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LJÓÐA EDDA

HÁVAMÁL

IL DISCORSO DI HÁR
LJÓĐA EDDA
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Hávamál. Il discorso di Hár
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Schema
HÁVAMÁL - Saggio
HÁVAMÁL - Testo
Note
Bibliografia

Titolo

Hávamál, «Discorso di Hár»

Genere Poema gnomico-sentenziale
Voci Monologo
Lingua Norreno
Epoca
Composizione:
Redazione:
  Inizio X secolo
XIII secolo

Manoscritti

[R] Reykjavík, Stofnun Árna Magnússonar. Codex Regius, ms. GKS 2365 4to

LJÓÐA EDDA

HÁVAMÁL

IL DISCORSO DI HÁR

Il poema

Óðinn il Viandante ( 1886)
Georg von Rosen (1843-1923)
 Illustrazione (Sanders 1893)
L'Hávamál, o «Discorso di Hár», è la seconda composizione della Ljóða Edda. Come la Vǫluspá, anche questo è un lungo monologo, e a parlare è lo stesso Óðinn, qui chiamato con l'epiteto di Hár, «alto» o «eccelso», da cui anche gli altri titoli con i quali il poema è conosciuto in traduzione italiana: Discorso dell'Alto o Discorso dell'Eccelso. Evidenze storiche e linguistiche mostrano che le sue parti più antiche risalgono con ogni probabilità all'inizio del X secolo.

La parte di argomento sapienziale è limitata rispetto a quella sentenziale: buona parte del lunghissimo poema è infatti occupato da una lunga sequenza di massime che riguardano le occorrenze della vita quotidiana e il giusto comportamento da tenersi nei rapporti tra gli uomini, e tra uomo e donna. Da questo punto di vista il poema risulta interessantissimo come documento psicologico del mondo rurale della Scandinavia medievale, fatto di un'esistenza semplice e rude, a tratti cinica, venata di un rozzo eroismo. Ne sortisce il ritratto di un popolo piccolo ma vigoroso, tenace e fiero, avvezzo alla lotta contro una natura ostile e alla sopravvivenza in tempi di violenza e di sopraffazione.

La parte più strettamente sapienziale comprende invece alcuni preziosi passaggi sulle rune e sui canti magici. Vi sono poi rapide esposizioni di tre importanti miti riguardanti Óðinn: la mancata seduzione della figlia di Billingr, il furto dell'idromele della poesia, l'acquisizione delle rune da parte di Óðinn.

Il contenuto

Mentre la Vǫluspá è l'opera unitaria di un poeta, l'Hávamál è una compilazione di pezzi di diversa origine e provenienza, «cuciti» insieme a formare un lungo monologo che tratta della vita quotidiana, dei rapporti umani, delle relazioni tra i sessi, delle rune e dei canti magici, con alcuni episodi mitologici inseriti nel discorso in qualità di esempio. Né le varie parti sono omogenee in sé stesse: un certo numero di strofe sono state ricollocate all'interno del poema nel chiaro tentativo – non sempre ben riuscito – di seguire una sequenza argomentativa. Tutto questo si nota per le brusche variazioni nel metro e per un discorso privo di un ordine chiaro, irto di tortuosità e di salti logici. La critica moderna ha ravvisato nel poema un certo numero di fonti distinte: le varie suddivisioni effettuate dagli studiosi non sono però sempre coincidenti. Ragion per cui, ne proponiamo una nostra.

Ma esaminiamo il contenuto del poema:

[1-79]. La prima parte viene generalmente intitolata Gestaþáttr, «capitolo dell'ospite». In una lunga serie di massime, vi si tratta dei doveri dell'ospitalità, si invita alla prudenza e alla circospezione, si consiglia la moderazione nel mangiare, nel bere, nel dormire, nel parlare. Si discute dell'amicizia, che va accuratamente coltivata, mentre dai falsi amici e dai nemici bisogna ben guardarsi. Si tratta della giocondità, della cortesia, dei rapporti tra uomo e uomo. È bello accettare l'ospitalità, ma preferibile avere una dimora propria per quanto piccola e mal messa; splendidi sono i doni della vita, ma il bene supremo è una fama che sopravviva alla morte; non bisogna vivere nascondendosi o rifuggendo i pericoli, ma combattere, affermarsi, conquistare la gloria.

[81-95]. Segue una sezione un po' meno omogenea, a cui si fa riferimento come Mansǫngr, «canzone degli uomini». Vi si tratta di diversi argomenti, che vertono per lo più sui rapporti tra uomini e donne, tracciati con una buona dose di cinismo. La morale è che non è prudente fidarsi delle donne, le quali sono volubili di natura e false nel cuore, e se si vuole sedurre una ragazza è lecito adularla e farle doni perché lei si conceda.

[96-102]. Nel Billingsmeyarþáttr, «capitolo della figlia di Billingr», Óðinn narra del suo tentativo di seduzione di un'anonima fanciulla, definita semplicemente come figlia di Billingr, che si conclude con un nulla di fatto: il dio viene gabbato e schernito dall'astuta ragazza e deve scappare senza aver avuto quello che voleva. Questo mito, di cui non abbiamo altre fonti, viene accennato col solito stile rapido e privo di dettagli.

[104-110]. Nel Gunnlaðarþáttr, «capitolo di Gunnlǫð»,  assistiamo a un nuovo tentativo di seduzione, questa volta ai danni di Gunnlǫð, figlia di Suttungr, che si conclude questa volta con la vittoria di Óðinn. L'impresa erotica è però finalizzata al furto dello skáldskapar mjǫðr, l'idromele della poesia; si introduce nel poema il motivo dell'acquisizione della sapienza poetica, magica e runica. (Due strofe del Gestaþáttr, [13] e [14], sono forse originarie di questa sezione.)

[111-137]. Segue una parte abbastanza compatta a cui viene dato il titolo di Loddfáfnismál, «discorso di Loddfáfnir», che si ha ragione di credere sia stato il nucleo originale dell'Hávamál. Si tratta qui di una nuova serie di massime, che Hár (Óðinn) elargisce al giovane Loddfáfnir. Questa volta a parlare non è Óðinn, ma qualcuno (forse lo stesso Loddfáfnir) che afferma di aver udito l'intero discorso nelle «sale di Hár». Le massime, questa volta introdotte da una lunga formula di apertura («Ti consiglio, Loddfáfnir | e tu accetta il consiglio»), non sono molto diverse nel contenuto da quelle che comparivano nel Gestaþáttr.

[138-145]. È la sezione intitolata Rúnatal, «dissertazione sulle rune». Óðinn vi racconta in prima persona di come rimase appeso nove notti al tronco del gran frassino Yggdrasill, con una lancia e sacrificato a sé stesso, per impossessarsi dei segreti delle rune. Si tratta dell'unica trattazione – svolta nel solito modo rapido e oscuro tipico della poesia gnomica – di questo mito importantissimo. La sezione si conclude con alcune strofe che trattano delle rune, le cui differenze di metro e di forma attestano però una diversa provenienza.

[146-163]. Segue il Ljóðatal, «dissertazione sui canti magici». Óðinn elenca diciotto tra i più potenti canti magici che conosce, dei quali spiega le proprietà, pur senza enunciarli. Anche qui sono confluite alcune strofe di diversa provenienza, come la [162] che fa di nuovo riferimento a Loddfáfnir.

[164]. L'ultima strofa sembra provenire dal Loddfáfnismál, di cui era evidentemente la conclusiva, ma è stata spostata in fondo il poema a mo' di chiusa generale.

Le redazioni

L'Hávamál ci è pervenuto nel solo Codex Regius ed è assente in ogni altro manoscritto. Snorri, nella sua Prose Edda, ne cita soltanto una strofa, la prima, che in tre dei quattro manoscritti snorriani è mancante di un verso (soltanto nel Codex trajectinus [T] la citazione è completa). Tre semiversi della strofa [84] sono citati nella Fóstbrǿðra saga; tre semiversi della strofa [138] si trovano anche nello Svipdagsmál [30].

Al contrario, la strofa Vafþrúðnismál [10] ricorda il genere di sentenze che compongono l'Hávamál: si ritiene provenga da qualche raccolta di tal genere.

Genere e metrica

L'Hávamál è un essenzialmente un poema sentenziale che, al contrario degli altri presenti nella raccolta della Ljóða Edda, svolge essenzialmente un'operazione di ammaestramento morale sotto forma di massime e consigli; in secondo luogo tratta di rune e di canti magici; le vicende mitologiche rivestono una minore importanza e sono perlopiù ricordate a scopo di esempio.

Essendo un'opera composita, l'Hávamál non segue un unico metro. Nel corso del componimento, le varie strofe si svolgono in molti metri diversi, spesso alternandosi disordinatamente. Il più frequente è il «metro strofico» [ljóðaháttr], che, come abbiamo detto, è legato alla poesia sentenziosa, ai testi dai contenuti magico-formulari o proverbiali. Nella sua forma canonica il «metro strofico» è formato da quattro versi, in cui due «lunghi», costituiti da due semiversi, si alternano a due «pieni», formati di un solo semiverso. Tuttavia, l'Hávamál presenta, oltre a strofe dal metro regolare, delle varianti delle stesse, spesso formate da un numero di versi superiore a quattro e con versi «lunghi» seguiti da sequenze di due o più versi «pieni».

Tutta la sezione del Gestaþáttr [1-79] segue con buona regolarità il «metro strofico». Segue una strofa a parte, di argomento runico [80], che presenta una variante dello stesso metro (un unico verso «lungo» seguito da quattro versi «pieni»).

All'inizio della sezione successiva, il Mansǫngr [81-90], vi è un improvviso mutamento del metro, che passa al «metro delle canzoni» [málaháttr]. Ogni strofa è formata da un certo numero di versi «lunghi» (in genere quattro o sei) ciascuno costituito a sua volta di due semiversi. All'interno di detta sezione si presenta però ulteriori variazioni metriche. Ad esempio, la strofa [84] ritorna al «metro strofico», le strofe [85-87] sono in «metro epico» [fornyrðislag] (una variante del «metro delle canzoni» con versi di quattro sillabe anziché sei), la strofa [88] ritorna ancora una volta al «metro strofico», le strofe [89-90] sono di nuovo nel «metro delle canzoni». Tali caotici mutamenti del metro indicano senza dubbio la presenza di strofe e componimenti in origine indipendenti, interpolati nel nostro poema.

A partire dalla strofa [91], l'Hávamál ritorna nel regolare «metro strofico». Il Loddfáfnismál [111-137] prosegue nello stesso metro, ma le strofe si fanno irregolari nel numero dei versi e nella sequenza di «lunghi» e «pieni». Il Rúnatal, la sezione relativa all'acquisizione delle rune da parte di Óðinn, prosegue nello stesso metro fino al verso [141]. Seguono due strofe [142-143] sulla scienza runica che presentano la stessa struttura della strofa [80], il che fa pensare che queste tre strofe provenissero da uno stesso poema. La strofa [144] torna al «metro delle canzoni». Dopodiché il poema ritorna al «metro strofico» fino alla fine [145-164].

In questa pagina, per ragioni grafiche, i due semiversi che compongono i «versi lunghi» sono stati spezzati e disposti su due righe. Così le strofe, originariamente costituite da quattro o più versi, sono ora organizzate su sei o più righe. Ecco, per confronto, la versificazione corretta della strofa [1], in «metro strofico» [ljóðaháttr]:

Gáttir allir          áðr gangi fram
um skoðaz skyli
um skygnaz skyli;
Þvi at óvist er at vita          hvar ovinir
sitja á fleti fyrir.

E la versificazione rigorosa della strofa [81], in «metro epico» [fornyrðislag]:

At kveldi skal dag leyfa,          konu, er brennd er,
mæki, er reyndr er,           mey, er gefin er,
ís, er yfir kemr,          ǫl, er drukkit er.

È evidente che la nostra organizzazione del testo non permette di distinguere, strofa per strofa, il metro originale. A questo viene in aiuto l'apparato di note. Si tenga ben presente che, nella versificazione, i numeri arabi indicano le strofe e le lettere, per comodità, i singoli semiversi, che nella nostra organizzazione del testo corrispondono alle righe.

Suddivisione critica

Se classifichiamo le strofe, potremmo azzardarci a ipotizzare da quante fonti siano esse derivate. La nostra conclusione è che il materiale possa essere fatto risalire, secondo il metro e l'argomento, a un numero massimo di nove fonti. È possibile che alcune di tali fonti possano venire identificate: quanto qui risulta è una semplice applicazione del metodo proposto.

Sezione Strofe Metro Possibile fonte
Gestaþáttr 1-79 «Metro strofico» [ljóðaháttr] I
 

80

«Metro strofico» [ljóðaháttr]
Variante A

II

Mansǫngr

81-83

«Metro delle canzoni» [málaháttr]

III
84 «Metro strofico» [ljóðaháttr] I
85-87 «Metro epico» [fornyrðislag] IV
88 «Metro strofico» [ljóðaháttr] I
89-90 «Metro delle canzoni» [málaháttr] III (?)
91-96 «Metro strofico» [ljóðaháttr] V
Billingsmeyarþáttr 97-102
  103 I
Gunnlaðarþáttr 104-110 VI
Loddfáfnismál 111-137 «Metro strofico» [ljóðaháttr]
Variante B
VII
Rúnatal 138-139 «Metro strofico» [ljóðaháttr] VIII
140 VI (?)
141 VIII (?)
142-143 «Metro strofico» [ljóðaháttr]
Variante A
II
144 «Metro delle canzoni» [málaháttr] (?)
145 «Metro strofico» [ljóðaháttr] (?)
Ljóðatal 146-161 IX
162 «Metro strofico» [ljóðaháttr]
Variante B
VII
163 «Metro strofico» [ljóðaháttr] IX
Loddfáfnismál 164 «Metro strofico» [ljóðaháttr]
Variante B
VII

Edizioni italiane

Escludendo le strofe scorporate presenti nelle antologie, la prima traduzione dell'Hávamál, sebbene non integrale, è quella presente nel libro I canti dell'Edda, a cura di Olga Gogala di Leesthal, pubblicato nella collana «I grandi scrittori stranieri» dalla UTET (Torino 1939). Suddiviso in canti separati, dal titolo di Havamal (nel quale si distinguono a sua volta un «Primo esempio di Odino» e un «Secondo esempio di Odino»), Loddfafnesmal [111-137] e Canto runico di Odino [138-145], è una traduzione metrica in quartine di endecasillabi alternati a settenari. Sebbene non possa essere considerata una traduzione letterale, è sorretta da un buon corredo di note.

Tutte le porte, pria di entrare in casa
son da guardarsi e da provare bene:
non si sa mai se dietro quella soglia
non attenda un nemico.

Segue la traduzione di Alberto Mastrelli, nel libro L'Edda. Carmi norreni, nella collana «Classici della religione», edita da Sansoni (Firenze 1951, 1982). Intitolata, sciogliendo l'epiteto, Havamal. Il carme di Odino, è in versi liberi, con le coppie di semiversi «cucite» in versi interi. Abbastanza libera, ma rigorosa, fittamente annotata.

Tutte le porte, prima di entrare
      si guardino con attenzione,
      si considerino con cura,
poiché non si sa se un nemico
      ti attende nell'atrio.

Un'altra traduzione, con il titolo tradotto direttamente in Canzone dell'Eccelso, è quella fornita da Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli, nell'antologia Il canzoniere eddico, edito da Garzanti (Milano 1982). Di nuovo versi liberi, sebbene i semiversi siano evidenziati, presenta un corredo di note ridotto al minimo e non giustifica molte scelte, non sempre felici, nella traduzione.

Ogni ingresso,          prima che si attraversi,
dev'essere spiato
dev'essere scrutato:
ché non si può sapere          dove nemici
si trovino seduti nella sala.

Più recente, un'edizione monografica, tradotta e curata da Antonio Costanzo, intitolata Hávamál. La voce di Odino, per la Collana di Studi Nordici (di cui è l'unica pubblicazione) della Diana Edizioni (Frattamaggiore 2010). Al ridicolo sottotitolo, Il testo sacro degli antichi vichinghi, fa da contraltare la singolare ricchezza del libro. Il testo originale affianca l'ottima traduzione, in versi liberi. Nella prima parte del libro, ogni singola strofa è corredata di un commento del curatore, perlopiù paccottiglia esoterico-spiritualista di scarso spessore. Nella seconda parte del libro, assai più interessante, vengono invece fornite molte preziose indicazioni di natura filologica e lessicale. In appendice, le immagini delle pagine 3-7 del Codex Regius con il testo dell'Hávamál.

Tutti gli usci          prima che si proceda,
devono essere scrutati,
devono essere osservati,
perché non si sa per certo          dove nemici
attendano in sala.

LJÓÐA EDDA

HÁVAMÁL

IL DISCORSO DI HÁR
    HÁVAMÁL IL DISCORSO DI HÁR  
         
    [Gestaþáttr] [Il capitolo dell'ospite]  
Il capitolo dell'ospite.

1

Gáttir allir
áðr gangi fram
um skoðaz skyli
um skygnaz skyli;
Þvi at óvist er at vita
hvar ovinir
sitja á fleti fyrir.

Tutte le porte
prima di varcarle
vanno spiate,
vanno scrutate,
ché dubbio sovviene
se nemici siedano
nella sala [che ti sta] davanti.

Nota
  2 Gefendr heilir!
Gestr er inn kominn!
hvar skal sitja sjá?
mjǫk er bráðr
sá er á brǫndom skal
síns um freista frama.
Ai generosi, salute!
L'ospite venga dentro!
Dove dovrà sedere?
Va assai velocemente
accanto al focolare
chi esibisce le sue doti.
 
  3 Eldz er þǫrf
þeims inn er kominn
ok á kné kalinn;
matar ok váða
er manne þǫrf,
þeim er hefir um fjall farit.
Di fuoco c'è bisogno
per chi è venuto dentro
ed ha le ginocchia gelate.
Di cibo e vestiti
necessita l'uomo
che ha percorso la montagna.
 
  4 Vatz er þorf
þeim er til verðar kømr,
þerro ok þjóðlaðar,
góðs um ǿðis,
ef sér geta mætti,
orðz ok endrþǫgo.
Di acqua c'è bisogno
per chi al banchetto viene,
di tovaglioli e di cortesi inviti,
di animo ben disposto,
se riesca a ottenerlo,
di conversazione e di silenzio.
 
  5 Vitz er þǫrf
þeim er víða ratar;
dælt er heima hvat;
at augabragði verðr
sá er ekki kann
ok með snotrom sitr.
Di intelligenza c'è bisogno
per chi viaggia per lungo;
ogni cosa è facile a casa.
Si ammicca [prendendosi gioco]
di chi nulla sa
e siede tra i sapienti.
 
  6 At hyggjandi sinni
skylit maðr hrǿsinn vera,
heldr gætinn at geði;
þá er horskr ok þǫgull
kømr heimisgarða til,
sjaldan verðr víti vǫrom,
þvíat óbrigðra vin
fær maðr aldregi
en manvit mikit.
Del proprio intelletto
non dovrebbe l'uomo vantarsi,
al contrario, sia misurato nell'animo.
Sia attento e silenzioso
quando giunge a un cortile:
di rado il prudente ha danno;
perché un amico più fidato
l'uomo non ha mai trovato
di un gran buon senso.
 
  7 Enn vari gestr
er til verðar kømr,
þunno hljóði þegir,
eyrom hlýðir,
en augom skoðar;
svá nýsiz fróðra hverr fyrir.
L'ospite prudente
che viene al banchetto,
tace aguzzando l'udito,
con le orecchie ascolta
e con gli occhi osserva;
così ogni uomo prudente scruta intorno.
 
  8 Hinn er sæll
er sér um getr
lof ok líknstafi;
ódælla er við þat
er maðr eiga skal
annars brjóstum í.
È lieto colui
che per sé ottiene
lodi e favori.
Ardua è la cosa
che l'uomo deve ottenere
nel petto di un altro.
 
  9 Sá er sæll
er sjálfr um á
lof ok vit meðan lifir;
þvíat ill ráð
hefir maðr opt þegit
annars brjóstom ór.
È lieto colui
che in sé possiede
lodi e saggezza.
Perché cattivi consigli
l'uomo ha spesso ricevuto
dal petto di un altro.
 
  10 Byrði betri
berrat maðr brauto at
en sé manvit mikit;
auði betra
þikkir þat í ókunnom stað,
slíkt er válaðs vera.
Bagaglio migliore
non si porta l'uomo in viaggio
di un gran buon senso.
Della ricchezza, migliore
ti si rivela in un paese sconosciuto:
tale è la salvezza del disperato.
 
  11 Byrði betri
berrat maðr brauto at
en sé manvit mikit;
vegnest verra
vegra hann velli at
en sé ofdrykkja ǫls.
Bagaglio migliore
non si porta l'uomo in viaggio
di un gran buon senso.
Provvista peggiore
non ci si porta per campi
del bere smodato di birra.
 
  12 Era svá gott,
sem gott kveða
ǫl alda sonom;
þvíat færa veit
er fleira drekkr,
síns til geðs gumi.
Non è così buona
come buona dicono
la birra per i figli degli uomini.
Poiché poco controllo ha
l'uomo che troppo beve
del suo intelletto.
Nota
  13 Óminnis hegri heitir
sá er yfir ǫlðrom þrumir,
hann stelr geði guma;
þess fugls fjǫðrom
ek fjǫtraðr vark
í garði Gunnlaðar.
«Airone dell'oblio» è chiamato
chi indugia in birreria;
quello che rapisce la ragione all'uomo.
Dalle penne di quell'uccello
io stesso venni incatenato
nella fortezza di Gunnlǫð.
Nota
  14 Ǫlr ek varð,
varð ofrǫlvi,
at ins fróða Fjalars;
því er ǫlðr bazt,
at aptr uf heimtir
hverr sit geð gumi.
Ebbro io divenni
ebbro senza misura,
accanto al saggio Fjalarr.
Ché la birra è ottima,
a patto che mantenga
il suo intelletto, l'uomo.
Nota
  15 Þagalt ok hugalt
skyli þjóðans barn
ok vígdjarft vera;
glaðr ok reifr
skylii gumna hverr
unz sinn bíðr bana.
Silenziosa e accorta
sia di un capo la schiatta
e audace in battaglia.
Lieto e sorridente
sia ciascun uomo
finché non sia ucciso.
 
  16 Ósnjallr maðr
hyggz muno ey lifa,
ef hann við víg varaz;
en elli gefr
hánom engi frið,
þótt hánom geirar gefi.
L'uomo vile
crede vivrà per sempre
se evita le battaglie.
Ma la vecchiaia non porta
a lui nessuna pace,
anche se gliela portano le armi.
 
  17 Kópir afglapir
er til kynnis kømr,
þylsk hann um eða þrumir;
alt er senn,
ef hann sylg um getr,
uppi er þá geð guma
Sta immobile lo stolto
che dai conoscenti è andato;
farfuglia tra sé e indugia.
Ma poi gli passa
se ottiene da bere:
ecco che si rivela il carattere.
 
  18 Sá einn veit
er víða ratar
ok hefir fjǫlð um farit,
hverjo geði
stýrir gumna hverr,
sá er vitandi er vits.
Solo uno conosce,
chi molto ha vagato
e molto ha viaggiato,
che carattere
possegga ciascun uomo:
lui possiede la saggezza.
 
  19 Haldit maðr á keri,
drekki þó at hófi mjǫð,
mæli þarft eða þegi;
ókynnis þess
vár þik engi maðr,
at þú gangir snemma at sofa.
Non trattenga [a sé] l'uomo il bicchiere,
e beva con misura l'idromele,
parli sensatamente o taccia.
Di cattive maniere
nessun uomo ti farà colpa
se tu vai presto a dormire.
 
  20 Gráðugr halr,
nema geðs viti,
etr sér aldrtrega;
opt fær hlǿgis,
er með horskom kømr,
manni heimskom magi.
L'ingordo
che non conosce misura
mangia e si ammala.
Spesso l'accolgono le risa,
quando tra gente accorta arriva
la pancia di un uomo sciocco.
 
  21 Hjarðir þat vito
nær þær heim skolo
ok ganga þá af grasi;
en ósviðr maðr
kann ævagi
síns um mál maga.
Le greggi ben sanno
quando devono tornare a casa
e andarsene dai pascoli.
Ma l'uomo insavio
non conosce mai
la misura della sua pancia.
 
  22 Vesall maðr
ok illa skapi
hlær at hvívetna;
hitki hann veit
er hann vita þyrpti,
at hann era vamma vanr.
L'uomo incapace
e di cattivo gusto
ride per ogni cosa.
Quello che lui non sa
e che dovrebbe sapere:
che non è privo di difetti.
Nota
  23 Ósviðr maðr
vakir um allar nætr
ok hyggr at hvívetna;
þá er móðr
er at morni kømr;
alt er víl, sem var.
L'uomo insavio
sta sveglio tutte le notti
e si preoccupa di tutto.
Così è sfinito
quando viene il mattino;
tutte le sue miserie son [rimaste] qual erano.
 
  24 Ósnotr maðr
hyggr sér alla vera
viðhiæjendr vini;
hitki hann fiðr,
þótt þeir um hann fár lesi,
ef hann með snotrom sitr.
L'uomo insavio
crede gli siano tutti
quelli che gli sorridono, amici.
Non si accorge affatto
se gli tendano tranelli,
quando tra i saggi siede.
 
  25 Ósnotr maðr
hyggr sér alla vera
viðhlæjendr vini;
þá þat finnr
er at þingi kømr,
at hann á formælendr fá.
L'uomo insavio
crede gli siano tutti
quelli che gli sorridono, amici.
Ed ecco si accorge,
quando arriva all'assemblea,
che ha pochi sostenitori.
Nota
  26 Ósnotr maðr
þikkiz alt vita,
ef hann á ser i vá vero;
hitki hann veit,
hvat hann skal við kveða,
ef hans freista firar.
L'uomo insavio
pensa di saper tutto
se sta da solo in un canto.
Ma nulla sa
quando deve parlare in risposta,
se qualcuno lo mette alla prova.
 
  27 Ósnotr maðr
er með aldir kømr,
þat er bazt at hann þegi;
engi þat veit
at hann ekki kann,
nema hann mæli til mart,
veita maðr,
hinn er vætki veit,
þótt hann mæli til mart.
L'uomo insavio
quando si trovi con gli uomini
questo è meglio, che taccia.
Nessuno però sa
che lui non sa nulla,
purché non parli troppo.
Ma l'uomo che non sa,
questo neppure sa:
che a volte parla troppo.
Nota
  28 Fróðr sá þykkiz
er fregna kann
ok segja it sama;
eyvito leyna
mego ýta sønir,
því er gengr um guma.
Saggio lo stimano
chi sa fare domande
e parlare a tono.
Nulla celare
possono i figli dell'uomo
di quello che capita ai mortali.
 
  29 Ǿrna mælir
sá er æva þegir
staðlauso stafi;
hraðmælt tunga
nema haldendr eigi,
opt sér ógott um gelr.
In abbondanza dice,
chi mai tace,
ciance insensate.
La lingua chiacchierona
se non è trattenuta
spesso suona contro sé stessa.
 
  30 At augabragði
skala maðr annan hafa,
þótt til kynnis komi;
margr þá froð þikkiz,
ef hann freginn erat
ok nái hann þurrfjallr þruma.
Non ammiccherà [prendendosi gioco]
nessun uomo di un altro
quando viene tra congiunti.
Accorto in molti lo stimano
se non gli fanno domande,
e un posto ottiene indisturbato.
 
  31 Fróðr þikkiz
sá er flótta tekr
gestr at gest hæðinn;
veita gǫrla
sá er um verði glissir,
þótt hann með grǫmom glami.
Accorto si ritiene
chi sa sfuggire,
ospite, agli scherni degli ospiti.
Non sa con certezza
chi al banchetto lo schernisca
se chiacchiera con malintenzionati.
 
  32 Gumnar margir
erosk gagnhollir,
en at virði vrekaz;
aldar róg
þat mun æ vera
órir gestr við gest.
Molti uomini
son tra loro amichevoli
ma a banchetto si accapigliano.
Rissa tra gli uomini
sempre vi sarà;
s'azzuffa l'ospite con l'ospite.
 
  33 Árliga verðar
skyli maðr opt fá,
nema til kynnis komi;
sitr ok snópir,
lætr sem sólginn sé,
ok kann fregna at fá.
Al mattino di buon'ora
deve l'uomo spesso mangiare,
quando va a trovare congiunti.
[Altrimenti] si siede e scruta avido,
si comporta da affamato
e partecipa poco al discorso.
 
  34 Afhvarf mikit
er til illz vinar,
þótt á brauto búi;
en til góðs vinar
liggja gagnvegir,
þótt hann sé firr farinn.
Una strada assai tortuosa
porta a un cattivo amico
anche se abita lungo la via.
Ma a un buon amico
conducono strade diritte
anche se si è stabilito più lontano.
 
  35 Ganga skal,
skala gestr vera
ey i einom stað;
ljúfr verðr leiðr,
ef lengi sitr
annars fletjon á.
Bisogna andarsene:
non deve l'ospite stare
sempre in un posto.
Chi è caro diviene malvisto
se a lungo risiede
nella sala di un altro.
 
  36 Bú er betra,
þótt lítit sé,
halr er heima hverr;
þótt tvær geitr eigi
ok taugreptan sal,
þat er þó betra en bǿn.
Una propria dimora è meglio
anche se è piccola:
ognuno è libero a casa sua.
Anche se possiede due capre
e una sala dal tetto sconnesso,
è meglio che chiedere la carità.
Nota
  37 Bú er betra,
þótt lítit sé,
halr er heima hverr;
blóðugt er hjarta
þeim er biðja skal
sér í mál hvert matar.
Una propria dimora è meglio
anche se è piccola:
ognuno è libero a casa sua.
Sanguina il cuore
di chi è costretto a chiedere
cibo per sé a ogni passo.
Nota
  38 Vápnom sínom
skala maðr velli á
feti ganga framarr;
þvíat óvíst er at vita
nær verðr á vegom úti
geirs um þǫrf guma.
Dalle proprie armi
non deve l'uomo in campo aperto
allontanarsi di un passo.
Perché non si può sapere
quando fuori sulle strade
potrà servire la lancia.
 
  39 Fanka ek mildan mann
eða svá matar góðan,
at ei væri þiggja þegit,
eða síns fjár
svági [gjǫflan],
at leið sé laun, ef þegi.
Non ho trovato un uomo così munifico
o così generoso di cibo
che non accettasse un dono;
o delle sue ricchezze
così elargitore,
da sprezzare una ricompensa, a riceverla.
Nota
  40 Fjár síns,
er fengit hefr,
skylit maðr þǫrf þola;
opt sparir leiðom
þats hefir ljúfom hugat;
mart gengir verr en varir.
Alle proprie ricchezze
che si siano accumulate
non deve l'uomo attaccarsi.
Spesso si risparmia per il male
quel che era disposto per il bene:
molte cose van peggio di come si crede.
 
  41 Vápnom ok váðom
skolo vinir gleðjaz,
þat er á sjálfum sýnst;
viðrgefendr ok endrgefendr
erosk lengst vinir,
ef þat bíðr at verða vel.
Con armi e vestiti
saranno gli amici lieti,
ciò è già evidente su sé stessi.
Chi dona e chi ricambia doni
son fra sé gli amici più intimi,
se le cose procedono bene.
 
  42 Vin sínom
skal maðr vinr vera
ok gjalda gjǫf við gjǫf;
hlátr við hlátri
skyli hǫlðar taka,
en lausung við lygi.
Al proprio amico
deve l'uomo essere amico
e ricambiare dono con dono.
Le risa con le risa
ripagheranno gli uomini,
ma l'ipocrisia con la menzogna.
 
  43 Vin sínom
skal maðr vinr vera,
þeim ok þess vin;
en óvinar síns
skyli engi maðr
vinar vinr vera.
Al proprio amico
deve l'uomo essere amico
a lui e al suo amico.
Ma all'amico del proprio nemico
non deve nessun uomo
essere amico.
 
  44 Veitztu, ef þú vin átt,
þann er þú vel trúir,
ok vill þú af hánom gott geta,
geði skaltu við þann blanda
ok gjǫfom skipta,
fara at finna opt.
Sappi: se hai un amico
in cui riponi buona fiducia
e vuoi da lui qualcosa di buono,
devi accordare il tuo animo col suo
e doni scambiare:
va' a trovarlo spesso.
 
  45 Ef þú átt annan,
þannz þú illa trúir,
vildu af hánom þó gott geta,
fagrt skaltu við þann mæla,
en flátt hyggja
ok gjalda lausung við lygi.
Se un altro ne hai
in cui riponi cattiva fiducia
e vuoi da lui qualcosa di buono,
gentilmente gli devi parlare
ma riflettere con astuzia
e ricambiare l'ipocrisia con la menzogna.
 
  46 þat er enn of þann
er þú illa truir
ok þér er grunr at hans geði,
hlæja skaltu við þeim
ok um hug mæla;
glíok skolo gjǫld gjǫfom.
E questo ancora riguardo a colui
in cui riponi cattiva fiducia
e sospetti dei suoi sentimenti:
ridere devi con lui
e parlare a dispetto del tuo cuore:
dovrai ricambiare i doni ricevuti.
 
  47 Ungr var ek forðom,
fór ek einn saman;
þá varð ek villr vega;
auðigr þóttumz
er ek annan fann;
maðr er mannz gaman.
Giovane fui un tempo,
viaggiai del tutto solo,
allora mi smarrii per le strade.
Ricco mi parve d'essere
quando trovai un altro:
l'uomo è gioia per l'uomo.
 
  48 Mildir, frǿknir
menn bazt lifa,
sjaldan sút ala;
en ósnjallr maðr
uggir hotvetna,
sýtir æ gløggr við gjǫfom.
Gli uomini generosi e prodi
vivono nel modo migliore,
di rado fomentano il dolore.
Ma l'uomo codardo
ha paura di tutto:
al tirchio dà fastidio fare doni.
 
  49 Váðir mínar
gaf ek velli at
tveim trémǫnnum;
rekkar þat þóttuz
er þeir rift hǫfðu:
neis er nǫkkvinn halur.
Le mie vesti
diedi nei campi
a due uomini di legno.
Grand'uomini si credettero
come ebbero gli abiti:
nudo, chiunque è affranto.
 
  50 Hrørnar þǫll,
sú er stendr þorpi á,
hlýrat henne bǫrk né barr;
svá er maðr,
sá er manngi ann;
hvat skal hann lengi lifa?
Si dissecca l'albero
che si erge su un dirupo,
non lo protegge corteccia né foglia.
Così è l'uomo
che da nessuno è amato:
perché dovrebbe vivere a lungo?
 
  51 Eldi heitari
brennr med illom vinom
friðr fimm daga;
en þá sloknar
er inn sétti kømr,
ok versnar allr vinskapr.
Più ardente del fuoco
divampa tra cattivi amici
l'amicizia per cinque giorni.
Ma poi si spegne
quando il sesto viene
e si rovina tutta l'amicizia.
Nota
  52 Mikit eitt
skala manne gefa;
opt kaupir sér í litlu lof;
með hálfom hleif
ok með hǫllo keri
fekk ek mér félaga.
Non grandi cose
deve l'uomo donare,
spesso con poco si ottiene una piccola lode.
Con mezzo pane
e con una coppa inclinata
mi son trovato un compagno.
Nota
  53 Lítilla sanda,
lítilla sæva,
lítil ero geð guma;
þvíat allir menn
urðot jafnspakir,
hálf er ǫld hvar.
Piccole sabbie,
piccoli mari,
piccole sono le menti degli uomini.
Ché tutti gli uomini
non sono ugualmente saggi,
a mezzo l'umanità dovunque [è divisa].
 
  54 Meðalsnotr
skyli manna hverr,
æva til snotr sé;
þeim er fyrða
fegrst at lifa,
er vel mart vito.
Moderatamente saggio
dovrebbe essere ogni uomo:
mai troppo sapiente.
Sono tra gli uomini
a vivere meglio
coloro che [non] molto sanno.
Nota
  55 Meðalsnotr
skyli manna hverr,
æva til snotr sé;
þvíat snotrs mannz hjarta
verðr sjaldan glatt,
ef sá er alsnotr er á.
Moderatamente saggio
dovrebbe essere ogni uomo:
mai troppo sapiente.
Ché il cuore dell'uomo saggio
di rado è felice
se chi lo possiede ha molta sapienza.
Nota
  56 Meðalsnotr
skyli manna hverr,
æva til snotr sé;
ørlǫg sín
viti engi fyrir;
þeim er sorgalausastr sefi.
Moderatamente saggio
dovrebbe essere ogni uomo:
mai troppo sapiente.
Il proprio destino
nessuno conosca in anticipo,
ché la mente non abbia ad angosciarsi.
Nota
  57 Brandr af brandi
brinn unz brunninn er
funi kveykisk af funa
maðr af manni
verðr at máli kuðr
en til dǿlskr af dul.
Torcia da torcia
divampa finché si consuma;
fiamma s'accende da fiamma.
Dall'uomo l'uomo
apprende il sagace parlare,
ma stolto se [rimane] in silenzio.
 
  58 Ár skal rísa
sá er annars vill
fé eða fjǫr hafa;
sjaldan liggjandi úlfr
lær um getr,
né sofandi maðr sigr.
Si leverà di buon'ora
chi di un altro vuole
le ricchezze o la vita.
Difficilmente il lupo accovacciato
si procura un coscio,
né l'uomo che dorme la vittoria.
 
  59 Ár skal rísa
sá er á yrkendr fá,
ok ganga síns verka á vit;
mart um dvelr
þann er um morgin sefr,
hálfr er auðr und hvǫtom.
Si leverà di buon'ora
chi dispone di pochi braccianti
e va lui stesso a sorvegliare i lavori.
Molto spreca
colui che dorme al mattino:
metà ricchezza è in mano al solerte.
 
  60 Þurra skiða
ok þakinna næfra,
þess kann maðr mjǫt,
ok þess viðar
er vinnaz megi
mál ok missere.
Di legna secca
e di corteccia di betulla per tetti
di questo l'uomo sappia la misura;
e [anche] di questo, la legna,
quanta ne basti
per l'una e l'altra stagione.
 
  61 Þveginn ok mettr
ríði maðr þingi at,
þótt hann sét væddr til vel;
skúa ok bróka
skammiz engi maðr,
né hests in heldr
þótt han hafit góðan.
Lavato e sazio
cavalchi l'uomo all'assemblea,
anche se non è ben vestito.
Di calzari e brache
nessun uomo deve vergognarsi
e nemmeno del cavallo
anche se non ne ha uno buono.
Nota
  62 Snapir ok gnapir
er til sævar kømr
ǫrn á aldinn mar;
svá er maðr
er með mǫrgom kømr
ok á formælendr fá.
Ghermisce e si protende
quando viene al mare
l'aquila, all'antico mare.
Così è l'uomo
che nella folla avanza
e pochi lo sostengono.
 
  63 Fregna og segja
skal fróðra hverr,
sá er vill heitinn horskr;
einn vita,
ne annar skal,
þjoð veit ef þríro.
Domandare e parlare
deve l'uomo accorto
se vuole essere chiamato saggio.
Uno [soltanto] deve sapere,
non un altro deve,
tutti sanno se tre [sanno].
 
  64 Ríki sitt
skyli ráðsnotra hverr
í hófi hafa;
þá hann þat finnr
er með frǿknom kømr,
at engi er einna hvatastr.
Il suo potere
deve l'uomo prudente
con accortezza esercitare.
E questo scopre
chi viene tra valorosi:
che nessuno è di tutti il più accorto.
 
  65 Orða þeira
er maðr ǫðrom segir,
opt hann gjǫld um getr.
Di quelle parole
che un uomo all'altro dice,
spesso bisogna dare riparazione.
Nota
  66 Mikilsti snemma
kom ek í arga staði,
en til síð ísuma;
ǫl var drukkit,
sumt var ólagat,
sjaldan hittir leiðr í lid.
Troppo presto
sono venuto in molti luoghi
e troppo tardi in altri.
La birra era stata bevuta,
A volte non ancora fermentata:
chi è sgradito ha raramente fortuna.
 
  67 Hér ok hvar
myndi mér heim uf boðit,
ef þyrptak at málungi mat,
eða tvau lær hengi
at ins tryggva vinar,
þars ek havða eitt etit.
Qua e là
sarei stato invitato nelle case
se di cibo non avessi avuto bisogno ai pasti
o se due prosciutti fossero rimasti appesi
presso l'amico leale
dopo che ne avessi mangiato uno.
 
  68 Eldr er beztr
með ýta sonom
ok sólar sýn,
heilyndi sitt
ef maðr hafa náir,
án við lǫst at lifa.
Il fuoco è ottimo
presso i figli degli uomini
e la vista del sole;
la propria salute
se si può averla,
e una vita senza vergogna.
 
  69 Erat maðr allz vesall,
þótt hann sé illa heill;
sumr er af sonom sæll,
sumr af frændom,
sumr af fé ǿrno,
sumr af verkom vel.
Nessun uomo è del tutto infelice
anche se ha cattiva salute;
alcuni traggono dai figli gioia,
alcuni dai congiunti,
alcuni dalle ricchezze,
alcuni dalle buone azioni.
 
  70 Betra er lifðom
ok sæl lifðom [en sé ólifðum];
ey getr kvikr kú;
eld sá ek upp brenna
auðgom manni fyrir,
en úti var dauðr fyr durom.
È meglio per il vivo
che per il morto:
chi vive ha sempre una vacca.
Il fuoco ho visto ardere
dapprima per l'uomo ricco;
ma morto giaceva fuori la porta.
Nota
  71 Haltr ríðr hrossi,
hjǫrð rekr handarvanr,
daufr vegr ok dugir;
blindr er betri
en brendr sé;
nýtr mangi nás.
Lo zoppo va a cavallo,
guida il gregge il monco,
il sordo combatte ed è utile.
Essere cieco è meglio
che essere cremato:
non serve a niente un cadavere.
Nota
  72 Sonr er betri,
þótt sé síð of alinn
eftir genginn guma;
sjaldan bautarsteinar
standa brautu nær,
nema reisi niðr at nið.
Un figlio è meglio
anche se nato postumo,
dopo che il padre è andato.
Raramente le lapidi
si ergono lungo la strada
se non le innalza il congiunto al congiunto.
 
  73 Tveir ro eins herjar,
tunga er hǫfuðs bani;
er mér í heðin hvern
handar væni.
Due sono più terribili di uno,
la lingua è l'assassina della testa.
Io sotto ogni mantello
mi aspetto le mani.
Nota
  74 Nótt verðr feginn
sá er nesti trúir,
skammar ro skips ráar;
hverf er haustgríma;
fjǫlð of viðrir
á fimm dǫgum
en meira á mánuði.
È lieto la notte
chi confida nelle provviste.
Corti sono i pennoni delle navi;
instabili sono le notti autunnali;
il tempo cambia
in cinque giorni
e ancor più in un mese.
Nota
  75 Veita hinn
er vettki veit,
margr verðr af aurum api;
maður er auðigr,
annar óauðigr,
skylit þann vítka váar.
Non sa
chi nulla sa,
molti impazziscono per l'oro.
Un uomo è ricco,
un altro è povero,
non si deve biasimare chi è indigente.
 
  76 Deyr fé,
deyja frændr,
deyr sjalfr it sama,
en orðstírr
deyr aldregi
hveim er sér góðan getr.
Muoiono le mandrie,
muoiono i parenti,
morirai tu stesso allo stesso modo.
Ma la fama
non muore mai
per chi se ne è fatta una buona.
 
  77 Deyr fé,
deyja frændr,
deyr sjalfr it sama,
ek veit einn
at aldrei deyr:
dómr um dauðan hvern.
Muoiono le mandrie,
muoiono i parenti,
morirai tu stesso allo stesso modo.
Una cosa conosco
che mai muore:
la reputazione di chi è morto.
 
  78 Fullar grindr
sá ek fyr Fitjungs sonum,
nú bera þeir vonar vǫl;
svá er auðr
sem augabragð,
hann er valtastr vina.
Pieni i recinti
vidi dei figli del Pancione:
ora essi portano il bastone del mendico.
È la ricchezza
un batter d'occhio,
il più incostante degli amici.
Nota
  79 Ósnotr maðr,
ef eignask getr
fé eða fljóðs munuð,
metnaðr hánum þróask,
en mannvit aldregi:
fram gengr hann drjúgt í dul.
L'uomo insavio
se riesce ad avere
la ricchezza o l'amor di donna,
l'orgoglio in lui cresce
ma il buon senso mai:
avanza solo in arroganza.
 
  80 Þat er þá reynt,
er þú að rúnum spyrr
inum reginkunnum,
þeim er gerðu ginnregin
ok fáði fimbulþulr;
þá hefir hann bazt, ef hann þegir.
Questo è dunque provato:
quando tu le rune consulti
di origine divina,
che crearono i supremi numi,
che dipinse il terribile vate,
questo è meglio, tacere.
Nota
         
    [Mansongr] [Canto degli uomini]  
Detti per gli uomini. 81 At kveldi skal dag leyfa,
konu, er brennd er,
mæki, er reyndr er,
mey, er gefin er,
ís, er yfir kemr,
ǫl, er drukkit er.
A sera si deve il giorno lodare,
la moglie, quando è cremata,
la spada, quando è provata,
la fanciulla, quando è sposata,
il ghiaccio, quando è attraversato,
la birra, quando è bevuta.
Nota
  82 Í vindi skal við hǫggva,
veðri á sjó róa,
myrkri við man spjalla,
mǫrg eru dags augu;
á skip skal skriðar orka,
en á skjǫld til hlífar,
mæki hǫggs,
en mey til kossa.
Nel vento si deve il legno spaccare,
col buon tempo in mare remare,
nel buio con una fanciulla parlare:
molti sono gli occhi del giorno.
Una nave serve per viaggiare,
uno scudo per proteggere,
una spada per colpire,
una fanciulla per baciarla.
 
  83 Við eld skal ǫl drekka,
en á ísi skríða,
magran mar kaupa,
en mæki saurgan,
heima hest feita,
en hund á búi.
Presso il fuoco bevi la birra,
sul ghiaccio pattina,
compra un cavallo magro
e una spada insozzata,
a casa ingrassa il cavallo
ma il cane nel cortile.
Nota
  84 Meyjar orðum
skyli manngi trúa
né því, er kveðr kona,
því at á hverfanda hvéli
váru þeim hjǫrtu skǫpuð,
brigð í brjóst of lagið.
Alle parole di una fanciulla
non deve nessun uomo credere,
né a ciò che dice una donna.
Sulla ruota [del vasaio] che gira
sono stati plasmati i loro cuori,
e la mutevolezza nel loro petto.
Nota
  85 Brestanda boga,
brennanda loga,
gínanda ulfi,
galandi kráku,
rýtanda svíni,
rótlausum viði,
vaxanda vági,
vellanda katli,
D'un arco che cigola,
d'una fiamma che avvampa,
d'un lupo che spalanca le fauci,
d'un corvo che stride,
d'un maiale che grugnisce,
d'un albero senza radici
del mare che si leva
del calderone che bolle.
 
  86 Fljúganda fleini,
fallandi báru,
ísi einnættum,
ormi hringlegnum,
brúðar beðmálum
eða brotnu sverði,
bjarnar leiki
eða barni konungs.
D'una lancia che vola,
d'un'onda che si rovescia,
del ghiaccio di una notte,
del serpe che si attorce,
dei discorsi di donne a letto,
d'una spada che si spezza,
dei giochi di un orso,
o del figlio di un re.
 
  87 Sjúkum kalfi,
sjalfráða þræli,
vǫlu vilmæli,
val nýfelldum.
D'un vitello malato,
d'un servo intraprendente,
delle confidenze di una veggente,
d'un assassinio recente.
Nota
  88  Akri ársánum
trúi engi maðr
né til snemma syni,
veðr ræðr akri
en vit syni;
hætt er þeira hvárt.
Su un campo seminato anzitempo
nessun uomo confidi,
né troppo presto in un figlio.
Il tempo governa il campo
e la saggezza il figlio:
entrambi sono inaffidabili.
 
  89 Bróðurbana sínum,
þótt á brautu mæti,
húsi hálfbrunnu,
hesti alskjótum,
þá er jór ónýtr,
ef einn fótr brotnar,
verðit maðr svá tryggr
at þessu trúi ǫllu.
Nell'assassino del fratello,
quando lo si incontri sulla via,
in una casa mezzo bruciata,
in un destriero che troppo corre
(è inutile un cavallo
se si rompe una zampa):
nessun uomo sia così ingenuo
da credere in tutto questo.
 
  90 Svá er friðr kvenna,
þeira er flátt hyggja,
sem aki jó óbryddum
á ísi hálum,
teitum, tvévetrum
ok sé tamr illa,
eða í byr óðum
beiti stjórnlausu,
eða skyli haltr henda
hrein í þáfjalli.
Così è l'amore delle donne
che sono false di pensiero:
come condurre un cavallo non ferrato
sul ghiaccio scivoloso,
irruento [puledro] di due anni
e non del tutto domato;
o nel vento turbinante
una nave senza timone;
o uno zoppo che cerchi di catturare
una renna su un monte in disgelo.
 
  91 Bert ek nú mæli,
því at ek bæði veit,
brigðr er karla hugr konum;
þá vér fegrst mælum,
er vér flást hyggjum:
þat tælir horska hugi.
Apertamente ora parlo
perché l'uno e l'altro conosco,
insidioso è alle donne il cuore degli uomini.
Quanto più dolcemente parliamo,
tanto più falsamente pensiamo:
così s'inganna il sentimento dell'avveduta.
 
  92 Fagurt skal mæla
ok fé bjóða
sá er vill fljóðs ást fá,
líki leyfa
ins ljósa mans:
Sá fær er fríar.
Con dolcezza deve parlare
e donare ricchezze
chi vuole ottenere l'amore di una donna.
Loda il sembiante
della splendida fanciulla:
la conquista chi la lusinga.
 
  93 Ástar firna
skyli engi maðr
annan aldregi;
oft fá á horskan,
er á heimskan né fá,
lostfagrir litir.
Amore rimproverare
non deve nessun uomo
ad un altro mai.
Spesso imbrigliano il saggio
laddove lo stolto non imbrigliano
le radiose apparenze d'amore.
 
  94 Eyvitar firna
er maðr annan skal,
þess er um margan gengr guma;
heimska ór horskum
gerir hǫlða sonu
sá inn máttki munr.
In nessun modo rimproverare
un uomo a un altro deve
di quel che accade alla gente.
Stolti da saggi
son fatti i figli degli uomini:
questo il potere del desiderio.
 
  95 Hugr einn þat veit
er býr hjarta nær,
einn er hann sér um sefa;
ǫng er sótt verri
hveim snotrum manni
en sér engu að una.
Unica la mente sa
quel che dimora accanto al cuore;
ognuno è solo con i suoi sentimenti.
Non c'è malattia peggiore
per l'uomo saggio
di non avere nulla da amare.
 
         
    [Billingsmeyjarþáttr] [Il capitolo della figlia di Billingr]  
  96 Þat ek þá reynda
er ek í reyri sat
ok vættak míns munar;
hold ok hjarta
var mér in horska mær;
þeygi ek hana at heldr hefik.
Questo ho compreso
mentre tra le canne sedevo
e aspettavo [di soddisfare] il mio desiderio.
Carne e cuore
era per me quella splendida fanciulla,
ma ancora non sono riuscito a possederla.
Nota
  97 Billings mey
ek fann beðjum á
sólhvíta sofa;
jarls ynði
þótti mér ekki vera
nema við þat lík at lifa.
La figlia di Billingr
trovai nel letto,
bianca come il sole e addormentata.
I privilegi di un nobile
non erano nulla per me,
se non vivevo con quel bel sembiante.
 
  98 «Auk nær aftni
skaltu, Óðinn, koma,
ef þú vilt þér mæla man;
allt eru óskǫp
nema einir viti
slíkan lǫst saman.»
«Verso sera
dovrai, Óðinn, venire,
se vuoi persuadere la fanciulla.
Sarebbe assai sconveniente,
a meno che noi due soli si sappia
di certi segreti convegni.»
 
  99 Aftr ek hvarf
ok unna þóttumk
vísum vilja frá;
hitt ek hugða
at ek hafa mynda
geð hennar allt ok gaman.
Tornai indietro
e di godere credevo,
mosso da passione.
Questo io pensavo:
che avrei avuto
il suo cuore tutto e il piacere.
 
  100 Svá kom ek næst
at in nýta var
vígdrótt ǫll of vakin,
með brennandum ljósum
ok bornum viði,
svá var mér vílstígr of vitaðr.
Quando la volta dopo arrivai,
c'era all'erta
l'intera schiera e vegliava,
con torce avvampanti
e bastoni impugnati:
così mi fu indicata la via dello scorno!
Nota
 
  101 Auk nær morgni,
er ek var enn of kominn,
þá var saldrótt sofin;
grey eitt ek þá fann
innar góðu konu
bundit beðjum á.
Sul far del mattino,
quando venni di nuovo,
la schiera dei servi dormiva.
Soltanto trovai la cagna
di quella buona femmina
legata nel letto.
 
  102 Mǫrg er góð mær,
ef gǫrva kannar,
hugbrigð við hali.
Þá ek þat reynda,
er it ráðspaka
teygða ek á flærðir fljóð;
háðungar hverrar
leitaði mér it horska man,
ok hafða ek þess vettki vífs.
Molto, la buona fanciulla,
se si vuol saperla tutta,
è d'animo volubile con gli uomini.
Questo ho appurato
quando quella donna saggia
provai a condurre alla lussuria.
Ad ogni scherno
mi espose l'accorta fanciulla,
e da quella donna non ebbi un bel niente.
Nota
  103 Heima glaðr gumi
ok við gesti reifr,
sviðr skal um sig vera,
minnigr ok málugr,
ef hann vill margfróðr vera.
Oft skal góðs geta;
fimbulfambi heitir
sá er fátt kann segja,
þat er ósnotrs aðal.
A casa lieto l'uomo,
sorridente con gli ospiti,
deve saper essere,
di buona memoria e loquace,
se vuole apparire vissuto;
spesso parlerà di cose buone.
Pezzo d'idiota viene chiamato
chi poco sa raccontare:
questo è il carattere dell'insavio.
Nota
         
    [Gunnlaðarþáttr] [Il capitolo di Gunnlǫð]  
. 104 Inn aldna jǫtun ek sótta,
nú em ek aftr of kominn:
fátt gat ek þegjandi þar;
mǫrgum orðum
mælta ek í minn frama
í Suttungs sǫlum.
L'antico jǫtunn ho visitato,
proprio ora sono di ritorno.
Poco ottenni là col silenzio:
con molte parole
ho parlato a mio vantaggio
nelle sale di Suttungr.
Nota
  105 Gunnlǫð mér of gaf
gullnum stóli á
drykk ins dýra mjaðar;
ill iðgjǫld
lét ek hana eftir hafa
síns ins heila hugar,
síns ins svára sefa.
Gunnlǫð mi diede
sul trono d'oro
da bere il prezioso idromele.
Un cattivo compenso
le diedi in cambio
per il suo cuore generoso,
per il suo spirito innamorato.
 
  106 Rata munn
létumk rúms of fá
ok um grjót gnaga,
yfir ok undir
stóðumk jǫtna vegir,
svá hætta ek hǫfði til.
Il morso del trapano
lasciai si facesse spazio
e perforò le rocce;
sopra e sotto
avevo le vie degli jǫtnar:
così rischiai la testa.
Nota
  107 Vel keypts litar
hefi ek vel notit,
fás er fróðum vant,
því at Óðrerir
er nú upp kominn
á alda vés jarðar.
Con l'inganno quel bel sembiante
mi son ben goduto:
a poco rinuncia chi è saggio.
Perché Óðrørir
è ora salito
al santuario delle stirpi della terra.
Nota
  108 Ifi er mér á
at ek væra enn kominn
jǫtna gǫrðum ór,
ef ek Gunnlaðar né nytak,
innar góðu konu,
þeirar er lǫgðumk arm yfir.
In me è il dubbio
che sarei ritornato
dalle fortezze degli jǫtnar,
se Gunnlǫð non mi avesse aiutato:
la brava donna
che cinsi con il braccio.
 
  109 Ins hindra dags
gengu hrímþursar
Háva ráðs at fregna
Háva hǫllu í.
At Bǫlverki þeir spurðu,
ef hann væri með bǫndum kominn
eða hefði hánum Suttungr of sóit.
Il giorno dopo
vennero i hrímþursar
a chiedere consiglio ad Hár
nella sala di Hár.
Di Bǫlverkr chiedevano,
se fosse tornato tra gli dèi
o se Suttungr l'avesse ammazzato.
 
  110 Baugeið Óðinn
hygg ek, at unnið hafi;
hvat skal hans tryggðum trúa?
Suttung svikinn
hann lét sumbli frá
ok grætta Gunnlǫðu.
Sul sacro anello, Óðinn,
credo, abbia giurato;
ma chi potrebbe credergli?
Suttungr frodò,
lui, del suo idromele
e pianse Gunnlǫð.
 
         
    [Loddfáfnismál] [Discorso di Loddfáfnir]  
Discorso di Loddfáfnir. 111 Mál er at þylja
þular stóli á
Urðarbrunni at,
sá ek ok þagðak,
sá ek ok hugðak,
hlydda ek á manna mál;
of rúnar heyrða ek dæma,
né of ráðum þǫgðu
Háva hǫllu at,
Háva hǫllu í,
heyrða ek segja svá.
È tempo che cominci a parlare
dal seggio del vate
presso Urðarbrunnr.
Vidi e tacqui,
vidi e meditai,
ascoltai i discorsi degli uomini.
Udii delle rune e imparai,
né furono celati i dettagli.
Alle sale di Hár,
nelle sale di Hár,
sentii dire così:
Nota
  112 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð ef þú getr:
nótt þú rísat
nema á njósn séir
eða þú leitir þér innan út staðar.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Di notte non alzarti
a meno che tu non sia di guardia
o che non stia cercando un posto fuori città.
Nota
  113 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð ef þú getr:
fjǫlkunnigri konu
skalattu í faðmi sofa,
svá at hon lyki þik liðum.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Di una donna affascinante
non dormir nell'abbraccio
così che t'imprigioni tra le sue membra.
 
  114 Hon svá gerir
at þú gáir eigi
þings né þjóðans máls;
mat þú villat
né mannskis gaman,
ferr þú sorgafullr að sofa.
Lei farà in modo
che tu non ti curerai
delle assemblee né delle parole del sovrano;
che cibo più non vorrai
né umani piaceri,
e che tu vada a dormire colmo di crucci.
Nota
  115 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð ef þú getr:
annars konu
teygðu þér aldregi
eyrarúnu at.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
La donna di un altro
non sedurre mai
[per farne] la tua segreta amante.
Nota
  116 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð ef þú getr:
áfjalli eða firði,
ef þik fara tíðir,
fásktu at virði vel.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Sul monte o nel fiordo
se viaggi a lungo,
assicurati abbondanti provviste.
 
  117 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð ef þú getr:
illan mann
láttu aldregi
óhǫpp at þér vita,
því at af illum manni
fær þú aldregi
gjǫld ins góða hugar.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
A un uomo malvagio
non permettere mai
di conoscere i tuoi guai:
ché da un uomo malvagio
non si otterrà mai
di ricambiare un animo amico.
 
  118 Ofarla bíta
ek sá einum hal
orð illrar konu;
fláráð tunga
varð hánum at fjǫrlagi
ok þeygi of sanna sǫk.
Morso a sangue
io vidi un uomo
dalle parole di una donna malvagia.
Una lingua falsa
fu per lui la morte
e non già per giuste ragioni.
 
  119 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
veistu, ef þú vin átt
þann er þú vel trúir,
far þú at finna oft,
því at hrísi vex
ok hávu grasi
vegr, er vættki treðr.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Sappi questo, se hai un amico
nel quale riponi fiducia,
va' a trovarlo spesso:
perché è coperto di sterpi
e di erba alta
il sentiero che nessuno percorre.
Nota
  120 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
góðan mann
teygðu þér at gamanrúnum
ok nem líknargaldr, meðan þú lifir.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Un buon compagno
scegliti per piacevoli conversari,
e impara incantesimi benefici, mentre hai vita.
Nota
  121 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
vin þínum
ver þú aldregi
fyrri at flaumslitum;
sorg etr hjarta,
ef þú segja né náir
einhverjum allan hug.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Con il tuo amico
non essere mai
il primo a rompere il vincolo.
L'angoscia ti rode il cuore
se non puoi raccontare
a qualcuno tutti i tuoi pensieri.
 
  122 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
orðum skipta
þú skalt aldregi
við ósvinna apa.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Parole scambiare
tu non dovrai mai
con insavie scimmie.
Nota
  123 Því at af illum manni
mundu aldregi
góðs laun of geta,
en góðr maðr
mun þik gerva mega
líknfastan at lofi.
Ché da un uomo malvagio
non otterrai mai
ricompensa per il bene.
Ma un uomo buono
potrà farti sentire
apprezzato con le lodi.
 
  124 Sifjum er þá blandat,
hver er segja ræðr
einum allan hug;
allt er betra
en sé brigðum at vera;
era sá vinr ǫðrum,
er vilt eitt segir.
Amicizia è scambiata
quando uno può rivelare
a un altro il suo intero pensiero.
Tutto è migliore
che non essere fidàti;
non è amico di un altro
chi parla solo per piacergli.
Nota
  125 Ráðumk, þér Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
þrimr orðum senna
skalattu þér við verra mann
oft inn betri bilar,
þá er inn verri vegr.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Per tre parole non disputerai
con un uomo peggiore di te:
spesso il migliore è sconfitto
quando combatte il peggiore.
 
  126 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
skósmiðr þú verir
né skeftismiðr,
nema þú sjálfum þér séir,
skór er skapaðr illa
eða skaft sé rangt,
þá er þér bǫls beðit.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Non il calzolaio farai
o l'armaiolo
se non per te stesso.
Se la scarpa è mal fatta
o è storta la lancia,
la scarogna è in agguato per te.
 
  127 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
hvars þú bǫl kannt,
kveð þ[ér/at] bǫlvi at
ok gefat þínum fjándum frið.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Dovunque tu abbia ricevuto offesa,
afferma che è un'offesa
e non dar tregua ai tuoi nemici.
Nota
  128 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
illu feginn
ver þú aldregi,
en lát þér at góðu getit.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Gioia del male
non avere mai,
ma trai piacere dal bene.
 
  129 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
upp líta
skalattu í orrustu,
gjalti glíkir
verða gumna synir
síðr þitt um heilli halir.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Guardare in alto
non devi in battaglia:
[pazzi] quali cinghiali
diventano i figli degli uomini:
così non ti lanceranno incantesimi.
Nota
  130 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
ef þú vilt þér góða konu
kveðja at gamanrúnum
ok fá fǫgnuð af,
fǫgru skaltu heita
ok láta fast vera;
leiðisk manngi gótt, ef getr.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Se vuoi per te una buona femmina
parlale con dolci sussurri
e prendi piacere con lei;
devi fare belle promesse
e subito mantenerle:
nessuno soffre il bene, a riceverlo.
 
  131 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
varan bið ek þik vera
ok eigi ofváran;
ver þú við ǫl varastr
ok við annars konu
ok við þat it þriðja
at þjófar né leiki.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Prudente ti consiglio di essere
ma non troppo prudente.       
Sii con la birra molto prudente
e con la donna di un altro
e questo per terzo,
che i ladri non ti freghino.
Nota
 
  132 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
at háði né hlátri
hafðu aldregi
gest né ganganda.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Con scherno e risate
non ricevere mai
ospite né viandante.
 
  133 Oft vitu ógǫrla
þeir er sitja inni fyrir
hvers þeir ro kyns, er koma;
erat maðr svá góðr
at galli né fylgi,
né svá illr, at einugi dugi.
Spesso non sa bene
colui che siede dentro [casa]
di qual stirpe siano coloro che arrivano.
Nessun uomo è così buono
da non avere difetti,
né così cattivo da non servire a nulla.
Nota
  134 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
at hárum þul
hlæ þú aldregi,
oft er gótt þat er gamlir kveða;
oft ór skǫrpum belg
skilin orð koma
þeim er hangir með hám
ok skollir með skrám
ok váfir með vílmǫgum.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Del vate dai capelli grigi
non ridere mai;
spesso è buona cosa quel che dicono i vecchi.
Spesso da un otre sgualcito
vengono parole sensate,
uno che è appeso tra i pellami,
e penzola tra i ritagli di cuoio,
e ciondola tra stomaci coi cagli.
Nota
  135 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
gest þú né geyja
né á grind hrekir,
get þú váluðum vel.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Non scacciare un ospite,
non condurlo alla porta,
tratta con garbo i poveri.
 
  136 Rammt er þat tré,
er ríða skal
ǫllum at upploki.
Baug þú gef,
eða þat biðja mun
þér læs hvers á liðu.
Poderosa è quella spranga di legno
che deve scorrere
per aprire a tutti.
Un anello dai in dono
o ti invocheranno
qualche malanno nel corpo.
 
  137 Ráðumk þér, Loddfáfnir,
en þú ráð nemir,
njóta mundu, ef þú nemr,
þér munu góð, ef þú getr:
hvars þú ǫl drekkir,
kjós þér jarðar megin,
því at jǫrð tekr við ǫlðri,
en eldr við sóttum,
eik við abbindi,
ax við fjǫlkynngi,
hǫll við hýrógi,
heiftum skal mána kveðja,
beiti við bitsóttum,
en við bǫlvi rúnar,
fold skal við flóði taka.
Ti consiglio, Loddfáfnir,
e tu accetta il consiglio,
ne trarrai beneficio se l'accetti,
bene ti verrà se l'accogli.
Dovunque tu beva birra,
invoca per te la forza della terra!
perché la terra agisce contro la birra,
il fuoco contro la malattia,
la quercia contro la dissenteria,
la spiga contro la stregoneria,
il sambuco contro le liti in famiglia,
per l'ira devi invocare la luna,
l'erica contro la rabbia,
e contro il male le rune,
il terreno agisce contro le inondazioni.
Nota
         
    [Rúnatal] [Dissertazione sulle rune]  
Dissertazione sulle rune. 138 Veit ek, at ek hekk
vindgameiði á
nætr allar níu,
geiri undaðr
ok gefinn Óðni,
sjalfur sjalfum mér,
á þeim meiði
er manngi veit
hvers af rótum renn.
Lo so io, fui appeso
al tronco sferzato dal vento
per nove intere notti,
ferito di lancia
e consegnato a Óðinn,
io stesso a me stesso,
su quell'albero
che nessuno sa
dove dalle radici s'innalzi.
Nota
  139 Við hleifi mik sældu
né við hornigi,
nýsta ek niðr,
nam ek upp rúnar,
æpandi nam,
fell ek aftr þaðan.
Con pane non mi saziarono
né con corni [mi dissetarono].
Guardai in basso,
feci salire le rune,
chiamandole lo feci,
e caddi di là.
 
  140 Fimbulljóð níu
nam ek af inum frægja syni
Bǫlþorns, Bestlu fǫður,
ok ek drykk of gat
ins dýra mjaðar,
ausin Óðreri.
Nove terribili incantesimi
ricevetti dall'illustre figlio
di Bǫlþorn, padre di Bestla,
e un sorso ottenni
del prezioso idromele
attinto da Óðrørir.
Nota
  141 Þá nam ek frævask
ok fróðr vera
ok vaxa ok vel hafask,
orð mér af orði
orðs leitaði,
verk mér af verki
verks leitaði.
Ecco io presi a fiorire
e diventai saggio,
a crescere e farmi possente.
Parola per me da parola
trassi con la parola,
opera per me da opera
trassi con l'opera.
 
  142 Rúnar munt þú finna
ok ráðna stafi,
mjǫk stóra stafi,
mjǫk stinna stafi,
er fáði fimbulþulr
ok gerðu ginnregin
ok reist Hroftr rǫgna.
Rune tu troverai
lettere chiare,
lettere grandi,
lettere possenti,
che dipinse il terribile vate,
che crearono i supremi numi,
che incise Hroptr degli dèi.
Nota
  143 Óðinn með ásum,
en fyr alfum Dáinn,
Dvalinn ok dvergum fyrir,
Ásviðr jǫtnum fyrir,
ek reist sjalfr sumar.
Óðinn tra gli Æsir,
ma per gli Álfar Dáinn,
Dvalinn innanzi ai Dvergar,
Ásviðr innanzi ai giganti,
io stesso ne ho incisa qualcuna.
Nota
  144 Veistu hvé rísta skal?
Veistu hvé ráða skal?
Veistu hvé fáa skal?
Veistu hvé freista skal?
Veistu hvé biðja skal?
Veistu hvé blóta skal?
Veistu hvé senda skal?
Veistu hvé sóa skal?
Tu sai come incidere?
Tu sai come interpretare?
Tu sai come dipingere?
Tu sai come provare?
Tu sai come invocare?
Tu sai come sacrificare?
Tu sai come mandare?
Tu sai come immolare?
Nota
  145 Betra er óbeðit
en sé ofblótit,
ey sér til gildis gjǫf;
betra er ósent
en sé ofsóit.
Svá Þundr of reist
fyr þjóða rǫk,
þar hann upp of reis,
er hann aftr of kom.
È meglio non essere invocato
che [ricevere] troppi sacrifici:
un dono è sempre per un compenso.
È meglio essere senza offerte
che [ricevere] troppe immolazioni.
Così Þundr incise
prima della storia dei popoli;
poi egli si levò su
da dove era venuto.
Nota
         
    [Ljóðatal] [Dissertazione sui canti magici]  
Dissertazione sui canti magici. 146 Ljóð ek þau kann
er kannat þjóðans kona
ok mannskis mǫgr.
Hjalp heitir eitt,
en þat þér hjalpa mun
við sǫkum ok sorgum
ok sútum gǫrvǫllum.
Conosco incantesimi
che non conosce sposa di sovrano
né figlio d'uomo.
«Aiuto» si chiama il primo
ed a te darà aiuto
contro liti e angosce
e ogni tristezza.
Nota
  147 Þat kann ek annat
er þurfu ýta synir,
þeir er vilja læknar lifa.
Questo conosco per secondo:
di cosa necessitano i figli degli uomini,
se vogliono vivere da guaritori.
Nota
  148 Það kann ek þriðja:
ef mér verðr þǫrf mikil
hafts við mína heiftmǫgu,
eggjar ek deyfi
minna andskota,
bítat þeim vápn né velir.
Questo conosco per terzo:
se ho grande urgenza
di incatenare i miei nemici,
io spunto le lame
dei miei avversari:
non mordono più armi né bastoni.
 
  149 Þat kann ek it fjórða:
ef mér fyrðar bera
bǫnd að boglimum,
svá ek gel,
at ek ganga má,
sprettr mér af fótum fjǫturr,
en af hǫndum haft.
Questo conosco per quarto:
se uomini impongono
ceppi alle mie membra,
così io canto
che me ne possa andare:
la catena salta via dai piedi
e dalle mani il laccio.
Nota
  150 Þat kann ek it fimmta:
ef ek sé af fári skotinn
flein í folki vaða,
fýgra hann svá stinnt
at ek stǫðvigak,
ef ek hann sjónum of sék.
Questo conosco per quinto:
se io vedo scagliata dal nemico
la lancia volare nella mischia,
non vola quella con tale impeto
ch'io non possa fermarla
se solo la intercetti con lo sguardo.
 
  151 Þat kann ek it sétta:
ef mik særir þegn
á vrótum hrás viðar,
ok þann hal
er mik heifta kveðr,
þann eta mein heldr en mik.
Questo conosco per sesto:
se un guerriero mi ferisce
con radici di un albero verdeggiante,
quell'uomo
evoca da me furore:
ché il male divori lui e non me.
Nota
  152 Þat kann ek it sjaunda:
ef ek sé hávan loga
sal um sessmǫgum,
brennrat svá breitt,
at ek hánum bjargigak;
þann kann ek galdr at gala.
Questo conosco per settimo:
se vedo avvampare l'alta
sala intorno ai miei compagni di panca,
non brucia [quella] con tale ardore
ch'io non possa salvarla
con l'incantesimo che conosco, a cantarlo.
 
  153 Þat kann ek it átta,
er ǫllum er
nytsamligt at nema:
hvars hatr vex
með hildings sonum
þat má ek bæta brátt.
Questo conosco per ottavo,
che per tutti
è da cogliere con profitto:
dovunque sorge l'odio
tra i figli del sovrano.
questo subito io posso acquietare.
 
  154 Þat kann ek it níunda:
ef mik nauðr um stendr
at bjarga fari mínu á floti,
vind ek kyrri
vági á
ok svæfik allan sæ.
Questo conosco per nono,
se mi trovo in difficoltà
per salvare la mia nave sui flutti,
il vento io calmo
sulle onde
e addormento tutto il mare.
 
  155 Þat kann ek it tíunda:
ef ek sé túnriður
leika lofti á,
ek svá vinnk
at þær villar fara
sinna heimhama,
sinna heimhuga.
Questo conosco per decimo,
se io vedo «cavalcatrici dei recinti»
giocare nell'aria,
io posso fare in modo
che esse smarriscano il ritorno
ai loro corpi a casa,
ai loro spiriti a casa.
Nota
  156 Þat kann ek it ellifta:
ef ek skal til orrustu
leiða langvini,
und randir ek gel,
en þeir með ríki fara
heilir hildar til,
heilir hildi frá,
koma þeir heilir hvaðan.
Questo conosco per undicesimo:
se io devo in battaglia
condurre vecchi amici.
sotto gli scudi io canto
ed essi vanno vittoriosi
salvi alla mischia,
salvi dalla mischia:
dovunque salvi giungono.
 
  157 Þat kann ek it tolfta:
ef ek sé á tré uppi
váfa virgilná,
svá ek ríst
ok í rúnum fák
at sá gengr gumi
ok mælir við mik.
Questo conosco per dodicesimo:
se io vedo su un albero in alto
un impiccato oscillare,
in tal modo incido
e in rune dipingo
così che quell'uomo cammini
e parli con me.
 
  158 Þat kann ek it þrettánda:
ef ek skal þegn ungan
verpa vatni á,
munat hann falla,
þótt hann í folk komi:
hnígra sá halr fyr hjǫrum.
Questo conosco per tredicesimo:
se io un giovane guerriero
spruzzerò d'acqua,
egli non cadrà,
anche se venga nelle schiere:
non morirà quell'uomo di spada.
 
  159 Þat kann ek it fjǫgurtánda:
ef ek skal fyrða liði
telja tíva fyrir,
ása ok alfa
ek kann allra skil;
fár kann ósnotr svá.
Questo conosco per quattordicesimo:
se io devo alle genti umane
enumerare prima gli dèi,
degli Æsir e degli Álfar,
conosco l'ordine di tutti;
gli insavi non sanno così tanto.
 
  160 Þat kann ek it fimmtánda
er gól Þjóðrǿrir
dvergr fyr Dellings durum:
afl gól hann ásum,
en alfum frama,
hyggju Hroftatý.
Questo conosco per quindicesimo:
quel che cantò Þjóðrǿrir
il nano, dinanzi alle porte di Dellingr.
Cantò potenza agli Æsir
e agli Álfar coraggio,
saggezza a Hroptatýr.
Nota
  161 Þat kann ek it sextánda:
ef ek vil ins svinna mans
hafa geð allt ok gaman,
hugi ek hverfi
hvítarmri konu
ok sný ek hennar ǫllum sefa.
Questo conosco per sedicesimo:
se io voglia d'una accorta fanciulla
avere tutto il sentimento e il piacere,
l'animo io piego
della donna dalle candide braccia,
e distorco ogni suo pensiero.
 
  162 Þat kann ek it sjautjánda
at mik mun seint firrask
it manunga man.
Ljóða þessa
mun þú, Loddfáfnir,
lengi vanr vera;
þó sé þér góð, ef þú getr,
nýt ef þú nemr,
þǫrf ef þú þiggr.
Questo conosco per diciassettesimo:
che mai mi eviterà
la giovane fanciulla.
Di questi incantesimi
potrai tu, Loddfáfnir,
fare a lungo a meno;
tuttavia bene verrà a te se li accogli,
beneficio se li accetti,
giovamento se li ricevi.
Nota
 
  163 Þat kann ek it átjánda,
er ek æva kennik
mey né manns konu,
 allt er betra
er einn um kann;
þat fylgir ljóða lokum,
nema þeiri einni
er mik armi verr
eða mín systir sé.
Questo conosco per diciottesimo:
ciò che io mai insegnerò
a fanciulla né a sposa
(tutto è meglio
quando uno solo sa,
così arrivo alla fine dei miei detti),
se non, unica, a colei
che col braccio mi cinge
o è a me sorella.
Nota
         
Chiusa. 164 Nú eru Háva mál
kveðin Háva hǫllu í,
allþǫrf ýta sonum,
óþǫrf jǫtna sonum.
Heill sá, er kvað,
heill sá, er kann,
njóti sá, er nam,
heilir, þeirs hlýddu.
Ora ecco i canti di Hár
pronunciati nella sala di Hár,
molto utili ai figli degli uomini,
inutili ai figli dei giganti.
salute sia a chi li disse!
salute sia a chi li conosce!
utili siano a chi li ha appresi!
salute, a coloro che li ascoltarono!
Nota
         

NOTE

1 ― Questa prima strofa è citata da Snorri (Gylfaginning [2]). Tre dei quattro manoscritti snorriani omettono il terzo semiverso (1c); il Codex Trajectinus [T] è l'unico a riportare integralmente la citazione.Torna al testo

12 ― (a) Si segue qui il piccolo emendamento dell'edizione di Jónsson dall'originale er «è» a era «non è», che ha più senso nel contesto della strofa (Jónnson 1926).Torna al testo

13 ― (f) Gigantessa, figlia di Suttungr. Óðinn la sedusse per rubarle l'idromele della saggezza, v. infra [104-110]. Torna al testo

14 ― (c) Fjalarr e Galarr furono i due nani che uccisero Kvasir e dal suo sangue distillarono l'idromele della saggezza, che poi venne rubato da Óðinn, v. infra [104-110]. Torna al testo

22 ― (f) Anche qui, come in 12a, si segue l'emendamento dell'edizione di Jónsson dall'originale er «è» a era «non è», che ha più senso nel contesto della strofa (Jónnson 1926).Torna al testo

25 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto. Torna al testo

27 ― (f) L'idea ricorda irresistibilmente il detto latino præstat tacere et stultus haberi quam edicere et omne dubium removere «è meglio stare zitti e sembrare stupidi che parlare e togliere ogni dubbio».Torna al testo

36 ― (e) Taugreptan indica un tetto fatto di giunchiglia e cannicci intrecciati. Torna al testo

37 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto. Torna al testo

39 ― (e) Il manoscritto riporta semplicemente svági | at leið se laun ef þegi «non così | da sprezzare una ricompensa se ne riceva». Jónsson emenda in svági gløggvan «non così avaro...» (Jónsson 1926), ma questo non sembra accettabile dal contesto. Altri ritengono che la parola soppressa sia, al contrario, gjǫflan «liberale, munifico, generoso» (Evans 1986). Su questa linea alcuni pensano che la parola svági «non così» vada appunto scissa in svá «così» più un gi che verrebbe in questo caso interpretato come un'abbreviazione o un errore dello scriba per gjǫflan. Comunque sia, il senso della frase è sicuramente che non esiste uomo così elargitore di doni che si offenda se ne riceva uno. Torna al testo

51 ― (c) L'antica «settimana» norvegese era di cinque giorni; solo col Cristianesimo sarebbe stata adottata quella di sette (Leesthal 1939). Torna al testo

52-52 ― (d-e) «Mezzo pane» era espressione proverbiale per indicare piccola quantità (Leesthal 1939). «Coppa inclinata» è una coppa che, semivuota, va inclinata per potervi bere. Torna al testo

54 ― (f) L'originale ha er vel mart vito «coloro che molto sanno». Ma poiché la strofa non avrebbe molto senso (all'esortazione di essere moderati in saggezza è arduo far seguire un'affermazione per cui proprio i sapienti sarebbero gli uomini che vivono meglio), è stato proposto di emendare mart vito nel suo negativo mart vitut (Evans 1986). La frase verrebbe così ad avere un significato perfettamente contrario, anche se coerente con il contesto: «coloro che non molto sanno».Torna al testo

55 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto. Torna al testo

56 ― (a-c) Questi primi tre semiversi sono abbreviati nel manoscritto. Torna al testo

61 ― (e-f) Secondo Henry Adams Bellows, gli ultimi due semiversi sono stati interpolati successivamente nella strofa (Bellows 1923). Torna al testo

65 — Questa strofa è probabilmente mutila della prima metà. Alcuni curatori vi premettono tre semiversi tratti da manoscritti pià recenti, anche se la loro autenticità è dubbia. Essi suonano: «Un uomo deve essere guardingo | e prudente molto, | e con giudizio fidarsi dell'amico» (Bellows 1923). Torna al testo

70 ― (b) Il manoscritto ha ok sæl lifðom, privo di senso. Fu lo stesso Rasmus Rask, agli esordi degli studi germanistici, a suggerire di emendarlo in en sé ólifðum, poi adottato in tutte le traduzioni (Rask 1818). ― (d-f) Olga Gogala di Leesthal traduce: «divampar vidi il fuoco presso il ricco | mentre la Morte stava alla sua porta» (Leesthal 1939). Ha indubbiamente più senso ma non sembra questo essere il significato della frase. Torna al testo

71 ― (e) È interessante notare che all' autore del componimento era ancora familiare l'uso di bruciare i cadaveri. Questo può aiutarci a collocare la composizione di questa parte dell'Hávamál: l'uso della cremazione fu infatti abbandonato con l'introduzione del Cristianesimo, quindi verso la fine del IX secolo. (Leesthal 1939) Torna al testo

73 ― Alcuni studiosi ritengono che questa strofa, che poca attinenza ha con le precedenti o le successive, sia il risultato di un'interpolazione posteriore (Bellows 1923). Torna al testo

74 ― (c) «Corti sono i pennoni delle navi». Non è ben chiaro il senso di questo semiverso nell'ambito della strofa. Molti studiosi ritengono che qui, come in altre luoghi dell'Hávamál, il compilatore o il copista abbia inserito dei versi isolati per cui non si trovava una collocazione migliore (Bellows 1923). A nostro avviso, tuttavia, il non comprendere il senso di certi passaggi non giustifica necessariamente lo smembramento delle strofe: certune associazioni di idee, o particolari della vita pratica, che sembrano non avere senso per noi, non significa che non ne avessero per coloro a cui il poema fosse destinato. Torna al testo

78 ― (b) Fitjungr, che qui è fornito come nome proprio, vuol dire in realtà «grassone, pancione, ciccione» (da fita «grasso»). Si tratta del crapulone per antonomasia, a cui non fanno difetto le ricchezze e l'appetito. Torna al testo

80 ― Bellows non ha dubbi sul fatto che questa strofa sia fuori posto; in particolare, il riferimento alla magia runica suggerirebbe che originariamente la strofa dovesse essere posta in qualche lista di canti magici come ad esempio il Ljóðatal [147-165]. Inoltre la struttura metrica di questa strofa presenterebbe tali irregolarità da far pensare che siano andati perduti dei versi o che dei versi siano stati interpolati (Bellows 1923). Il manoscritto non presenta tuttavia alcuna lacuna. A nostro parere, il particolare metro della strofa (una variante del «metro strofico» [ljóðaháttr] costituita da un verso «lungo» seguito da una lunga serie di versi «pieni») permette di confrontarla con le strofe [142-143], costruite allo stesso modo. Poiché tutt'e tre le strofe trattano di sapienza runica, ci sembra logico asserire che possano provenire da una medesima composizione, oggi perduta. Torna al testo

81-90 ― Questa serie di strofe non segue più il «metro strofico» [ljóðaháttr] caratteristico dell'Hávamál. Più esattamente, nelle strofe [81-83] abbiamo il raro «metro delle canzoni» [málaháttr] (una variante del «metro epico» [fornyrðislag]), la strofa [84] ritorna al «metro strofico», le strofe [85-87] – che si configurano come una sorta di elenco di cose da cui è necessario diffidare – sono in «metro epico» [fornyrðislag], la strofa [88] ritorna ancora una volta al «metro strofico», le strofe [89-90] sono di nuovo nel «metro delle canzoni». Dopodiché il poema ritorna al «metro strofico». Tali caotici mutamenti del metro indicano senza dubbio la presenza di strofe e componimenti in origine indipendenti, interpolati nel nostro poema. Poiché alcune di queste strofe consigliano perlopiù a diffidare delle donne, è presumibile che siano state inserite in questo punto dell'Hávamál come introduzione alla susseguente vicenda della mancata seduzione della figlia di Billingr da parte di Óðinn [96-102]. Torna al testo

83 ― (d) In norreno en mæki saurgan è letteralmente «una spada sporca». S'intende naturalmente una spada a lungo provata in battaglia e che è stata ripetutamente insozzata di sangue (da cui la nostra traduzione). Si tratta dunque di una buona spada, ragione per cui nel testo se ne consiglia l'acquisto. Torna al testo

84 ― (d-f) Questi tre semiversi sono citati nella Fóstbrǿðra saga, la «Saga dei fratelli adottivi». Torna al testo

87 ― Questa strofa è probabilmente incompleta. Alcuni editori aggiungono questi quattro semiversi tratti da tarde redazioni dell'Hávamál: «del cielo chiaro | di una folla che ride | della ciotola di un cane | del dolore di una sgualdrina».Torna al testo

96-102 ― Dopo aver trattato della falsità delle donne, in queste strofe la si illustra con un esempio pratico, attraverso il racconto della mancata seduzione della figlia di Billingr da parte di Óðinn.Torna al testo

100 ― (e) I «bastoni impugnati» [bornum viði] sono probabilmente quelli delle torce, da cui si evince il senso dei «fuochi di luce» [brennandum ljósum] del verso precedente, da noi tradotto – un po' liberamente – con «torce avvampanti». ― (f) Vílstingr, letteralmente «via della miseria, della malora, dello scorno». Torna al testo

102 ― Rasmus Rask aggiunge all'inizio di questa strofa tre semiversi tratti da un tardo manoscritto, che suonano: «poche sono così buone | da non essere mai false | sì da ingannare la mente dell'uomo». Questi tre semiversi e la prima parte della strofa (semiversi [102a-102c] formano, nell'edizione di Rask, un'intera strofa; la seconda parte della strofa (semiversi [102d-102i] formano una strofa a parte. (Rask 1818)Torna al testo

103 ― Questa strofa, che nulla ha a che fare con la vicenda della figlia di Billingr e quella di Gunnlǫð, è interposta tra le due apparentemente senza alcuna ragione logica.Torna al testo

104-110 ― In queste strofe si allude alla storia della seduzione (questa volta condotta a buon fine) di Gunnlǫð da parte di Óðinn e del furto dell'idromele della poesia. La vicenda, narrata da Snorri in Skáldskaparmál [2], è la seguente: dopo aver ucciso il sapiente Kvasir, i nani Fjalarr e Galarr, scolarono il suo sangue in un vaso chiamato Óðrørir e in due coppe, che poi dovettero consegnare al gigante Suttungr come guidrigildo per l'uccisione del padre di questi. Suttungr portò il vaso e le coppe nella sua caverna e vi mise a guardia la figlia Gunnlǫð. Óðinn, che intendeva impadronirsi del magico idromele, giunse nei pressi della casa di Suttungr, sotto il falso nome di Bǫlverkr «colui che opera il male». Dopo aver forato la roccia con un trapano chiamato Rati, trasformatosi in serpente, Óðinn passò attraverso il buco e giunse presso Gunnlǫð. Dopo essere giaciuto con lei per tre giorni e tre notti, Óðinn ricevette da lei il permesso di bere tre sorsi del magico idromele ma, presi la coppa e i due vasi, in tre sorsi li vuotò. Trasformatosi in aquila, Óðinn fuggì poi verso l'Ásgarðr ma, lungo il viaggio, scontrandosi con Suttungr, non poté fare a meno di versare sulla terra un po' di idromele. Ed è così che l'arte poetica fu donata agli uomini.Torna al testo

106 ― (e) «Vie degli jǫtnar» [jǫtna vegir] è una kenning per indicare le rocce. Ricordiamo che Óðinn, trasformato in serpente, si era infilato nel foro lasciato dal trapano nella parete della roccia: mentre scivolava nel pertugio, egli aveva roccia sopra e sotto di sé. Torna al testo

107 ― (a) Vel keypts litar. Nel suo importante studio sull'Hávamál, David Evans ritiene che il manoscritto qui sia corrotto e traduce litar (litr è letteralmente «colore» ma, per estensione, «aspetto, sembiante») come qualcosa che abbia a che fare con l'idromele della poesia. Secondo l'autore, il resto del verso si riferirebbe appunto ai benefici del possesso di questo vélkeypts mjǫðr «idromele preso con l'inganno» (Evans 1986). A nostro parere, non c'era tuttavia bisogno di sviare così tanto il senso della strofa, che così com'è si riferisce con sufficiente chiarezza alla seduzione di Gunnlǫð da parte di Óðinn, che gli permise di rubare il magico idromele custodito nel vaso Óðrørir. ― (f) Il senso letterale del verso á alda vés jarðar è «al santuario delle stirpi della terra», intendendo con ogni probabilità che il magico idromele, rubato da Óðinn a Suttungr, cadde poi sulla terra di modo che anche presso gli uomini è oggi diffusa l'arte poetica. Questo è il mito narrato da Snorri in Skáldskaparmál [2]. Essendo il verso un po' lambiccato, gli studiosi hanno creduto di individuarvi delle corruttele. Jónnson ha proposto di emendare in á vé alda jaðars «al santuario del signore delle stirpi», intendendo con questo che il magico idromele sarebbe stato poi trasportato nell'Ásgarðr (Jónsson 1926). Questo «santuario del signore delle stirpi» sarebbe, nell'interpretazione di Jónnson , una doppia kenning dove il «signore delle stirpi» è appunto Óðinn e il suo santuario l'Ásgarðr. A parte il fatto che è sempre preferibile riferirsi al testo non emendato piuttosto che modificarlo per adattarlo alle nostre interpretazioni, ma il mito del furto dell'idromele da parte di Óðinn è appunto la rivelazione delle origini della poesia, dono degli dèi e strumento di sapienza soprannaturale.Torna al testo

111-137 ― Questo gruppo di strofe comprende una composizione unitaria, a cui si dà generalmente il titolo di Loddfáfnismál, «Discorso di Loddfáfnir», poi confluito nell'Hávamál. Si configura come una serie di consigli che Hár («alto, eccelso», epiteto di Óðinn) rivolge a un certo Loddfáfnir, riferiti da qualcuno che afferma di averli uditi nelle «sale di Hár». Il nome Loddfáfnir non compare altrove, non sappiamo quindi dire chi fosse o di quali vicende fosse stato il protagonista. Alcuni interpreti ritengono che Loddfáfnir sia stato uno scaldo itinerante, l'effettivo autore della composizione, nella quale riferisce delle massime sapienziali che afferma di avere udito dallo stesso Hár (ipse dixit). Secondo Karl Müllenhoff, infatti, il titolo Hávamál in origine era dato al solo Loddfáfnismál (Müllenhoff 1908). Il contenuto delle strofe del Loddfáfnismál è in effetti assai assai vicino a quello delle prime strofe dell'Hávamál. La strofa [111] è probabilmente corrotta ma, nonostante gli sforzi fatti al riguardo, è arduo individuare ed emendare le corruttele.Torna al testo

112 ― La lunga formula che introduce la maggior parte dei versi del Loddfáfnismál nei manoscritti viene in seguito riferita in modo abbreviato. Torna al testo

115 ― (g) Eyrarúna vuol dire letteralmente «mormorare all'orecchio»; da qui, nel linguaggio poetico eyrarúno è colei che mormora in segreto all'orecchio di qualcuno, una confidente, intima amica, amante. Questa parola compare qui e in Vǫluspá [39] dove ha addirittura il significato di «moglie». Torna al testo

114 ― (f) Si confronti con la scena, presente nel poema anglosassone Deor, dove è detto di Mæðhild «un doloroso amore la privava di tutto il sonno» [þæt him seo sorglufu slæp ealle binom]. Torna al testo

119 ― (g) A quanto pare, nel manoscritto originale, i versi [119h-119j] si trovavano, ripetuti, in fondo alla strofa [44]. Da qui, Barend Sijmons deduceva che l'autore del Loddfáfnismál era anche quello del Gestaþáttr (Sijmons 1906). L'ipotesi è forse un po' eccessiva: nulla impedisce che, nella rielaborazione del materiale del Hávamál, gli stessi versi siano stati erroneamente ripetuti in due punti diversi. Nelle edizioni critiche, questi versi sono espuntati dalla strofa [44] (rimane il semiverso [44f] simile, ma non identico, al [119g]).Torna al testo

120 ― (g) Nem liknargaldr «impara incantesimi benefici» è la traduzione letterale (galdr è infatti il canto magico). Poiché questa chiusa non è molto coerente col resto della strofa, Sijmons gioca sull'analogia tra magia e fascino e intende: «impara a renderti amabile» (Sijmons 1906). L'interpretazione ha il pregio di accordarsi al significato della strofa, ma il difetto di essere eccessivamente libera.Torna al testo

122 ― (g) Ósvinna apa, letteralmente «insavie scimmie» ma, in senso traslato, «idioti, folli». Il norreno api (cfr.anglosassone apa, inglese ape «scimmia») ha entrambi i significati; questo vocabolo non si trova nella poesia scaldica, né nella prosa popolare, ma si riscontra unicamente nella letteratura religiosa e sapienziale. Torna al testo

124 ― (a) Sifjum er þá blandat. Sif significa «relazione, parentela», in questo caso sta per «amicizia»; blanda è «mescolare, scambiare». Si intende qui una relazione di amicizia che è quasi un vincolo di parentela. Si potrebbe forse riferire alla «fratellanza di sangue», con la quale si mescolava il sangue in una solenne cerimonia (Leesthal 1939). Torna al testo

127 ― (f) Nel testo kveðu þ' bǫlvi at. Nella sua edizione dell'Hávamál, Bugge espande la contrazione «þ'» in þér «a te» nel testo («afferma sia un'offesa a te»), ma in appendice propone una lettura alternativa þat «questo» («afferma sia questo un'offesa») (Bugge 1867). Qualunque sia la soluzione corretta, non inficia il senso della traduzione: «protesta ad alta voce per l'offesa che ricevi e non lasciar correre per viltà o debolezza». Torna al testo

129 ― (g) Gjalti glíkir è letteralmente «somiglianti a cinghiali». In genere viene inteso come «pazzi di terrore», nel senso dell'espressione norrena svín galinn «pazzo come un porco». Si è anche pensato, con scarsa verosimiglianza, a una possibile influenza dell'episodio evangelico dei dèmoni che entrano in un branco di porci (Euaŋgélion katà Matthaîon [8]). È anche possibile che questo semiverso e il successivo siano stati interpolati da un differente poema (Bellows 1923). ― (i) Síðr þitt of heilli halir. Jónsson suggerisce che þitt qui possa avere più senso come pronome accusativo þik «te» (Jónsson 1926). Evans emenda in þik (Evans 1986). Anche se abbiamo lasciato il testo norreno originale, in traduzione abbiamo tenuto conto dei suggerimenti. Torna al testo

131 ― (f) Ok eigi ofváran. I due semiversi suonano letteralmente «prudente io ti consiglio di essere | e non troppo prudente», ma il passo suona meglio leggendo come fosse en «ma» invece di ok «e». Nonostante le argomentazioni di molti studiosi, non c'è tuttavia necessariamente da pensare che il testo sia corrotto (cfr. nota 70b). ― (f-j) È probabile che questi quattro semiversi siano stati interpolati da un differente poema (Bellows 1923). Torna al testo

133 ― Molti editori eliminano gli ultimi tre semiversi [133d-133f] di questa strofa come spuri, ponendo i primi tre semiversi [133a-133c] alla fine della strofa [132]. Altri, dopo aver spostato i semiversi [133d-133f] in coda alla strofa [132], li sostituiscono inserendo tre semiversi tratti da un tardo manoscritto e che suonano: «male e bene | i figli degli uomini | portano sempre mescolati in petto». (Bellows 1923). Torna al testo

134-134 ― (h-l) È possibile che gli ultimi cinque semiversi della strofa siano stati interpolati da un differente poema (il parallelismo tra gli ultimi tre indica la comune origine). Secondo Bellows, la loro interpolazione in questa strofa dipende dall'associazione tra la pelle grinzosa delle persone anziane e gli otri di cuoio appesi nelle antiche case di campagna vichinghe (Bellows 1923). ― (l) Il fermento che si formava nello stomaco dei vitelli veniva adoperato per la preparazione del latte rappreso e del formaggio, dopo essere stato lavato e appeso ad asciugare e affumicare. Vílmǫgr è lo stomaco che contiene appunto il vil, termine usato ancora oggi in Islanda per designare questo speciale fermento del latte (Sijmons 1906 | Leesthal 1939). Torna al testo

137 ― Questa strofa, lista di strani rimedi magici, è una delle più ardue e di difficile interpretazione. Secondo alcuni studiosi sarebbe stata probabilmente interpolata, ma – vista le oggettive difficoltà a penetrare le antiche pratiche magiche di uso quotidiano – è assai più probabile che siano gli studiosi stessi a non riuscire a capirci molto! Diamo nelle note seguenti qualche spiegazione riguardo ai versi più ardui. ― (f-g) «Invoca per te la forza della terra! | perché la terra serve contro la birra». Secondo la spiegazione di Olga Gogala di Leesthal, questa coppia di semiversi farebbe riferimento al fatto che la birra che veniva distillata in casa conteneva spesso dei tossici, in quanto non si sapeva ben ripulire il grano dalle erbacce; si provvedeva dunque a mescolare la terra alla birra per neutralizzarne le eventuali qualità nocive (Leesthal 1939). È forse una spiegazione troppo pratica per un poema di argomento magico. È invece possibile, a nostro parere, che si faccia riferimento all'uso vichingo di versare in terra il primo sorso di birra in modo da nutrire gli spiriti del luogo [landvættir] affinché potesse esserci armonia tra le forze soprannaturali che vigilavano sul territorio e gli uomini che vi dimoravano. ― (i) Tra i rimedi rimedi erboristici, la quercia [fik] e i suoi prodotti erano consigliati per le irregolarità intestinali (abbinde è la dissenteria); fino a tempi molto recenti si dava da bere ai bambini caffè di ghianda come astringente (Leesthal 1939). ― (j) Reichborn-Kjennerud ricorda al riguardo che in Norvegia e in Svezia la spiga di grano veniva utilizzata contro il mal di denti e altre malattie (Reichborn-Kjennerud 1923 | Leesthal 1939). ― (k) Hǫll við hýrógi. Il significato letterale è «la sala [agisce] contro le liti in famiglia». Anche se è vero che i litigi familiari si svolgono nel chiuso delle sale, rimane difficile cogliere il senso della frase. Molti autori hanno proposte varie interpretazioni. Secondo Sijmons la parola hǫll «sala» andrebbe emendata in havll, nome nordico del sambuco [Sambucus nigra] (Sijmons 1906). Questa è la soluzione comunemente accettata dai traduttori. Si veda ad esempio la traduzione inglese di Henry Adams Bellows «la segale cura i dissidi» [rye cures rupture] (Bellows 1923). In Italia, Olga Gogala di Leesthal traduce «il sambuco [sana] i dissidi familiari» e sana anche, aggiunge in nota, tutti i malanni che ne possono derivare, come l'itterizia, malattia associata alla collera e all'inquietudine (Leesthal 1939). Anche Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono «il sambuco [si porta via] le liti familiari» (Scardigli 1982). ― (m) Beiti við bitsóttum. Altra frase di ardua interpretazione. La parola bíta in norreno vuol dire «mordere» (bit è «morso»). Bitsótt è la «malattia del morso», probabilmente una malattia contagiosa trasmessa attraverso il morso di un animale. Traduciamo per brevità «rabbia», ma si tratta di una licenza. Quello che sfugge è il significato della prima parola, beiti, anch'essa legata all'area semantica del mordere. Rask. Sijmons la riferisce al lombrico [Lumbricus terrestris], in quanto in norreno beit-fiskr indicava l'esca utilizzata nella pesca, tanto che – sempre secondo Sijmons – ancora ai primi del Novecento in alcuni dialetti norvegesi il lombrico sarebbe stato chiamato beite o bietel (Sijmons 1906). Da qui la traduzione di Olga Gogala di Leesthal che rende questo semiverso con «serve il lombrico per ferite e morsi», ricordando in nota come il lombrico venisse adoperato in medicina fin dai tempi remoti (Leesthal 1939). Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono «l'allume [porta via] le malattie da morsi» (Scardigli 1982). Ci sembra che tali traduzioni siano eccessivamente cervellotiche, tanto più che il significato principale di beiti è «pascolo».Già ai primi dell'Ottocento, la traduzione svedese di Rasmus Rask riportava «il pascolo cura le malattie dei morsi» [bete mot bitsjuka] (pur conservando l'ambiguità, perché in svedese bete vuol dire anche «esca») (Rask 1818). Su questa linea la traduzione di Henry Bellows «l'erba cura la scabbia» [grass cures the scab] (ma la scabbia si trasmette per contatto, non con i morsi) (Bellows 1923). Secondo il monumentale dizionario antico islandese di Richard Cleasby e Gudbrand Vigfússon, la parola beiti, oltre ad avere il significato generale di «pascolo», indica pure l'erica [Erica vulgaris] (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Ci sembra che sia questa la soluzione più semplice ed elegante. ― (o) Flóð in norreno significa «inondazione, diluvio, alluvione»; in poesia la parola può anche indicare un fiume o un mare. Di qui le traduzioni letterali, come quella inglese di Bellows «il campo assorbe gli allagamenti» [the field absorbs the flood] (Bellows 1923). Più sottile quella italiana di Olga Gogala di Leesthal «il terreno gli umori assorbe» (Leesthal 1939). Interessante la traduzione di Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli che insinua la presenza dell'elemento magico: «la terra porta via il flusso maligno»  (Scardigli 1982). Torna al testo

138-145 ― Questa sezione è intitolata Rúnatal «Dissertazione sulle rune». Si allude al mito di come Óðinn sacrificò sé stesso per impossessarsi del potere delle rune, racconto che purtroppo non è riferito da altri documenti e del quale l'Hávamál rimane l'unica fonte. Questa la ragione per cui l'intero passo rimane oscuro e di ardua interpretazione. Se questo non bastasse, il brano sembra essere corrotto: le strofe [138 | 139 | 141] seguono la vicenda del sacrificio di Óðinn, mentre la [140] sembra provenga dalla sezione relativa alla seduzione di Gunnlǫð e al furto dell'idromele della poesia [104-110]. Le strofe dalla [142] alla [145] provengono da fonti diverse e sembrano essere state inserite qui semplicemente perché trattano lo stesso argomento, la conoscenza delle rune e il potere che ne deriva.Torna al testo

138 ― (g-i) Questi tre semiversi sono anche presenti nello Svipdagsmál [30]. Torna al testo

140 ― Questa strofa, come detto, sembra provenga dalla sezione relativa alla seduzione di Gunnlǫð [104-110], come si evince dal riferimento all'idromele della poesia contenuto nel vaso Óðrørir. Come sappiamo da Snorri (Gylfaginning [6]), Bestla fu la madre di Óðinn, Bǫlþorn ne fu il nonno. Nulla tuttavia sappiamo di questo altro figlio di Bǫlþorn che, stando a quanto qui è detto, avrebbe insegnato a Óðinn nove «terribili canti magici» [fimbulljóð]. Alcuni interpreti ritengono si tratti di Mímir che, in tal caso, diverrebbe zio di Óðinn. È un'ipotesi elegante ma, ahimé, rimane soltanto un'ipotesi.Torna al testo

142-143 ― Queste due strofe vengono probabilmente da un medesimo poema di argomento magico-runico, tanto che in alcune edizioni sono accorpate insieme in una strofa unica. Alcuni traduttori, seguendo il consiglio di Bugge, traspongono i semiversi della strofa [142] in quest'ordine: a, e, f, b, c, d, g (Bugge 1867): ne risulta un periodare più scorrevole, ma è dubbio che sia stata questa l'intenzione del poeta (è noto quanto la poesia scaldica fosse involuta e complessa). Come già detto, il «metro strofico» qui utilizzato, presenta le medesimi varianti della strofa [80], anch'essa di argomento runico, così che è possibile che le tre strofe provengano da uno stesso poema. Torna al testo

142 ― (e) Il «terribile vate» [fimbulþulr] di cui qui si parla è evidentemente lo stesso Óðinn. Si noti che le rune, una volta incise nel legno, venivano dipinte di rosso. Torna al testo

143 ― I nomi Dáinn e Dvalinn compaiono entrambi come nomi di nani in Vǫluspá [14]. Il fatto che qui Dáinn venga detto un elfo potrebbe essere spiegato come la possibilità di una confusione tra i vari esseri che partecipavano alla sfera del soprannaturale: sappiamo infatti che gli elfi scuri [Døkkálfar] dimoravano sottoterra ed erano spesso confusi con i nani (così come in molti testi nani e troll e giganti sembrano confondersi gli uni con gli altri, nella vaga immagine di esseri primordiali legati al mondo litico). In ogni caso, Dáinn è l'unico nome di elfo che conosciamo, per quanto sia anche un nome di nano. Inoltre, i nomi Dáinn e Dvalinn compaiono insieme anche nel Grímnismál [33], anche se come nomi di due dei quattro cervi che rodono le foglie del frassino Yggdrasill. Del gigante Ásviðr «tutto saggio» non si hanno altre ricorrenze nella letteratura. Torna al testo

144 ― Questa strofa, che utilizza il «metro delle canzoni» [málaháttr], è un'interpolazione da una fonte ancora diversa. Nel manoscritto la frase «sai tu come» [veistu hvé] è abbreviata. Torna al testo

145 ― Anche questa strofa è problematica. Si ritiene che i semiversi a-e e i semiversi f-i appartenessero in origine a due strofe diverse: Bugge pensa che questi ultimi provengano dalla fine della strofa [143] (Bugge 1867). ― (f) Þundr, epiteto di Óðinn. Torna al testo

146-163 ― Questa sezione è intitolata Ljóðatal, «dissertazione sui canti magici». Óðinn parla di diciotto dei potenti canti magici che egli conosce, dei quali spiega le proprietà, pur non enunciando i canti stessi. L'enumerazione dei canti (primo, secondo, terzo, etc.) viene data nel testo in numeri romani. Torna al testo

147 ― (c) Nell'edizione tradotta da Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli si legge «di che cosa i figli degli uomini abbiano bisogno | se vogliono vivere da mendici» (Scardigli 1982). È sicuramente una svista: la parola corretta non è «mendici» ma «medici». È infatti quest'ultimo il significato del norreno læknar. Anche se val forse la pena di sottolineare che dall'anglosassone læce «guaritore» è derivata, in inglese moderno, la parola leech «sanguisuga» (anche in senso figurato), proprio grazie al largo impiego che la medicina antica faceva di questo animaletto per praticare salassi e simili. Torna al testo

149 ― Questa strofa riguardante la magica liberazione di un prigioniero da ceppi e catene, ricorda una scena narrata dal Venerabile Beda e riguardante il nortumbriano Imma il quale, catturato dopo la battaglia di Trent (679), non poté essere legato in alcun modo in quanto corde e catene si scioglievano magicamente e cadevano a terra. La ragione di questo fatto era che suo fratello Tunna, avendo creduto che Imma fosse morto in battaglia, aveva fatto dire molte messe per liberare la sua anima: poiché Imma era vivo, quelle messe avevano invece l'effetto di liberarlo fisicamente dai ceppi. (Historia ecclesiastica Anglorum [IV: 22]) Torna al testo

151 ― (c) Á rotom rás viðar «con radici di un albero verdeggiante». Semiverso di difficile interpretazione: difficile dire quale sia il senso di ferire un uomo con la radice di un albero verde (si potrebbe ad esempio pensare a quanto narrato nella Grettis saga, in cui si causa la morte del protagonista incidendo rune su una radice che gli era stata mandata). Effettivamente è all'opera qualche tipo di arte magica, visto che Óðinn si dice in grado di ritorcere la fattura al nemico. Alcuni traduttori hanno proposto di emendare la problematica parola rás (qui interpretata «verdeggiante») con rams «forte», ma questo non riduce le perplessità. Torna al testo

155 ― (b) «Cavalcatrici dei recinti» [túnriður] è una kenning per «streghe». Torna al testo

160 ― Secondo l'opinione di Müllenhoff, questa strofa sarebbe stata la conclusione originale dell'Hávamál e la frase «un quindicesimo» sarebbe stata aggiunta soltanto quando la strofa finì per essere inserita nella sezione dei canti magici (Müllenhoff 1908). Non è molto chiaro, tuttavia, su quali basi si possa sostenere tale ipotesi: non ci sembra che questa strofa abbia qualcosa di particolarmente significativo da giustificare tale asserzione. ― (b) Þjóðrǫrir non è menzionato altrove: non sappiamo chi fosse. ― (f) Hroptatýr è epiteto di Óðinn. Torna al testo

162 ― Questa strofa è il risultato della giustapposizione di due strofe differenti. I primi tre semiversi di questa strofa (a-c) sono infatti quanto resta di una strofa originariamente indipendente, che è stata poi giustapposta alla strofa successiva (qui formata dai semiversi d-i). Molte edizioni le registrano infatti come due strofe differenti, la prima delle quali lacunosa. I tentativi di completare i versi mancanti non hanno dato risultati convincenti. Il richiamo a Loddfáfnir nella seconda parte della strofa fa capire che questa apparteneva in origine alla sezione del Loddfáfnismál. Torna al testo

163 ― (g-i) Cioè «se non, unica, a colei | che col braccio mi cinge | oppure è a me sorella». Chi è questa donna che viene detta essere l'«unica» [einni] confidente di Óðinn per quanto riguarda le segrete arti magiche del dio? Alcuni interpreti intendono questo passo nel senso che, in qualche antica versione del mito nordico, la sposa di Óðinn fosse anche sua sorella (a volte con l'esplicito intento di «nobilitare» il mito nordico tracciando un parallelo classico con Iuppiter, la cui sposa Iuno era detta et soror et coniunx (Æneis [I: 47])). Al contrario, nell'Hávamál i due attributi sono posti tra loro in una sorta di opposizione, in cui il secondo è introdotto dalla congiunzione eða «o». Il tono della strofa sembra essere generale: non pare che Óðinn si riferisca a qualcuno in particolare. Il senso è probabilmente: «non racconterei queste cose a nessun altro, tranne forse, unica persona, a mia moglie od a mia sorella». Torna al testo

164 ― La chiusa dell'Hávamál viene di nuovo dal Loddfáfnismál. È evidente che è slittata alla fine del poema a causa dell'inserzione del Rúnatal e del Ljóðatal. Vari traduttori tendono a rimetterla «a posto», dopo la strofa [137], così da concludere la sezione iniziata con la strofa [111] (Müllenhoff 1908 | Bellows 1923). Torna al testo

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Archivio: Biblioteca - Guglielmo da Baskerville
Sezione: Fonti - Nabū-kudurri-uṣur
Area: Germanica - Brynhilldr
Traduzione e note della Redazione Bifröst.
Creazione pagina: 14.08.2005
Ultima modifica: 29.11.2014
 
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