MITI

ELLENI
Greci

MITI ELLENICI
LE ETÀ DELL'UOMO
I CICLI DEL TEMPO E DELLA STORIA
Dall'epoca aurea di Krónos all'età bronzea degli eroi, fino al nostro tempo, triste e ferrigno, la parabola del decadimento naturale e morale dell'umanità, e uno sguardo disincantato al futuro remoto.
1 - LA STIRPE DELL'ORO

L'età dell'oro (1637-1641)
Pietro Berrettini da Cortona (1596-1669)
Palazzo Pitti, Firenze (Italia)

 primissimi uomini, creati dagli dèi, vivevano al tempo di Krónos. Era l'età dell'oro, e il mondo era cullato da un'eterna primavera. La terra produceva spontaneamente i suoi frutti, senza alcun bisogno di essere toccata dal rastrello, o squarciata dai vomeri. Gli zefiri accarezzavano i fiori nati senza seme, le messi e i campi erano sempre gialli di spighe, e fiumi di latte e nettare scorrevano sulla terra.

Tali e quali agli dèi, gli uomini della stirpe aurea trascorrevano la loro esistenza con animo sgombro di angosce, lontani dalla fatica e dalla miseria. Trascorrevano il loro tempo tra svaghi e danze, in serena allegria. Senza alcuna fatica, si nutrivano di frutta selvatica: bastava loro allungare la mano per raccogliere i frutti del corbezzolo, le fragole montane, le corniole, le more attaccate alle siepi spinose, le ghiande che cadevano dalle querce. Bevevano il latte delle pecore e delle capre, e si ristoravano del miele che stillava dalle piante.

Senza bisogno di giudici e di leggi, essi onoravano spontaneamente la lealtà e la rettitudine. A quel tempo non vi erano villaggi né mura, né gli uomini si combattevano. Ciascuno viveva lieto, nell'ozio, e non conosceva altri luoghi se non quelli in cui nasceva. Non esistevano soldati, né elmi, corazze, o armi di alcun tipo. Sconosciuta era la guerra.

Né incombeva su questa felice stirpe la stramba vecchiaia, ma sempre con lo stesso vigore nei piedi e nelle mani essi conducevano la loro lunghissima esistenza, lontani da tutti i malanni. E quando giungeva per essi il tempo della morte, chiudevano gli occhi, con la dolcezza di chi viene rapito dal sonno.

Ma quando Krónos fu deposto, anche questa stirpe felice fu nascosta sotto la terra. Per volere del grande Zeús, essi divennero i daímones chrysoí: spiriti terrestri, custodi degli uomini mortali e instancabili osservatori delle loro opere, giuste e ingiuste. Vestiti di tenebra, essi girano dappertutto e sono dispensatori di fortuna e ricchezza.

2 - LA STIRPE DELL'ARGENTO

L'età dell'argento (1637-1641)
Pietro Berrettini da Cortona (1596-1669)
Palazzo Pitti, Firenze (Italia)

llorché il mondo passò sotto il dominio di Zeús, subentrò l'età dell'argento: più scadente di quella aurea, ma di pregio assai maggiore del fulvo bronzo. Zeús fece scorrere il mondo attraverso quattro stagioni: l'estate, l'incostante autunno, il freddo inverno e una breve e timida primavera. Allora per la prima volta l'aria si fece incandescente, riarsa da secche vampate, o pendette in ghiaccioli sotto i morsi del vento.

Una seconda stirpe, di molto inferiore alla prima, visse in questa età. Alcuni dicono che venne creata dagli abitanti dell'Ólympos. Secondo altri, invece, spuntarono dalla terra.

Nell'età argentea, gli uomini costruirono per la prima volta ripari e abitazioni, per proteggersi dai rigori del clima. La terra venne coltivata, i buoi vennero costretti agli aratri.

La stirpe argentea non somigliava per nulla a quella aurea, né nell'aspetto né nella mente. Gli uomini di questa età rimanevano fanciulli per cento anni, giocando in casa, accanto alle madri venerande. Ma quando giungevano alle soglie della giovinezza e diventavano uomini, la loro vita si svolgeva per un tempo brevissimo, l'animo angosciato dalla gelosia e dalla follia. Deboli e litigiosi, trascuravano di onorare gli dèi immortali e di tributare loro sacrifici. Zeús, sdegnato, li scagliò tutti sottoterra.

Trasformati in daímones argyroí, essi divennero i beati degli inferi. Seppure di ordine inferiore, anche ad essi spetta di essere onorati dagli uomini.

3 - LA STIRPE DEL BRONZO

L'età del bronzo (1637-1641)
Pietro Berrettini da Cortona (1596-1669)
Palazzo Pitti, Firenze (Italia)

uindi il padre Zeús creò un'altra stirpe di uomini mortali. La terza, di bronzo, in nulla simile alla stirpe argentea. Essa fu tratta dai frassini, e in seguito si disse anche che quegli uomini, detti melioi, cadessero da questi alberi come frutti maturi.

La stirpe bronzea fu terribile e violenta, dedita unicamente la imprese di Árēs e le prepotenze. Le loro armi erano di bronzo, le loro case di bronzo e lavoravano il bronzo. Non mangiavano cibi fatti di farina, ma avevano nel petto un cuore duro come il diamante; dotati di grande forza, avevano corpo gagliardo e mani possenti.

Anche la stirpe bronzea era composta da soli maschi. Generati vuoi dalla terra, vuoi caduti dagli alberi, non avevano bisogno del concorso femminile per riprodursi, e le uniche donne di cui avevano esperienza, erano le nýmphai. Ma Zeús, per punirli, donò loro Pandṓra, la prima donna, archetipo della razza femminile che ne sarebbe discesa, strumento di infinite pene per tutto il genere maschile.

Gli uomini bronzei scomparvero, sopraffatti dalle loro stesse mani. Altri dicono che Zeús li distrusse mandando un diluvio. Comunque stiano le cose, e per quanto feroci e terribili, la nera morte li rapì ed essi abbandonarono la luce splendente del sole e se ne andarono alla squallida dimora del terribile Áidēs.

4 - LA STIRPE DEGLI EROI

a, narrano, Deukalíōn e Pyrra, salvatisi dal grande diluvio, furono i progenitori di un'altra stirpe umana.

La seconda stirpe bronzea, che ha preceduto la nostra sulla terra infinita, fu una razza di semidei. A questa stirpe appartengono infatti i grandi eroi di cui narrano le leggende, tra cui i rinomati Perseús, Hērakls, Thēseús e Iásōn. Essi vennero annientati dalle guerre nefaste: alcuni sotto Thbai dalle sette porte, combattendo a causa delle greggi di Oídipous; altri invece nelle navi, sopra la grande distesa del mare, dopo che la guerra li aveva portati a Troía, a causa di Helénē dalla bella chioma.

Alcuni essi, rapiti dal fato di morte, Zeús li pose ai confini della terra, nelle Makárōn Nsoi, le isole dei beati, sotto l'impero di Krónos.

5 - LA STIRPE DEL FERRO
L'età del ferro (1637-1641)
Pietro Berrettini da Cortona (1596-1669)
Palazzo Pitti, Firenze (Italia)

eguì alla stirpe bronzea quella dell'età del ferro, che è la nostra. Questa è infatti proprio la più misera epoca, in cui gli uomini si affliggono nella fatica e nella miseria, e trascinano la loro esistenza tra le angosce che mandano gli dèi.

Ogni empietà irrompe nella vita umana. Scomparsi la sincerità, il pudore e la lealtà, al loro posto subentrano gli inganni, le insidie, la violenza, il gusto sciagurato del possesso.

Per la prima volta si tracciano confini sul suolo terrestre, prima comune a tutti come la luce del sole e l'aria. Gli uomini dispiegano le vele al vento, e i legni degli alberi, che fino a quel momento erano rimasti sulle cime dei monti, danzano ora sui flutti sconosciuti. Si scavano le viscere della terra, estraendone il ferro, dapprima sconosciuto, e l'oro, ancora più pernicioso del ferro. L'uno e l'altro metallo sono causa di guerre sempre più crudeli, di rovine e di sangue.

Ma se oggi, in mezzo a tanti mali, sono ancora frammiste anche cose buone, in futuro ogni cosa è destinata ancor più peggiorare.

6 - LA FINE DELL'UOMO

n giorno, infatti, la crudeltà umana raggiungerà il suo culmine: i figli avranno in dispregio i genitori, e non forniranno loro il necessario per vivere; i mariti trameranno la morte delle mogli, le mogli quella dei mariti; i fratelli di rado si risparmieranno; le matrigne mesteranno veleni; gli ospiti non saranno più sacri a colui che li ospita, né gli amici saranno più solidali tra loro.

Preverrà solo il diritto del più forte: le guerre imperverseranno e le città verranno saccheggiate.

Gli uomini saranno vili, spergiuri, ingrati, violenti. L'uomo buono e giusto non sarà più tenuto in alcun rispetto, ma tutti tributeranno grandi onori ai malvagi e agli ingiusti. Nessun giuramento sarà più rispettato, e agli uomini sarà compagna la gelosia maledica, amante del male e dall'odioso aspetto. E invero, Aidṓs, la modestia, e Némesis, la vendetta, lasceranno la terra e se ne torneranno sul monte Ólympos, tra gli immortali. Resisterà la sola Astraîa, la dea vergine della giustizia; poi anche lei lascerà – ultima degli dèi – la terra insanguinata. Agli uomini non resteranno che i dolori, fonti di lacrime, e non ci sarà più alcuno scampo dal male.

La vita umana si accorcerà sempre di più, finché i bambini verranno al mondo già vecchi, con le tempie bianche fin dalla nascita. A quel punto, Zeús distruggerà anche questa stirpe di uomini.

Fonti

1 Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]
Publius Ovidius Naso:
Metamorphoseon [I: -]
Plátōn: Gorgías [523a-523e]
2 Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]
Hēsíodos:
Megála érga [fr. 2]
Publius Ovidius Naso:
Metamorphoseon [I: -]
3 Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-, -]
Publius Ovidius Naso:
Metamorphoseon [I: -]
Apollṓnios Rhódios: Tá Argonautiká [IV: -]
4 Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]
Apollódōros
: Bibliothḗkē [I: 7]
5 Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]
Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [I: -]
6 Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]
Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [I: -]

I - IL MITO ESIODEO DELLE CINQUE STIRPI

Il mito ellenico delle età dell'uomo trova il suo fondamento in una sezione delle Érga kaì Hēmérai di Hēsíodos, introdotta da una breve e significativa presentazione:

Ei d' ethéleis, héterón toi egṑ lógon ekkoryphṓsō
eû kaì epistaménōs; sù d' enì phresì bálleo sısin
[hōs hmóthen gegáasi theoì thnētoí t' ánthrōpoi].
Se lo desideri, coronerò il mio discorso con un altro racconto
esposto bene  e acconciamente; intanto tu convinciti che
origine comune avevano gli uomini e gli dèi.

Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Il «discorso» che segue, e che occupa una lunga parte del poema, traccia una panoramica dei cicli del tempo in relazione al crollo etico del genere umano. Hēsíodos suddivide la storia in cinque «stirpi» [génē], quattro delle quali sono legate a un metallo. Abbiamo quindi la stirpe dell'oro [-], la stirpe dell'argento [-], la stirpe del bronzo [-], la stirpe degli eroi [-] e la stirpe del ferro [-]. Ciascuna di queste specie umane viene creata separatamente dalle altre e, dopo una parabola di lunghezza indefinita, viene annientata per far posto alla stirpe successiva.

Ma vediamo una panoramica delle varie «stirpi» secondo la descrizione di Hēsíodos:

  1. Stirpe dell'oro [khrysón génos]. Collocata nell'epoca di Krónos. Creati dagli immortali che dimorano sull'Ólympos, gli uomini aurei vivono esistenze lunghe e serene, liberi dalla vecchiaia e dalle malattie. La terra fornisce spontaneamente quanto basta loro per vivere. Questa stirpe si estinse alla fine del regno di Krónos, sebbene Hēsíodos non ne spieghi la ragione. Una volta scomparsi, gli uomini aurei divennero i daímones khrysoí, spiriti venerabili, apportatori di ricchezza.
  2. Stirpe dell'argento [argyrón génos]. Siamo ormai sotto il regno di Zeús. Questa stirpe è, secondo Hēsíodos «molto peggiore, e per nulla simile, sia nell'aspetto che nell'animo, a quella aurea». Creati dagli dèi, gli uomini argentei trascorrono una lunghissima infanzia, ma invecchiano rapidamente e vivono il resto della loro vita afflitti dalla propria stoltezza e protervia. Invantili e gelosi, non hanno alcuna inclinazione al culto divino e, per tale ragione, Zeús li stermina. Anch'essi si trasformano in una classe di spiriti, i daímones argyroí.
  3. Stirpe del bronzo [khálkeion génos]. Creati da Zeús a partire dai frassini (il cui legno veniva utilizzato per costruire armi), gli uomini della stirpe bronzea sono feroci, possenti, inclini alla guerra e alla violenza. Lavorano il bronzo e di bronzo costruiscono case e armi. Si estinguono a causa della loro ferocia, combattendo tra di loro.
  4. Stirpe degli eroi [hērṓōn génos]. Considerata una continuazione della precedente stirpe bronzea, questa generazione, creata anch'essa da Zeús, è una schiatta di semidèi. Anch'essi violenti e dediti alla guerra, sono nondimeno migliori e più inclini alla giustizia della stirpe che li ha preceduti. Sono i maggiori campioni del mito ellenico, e i migliori di loro cadono nel corso della guerra di Troía.
  5. Stirpe del ferro [sidḗreon génos]. Discesa dalla precedente generazione umana, la stirpe del ferro si identifica con l'umanità storica. Una generazione peggiore delle altre, condannata a pesanti pene e fatiche. Nella loro futura involuzione, questi uomini diveranno sempre più schiavi dei loro istinti peggiori, vedranno la loro vita abbreviarsi e le loro pene moltiplicarsi, finché Zeús metterà loro fine.
L'età dell'oro (±1530)
Lucas Cranach der Ältere (1475-1553)
[altra versione]
II - LA RIELABORAZIONE OVIDIANA DELLE QUATTRO ETÀ

Il magistero esiodeo delle «cinque stirpi» è tacitamente ammesso dagli autori successivi, che però raramente intervengono a chiarire e aggiungere dettagli. Si parla, in molte fonti, dell'antico regno felice di Krónos, ma la scansione del tempo mitico in «stirpi» separate e distinte manca quasi del tutto nella letteratura successiva a Hēsíodos.

Unico a riprendere il mito delle età dell'uomo sarà, in epoca romana, Publius Ovidius Naso, in Metamorphoseon [I, -]. Pur ispirandosi evidentemente a Hēsíodos, il brillante augusteo rielabora il materiale in maniera piuttosto originale, attingendo forse più alla propria vena poetica che a tradizioni mitologiche indipendenti. È Ovidius a introdurre il termine «età» [aetates], oggi divenuto quasi proverbiale, mentre Hēsíodos parlava piuttosto di «stirpi» [génē]. Ovidius riduce inoltre il numero delle «età» a quattro, non distinguendo la stirpe di bronzo da quella eroica; abbiamo dunque l'età dell'oro [I: -], l'età dell'argento [I: -], l'età del bronzo [I: -] e l'età del ferro [I: -]. A differenza di Hēsíodos, Ovidius non scrive mai che tali stirpi venissero annientate o create ex novo: l'uomo, foggiato una volta per tutte da Promētheús [I, -], evolve la propria civiltà attraverso le varie fasi della storia, fino al futuro remoto e alla fine del mondo [I: -]. E subito dopo, chiuso il ciclo delle «quattro età», Ovidius narra del diluvio di Deukalíōn, interpretandolo come un momento cruciale di questa storia umana.

L'età dell'argento (±1530)
Lucas Cranach der Ältere (1475-1553)
[altra versione]
  1. Età dell'oro [aurea aetas]. Anch'essa collocata nell'epoca di Krónos, è un mondo i eterna primavera, dove la terra produce frutti e spighe senza alcun bisogno di essere coltivata. Scorrono fiumi di latte e nettare, e gli alberi stillano miele. Gli uomini abbracciano la giustizia e la rettitudine per naturale inclinazione, senza alcun bisogno di leggi. Non vi sono armi, né elmi e corazze: impera la pace, e i villaggi non hanno bisogno di essere fortificati. Gli uomini vivono lieti di quello che hanno, non sentono il bisogno di viaggiare e di mettersi in mare.
  2. Età dell'argento [argentea aetas]. Un'età, dice Ovidius, «più scadente dell'oro ma di pregio maggiore del fulvo bronzo». Sconfitto Krónos, Zeús introduce i ritmi stagionali e per la prima volta il mondo conosce il calore dell'estate e il rigore dell'inverno. È un'epoca in cui l'umanità sviluppa i rudimenti del vivere civile: costruzione di rozze capanne, lavori agricoli.
  3. Età del bronzo [ænëa aetas]. In quest'età gli uomini hanno indole bellicosa e crudele; non sono però ancora scellerati come i loro successori.
  4. Età del ferro [ferrea aetas]. È la nostra età, quella in cui gli uomini hanno la tempra peggiore. Sono impietosi, sleali, insinceri, impudichi. È un'epoca caratterizzata dalla violenza, dagli inganni e dal gusto sciagurato del possesso. Gli uomini viaggiano inesausti per terra e per mare, alla ricerca di nuovi mercati e nuove ricchezze. Le guerre sono frequenti; i confini tracciati ben netti e profondi; l'ospite non può più fidarsi dell'ospite, né il parente del parente.
III - LE INCOERENZE DELLA MITOGRAFIA CLASSICA

L'età dell'oro (1575)
Jacopo Zucchi (1542-1596)
Galleria degli Uffizi, Firenze (Italia)

Cercare una coerenza all'interno dei grandi sistemi mitici è compito non solo impossibile, ma viziato da un grossolano errore di metodo. Come ben sanno gli esegeti, ogni documento è un mondo a sé stante, chiuso entro i confini del proprio testo. Qualsiasi ermeneutica non può prescindere da tale necessaria premessa, prima che il documento venga confrontato e integrato con il contenuto di altri testi. Non è necessariamente sbagliato «completare» una vicenda mitica, un ciclo epico, un albero genealogico traendo dettagli aggiuntivi da testi differenti, ma sempre con l'accortezza di segnalare le relazioni che intercorrono tra i vari testi. I testi più recenti presuppongono di solito quelli più antichi, ma non è detto che la relazione valga anche al contrario. Ogni singolo autore ha le proprie intenzioni e un suo caratteristico approccio alle fonti.

È forte la tentazione di collocare gli eventi del mito greco nell'ambito dello schema esiodeo delle cinque età (Érga kaì Hēmérai [-]), ma destinato a naufragare per via delle contraddizioni contro cui invariabilmente si va a cozzare. Alcune incoerenze sono già presenti nei testi esiodei. Ad esempio, Hēsíodos scrive che la stirpe aurea fu creata dagli «immortali che hanno dimora sull'Ólympos» [], e subito dopo aggiunge che «essi vissero ai tempi di Krónos» []. E già qui si crea una contraddizione con quanto Hēsíodos aveva scritto nella Theogonía, dove il monte Ólympos diviene la sede degli dèi solo in seguito alla sconfitta di Krónos.

Nel mito delle cinque stirpi, l'umanità viene creata ex novo ben quattro volte, e la responsabilità di tali demiurgie viene attribuita invariabilmente agli Olýmpioi o allo stesso Zeús. Non si dice in quale modo vennero creati gli uomini dell'età dell'oro e quelli dell'argento; quelli dell'età del bronzo vennero invece tratti dal legno dei frassini. Hēsíodos non fa mai accenno al mito della creazione dell'uomo da parte di Promētheús, o ai vari altri temi antropogonici conosciuti dal mito greco, che dunque rimangono contraddittori col testo esiodeo.

Poco chiara è anche la ragione per cui Hēsíodos distingua la stirpe bronzea dalla successiva stirpe eroica, che pure sembrano appartenere a una sola schiatta. Probabilmente, avendo ereditato una tradizione in cui si trattava della generazione bronzea come di esseri violenti e crudeli, Hēsíodos ebbe un certo riserbo ad attribuire a quella generazione tanto dissennata le gesta dei più riveriti eroi ellenici (Perseús, Hērakls, Thēseús) e il ciclo della guerra troiana. Così creò uno stacco, distinguendo due stirpi laddove ne sarebbe bastata solo una. Ovidius, con maggior coerenza, parla di un'unica età del bronzo, a cui dedica tre soli versi, ed evita saggiamente di citare gli eroi che ne fecero parte:

Tertia post illam successit aënea proles,
saevior ingeniis et ad horrida promptior arma,
non scelerata tamen.
Seguì per terza l'età del bronzo,
d'indole più crudele e più pronta a usare le orribili armi.
Scellerata, però, non ancora.

Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [I, -]

Molti e complessi problemi crea il passaggio tra la stirpe bronzea e la successiva stirpe eroica, che Hēsíodos tratteggia in modo avaro di dettagli, e senza nessun collegamento esplicito:

Kaì toì mèn khíressin hypò sphetérēısi daméntes
bsan es eurṓenta dómon kryeroû Aídao
nṓnumoi; thánatos dè kaì ekpáglous per eóntas
eîle mélas, lampòn d' élipon pháos ēelíoio.
Sopraffatti dalle loro stesse mani, [gli uomini bronzei]
scesero nelle squallide dimore del gelido Áıdēs,
senza nome; la nera morte li colse, sebbene tremendi,
ed essi lasciarono la splendida luce del sole.
Autàr epeì kaì toûto génos katà gaîa kálypsen,
aûtis ét' állo tétarton epì khthonì pouluboteírēı
Zeùs Kronídēs poíēse, dikaióteron kaì áreion,
andrn hērṓōn theîon génos, hoì kaléontai
hēmítheoi, protérē geneḕ kat' apeírona gaîan.
Ma quando la terra ebbe nascosto anche questa stirpe,
di nuovo ancora una quarta ne creò sulla terra
Zeùs Kronídēs, più giusta e più buona,
la stirpe divina degli uomini eroi, chiamati
semidèi, la stirpe che ci ha preceduti sulla terra infinita.

Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-]

Dunque gli uomini bronzei si erano uccisi l'un l'altro, a causa della loro violenta e indomabile natura. La stirpe successiva, quella eroica, è però definita una generazione di «semidèi» [hēmítheoi]: essi dunque non furono esattamente creati, quanto generati dagli dèi, com'è il caso degli eroi ellenici, di solito figli di un dio (quasi sempre Zeús) e di una donna mortale. Ciò sembra implicare che qualcuno della precedente stirpe bronzea fosse sopravvissuto allo sterminio.

Apollódōros risolve la questione collocando il diluvio proprio nel passaggio tra la stirpe bronzea e quella eroica: «Quando Zeús decise di annientare la stirpe dell'età del bronzo, Deukalíōn per suggerimento di Promētheús costruì un'arca...» (Bibliothḗkē  [I, 7]). Soluzione elegante, tanto più che la generazione eroica discende dai figli di Deukalíōn. La precisazione di Apollódōros ci permette anche di datare il sacrificio di Mēkṓnē e la creazione della donna a qualche anno prima del diluvio (Deukalíōn e Pýrrha erano infatti figli rispettivamente di Promētheús e Pandṓra).

Ma tutto ciò è in contraddizione con Hēsíodos, il quale afferma che la generazione bronzea si sterminò da sola, a opera delle proprie stesse mani, e non parla né di diluvio, né di una punizione da parte di Zeús (e parla anche di «madri» nella generazione argentea, contraddicendo lo scenario dove Pandṓra era stata creata nel corso dell'età bronzea). Ovidius ritorna sul problema riportando la tradizione secondo la quale il diluvio di Deukalíōn venne provocato da Zeús, sdegnato per i misfatti di Lykáōn, figlio dell'antico Pelásgos. I tempi sono compatibili di nuovo con l'idea del diluvio come spartiacque tra la stirpe bronzea e quella eroica (Metamorphoseon [I, -]), senonché Ovidius introduce  un'ulteriore variante del mito, secondo la quale la crudele generazione umana spazzata via dal diluvio era nata dalla terra intrisa dal sangue dei Gígantes.

Neve foret terris securior arduus aether,
adfectasse ferunt regnum caeleste gigantas
altaque congestos struxisse ad sidera montis.
tum pater omnipotens misso perfregit Olympum
fulmine et excussit subiecto Pelion Ossae.
obruta mole sua cum corpora dira iacerent,
perfusam multo natorum sanguine Terram
immaduisse ferunt calidumque animasse cruorem
et, ne nulla suae stirpis monimenta manerent,
in faciem vertisse hominum; sed et illa propago
contemptrix superum saevaeque avidissima caedis
et violenta fuit: scires e sanguine natos.
Neppure le eteree altezze dovevano restare più sicure della terra.
Raccontano che i Gígantes, aspirando al regno del cielo,
ammassassero dei monti, su, fino alle stelle.
Allora il padre onnipotente scagliò il fulmine
e squarciò l'Ólympos e rovesciò il Pḗlion giù dall'Óssa.
Raccontano che quando quei corpi spaventosi giacquero
travolti dalla loro stessa costruzione, Gaîa s'inzuppò del sangue
sparso dai suoi figli, e mentre era ancora caldo rianimò questo sangue,
e perché non sparisse del tutto ogni traccia di quella sua stirpe
ne ricavò esseri dall'aspetto di uomini. Ma anche questa schiatta
fu spregiatrice degli dèi, e assetatissima di strage crudele, e violenta.
Si capiva che era nata dal sangue.

Publius Ovidius Naso: Metamorphoseon [I, -]

Questo racconto è riferito da Ovidius in coda al suo riassunto del mito delle quattro età, senza precisi riferimenti a quale dell'una e dell'altra aetas si riferisca, anche se la scelta più logica la riporterebbe, di nuovo, all'età del bronzo, che fu in assoluto la più crudele e violenta. In tal caso, il diluvio di Deukalíōn avrebbe distrutto il peggio di questa stirpe, aprendo la via all'epoca degli eroi e dei semidèi del mito greco.

Come si vede, le incoerenze e le contraddizioni sono numerose, sia all'interno del testo stesso di Hēsíodos, sia tra questo e gli autori successivi. I tentativi dei mitografi classici di mettere ordine in questa congerie di materiale non hanno fatto altro che aumentare la confusione, regalandoci, tuttavia, ulteriore ricchezza di varianti e interpretazioni.

IV - IL CICLO ESIODEO E IL MAHĀYUGA

Il mito delle età del mondo, legato a un successivo, inevitabile peggioramento etico, sembra far parte del più antico pensiero indoeuropeo. L'esito più vicino al modello esiodeo è attestato in India, dove la meditazione sui cicli cosmici ha raggiunto livelli di notevole complessità.  Nel Mahābhārata, nel Mānava-Dharmaśāstra e in altri testi purāṇici (cfr. Nāradapurāṇa, Vāyupurāṇa, etc.), il ciclo temporale viene diviso in quattro età, o yuga, chiamate rispettivamente Kṛtayuga, Tretāyuga, Dvāparayuga e Kaliyuga.  Questi nomi derivano dai «colpi» di un antico quanto popolare gioco di dadi, portato probabilmente dagli stessi Āryā in India; kṛta era ovviamente il risultato migliore, e kali quello perdente. Le quattro età hanno una durata declinante e sono caratterizzate da un progressivo declino fisico, morale e spirituale dell'umanità. Tutti i loro numeri – dalle durate, alle «gambe» del dharma, fino al numero di avatārā di Viṣṇu che li visitano – mostrano un rapporto di 4 : 3 : 2 : 1, che sono anche i risultati dei rispettivi tiri di dado associati ai vari periodi.

  1. Kṛtayuga. Durata: 4800 anni divini = 1˙728˙000 anni umani. Età visitata da quattro avatārā di Viṣṇu. Il dharma ha quattro «gambe». La statura umana è di 21 cubiti, la durata della vita umana arriva a centomila anni.
  2. Tretāyuga. Durata: 3600 anni divini = 1˙296˙000 anni umani. Età visitata da tre avatārā di Viṣṇu. Il dharma ha tre «gambe». La statura umana è di 14 cubiti, la durata della vita umana arriva a diecimila anni.
  3. Dvāparayuga. Durata: 2400 anni divini = 864˙000 anni umani. Età visitata da due avatārau di Viṣṇu. Il dharma ha due «gambe». La statura umana è di 7 cubiti, la durata della vita umana arriva a mille anni.
  4. Kaliyuga. Durata: 1200 anni divini = 432˙000 anni umani. Età visitata da un solo avatāra di Viṣṇu. Il dharma ha una sola «gamba». La statura umana è di 3½ cubiti, la durata della vita umana raggiunge al massimo i cento anni.
Kalki, l'avatāra del Kaliyuga
Illustrazione devozionale indù

L'insieme dei quattro yuga forma un māhāyuga della durata complessiva di 4˙320˙000 anni, ciclo destinato a ripetersi interminabilmente. Mille mahāyuga formano un kalpa (4˙320˙000˙000 di anni), che è anche un giorno della vita di Brahma. Alla fine di ogni giorno di Brahma segue una notte di Brahma, della medesima durata, dove il ciclo della creazione si ferma e, con il pralaya, si verifica il parziale riassorbimento dell'universo. Poiché la vita di Brahma dura cento anni, ne deriva che un mahākalpa, tempo corrispondente all'esistenza totale dell'universo, dura 311˙040˙000˙000˙000 anni, alla fine dei quali segue il mahāpralaya, il totale riassorbimento dell'universo, di uguale durata.

Ma tralasciamo i vertiginosi calcoli temporali degli indù e torniamo, più modestamente, al ciclo dei quattro yuga, dall'iniziale perfezione del Kṛtayuga all'attuale violenta, immorale e convulsa età del Kaliyuga. Da tempo, gli studiosi hanno messo in parallelo lo schema indù con quello classico delle «cinque stirpi». Anche Hēsíodos descrive un declino fisico e morale dell'uomo, sebbene non con la precisione matematica che caratterizza la speculazione indiana. Hēsíodos non misura con regolo e compasso il suo schema storico: vuole solo conferire una veste poetica alle proprie tradizioni mitiche.

La storia cosmica del poema esiodeo non segna infatti una discesa lineare, ma presenta cadute seguite da parziali inversioni di tendenza. L'epoca della stirpe aurea è l'unica che possa vantare una qualche perfezione; quella della stirpe argentea si situa assai più in basso della prima. E così, alla brutale violenza della stirpe bronzea, segue il parziale ravvedimento della stirpe eroica, incui umanità associa la propria natura irruenta e bellicosa a un nobile senso di giustizia, prima della decadenza definitiva con la stirpe del ferro.

I due schemi temporali presentano però ancora molti punti di contatto. Sia l'India che la Grecia, ad esempio, collocano il nostro tempo nell'ultima e peggiore delle età cosmiche. «Volesse il cielo che non mi fosse toccato di vivere insieme agli uomini della quinta stirpe, ma di morir prima, o di nascere dopo!», lamenta Hēsíodos (Érga kaì Hēmérai [-]). Anche gli indiani ritengono che la nostra epoca cada proprio all'inizio del Kaliyuga. È singolare questa tendenza del pensiero mitico a vedere il presente come la peggiore espressione della storia: l'idea richiede una teleologia a ritroso in cui l'intera storia umana viene vista come una vicenda di progressiva perdita di perfezione e virtù.

Inoltre, sia l'India che la Grecia collocano le maggiori imprese eroiche – argomento principale del mito – nell'età precedente la nostra. Appartengono alla stirpe eroica tutti i grandi campioni del mito greco, da Perseús ad Hērakls, a Thēseús; e il loro tempo è destinato a chiudersi con gli eventi che ruotano attorno alla guerra di Troía e ai sofferti nóstoi dei re ellenici. Hēsíodos la definisce, giustamente, epoca dei «semidèi» [hēmítheoi] (Érga kaì Hēmérai []), in quanto la maggior parte di quei campioni discendevano dalle unioni di dèi e mortali. Analogamente, gli indù collocano nel Dvāparayuga le imprese dei grandi principi ed eroi – anch'essi avatārā delle maggiori divinità vediche – che ruotano intorno al ciclo della battaglia di Kurukṣetra, narrata nel Mahābhārata. Il mito indù fa pure concludere il Dvāparayuga in una data ben precisa: il novilunio del 17-18 febbraio 3102 a.C., giorno della morte di Kṛṣṇa (Bhāgavata Purāṇa [I, 18, ] | Viṣṇu Purāṇa [V, 38, ] | Brahma Purāṇa [212, ]).

Secondo il mito indiano, il cacciatore Jara, credendo di mirare a un cervo, trafisse con una freccia il tallone sinistro di Kṛṣṇa, ferendolo mortalmente. Il curioso fato dell'avatāra indiano trova un riscontro in quello di Akhilleús, l'ultimo grande semidio del mito greco, ucciso da Páris con un colpo di freccia al tallone, nel corso della guerra di Troía. Sebbene i due personaggi siano talmente differenti da rendere ardua una loro comparazione, è nondimeno interessante il fatto che la loro comune, bizzarra morte segni in qualche modo la chiusa dell'età eroica nei rispettivi cicli mitologici: esplicita nel caso di Kṛṣṇa, in maniera implicita nel caso di Akhilleús.

V - CROLLO ETICO E FINE DEL MONDO

Al contrario della moderna idea di progresso che, con il suo mito delle «magnifiche sorti e progressive», sogna un futuro illuminato dalla scienza e dalla giustizia, il pensiero tradizionale colloca invece la parte migliore del tempo ai suoi primordi e concepisce la storia come un'inevitabile caduta verso la disgregazione e l'oscurità.

Le ragioni che hanno portato il pensiero mitico a considerare il tempo presente come l'ultima e peggiore età del ciclo cosmico, andrebbero forse analizzate più dagli psicologi che dai mitologi. Il mondo nel quale viviamo, inutile negarlo, è lungi che perfetto. Il dolore, la fatica e la pena ci accompagnano per tutta la vita; ci ammaliamo, invecchiamo, moriamo. Siamo esseri violenti, codardi, infidi, sleali, avidi, ingiusti, ignoranti e chi ne ha più ne metta, privi del rispetto dovuto ai parenti, alle istituzioni, alle leggi e agli dèi. Con questi presupposti, sembra normale chiedersi come e quando il mondo sia divenuto quello che è. Da qui, forse, la necessità di una «storia mitica» che spieghi la caduta dell'universo e dell'umanità dal suo stato di originaria perfezione a questo cupo e triste presente.

Come naturale conseguenza di tale ragionamento, proseguendo lungo la curva declinante della storia, è altrettanto inevitabile presumere che il mondo sia destinato a peggiorare in futuro. E quando la natura umana sarà ormai del tutto perversa e malvagia, afferma la necessità del mito, avverrà il crollo finale. Hēsíodos fornisce una cruda descrizione dell'umanità futura: un'epoca di menzogna, impudicizia e ingiustizia, in cui il giusto sarà disprezzato e il violento onorato.

...oudè patḕr paídessin homoíios oudé ti paîdes
oudè xeînos xeinodókōi kaì hetaîros hetaírōi,
oudè kasígnētos phílos éssetai, hōs tò páros per.
aîpsa dè gēráskontas atimḗsousi tokas [...].
Oudé tis euórkou kháris éssetai oudè dikaíou
oud' agathoû, mâllon dè kakn rhektra kaì hýbrin
anéra timḗsousi: díkē d' en khersí: kaì aidṑs
ouk éstai, blápsei d' ho kakòs tòn areíona phta
mýthoisi skolioîs enépōn, epì d' hórkon omeîtai.
zlos d' anthrṓpoisin oizyroîsin hápasi
dyskélados kakókhartos homartḗsei stygerṓpēs.
...allora il padre non sarà simile ai figli, né i figli al padre;
l'ospite non sarà caro più caro all'ospite,
né l'amico all'amico e nemmeno il fratello;
i genitori, una volta invecchiati, subiranno ingiurie [...].
Il giuramento non sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto
o buono; piuttosto, verranno rispettati il malvagio
e l'uomo violento; la giustizia si baserà sulla forza, non vi sarà
coscienza; il cattivo offenderà l'uomo buono
con parole perfide e spergiuri;
l'invidia dal volto impudente, amara di lingua e felice del male
si accompagnerà a tutti i miseri uomini.

Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [- ]

In quest'epoca la vita sarà sempre più breve, e quando gli uomini verranno alla luce già con i capelli bianchi, Zeús porrà fine al genere umano.

La descrizione del Kaliyuga che forniscono i testi indiani corre lungo i medesimi binari. Si assisterà a un degrado spirituale dell'umanità. Le virtù del dharma non saranno quasi più presenti tra gli uomini, i precetti religiosi verranno ignorati, il rigido codice morale dei Veda dimenticato. Non solo si assisterà ad una generale corruzione, ma le possibilità di ottenere il mokṣa, la liberazione dall'ignoranza, si faranno sempre più ardue. Le caste verranno confuse e i relativi doveri disattesi: i brāhmaṇa cesseranno di offrire i corretti sacrifici; gli kṣatriya si faranno corrotti, violenti, e useranno la forza e il potere per sfruttare il popolo; i vaiśya diverranno subdoli, avidi, e ingannatori. Si assisterà a un aumento progressivo della violenza e della guerra, oltre che della cupidigia e della slealtà. Le donne diverranno lascive, prive di tutte le tradizionali virtù femminili. Procedendo verso la fine dei tempi, la vita umana si farà sempre più breve, la statura diminuirà progressivamente, così come la forza e l'intelligenza.

  Assai terribile è il Kaliyuga, pieno di peccati e impurità. I brāhmaṇa, gli kṣatriya, i vaiśya e gli śūdra sono avversi al dharma; quando giunge il terribile Kaliyuga, gli dvija stessi sono ostili ai Veda. Tutti sono schiavi della legge dell'inganno, tutti pieni d'invidia; i maestri sono egoisti, corrotti e privi della verità. [...]. I brāhmaṇa e le altre caste si mescolano come folli in preda alla passione e alla collera, tormentati da inutili sofferenze. [...].
I sovrani non pensano che ammassare tesori; scorretti verso i sudditi, li tormentano con tributi e tasse. [...] I figli odiano il padre, le mogli i mariti; tutti vogliono la donna degli altri e anelano ai beni altrui. Nel terribile Kaliyuga, o vipra, tutti gli uomini sono dediti al male. [...]
La terra diventa sterile, il seme e il fiore periscono; le donne si compiacciono della condotta e del fascino delle cortigiane. [...]
Tutti saranno sempre intenti alla lode di sé e dediti alla diffamazione degli altri, distruttori di chi ripone in loro fiducia, crudeli, privi di compassione e di giustizia. Nel Kaliyuga infatti, o vipra, gli uomini saranno amici dell'ingiustizia.
La vita più lunga sarà di sedici anni. Nel Kaliyuga, una donna di cinque anni procrea, a sette si è adulti, a otto vecchi. Tutti saranno sempre incuranti dei propri doveri, ingrati, fuori dalla retta via. [...]. Nel Kaliyuga i mortali tremeranno per paura della fame, lo sguardo al cielo per paura della siccità. [...].
Tormentati dal desiderio, col corpo striminzito, avidi e volti all'ingiustizia, tutti, nel Kaliyuga, saranno dotati di poca fortuna e numerosa progenie. Le donne si sosterranno come cortigiane, preoccupate del proprio fascino; senza prestare attenzione alle parole dei mariti, solo si interesseranno alle case altrui. Con il loro disdicevole comportamento, produrranno desiderio negli uomini malvagi. [...]
Crescerà l'ingiustizia, e moriranno i fanciulli. Distrutte le norme, il mondo va in rovina.

Nāradapurāṇa [I, 41, -]

L'idea di una fine dei tempi caratterizzata dalle peggiori qualità umane è presente in molti tradizioni mitiche, anche in contesti che esulano da un'idea così ben caratterizzata dei cicli storici. La mitologia scandinava – che pure definisce l'età dell'oro quasi in maniera letterale, come un tempo felice in cui gli dèi possedevano oro a profusione ma non avevano ancora sviluppato la cupidigia del biondo metallo – presenta una visione dei tempi futuri vicinissima a quella che abbiamo visto nel mito ellenico e indiano. Lo stato del mondo che prelude alla catastrofe finale è così descritto dal poema eddico Vǫluspá:

Bræðr munu berjask
ok at bǫnum verðask,
munu systrungar
sifjum spilla,
hart 's í heimi,
hórdómr mikill,
skeggǫld, skalmǫld,
skildir klofnir,
vindǫld, vargǫld,
áðr verǫld steypisk
mun engi maðr
ǫðrum þyrma.
I fratelli si aggrediranno
e alla morte giungeranno,
tradiranno i cugini
i vincoli di stirpe,
prova dura per gli uomini,
immane l'adulterio.
Tempo di asce, tempo di spade
s'infrangeranno scudi,
tempo di venti, tempo di lupi,
prima che il mondo crolli.
Neppure un uomo
un altro ne risparmierà.
Ljóða Edda > Vǫluspá [45]

Analogamente, il mondo celtico attesta l'enigmatico frammento «Ni accus bith nombeo bai, «Vedo un mondo che non mi sarà caro», che la narrazione del Cath Maige Tuired mette in bocca alla dea della guerra, la Mórrígan, in una sorta di visione dei tempi futuri: «Ella profetizzò la fine del mondo e predisse tutti i mali che sarebbero sopraggiunti, e tutte le malattie e tutte le vendette...» [Boi si iarum oc taircetul deridh an betha ann beus ocus oc tairngire cech uilc nobíad ann, ocus cech teadma ocus gach diglau...].

Ni accus bith nombeo baid,
sam cin blatha,
beti bai cin blichda,
mna can feli,
fir gan gail,
gabala can righ...
[...]
feda cin mes,
muir can torad
[...]
sen saobbretha,
brecfásach mbrithioman,
braithiomh cech fer,
foglaid cech mac.
Ragaid mac il-ligie a athar,
ragaid athair al-ligi a meic,
cliamain cach a bratar,
[...]
olc aimser.
immera mac a athair,
imera ingen [a máthair].
Vedrò un mondo che non mi sarà caro:
estate senza fiori,
mucche senza latte,
donne senza pudore,
uomini senza valore,
conquiste senza un re...
[...]
...boschi senza alberi,
mari senza frutto...
[...]
...iniqui giudizi degli anziani,
falsi precedenti dei giudici,
ogni uomo un traditore,
ogni giovane un ladro.
Il figlio entrerà nel letto del padre,
il padre entrerà nel letto del figlio,
ognuno sarà cognato di suo fratello...
[...]
...un'età empia.
Il figlio tradirà suo padre,
la figlia tradirà [sua madre].
«Ni accus bith nombeo baid», apud: Cath Maige Tuired

Tutte queste concezioni s'incentrano su pochi punti fondamentali. La perdita di coscienza etica si riscontrerà soprattutto nella rottura dei tradizionali rapporti umani: i vincoli di parentela, di amicizia, di ospitalità, di fedeltà matrimoniale non saranno più rispettati; ogni gruppo sociale prenderà ad agire in modo non conforme ai propri doveri, né si attenderà più agli obblighi formali verso il culto divino. I valori si invertiranno: ciò che prima veniva rispettato, diverrà oggetto di scherno; l'ipocrisia e la vanagloria saranno invece strumenti di successo. La perdita di status morale si rifletterà, sebbene non necessariamente, sul piano fisico. Gli uomini diventeranno più bassi, malaticci, meno longevi e di conseguenza più ignoranti. Queste limitazioni non diminuiranno peraltro l'aggressività e la violenza, ma la esaspereranno. Ciò che viene perduto, nei tempi finali, è quell'insieme di norme sociali che tengono insieme la civiltà; sia in senso orizzontale (degli uomini nei confronti degli altri uomini), sia verticale (degli uomini nei confronti degli dèi).

Ora, ammettiamolo pure, è fin troppo facile guardarci intorno, giudicare la nostra società con il metro di queste antiche profezie, ed esclamare: «Sta davvero accadendo questo!» E concludere che, date le premesse, si sia veramente arrivati alla fine dei tempi. Una trappola logica che ancora oggi funziona perfettamente, così come al tempo in cui questi testi profetici vennero composti. Ma attenzione. Tutte le profezie guardano al presente, e la natura umana era la stessa tanto allora quanto oggi.

Ma rispetto alle società tradizionali del passato, la nostra civiltà, introducendo l'idea di progresso, ci ha fornito uno strumento nuovo e rivoluzionario. Una fiducia nel futuro. Il sogno di un'età aurea da costruire con i nostri sforzi e la nostra volontà.

Il pellegrino del mondo alla fine del suo viaggio (±1847)
Thomas Cole (1801-1848)
Olio su tela, 30,4 × 45,8 cm. Smithsonian American Art Museum, Washington D.C. (Stati Uniti).
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BIBLIOGRAFIA
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Ellenica - Odysseús
Testi di Daniele Bello.
Ricerche di Daniele Bello e Dario Giansanti.
Theogonía: traduzione di Daniele Bello.
Creazione pagina:03.07.2011
Ultima modifica: 28.10.2015
 
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