifici, templi, solennità in ogni parte, piene tutte le vie e le piazze di immagini di Zeús. [...]. Non essendovi gli uomini, la bellezza dell'universo sarebbe rimasta senza spettatori; e noi immortali saremmo ricchi di una ricchezza priva di ammiratori.»

Loukianós hò Samosateús: Promētheús ē Kaúkasos

Siamo in pieno discorso eziologico. Il mondo che si offre all'esperienza umana appare perfettamente ordinato e completo così com'è composto, nel suo insieme indiscindibile di leggi naturali e costumanze sociali. L'immaginazione mitogenetica, fissando la realtà circostante come inevitabile punto d'arrivo, ne srotola il passato e definisce il processo creativo che, inevitabilmente, porta al mondo che l'uomo conosce.

Ma torniamo alla Bibbia e concentriamoci sul versetto decisivo:

Wayyîṣer Yǝhwāh lōhîm et-hāʾāḏām ʿāār min-hāʾăḏāmāh wayyippaḥ bǝʾappâw nišǝmat ḥayyîm wayǝhî hāʾāḏām lǝneeš hayyāh. Allora Yǝhwāh lōhîm con la polvere del terreno modellò l'uomo, e soffiò sulle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.

Bǝrēʾšîṯ (J) [2: ]

Abbiamo ancora una volta un'operazione di modellamento della prima figurina umana a partire con la polvere del suolo. Di nuovo l'uomo che viene dalla terra, che è tutt'uno con la terra. E in quanto generato dalla terra, ăḏāmāh, il nuovo essere verrà chiamato āḏām, «uomo». Non si tratta di un semplice processo di derivazione: ăḏāmāh è femminile, āḏām maschile. L'uomo «nasce» dalla terra, così come il bambino nasce dalla madre. Alcuni passi biblici parlano dell'uomo, prima di essere creato, come di un «embrione» intessuto nelle profondità della terra. Come nei Tǝhillîm, i «Salmi», dove leggiamo:

Lōʾ-nikǝḥaḏ ʿāṣǝmî mimmekā ăšer-ʿuśśêtî ḇassēter ruqqamǝtî bǝtaḥǝtiyyôt āreṣ. Gōlǝmî rāʾû ʿênêk wǝʿal-siǝrǝk kullām yikātēḇû yāmîm yuṣṣārû wǝlōʾ eḥād bāhem. Non ti erano nascoste le mie ossa mentre ero formato nel segreto e intessuto nelle profondità della terra. I tuoi occhi hanno visto il mio embrione e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che mi eran destinati, quando nessuno d'essi era sorto ancora.

Tǝhillîm [139: -]

Anche tra gli Ebrei, l'antropogonia demiurgica non esclude quella per emersione dalla terra, anzi, s'intreccia con essa: la nascita dell'āḏām, come quella di ogni uomo, richiede un concorso femminile (la terra) e uno maschile (Yǝhwāh).

Ĕlōhîm crea Āḏām (1795)
William Blake (1757-1827). Incisione

Derivato dalla terra,  ăḏāmāh, fisicamente ed etimologicamente, āḏām è l'uomo per antonomasia. Egli non ha un nome definito: i primi capitoli del Bǝrēʾšîṯ lo citano sempre preceduto dall'articolo: hāʾāḏām, «l'uomo». È solo a partire dal quinto capitolo, quando si ricapitolerà la sua discendenza, che hāʾāḏām diviene esplicitamente Āḏām.

Molto si è speculato, successivamente, sul nome di Āḏām. Le tre lettere ebraiche che lo compongono (אדם), si riteneva rivelassero gli elementi formativi della sua creazione: ēer «cenere», dām «sangue», mārāh «fiele». Perché se un uomo manca di questi tre elementi in uguale misura, si ammala e muore.

Molteplici sono le tradizioni ebraiche sull'origine della polvere scelta da Yǝhwāh per creare il primo uomo. Naturalmente si tratta della terra più pura: quella del monte Ḥǝḇrôn o del sacro monte Môriyyāh. Nei Targûmîm e nei Midrašîm si afferma che alla terra del monte Môriyyāh venne aggiunta una mescolanza di terra presa dai quattro angoli del mondo, irrorata con acqua tratta da ogni fiume e da ogni mare esistente. Servendosi di polvere presa da ogni parte del mondo, Yǝhwāh ebbe la certezza che, in qualunque luogo vivessero i discendenti di Āḏām, la terra li avrebbe sempre accolti. Altrimenti, se un orientale fosse andato a occidente, o un occidentale fosse andato a oriente, e la morte li avesse colti, il suolo avrebbe rifiutato di accoglierne la polvere.

Questa tradizione è ripresa dalla versione slava del Sēẹr Ḥănôq, il «Libro di Enoch», a sua volta basata su un originale greco, dove si dice che il nome di Āḏām fosse formato su un acrostico delle parole greche Anatolḗ «oriente», Dýsis «occidente», Árktos «settentrione» e Mesēmbría «meridione» (Slavjanskaja kniga Enocha [30: ]). Nella Spelunca Thesaurorum siriaca si dice che gli angeli videro la mano destra di Dio stesa sopra il mondo e la videro raccogliere polvere da ogni luogo della terra, una goccia d'acqua da ogni mare, un rivolo d'aria da ogni vento e un poco di calore da tutti i fuochi dell'universo, radunando i quattro elementi nel cavo della sua mano e creando così Āḏām. Nella versione islamica, Allāh mandò i quattro arcangeli Ǧibrīl, Mīḫāʾīl, Isrāfīl e ʿAzrāʾīl ai quattro angoli della terra, e con essa creò il corpo di Ādam: per formare il suo cuore e la sua testa, tuttavia, Allāh scelse polvere da un sito vicino alla Makka, dove più tardi sarebbe sorta la Kaʿba.

In tutti questi miti, derivazione da un comune archetipo, l'uomo veniva dunque ad essere una sorta di microcosmo che riassumeva nella sua piccola forma umana l'intero mondo. Vi era insomma una consustanzialità tra l'uomo e il mondo. In molte versioni si dice che Āḏām, subito dopo la creazione, aveva un corpo così grande che quando era disteso arrivava da un angolo della terra all'altro, e quando stava eretto la sua testa era al livello del trono divino, e di tale bellezza e fulgore che al solo vederlo gli angeli fuggirono tremanti del cielo chiedendosi: «Possono esservi due poteri divini, uno qui e l'altro sulla Terra?» Per calmarli, Dio posò la sua mano su Āḏām e ridusse le dimensioni di lui a cento cubiti. In seguito le avrebbe ancor più ridotte dopo la caduta.

Ma ritorniamo ancora una volta al nostro versetto:

Wayyîṣer Yǝhwāh lōhîm et-hāʾāḏām ʿāār min-hāʾăḏāmāh wayyippaḥ bǝʾappâw nišǝmat ḥayyîm wayǝhî hāʾāḏām lǝneeš hayyāh. Allora Yǝhwāh lōhîm con la polvere del terreno modellò l'uomo, e soffiò sulle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.

Bǝrēʾšîṯ (J) [2: ]

Abbiamo già visto all'opera questo «alito di vita» [nišǝmat ḥayyîm] nella pagina precedente. È il rûḥ, lo spirito di Dio che, nel secondo versetto del Bǝrēʾšîṯ, avevamo visto aleggiare sulle acque abissali, indicazione di una potenza che scende a vivificare la materia, traendola dallo stato di indeterminatezza primordiale per conferirgli una natura dinamica e vibrante. È una parola che si estende dall'indefinibile spazio divino fino all'intimo pulsare della vita. «Il principio dinamico di ogni cosa», spiega l'ebraista Giulio Busi. Abbiamo anche visto come alla base di questa parola, rûḥ, vi sia l'onomatopea dell'erompere improvviso del vento, quello stesso vento che nei miti mesopotamici serviva come arma al dio di turno per ammansire e separare le acque primordiali. È un termine che nella traduzione greca dei Settanta, sarà resa con pneûma, indicante qualcosa tra la vita, il respiro e l'anima, e quindi in latino con l'importante parola spiritus.

Abbiamo visto che nella tradizione mesopotamica era stato necessario uccidere un dio, Weʾe, e mescolare il suo sangue e la sua carne all'argilla mortale, affinché il simulacro d'uomo potesse acquistare vita e coscienza, oltre a uno spirito divino e immortale [eṭemmu]. La medesima cosa avviene nel mito ebraico senza che sia necessario alcun deicidio. Lo spirito divino [rûḥ] passa da Dio all'uomo con la dolcezza di un soffio. Come la forma di polvere di Āḏām conteneva in sé la totalità della terra, attraverso lo spirito di vita insufflato nelle sue narici, ha in sé anche una scintilla della natura divina. Ecco cos'è l'uomo: il mondo che prende coscienza di sé stesso e che attraverso la coscienza si avvicina a Colui che l'ha creato. È un processo che in un certo senso già prelude al moderno principio antropico.

La creazione della donna, nella tradizione Yahwestica, avviene in un secondo tempo. Yǝhwāh, rendendosi conto che l'uomo era solo, decide di fargli un aiuto degno di lui, e conduce presso l'uomo ogni sorta di animali e tutti i volatili del cielo, e a tutti Āḏām impone nomi. Ma non trova nessuna creatura che sia lui adatta. Allora...

Wayyappēl Yǝhwāh lōhîm tardēmāh ʿal-hāʾādām wayyîšān wayyiqqaḥ aḥat miṣṣalǝʿōtâw wayyisǝgōr bāśār taḥǝtennāh.

Allora Yǝhwāh lōhîm fece cadere un sonno profondo sull'uomo, che si addormentò; gli tolse quindi una delle costole e richiuse la carne al suo posto.

Wayyiḇen Yǝhwāh lōhîm et-haṣṣēlāʿ ăšer-lāqaḥ min-hāʾāḏām lǝʾiššāh wayǝḇiʾehā el-hāʾāḏām.

E Yǝhwāh lōhîm costruì la costola, che aveva tolto all'uomo, formando una donna; poi la condusse all'uomo.
Wayyōʾmer hāʾāḏām zōʾt happaʿam ʿeṣem mēʿăṣāmay ûḇāśār mibbǝśārî lǝzōʾt yiqqārēʾ iššāh kî mēʾîš luqŏḥāh-zzôʾt. Allora l'uomo disse: «Questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne. Costei si chiamerà donna perché dall'uomo fu tratta costei».

ʿAl-kēn yaʿăzāḇ-îš et-ʾāḇîw wǝʾet-immô wǝḏāḇaq bǝʾišǝtô wǝhāyû lǝḇāśār eḥāḏ.

È per questo che l'uomo abbandona suo padre e sua madre e si unisce alla sua donna e i due diventano una carne sola.

Bǝrēʾšîṯ (J) [2: -]

Ecco fatto. Tutti gli attori sono in scena, tranne uno. Sta per iniziale il dramma più essenziale e più definitivo della storia umana...

L'UOMO DI CRETA: IL GŌLẸM

Secondo la teofisica ebraica, che deve qualcosa a quella egiziana e sarebbe stata elaborata via via da tutta la cabalistica successiva, tre princìpi contribuivano a definire la natura umana. La ḥayyût era la vitalità interna posseduta da tutte le creature, dunque la stessa energia vitale che sosteneva allo stesso modo le piante e gli animali. A un livello superiore vi era la neeš, la coscienza intellettiva, posseduta in gradi diversi dagli animali e dall'uomo. Ma il rûḥ, lo spirito che Yǝhwāh lōhîm aveva insufflato nell'uomo, era qualcosa che distaccava l'uomo da tutte le altre creature e lo rendeva a «immagine e somiglianza» di Dio.

Cosa sarebbe stato mai l'uomo senza lo spirito divino? Nella tradizione ebraica esistono, a spiegare questo mistero, una parola e una serie di strane leggende. La parola è gōlẹm, già comparsa nello straordinario passo dei «Salmi» che avevamo già citato, e che riportiamo ancora una volta:

Lōʾ-nikǝḥaḏ ʿāṣǝmî mimmekā ăšer-ʿuśśêtî ḇassēter ruqqamǝtî bǝtaḥǝtiyyôt āreṣ. Gōlǝmî rāʾû ʿênêk wǝʿal-siǝrǝk kullām yikātēḇû yāmîm yuṣṣārû wǝlōʾ eḥād bāhem. Non ti erano nascoste le mie ossa mentre ero formato nel segreto e intessuto nelle profondità della terra. I tuoi occhi hanno visto il mio embrione [gōlǝmî] e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che mi eran destinati, quando nessuno d'essi era sorto ancora.

Tǝhillîm [139: -]

È una scena di grande suggestione: l'uomo pre-creato, «intessuto nelle profondità della terra». L'enunciazione dell'appartenenza di un oggetto informe che in realtà è invisibile persino per chi parla. La radice GLM, che forma lo scheletro etimologico di questa straordinaria parola, ha in sé l'idea di «avvolgere un tessuto». Presenta dunque delle forme potenziali, annunciate ma non dichiarate, non ancora dispiegate nella loro natura completa. Giulio Busi dà riscontro a questa radice col latino glomus «gomitolo», da cui il verbo glomerare, che esprime l'azione di addensare qualcosa in una massa confusa e informe. Questa strana espressione nei Tǝhillîm, che la traduzione corrente rende con «embrione», viene resa nella traduzione greca dei Settanta con la parola akatérgastón, «non lavorato», parola a cui fa eco l'amorfōton, «informe», usato da Symmachus.

Si ha l'impressione che quando i testi mesopotamici parlino di «prototipo d'uomo» [lullû], intendino qualcosa di simile al concetto ebraico di gōlẹm. I racconti rabbinici sulla creazione degli āḏāmîm ribadiscono un momento intermedio nella genesi dell'uomo. Il primo impiego ebraico di questa parola con una forte connotazione simbolica, si ha in un detto risalente probabilmente al IV secolo, che così enuncia:

Quando il Santo, sia Egli benedetto, creò il primo uomo, lo creò informe [gōlẹm] ed egli si stendeva da un'estremità all'altra del mondo.

Bǝrēʾšîṯ rabbāh [VIII: 1]

Come fa notare Busi, «il termine gōlẹm rappresentava una rara occasione di semantizzare lo spazio confuso che sta prima di ciò che non è ancora, o dopo quanto non è più, dominio solitamente taciuto dal linguaggio, eppure d'importanza fondamentale per i dotti ebrei di età talmudica». Sebbene nella letteratura ebraica di epoca tardo-antica la parola non venga ancora direttamente associata al concetto di individuo creato con l'impiego della magia, come avverrà a partire dal medioevo, furono queste premesse culturali a sostenere l'idea che fosse possibile, all'uomo esperto di arti occulte, creare un corpo inerte dall'argilla o dalla creta e farlo muovere utilizzando il Nome Divino.

Il gōlẹm di Praga
Fotogramma dal film Der Golem (1915) di Paul Wegener

Secondo una leggenda riferita dal Talmûḏ babilonese, rabbî Rabbāh (±270-±350), sapiente attivo in Babilonia, creò un uomo e lo mandò da rabbî Zẹyrāʾ. Questi cercò di parlare con lui ma non ne ebbe risposta. Allora disse: «Tu vieni senz'altro dai miei colleghi, ritorna alla tua polvere». E il gōlẹm si disfece. (Sanhedrin [65b]). Al poeta e filosofo andaluso Šǝlōmōh bẹn Yĕhûḏāh bẹn Gaḇîrôl (±1021-1058) fu attribuita la creazione di un gōlẹm femmina da pezzi di legno; denunciato alle autorità, Šǝlōmōh poté dimostrare che la sua creatura non era perfetta, facendola tornare al suo stato originario (Taʿălûmôṯ ḥoḵmāh). Ma la storia più nota è quella sul gōlẹm che rabbî Yĕhûḏāh Löw bẹn Bezalʾēl (1525-1609) creò nel ghetto di Praga, modellando una statua di creta e facendola vivere inserendo sotto la sua lingua un rotolo col Nome Divino. Secondo un'altra versione, sulla sua fronte erano incise le tre lettere che in ebraico compongono la parola mẹṯ [אםת] «verità»; per far tornare la creatura al suo stadio originario bastava raschiare la ale e lasciar affiorare la parola mēṯ [םת] «morto». Questo tipo di operazioni erano divenute così popolari nel mondo dell'esoterismo ebraico, che Elǝʿāzār bẹn Yĕhûḏāh di Worms (1165-1230), il principale esponente del misticismo aškenazita nel medioevo, arriverò al punto di istruire i suoi adepti nella costruzione dei gōlẹmîm, nei commentari del Sēer yǝṣîrāh.

L'argomento golemico è affascinante e il lettore ci scuserà se abbiamo divagato.

FEMMINE, INGANNI E SERPENTI

La tradizione Yahwista – lo abbiamo visto – pone l'accento sul fatto che l'uomo venne creato prima, e la donna dopo (Bǝrēʾšîṯ [2: -]). Se il motivo può avere qualche analogia con il mito greco della creazione di Pandṓra, separata e successiva a quella dei maschi, niente del genere si può dire riguardo alla materia prima utilizzata nell'operazione. Pandṓra viene plasmata con la terra (o dalla terra), così come Promētheús aveva operato per creare l'uomo. Invece, nel mondo ebraico, Yǝhwāh lōhîm forma la donna a partire da una materia già lavorata: dalla costola tolta all'uomo. Mentre l'uomo viene min-hāʾăḏāmāh, «dalla terra», la donna viene min-hāʾāḏām, «dall'uomo», a indicare una dipendenza ontologica, destinata a venire inevitabilmente riflessa sul piano sociale.

Ḥawwāh (1896)
Dipinto di Lucien Lévy-Dhurmer (1865-1953)
Pastello e guazzo, 49 x 46 cm. Collezione privata.

Ma perché proprio una costola? La parola ṣelāʿ viene citata quarantun volte nel canone biblico e ha il significato di «fianco, lato», anche in contesti non anatomici (es. ṣelāʿ ha-miškān «lato del tabernacolo»). «Costola» è, tuttavia, il significato etimologico primario del termine, derivante dalla radice ṢLʿ [צלע] «curva», affine all'accadico (assiro) ṣêlu «costola». La traduzione greca dei Settanta ricalca da vicino l'originale ebraico e usa al riguardo il termine greco pleurá, che può significare sia «costola» sia, al plurale, «fianco». Da qui, le traduzioni latine e nelle lingue moderne. L'ambiguità del testo originale, d'altronde, può sia indicare una singola costola della gabbia toracica ma anche, in generale, il fianco intero, come a significare che la donna sia la «metà» dell'uomo. Ma al di là del senso letterale, è ovvio che la tradizione Yahwista, come quella Sacerdotale, intendeva porre l'attenzione sul fatto che uomo e donna sono fatti della stessa carne (e che nel matrimonio ritorneranno ad essere «una sola carne»).

In sumerico la parola  «costola» è formata da  (₃, ₃) «vita», preceduto dal determinativo  «carne». Il sumerogramma  «vita» era rappresentato dall'immagine stilizzata di una freccia, in quanto «freccia» e «vita» erano omofoni, pronunciandosi ti.

Risalente all'inizio del II millennio, il racconto sumerico «Enki e Ninḫursa», secondo il titolo informale datogli dagli autori moderni (il titolo originale era forse Iri kugkuggam, «Pura è la città»), mette in scena una vicenda ambientata nel paese di Dilmun, generalmente considerato un protomitema del giardino di ʿĒḏẹn. Nella seconda metà del racconto, Enki, maledetto dalla sposa Ninḫursa, giace come morto. Ma Ninḫursa lo perdona e gli partorisce otto divinità specializzate nella cura delle altrettante malattie che affliggono il dio. La settima, Ninti, viene creata per guarire il male alle costole. Il suo nome può essere letto indifferentemente come «Signora della vita» o «Signora della costola».

šeš-u₁₀ a-na-zu a-ra-gig ti-u₁₀ ma-[gig]
nin-ti im-ma-ra-an-[tu-ud]
«[Enki], fratello mio, cosa ti fa male?»
«Le mie costole, mi fanno male.»
Allora [Ninḫursa] partorì Ninti.
Iri kugkuggam [-]

Nel mito ebraico, la donna riceve il suo nome nel momento in cui viene cacciata da ʿĒḏẹn: ed esso è Ḥawwāh, «vivente» (a sua volta da ḥay «vita», cfr. ḥayyût, la vitalità caratteristica di tutte le creature), nel senso di «[signora dei] viventi». La traduzione greca ne rende il nome con Zṓē «vita».

Non sosteniamo alcun tipo di omologia tra Ninti ed Ḥawwāh: i due racconti sono diversissimi e un'etimologia tanto vaga non basta a individuare la benché minima associazione tra le due figure. Rimane il sospetto, tuttavia, che nel corso dell'elaborazione del canone ebraico, vi sia stato uno slittamento di significato che ha portato gli autori della Bibbia a interpretare l'ultimo atto della creazione, quello della donna, come il risultato di un'operazione eseguita su una costola. Il testo è assai preciso su tutta l'operazione: Yǝhwāh attua perfino una specie di anestesia, addormentando Āḏām prima di togliergli la costola e richiudere la carne. Persino l'etimologia delle parole e iššāh viene piegata nel testo per spiegare come la donna sia venuta dall'uomo. Gioco di parole che risulta agevole in latino (virago da vir) e persino nella Bibbia inglese di re James (woman da man), ma non in italiano.

Si tratta forse dell'ultima interpretazione di un mito antichissimo, in cui l'uomo originario aveva in sé entrambe le potenzialità del maschio e della femmina e solo in seguito sia stato scisso nei due sessi distinti e separati? Qualcuno lo ha asserito con una certa enfasi. La cultura patriarcale degli autori della Bibbia avrebbe poi spinto verso un'interpretazione di superiorità dell'uomo rispetto alla donna, facendo intendere che l'uomo fosse stato creato prima e la donna venuta da lui. Gli studiosi hanno indicato, al riguardo, un famoso brano del Sympósion, dialogo platonico che tratta la natura e le origini dell'amore, dove Aristophánēs cita un curioso mito delle origini (se non è piuttosto un'invenzione letteraria dello stesso Plátōn, espressa nel linguaggio del mito). Ma eccolo:

Anzitutto occorre che conosciate la natura umana e i suoi casi: giacché la natura di noi uomini, un tempo non era la stessa quale è ora per noi, ma diversa. Per prima cosa tre erano i generi della stirpe umana, non due come ora, maschio e femmina, ma ve n'era anche un terzo che era comune ad ambedue questi, del quale, oggi, resta soltanto il nome, ma esso si è perduto. Infatti l'androgino allora era un genere a sé e aveva forma e nome in comune del maschio e della femmina, ora invece non c'è più, ma resta il nome sotto forma di ignominia. La forma di ciascun uomo era rotonda: aveva la schiena e i fianchi di aspetto circolare, aveva pure quattro mani, quattro gambe e due volti su un collo rotondo, del tutto uguali. Sui due volti che poggiavano su una testa sola dai lati opposti, vi erano quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come può immaginarsi da tutto questo. Si camminava in posizione eretta, come ora e ove si voleva; e quando si disponevano a correre velocemente, come i saltimbanchi, a gambe levate, fanno capitomboli di forma circolare, così essi, facendo perno sulle otto gambe, si muovevano velocemente in cerchio. [...]
Quanto a forza e vigore erano terribili e nutrivano un sentire orgoglioso [...]. Zeús dunque e gli altri dèi si radunarono a consiglio per stabilire cosa dovevano fare, ma si trovavano nell'incertezza. Non avevano infatti come sopprimerli e farne sparire la razza come i Giganti fulminandoli (sarebbero scomparsi infatti tutti gli onori e i sacrifici degli uomini nei loro riguardi), né d'altra parte come lasciarli andare all'insolenza. Ma Zeús dopo aver pensato e con fatica disse: «Penso di avere un mezzo per il quale gli uomini possano sussistere e cessare la loro insolenza,divenendo più deboli. Dunque ora taglierò ciascuno di essi in due parti eguali, e così diverranno più deboli e insieme più utili per noi per essere più numerosi, e cammineranno in posizione eretta, su due gambe. Se parrà poi che persistano nella loro insolenza e non vorranno starsene in pace, li taglierò di nuovo in due, tanto che cammineranno su una gamba sola come quelli che si tengono dritti su un piede solo».
Plátōn: Sympósion

Ma non divaghiamo, ché la creazione della donna comporterà, nel mito ebraico, altrettanti problemi che in quello greco. «Chi dice donna dice danno» sembra essere una costante di certi miti patriarcali, ed Āḏām ed Epimētheús si sarebbero certamente trovati d'accordo. Sembra fuor di dubbio che Yǝhwāh fosse animato dalle migliori intenzioni, quando creò una donna per Āḏām. Lo stesso non si può dire di Zeús, assai più malizioso nel recare il suo kalòs kakós in dono al malaccorto Epimētheús. Ma mentre la creazione di Pandṓra era stata messa in atto separatamente, ripetendo le modalità demiurgiche già utilizzate da Promētheús per dare vita agli uomini, nel mito biblico Ḥawwāh veniva tratta dal fianco di Āḏām. Così, mentre in Grecia la donna risultava una copia antisimmetrica dell'uomo, presso gli Ebrei era considerata la sua metà complementare.

Detto questo, gli studiosi del mito hanno sempre trovato naturale confrontare Ḥawwāh e Pandṓra: due «prime donne» responsabili, ciascuna a suo modo, della caduta dell'uomo e dell'ingresso del male nel mondo.

Poiché ci siamo dilungati su Pandṓra, non sarà male affrontare ora il racconto biblico. Questo è assai ben conosciuto, e lo riportiamo solo per chiarezza d'esposizione:

Wǝ hannāḥāš hāyāh ʿārûm mikkōl ḥayyaṯ haśśaḏẹh, ăšẹr ʿāśāh Yǝhwāh lōhîm wayyōʾmẹr ẹl-hāʾiššāh a kî-ʾāmar lōhîm, lōʾ ṯōʾḵǝlû mikkōl ʿēṣ haggān. Ora il serpente era astuto più di tutte le fiere della steppa che Yǝhwāh lōhîm aveva fatto, e disse alla donna: «È dunque vero che lōhîm vi ha detto: «Non dovete mangiare di tutti gli alberi del giardino?»»
Wattōʾmẹr hāʾišsāh, ẹl hannāḥāš: mippǝrî ʿēṣ-haggān nōʾḵēl. Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare.
Wûmippǝrî hāʿēṣ ăšẹr bǝṯôkǝ-haggān āmar lōhîm lōʾ ṯōʾḵǝlû mimmẹnnû wǝlōʾ ṯiggǝʿû bô: pẹn-tǝmuṯun. «Ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino, lōhîm ha detto: «Non lo dovete mangiare e non lo dovete toccare, per paura che ne moriate».»
Wayyōʾmẹr hannāḥāš, ẹl-hāʾiššāh: lōʾ-moṯ, tǝmuṯûn. Ma il serpente disse alla donna: «No, voi non morirete.
Kî yōḏēʿ lōhîm, kî bǝyôm ăḵālkẹm mimmẹnnû wǝniqǝḥû ʿênêḵẹm; wihyîṯẹm, kēʾlōhîm yōḏǝʿê, ṭoḇ wārāʿ. «Anzi, lōhîm sa che il giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno allora i vostri occhi e diventerete come lōhîm: conoscitori del bene e del male».
Wattērẹʾ hāʾišsāh kî ṭoḇ hāʿēṣ lǝmaʾăḵāl wǝḵî ṯaʾăwāh-hûʾ lāʿênayim, wǝnẹḥmāḏ hāʿēṣ lǝhaśkîl wattiqqaḥ mippiryô, wattōʾḵal wattittēn gam-lǝʾîšāh ʿimmāh, wayyōʾḵal. Allora la donna vide che l'albero era buono a mangiarsi, e che esso era seducente per gli occhi e che era, quell'albero, desiderabile per avere la conoscenza; perciò prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò.
Wattippāqaḥnāh, ʿênê sǝnêhẹm wayyēḏǝʿû kî ʿêrummim hēm... Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero che essi erano nudi...

Bǝrēʾšîṯ [3: -]

Ḥawwāh (1885)
Anna Lea Merritt (1844-1930)
Pastello e guazzo, 49 x 46 cm. Collezione privata.

Il racconto biblico del frutto della conoscenza attinge a mitemi affatto diversi da quello del píthos scoperchiato da Pandṓra: non bisogna forzare i dati per indovinarvi a tutti i costi uno schema. Tuttavia Epimētheús ed Āḏām sono vittime di un inganno che ha il suo strumento proprio nella donna che è stata loro recapitata a domicilio: Zeús sa bene che Pandṓra scoperchierà quel vaso, una volta indotto l'ignaro Epimētheús a sposarla; e il serpente convince Ḥawwāh ad assaggiare il frutto dell'albero. In entrambi i casi vi è la violazione di un'ingiunzione: Promētheús aveva avvertito Epimētheús a non accettare alcun dono da Zeús; Yǝhwāh aveva proibito ad Āḏām di mangiare il fatidico frutto. Epimētheús trasgredisce per stolidità, Āḏām per debolezza.

Parleremo in un'altra sede del giardino e del serpente: ora concentriamoci piuttosto sulle conseguenze del peccato. Subito dopo, avvertendo i passi di Yǝhwāh che camminava nel giardino di ʿĒḏẹn alla brezza del giorno, Āḏām e Ḥawwāh fuggono nel folto, per non lasciarsi scorgere, consapevoli della propria nudità. Yǝhwāh comprende immediatamente che la prima coppia umana ha disubbidito al suo ordine. Maledice per primo il serpente. Si rivolge poi all'uomo e alla donna e, prima di cacciarli per sempre dal giardino, così stabilisce:

El-hāʾiššāh ʾāmar, harbāh ʾarbẹ ʿiṣṣǝḇônēḵ wǝhērōnēḵ-bǝʿẹṣẹḇ tēlǝḏî ḇānîm wǝʾẹlʾîšēḵ, tǝšûqātēḵ wǝhûʾ yimšāl-bāḵ. [Yǝhwāh] disse alla donna: «Farò numerose assai le tue sofferenze e le tue gravidanze; con doglie partorirai i figli, tuttavia la passione ti spingerà verso tuo marito, ma lui vorrà dominare su di te».
Wûlǝʾāḏām āmar, kî-šāmaʿtā lǝqôl ʾištẹḵā wattōʾḵal minhāʿēṣ ʾăšẹr ṣiwwîṯîḵā lēʾmōr lōʾ ṯōʾḵal mimmẹnnû-ʾărûrāh hāʾăḏāmāh, baʿăḇûrẹḵā bǝʿiṣṣāḇôn tōʾḵǝlẹnnāh kōl yǝmê ḥayyêkā. E disse all'uomo: «Perché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, circa il quale t'avevo dato un comando, dicendo “Non ne devi mangiare”, maledetto sia il suolo per causa tua. Con fatica ne trarrai il nutrimento tutti i giorni della tua vita.
Wǝqôṣ wǝḏardar taṣmîaḥ lāḵ; wǝʾāḵaltā ẹṯʿēśẹḇ haśśāḏẹ. «Ti germoglierà spine e cardi e tu mangerai le graminacee della campagna.
Bǝzēʿaṯ appêḵā tōʾḵal lẹḥẹm, ʿaḏ šûḇǝḵā ẹl-hāʾăḏāmāh kî mimmẹnnāh luqqāḥtā: kî-ʿāār ʾattāh, wǝʾẹl-ʿāār tāšûḇ. «Con il sudore del tuo volto mangerai pane, finché tornerai nel suolo, perché da esso sei stato tratto: infatti sei polvere e in polvere devi ritornare».

Bǝrēʾšîṯ [3: -]

Le conseguenze per il genere umano sono le medesime che avevano già trovato in Hēsíodos. L'antico poeta greco era stato chiaro a riferire i due punti dove s'incardina la caduta dell'uomo dallo stato primordiale: alimentazione e riproduzione, ovvero la necessità del lavoro e l'inevitabilità della riproduzione sessuata. Le condanne di Yǝhwāh vertono sui due medesimi elementi:

  1. Condanna di Āḏām Alimentazione: lavoro, fatica e sudore della fronte;
  2. Condanna di ḤawwāhRiproduzione: concupiscenza, sessualità, gravidanza e dolori del parto.

Analogamente, alla diffusione dei mali sulla terra, dovuto all'apertura del vaso di Pandṓra, corrisponde nel mito biblico la maledizione che investe l'intera terra, la quale, da quel momento, «germoglierà spine e cardi». Inoltre, Hēsíodos riferisce che i mali liberati da Pandṓra porteranno ai mortali «affanni luttuosi», accorciando le loro vite nel dolore e nella sofferenza, laddove Yahweh è esplicito a ricordare ad Āḏām la propria mortalità: egli è destinato a «tornare alla terra».

L'uomo entra nella storia e la sua vita d'ora in poi sarà una lotta quotidiana per la sopravvivenza, un cumulo di dolori e di fatiche per strappare alla terra il necessario nutrimento; l'atemporalità si chiude, l'uomo conosce la malattia, la vecchiaia e la morte, e questo richiede l'introduzione della sessualità e della riproduzione.

Un confronto tra il mito ellenico e quello è ebraico è d'obbligo. La seguente tabella è essenzialmente analogica. Il punto 1 è un locus comune a molte tradizioni e non comporta necessariamente un confronto diretto; i punti dal 2 al 6 sono da considerarsi semplice analogie, quando non hanno addirittura senso opposto; in particolare, il motivo del tabù violato, al punto 5, fa parte dei più comuni meccanismi fiabeschi; il punto 7 è invece l'unica probabile omologia dell'intero schema.

  ELLENI
(Hēsíodos et al.)
EBREI
(
Bǝrēʾšîṯ, J)
1 Promētheús crea gli uomini a partire dalla terra inumidita con l'acqua, e lo rende simile agli dèi, in immagine e capacità intellettive. (Aischýlos, Ovidius, Loukianós) Yǝhwāh crea l'uomo (Āḏām) a sua immagine e somiglianza, insufflando il rûḥ nella polvere del suolo.
2 In un secondo tempo, Zeús ordina ad Hḗphaistos di creare la donna, a danno dell'uomo. In un secondo tempo, Yǝhwāh decide di creare la donna affinché tenga compagnia all'uomo.
3 Hḗphaistos foggia Pandṓra a partire dalla creta. Athēnâ lo coadiuva. Intervengono anche Aphrodítē, Hermês e altre sette dee. Yǝhwāh crea Ḥawwāh a partire da una costola tolta ad Āḏām.
4 Hermês conduce Pandṓra ad Epimētheús, che, irretitito dal fascino della ragazza, la sposa. Yǝhwāh presenta Ḥawwāh ad Āḏām, che la riconosce come sua consustanziale.
5 Promētheús aveva avvertito Epimētheús di non accettare doni da Zeús. Il consiglio sarà disatteso. Yǝhwāh ordina ad Āḏām e Ḥawwāh di non mangiare il frutto dell'albero al centro del giardino. L'ordine sarà violato.
6 Zeús, dopo aver fatto sposare Pandṓra ed Epimētheús, fa sì che la donna scoperchi il píthos che conteneva tutti i mali del mondo. Il serpente, ingannando Ḥawwāh, la induce a mangiare il frutto dell'albero della conoscenza, e induce Āḏām a mangiarlo a sua volta.
7 Si chiude la felice epoca primordiale. L'inganno di Zeús comporta una serie di conseguenze per l'intero genere umano: Si chiude l'epoca edenica. L'inganno del serpente comporta una serie di conseguenze per l'intero genere umano:
a) le fonti della vita vengono nascoste, e l'uomo è costretto al duro lavoro dei campi per sopravvivere; a) la terra non produce che spine e cardi, e l'uomo dovrà guadagnarsi il pane con il sudore del volto;
b) le donne faranno parte della vita umana, ormai ristabilita sulle modalità riproduttive; b) si introduce la sessualità tra uomo e donna; le gravidanze saranno faticose, i parti dolorosi;
c) le malattie e la vecchiaia entrano nel mondo; la vita umana si riduce e si riempie di sofferenza e di miseria. c) l'uomo è destinato alla sofferenza e alla morte.

Eva prima Pandora (±1550)
Jean Cousin l'Ancien (1490-1560)
Pittura su legno, 150 x 97 cm. Musée du Louvre, Parigi (Francia).
DI CHI DUNQUE LA COLPA?

Il mito mesopotamico e quello ebraico mostrano una grande differenza nelle finalità teleologiche. L'uomo mesopotamico era un giocattolo che gli dèi avevano creato per la loro comodità. L'uomo esisteva perché aveva il compito di lavorare e di servire gli dèi con la sua fatica. Se di «caduta» si può parlare, questa era già inerente nella natura stessa dell'uomo, che gli dèi avevano portato all'esistenza come loro schiavo, per sempre. Non vi era, nella mitologia mesopotamica, l'idea di una redenzione. Le cose stavano così: punto e basta.

Il mito ebraico, che da quello mesopotamico riprende le modalità tecniche della creazione (il primo prototipo umano creato dall'argilla), è lontanissimo da quella concezione utilitaristica. Qui l'uomo viene creato da Dio a sua «immagine e somiglianza», per nessun'altra ragione che non l'amore stesso di Dio per la creazione. Laddove la speculazione ebraica vedeva, nella presenza del male del mondo, il risultato del cattivo uso del libero arbitrio da parte dell'uomo e della sua naturale inclinazione a peccare, non così nel mondo mesopotamico, dove il libero arbitrio non esisteva e l'imperfezione era semplicemente connaturata nell'uomo per la volontà imperscrutabile degli dèi (l'ubriachezza di Enki). D'altra parte la mitologia mesopotamica fondava i presupposti sociali di una società stratificata in classi, di cui i teologi provvedevano a stabilire le basi ideologiche.

Tuttavia l'una e l'altra mitologia, mesopotamica ed ebraica, erano concordi nell'affermare che questa statuetta di argilla che era il corpo umano, veniva tenuta in vita da un quid di natura divina. Non è un caso che, in Mesopotamia, Enki impasti l'argilla da cui dovrà venire il prototipo umano con la carne e il sangue di un dio sacrificato allo scopo. Viene infusa in tal modo nella materia inanimata quello che in accadico si chiamava eṭemmu, quell'elemento che dopo la morte non ritorna alla terra, ma continua ad esistere perpetuando la personalità e l'essenza dell'individuo. Bisogna qui aggiungere che tali «anime», nell'escatologia mesopotamica, venivano tenute in scarsa considerazione, destinate a un'esistenza larvale nel buio Arallû.

È un fato platealmente ingiusto, quello che gli dèi della Mesopotamia hanno destinato alle loro creature. Una sorda disperazione, antica quanto l'uomo, i cui rintocchi arrivano a noi dal ciclo di Gilgameš...

  Quando gli dèi crearono l'umanità,
essi assegnarono la morte per l'umanità,
tennero la vita nelle loro mani.
Tavoletta di Berlin/London [-]

Bisogna anche aggiungere, a onor del vero, che anche nella religione primitiva di Israele l'aldilà non presentava tratti molto diversi. Il triste Šǝʾôl era la comune destinazione di tutte le anime, buone o cattive, la cui esistenza sarebbe stata solo un pallido riflesso di quella già vissuta sulla terra. Saranno le idee filtrate dall'Īrān zoroastriano che, dall'epoca della liberazione degli Ebrei da Babilonia, porteranno in occidente la concezione consolatoria di un ritorno dei morti in ʿĒḏẹn attraverso l'immagine del giardino Paradiso. Tali idee costrinsero i sacerdoti ebrei a rielaborare profondamente le loro idee mitologiche, permettendo loro di staccarsi dalle concezioni mesopotamiche per portare la loro teologia a un impianto metafisicamente superiore. È difficile dire dove il Bǝrēʾšîṯ, così come oggi lo conosciamo, si situi lungo questo processo di rielaborazione. Il quale proseguì incessantemente per i cinquecento anni successivi alla liberazione da Babilonia, influenzando profondamente le idee che avrebbero portato al Cristianesimo.

È l'elemento divino presente nell'uomo (sia esso il sangue del dio sacrificato nei miti mesopotamici, il rûḥ in quello ebraico) a definire l'essere umano in quanto tale. Vi è un senso molto profondo della parola «vita», che diventerà tanto più evidente nella speculazione ebraica sul rapporto tra Dio e uomo e sul fatto che l'imperfezione umana, col doppio legame tra il peccato e la morte, è conseguenza della rottura che l'uomo, tempio dello Spirito, ha operato per suo stesso arbitrio col principio divino da cui è provenuto. Il Cristianesimo, che è frutto della grande rielaborazione del giudaismo operata in epoca post-esilica, intenderà «vita» e «morte» nel sigificato di comunione tra umano e divino, piuttosto che in senso prettamente fisico.

Nella scena del sacrificio di Gesù traspare in filigrana l'antico mito mesopotamico. Il sangue di Cristo qui viene versato in riscatto dell'umanità peccatrice, che in tal modo passerà dalla morte del peccato alla vita dello spirito. L'antico Enûma ilû awîlum può gettare una luce inaspettata su un famoso passo dei Vangeli:

«Con la sua carne e il suo sangue
Nintu mescolerà dell'argilla,
in modo che il dio e l'uomo,
siano mescolati insieme nell'argilla,
e d'ora innanzi, saremo liberi!
Grazie alla carne divina, vivrà nell'uomo uno spirito
che lo manterrà sempre vivo anche dopo la morte,
e questo Spirito esisterà per preservarlo dall'oblio!»

Enûma ilû awîlum [I:  -]

 
Mentre essi mangiavano, Gesù prese del pane, e dopo averlo benedetto, lo spezzò e lo diede ai discepoli, dicendo: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo». Avendo poi preso il calice, reso che ebbe grazie, lo diede loro dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue del patto che sarà versato per molti in remissione dei peccati».

Euaŋgélion katà Matthaîon [26: -]

Non si tratta dello stesso mito, ma piuttosto di due distinte rielaborazioni dei medesimi simboli. La carne e il sangue del dio sacrificato, nel mito mesopotamico, sono garanzie dell'immortalità dell'uomo, il cui spirito sopravvivrà al corpo materiale salvando l'individuo dalla morte e dall'oblio. Nel messaggio cristiano, è attraverso il sacrificio dell'uomo-dio che lo spirito umano potrà sopravvivere alla morte ed accedere alla vita che è vera Vita. Il rito della comunione, l'ingestione della carne e del sangue di Cristo, che vengono a mescolarsi con la nostra argilla mortale, è atta a ricreare una consustanzialità dell'uomo con Gesù, il dio crocifisso, che in questo modo riscatta l'uomo dal peccato inerente alla natura umana, sconfiggendo la morte. Un'ultima, tarda eco del mito mesopotamico del dio sacrificato per donare all'uomo uno spirito immortale.

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Rubrica: Studi - Anubis.
Materia: Biblistica e cristianesimo -
Yəhûdāh Κqəriyyôt.
Ricerche e testi di Dario Giansanti e Oliviero Canetti.
Hanno collaborato Daniele Bello e Claudia Maschio.
Theogonía: traduzione di Daniele Bello.
Creazione pagina:18.03.2012
Ultima modifica: 04.05.2016
 
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