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LIBER PRIMUS |
LIBRO PRIMO |
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Proportio operis |
Contenuto dell'opera |
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a |
Principum Regni Bohemiæ, ipſorumque Regum nomina, ac mox fa荒a illustria
commemoraturo, jam inde à principio repetendum videtur de tu Bohemiæ, ejuſ dotibus, deque incolarum moribus atque origine, & ad quem modũ Bohemi
reipublicæ præfuerint, priuſquam bi aut Principes aut Reges adſciſcerent.
Nimirum ita magis plana apertaque erunt omnia, quæ deinceps de illis ips Regibus prodituri ſumus. |
Richiamerò alla memoria i nomi dei knížata
e degli stessi re, e subito
dopo i fatti più illustri del regno di Boemia. Dal principio ricapitolerò su dove si trovi la Boemia, sulle sue ricchezze, sui costumi e sulle origini dei suoi
abitanti; in qual modo i Čechové si governarono prima ancora di eleggere i loro
knížata e re. Così certamente saranno più semplici e chiare le notizie che
in seguito produrremo su quegli stessi sovrani.
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a |
Nam val inde statim argumentum decerpere licet, quantum
illi ip Principes, vel Reges magnitudine animi viribuſque excelluerint: quòd
quum valentiſmis atque bellicoſmis, & per diſcordiam morum, atque linguæ,
inimiciſmis interje荒i effent nationibus, nihilominus tamen regionem à
majoribus fuis partam atque reli荒am non ſolum perpetuo incolumem retinuerint,
ſed quod eandem etiam finitimis præterea trophæis ac triumphis exornatam, multarumque
provinciarum adau荒am, ad posteros ſuos velut per manus tranſmiſerint. |
Quindi conviene subito affrontare l'argomento di quanto questi stessi
knížata o re si siano
distinti per grandezza d'animo e valore. Pur essendo appartenuti a genti assai
valorose e battagliere, nemiche per contrasto di costumi e di lingua, nondimeno
non solo riuscirono a mantenere per sempre unita quella terra divisa e
abbandonata dai loro antenati, ma per di più, la consegnarono per mano ai loro
successori, adornata di trofei e di gloria, e accresciuta di [nuove] province.
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a |
Idque eo potiſmum tempore, quo Germani Cæſaribus, Pannones Regibus, Poloni qua
Principibus, qua Regibus, (ut cum aliàs maximè) florebant. Sed ista ſuis locis
tempestivius narrabuntur. Nunc quod ad tum, fineſque Bohemiæ attinet, dicemus. |
E ciò soprattutto nel tempo in cui i Germani eccellevano di cesari, i Pannoni di re,
i Poloni tanto di duchi quanto di re (come sarebbe accaduto soprattutto in seguito).
Ma su tali cose narreremo a suo tempo. Ora diremo ciò che attiene al
sito e ai confini della Boemia. |
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Situs Bohemus |
Il sito boemo |
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b |
In Germania ta est Bohemia, ea fines ab ortu Solis ad Marcomannos & Quados, ab
occaſu ad Noricos protendit. Maridionalem ejus plagam Pannonia ſuperior, nunc
Austria di荒a, occupat: cut Saxonia & Miſnia, Septentrionalem. Univerſam
Hercynia ſylva perpetuo ambitu cingit, clauditque circum undique ad Amphitheatri
faciem. Unde æqua ei fere longitudo atque latitudo, atque utraque paulò amplius
ducentis millibus paſſuum extenditur. |
La Boemia è situata in Germania. Essa protende i suoi confini a oriente verso i
Marcomanni e i Quadi, a occidente verso il Norico. La Pannonia Superior, ora detta
Austria, ne occupa la zona meridionale, mentre la Sassonia e la regione di Míšeň
[ne occupano] la settentrionale. La Hercynia silva la cinge tutta in un giro
ininterrotto, circondandola a guisa d'anfiteatro. Per cui,
quasi uguale in lunghezza e larghezza, [la Boemia] si estende da entrambe le
parti per poco più di duecentomila passi. |
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Bohemia regiones XII |
Le dodici regioni boeme |
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c |
Carolus Bohemiæ Rex, qui deinde imperio etiam orbis præfuit, in regiones illam
duodecim deſcript, quarum uni duntaxat vocabulum à flumine Vultavia, quod
Pragam interfluit, indidit: reliquas undecim ab oppidis cognominavit. Sed nulla
eorum adeò aſpera prolatu habentur, ut ni Bohemus t, aut ſermonis Bohemi
gnarus, ægrè illa alio ore enunciaverit. Inter oppida Bohemiæ ingniora
numerantur, Marcomanniam verſus, quæ hodiæ Moravia appellatur. Chrudima,
Hradecium Reginæ, Pardubicium, Lytomiſum. |
Karel, re di Boemia – che in seguito regnò anche sull'impero universale – la
divise in dodici regioni, a una sola delle quali impose il nome del fiume Vltava,
che bagna Praha; le altre undici le nominò dai loro villaggi. Ma
nessuna di esse è ritenuta così aspra a pronunciarsi, tanto che a stento
riuscirai a esprimerla se non sei boemo,
o esperto di lingua boema. Tra i
villaggi della Boemia vengono annoverati come i più importanti quelli verso la Marcomannia, oggi
detta Moravia: Chrudim, Hradec Králové, Pardubice e
Litomyšl. |
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Vrbes Bohemia |
Le città della Boemia |
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d |
Inde à limite Noricorum, quos Bavaros cognominant, Glatovia, Domezlicium, Miſa, Tachovia, eminent. Ab eo verò latere, quod ad Austriam
ſpe荒at, locum primum
obtinet Buduicium Crumlovia, Trebonia, Hradecium Henrici, Sicut à Miſnia, Pons, Cadana, Chomutovia, Austia. Nam
Quadis, nunc Sletis, Hiaromirum, Glacium,
Curia, & quædam alia oppida proximant. Introrſus porrò celebrantur, Cuthna,
Colonia, Pelna, Verona, Zatecium, Launa, Lana, Lytomericium, Taborium. |
Quindi, dal confine dei Norici, anche chiamati Bavari, prevalgono Klatovy, Domažlice,
Stříbro, Tachov. Mentre, dal lato che guarda l'Austria, c'è in primo luogo Český Krumlov;
quindi Třeboň, Jindřichův Hradec, la stessa Míšeň, Most,
Kadaň, Chomutov, Ústí. E poi, ai Quadi, ora Slezané, sono prossime Jaroměř,
Kladsko, Chořov e altri villaggi. Dall'interno, più avanti, sono nominati Kutná, Kolín,
Plzeň (o Pštína?), Beroun, Žatec, Louny, Wleń, Litoměřice,
Tábor. |
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Praha regni caput |
Praha, capitale del regno |
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e |
Cæterum omnibus antestat Praha, tanta magnitudine urbs, ut una tres ampliſmas
urbes complecatur, Veterem, Novam, & tertiam, quam Parvam vocant, à duabus
prioribus, flumine Vultavia diſjun荒am. Ædificia in ngulis, tam privata, quàm
publica, dignitatis plena & magnificentiæ. Duas præterea poſdet arces, alteram
Viſſegradum appelant, quondam Regum ſedes, nunc bellorum civilium injuria,
vasta, & penè deſolata. Contrà, illa altera arx, quæ minorem Pragam deſpe荒at,
quemadmodum dicitur, ita jure optimo haberi debet, Regia. Quippe, non arcis modò,
ſed urbis potius ſpeciem rapræſentare videtur, tantùm videlicet loci mœnibus, ædificiiſque occupat. Palmam inter publica opera ferunt, Templum & Palatium
illud Caroli, cujus statim mentionem fecimus, hoc Vladiai Regis nuper vita
fun荒i opus. |
Ma su tutte primeggia Praha, centro di tale grandezza che in una
sono comprese tre grandi città: l'Antica, la Nuova e, per terza, la cosiddetta
Piccola, separata dalle due precedenti dal fiume Vltava. In ciascuna, gli
edifici sia privati che pubblici sono di grande lusso e dignità. Praha
possiede inoltre due rocche, una detta Vyšehrad, un tempo dimora del re, ora
danneggiata dalle guerre civili e quasi abbandonata. Al contrario, l'altra rocca, che sovrasta la cosiddetta
Praha minore, a buon diritto
dovrebbe essere definita degna di un re. E certamente, non sembra soltanto una
fortezza, ma piuttosto una città,
visto il gran spazio che occupa con le mura e gli edifici. Tra le opere pubbliche eccellevano il
tempio e il palazzo del summenzionato
re Karel, a cui ha messo mano re Vladislav, da poco deceduto. |
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Albis fluvius, Labe Bohemís |
Il fiume Elba, il Labe di Boemia |
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f |
Quantum autem inter urbes Praha, tantum inter flumina Albis flumen (ut re荒è Tacitus ait) inclytum & notum ſupereminet. Sed hoc idem Tacitus, de illo, parum
exploratè, quod in Hermunduris oriri addiderit. Non enim apud Hermunduros Albis,
ſed apud Bohemos oritur, in motnibus, quos illà ip Bohemi Cerconeſſos appelant,
Septentrioni obtentos, & Moravis vicinos. Ex quibus ille, profluens, magnam
Bohemiæ partem, ac ferè meliorem irrigat: & postquam cæteros indigenas
fluvios, nempe Vultaviam, Egram, Saſavam, Gilferum, Miſam exhaut, au荒ior aquis
fa荒us,
inde ad Miſnios & Saxones, postremò in Oceanum, nomine ubique ſuo evolvitur,
Salmone piſce inprimis fæcundus, |
Ma così come Praha sovrasta le città, altrettanto l'Elba sovrasta i fiumi (come
giustamente nota Tacitus) per fama e rinomanza. Ma riguardo a questo fiume, lo stesso
Tacitus non è molto preciso, dal momento che afferma che esso nasce
presso gli Hermunduri. Infatti l'Elba non nasce presso gli Hermunduri, ma presso i
Čechové, sui monti che gli stessi Boemi chiamano Krkonoše, distesi a
settentrione e vicini ai Moravi. E scorrendo da quelli, irriga gran parte
della Boemia, quasi la migliore, e dopo aver raccolto le acque degli altri fiumi
del luogo – la Vltava, l'Ohře, la Sázava, l'Havola (?), il Mže – gonfio
d'acqua si getta alla fine nell'oceano, chiamato ovunque con il suo nome e ricco
soprattutto di salmoni. |
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f |
At minores in Bohemia fluvii, rivulique,
alicubi ramenta auri provolvunt, alibi conchulas alunt, è quibus uniones
eruuntur. Fontes autem calidi, aliquot in locis erumpentes, non modò lavandi
voluptatem, ſed auxilia etiam medendi hominibus afferunt. Porrò ipſum ſolum adeò
frugum ferax & copioſum est, ut & has vicinis quoque regionibus largè ſuppeditet.
Vina tamen parcius exhibet, & quæ nata ibi ſunt, languidiora apparent, quàm ut
ætatem bene ferre queant. |
In Boemia, per contro, anche i fiumi minori e i ruscelli da un lato rivoltano sabbia
aurifera, dall'altro alimentano molluschi dalle cui conchiglie si ricavano perle. E le
fonti calde, che erompono in certi posti, dànno agli uomini non solo il piacere
di lavarsi ma anche rimedi per curarsi. Il terreno stesso è così ferace e
abbondante di messi, da sopperire abbondantemente anche alle regioni vicine. Più
scarsa, tuttavia, è la produzione di vini, e quelli prodotti in Boemia sono più
leggeri e non durano quanto potrebbero. |
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Dotes & delicia soli Bohemici |
Ricchezze e delizie del suolo boemo |
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g |
Contra croco in Bohemmia ſato inſunt cun荒a, quæ in peregrino pretioſa habentur,
ſuccus, color & odor: jam illa rara, ac prorſus beata telluris dos, quòd ex
veniſejus tanta ubertate argentum affluit, ut ni parum aliquid filicis ad eas
venas ſe admiſeeret, nihil extra argentu, haurires, cum alibi argentariæ valde
dites eſſe perhibeantur, in quibus metalla, quarta ſui aut quinta, vel cum
feliciſmè, media parte argentea inveniuntur. |
Al contrario, i prodotti dei biondi campi di Boemia hanno tutte quelle
qualità che all'esterno sono ritenute preziose, come il succo, il colore,
l'odore. E la ricca terra [di Boemia] porta un'altra rara e splendida dote, in quanto
dalle sue vene affluisce argento, e in tale quantità che, se non si mescolasse
alla pietra, non potresti estrarre niente se non argento. Altrove sono invece
ritenute ricche le miniere nelle quali il metallo
costituisce la quarta o la quinta parte o, in casi fortunati, quando si trova
argento per metà. |
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g |
Quin aurum quoque ipſum tale statim, quale nativæ venæ ferunt, in puteis effoditur, qui de loco Gilova
cognomen ſuum trahunt. Tenet fama Regibus Bohemiæ ſæpius inde allatas fuiſſe
micas aureas puti auri, quarum ngulæ pondo denum librarum graves erant. Sed
nec vilioribus metallis destituitur, nempe stanno, plumbo, ære, ferro. Ostentatque præterea carbunculum, calaim, amethistum, ex
cotibus ſuis metallicis
abruptum. |
Anche lo stesso oro, tale e quale affiora nelle vene naturali, si scava nei
pozzi del luogo detto Jílové. Si perpetua la fama che da uno di quei pozzi
fossero stati portati ai re di Boemia dei pezzi d'oro, ciascuno del peso di dieci once. Ma non si tralascia [di parlare]
di metalli più vili, cioè di stagno, piombo, rame, ferro. [La Boemia], inoltre,
presenta il carbonchio, il calamo (?), l'ametista, estratti dalle sue rocce
metallifere. |
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g |
Ceterùm ſecumduòm metalla non alia res magis Bohemos, quàm piſcinæ,
quæ Cyprinos piſces alunt, locupletat, id quod aliàs offendimus edito de
piſcinis libello. |
Dopo i metalli nessun'altra
cosa arricchisce i Boemi più delle vasche dove si allevano i ciprinidi. Questo
argomento è stato da noi affrontato in precedenza, nel libretto sulle
piscine di allevamento. |
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Natura moresque Bohemorum |
Natura e costumi dei Boemi |
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h |
Nunc mores incolarum reddentur. Igitur ut verba ad compendium conferam, tum
morum, tum ipus habitus, quem corpore Bohemi præ ſe ferunt, leo animalium
generoſmus, cujus ſyderi Bohemi ſubjacent, qua guandam imaginem exprimere
videtur, vel celſam Bohemorum proceritatem, vel latum & validum pe荒us, vel
rigidam fulviſque comis vestitam cervicem: deinde vocis ſonum arduum, oculos micantes,
robur & fiduciam virium intueri volueris. Solet item leo
contemptu in alia animantia, & nonnullo fastu turgere ægreque exarmari,
præſertim per ferociam eum aggrediare. |
Ora saranno trattati i costumi degli abitanti. Per dirla in breve, il
comportamento e l'aspetto fisico dei Boemi possono essere simboleggiati
dall'immagine del leone, il più gagliardo degli animali, sotto il cui segno soggiacciono i
Boemi; sia che tu voglia considerare l'alta
statura dei Boemi, o il petto largo e forte, o la testa diritta coperta di rossi
capelli; sia il forte suono della voce o gli
occhi brillanti; sia la resistenza e la fiducia nelle proprie forze. Parimenti il
leone è arrogante verso gli altri animali, s'inorgoglisce in superbia, e
difficilmente si lascia cogliere inerme, specie se lo si aggredisce con
violenza. |
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h |
Nec ab hac parte Bohemus degenerat,
ſed contemptum libenter erga alios verbo fa荒oque ostentat ſuum, ipſamque adeò
arrogantiam, inceſſu, gestu, pompa prodit. Est & feroculus cum fastidioſe tra荒atur, inſuper auſperinde ut leo promptus, atque in his exequendis firmus
& validus, interim tamen ambitioſus & glorioſus. Rurſuſque, uti leo, cibi
avidus, atque in eo condiendo instruendoque immodicè effuſus: vicini præterea
Saxones
eundem docuerunt no荒urno certare mero, putere diurno. Sed neque in cæteris
quoque moribus Bohemi longe à Germanis divortunt propter eandem vicinitatem. |
Né da questo lato il boemo è da meno. Ma volentieri dimostra disprezzo
verso gli altri, sia nelle parole che nei fatti, e si mostra arrogante
nell'incedere, nei gesti, nella boria. È anche aggressivo quando viene provocato. Di fronte ai coraggiosi è pronto come un leone e, nel seguirli, sicuro
e forte. Talora, tuttavia, è ambizioso e orgoglioso. E di nuovo è come il leone
avido di cibo, che condisce e prepara con abbondanza quasi esagerata. Tra
l'altro i vicini Sassoni attestano che combatte solo di notte e puzza di
giorno. Ma a causa della vicinanza, i costumi dei Boemi non differiscono molto da
quelli dei Germani. |
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h |
Ha荒enus de natura & moribus: ſequitur gentis origo, in hunc uſque diem per
incerta aut per fabulas evulgata. |
Si è detto finora sulla natura e sui costumi. Segue l'origine della popolazione,
divulgata fino ad oggi per mezzo di notizie incerte o di leggende. |
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Gentis primordia |
Origini della gente [di Boemia] |
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i |
Nam quid fabulous, quàm originem referre velle ad divionem confuonemque
linguarum, quæ tunc fa荒a fuiſſe dicitur, cum in ſolo Babylonio turris Babel
ædificaretur. Nam vetus origo placuit, utique tutti illa vetustior Adamus
omnium gentium communis parens erit. Quare nugis omiſs, veram narrationem de
origine Bohemorum, qui hac ætate Bohemiam incolunt perfequamur, paucis ante
indicaverimus, unde natum t Bohemiæ vocabulum: Non aliunde videlicet, quàm à
Bojis, gente Gallica, ad mutandas ſedes facili. |
E infatti, che cosa c'è di più favoloso che ricondurre l'origine [dei
popoli] alla
divisione e alla confusione delle lingue, che si dice fossero avvenute al tempo
in cui
fu innalzata, sulla terra babilonese, la torre di Babele? E se ci piace l'antica
leggenda, ancora più antica sarà quella di Adamo, che fu padre comune di tutte le genti.
Perciò, abbandonate le chiacchiere, proseguiamo con la vera storia sull'origine
dei Boemi, odierni abitanti della Boemia. Dapprima indicheremo in breve da dove sia venuto il termine di Boemia: non altrimenti, cioè, che dai Boi,
popolazione gallica dalle facili migrazioni. |
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Etymon populi Bohemi |
Etimologia del popolo boemo |
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j |
Lege Livium ab urbe condita libro quinto, de trantu in Italiam Gallorum. Ibi
clarè ſcriptum invenies, Belloneſo Gallo Italiam, Segoneſo autem fratri ejus
fortibus datos Hercyneos ſaltus fuiſſe. Quo verò pa荒o ii Alpes tranſgreſ in Grmaniam pervenerint,
ex istis Julii Cæſaris verbis liquere cuilibet potest. De Helvetiis enim loquens, Bojos inquit, qui trans Rhenum incoluerant, & in agrum
Noricum tranerant, Noriamque occupaverant, receptos ad ſe ſocios aſciſunt,
hodieque Noria ab ips Bojis cognominatur Bojaria, vel tu nunc placet, Bavaria. |
Leggi Livius,
Ab Urbe condita Libri, libro
quinto, sul passaggio dei Galli in Italia. Vi troverai scritto chiaramente che
furono dati al forte gallo Bellovesos e a suo fratello Segovesos
[rispettivamente] l'Italia e la Hercynia silva. In seguito, superate le Alpi,
essi giunsero in Germania, come è possibile trarre dalle stesse parole di
Iulius Caesar. Parlando degli Helvetii, infatti, dice: «si presero come alleati i Boi
che, stanziati un tempo oltre il Reno, erano passati in territorio norico e avevano
occupato Noreia»; ed oggi, dagli stessi Boii, il Norico è detto Boiaria o, se ora ti piace, Bavaria. |
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j |
His astipulatur Cornelius Tacitus, libro de moribus Germaniæ ita ſeribens:
Igitur inter Hercyniam ſylvam Rhenumque, & Mœnim, amnes Helvetii, ulteriora Boji,
Gallica utraque gens tenuere.
Manet adhuc Bojemi nomen, gnificatque loci
veterem memoriam, quamvis mutatis cultoribus», haud dubiè ips Suevis, quos
postea Boji inde expulerant, cuti Noricos ex Noria. |
Di ciò è assertore Cornelius Tacitus, il quale scrive così nel suo libro sui
costumi
della Germania: «pertanto gli Helvetii si stabilirono [nella regione] tra la
Hercynia silva e i
fiumi Reno e Meno; più all'interno si stanziarono i Boii, entrambe popolazioni
galliche. Il nome di Boemia, che ancora rimane, attesta l'antica storia del
luogo, benché gli abitanti siano mutati», com'è stato senza dubbio per gli stessi Suebi, i quali da là erano stati poi cacciati via dai Boii, così come i Norici dal Norico. |
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j |
Quippe Suevos non modo
extra ſylvam Hercyniam, ſed intra quoque ubi nunc Bohemia est ta habitaſſe,
Author est Strabo. Idemque locum ipſum Bojohemum nominat, & ibidem Marobodui
Regiam fuiſſe ſcribit. |
Che i Suebi non solo
abbiano abitato al di fuori della Hercynia silva ma anche al suo interno, dove è
situata la Boemia, lo afferma Strábōn. Parimenti chiama il luogo stesso
Boiohemum e scrive che ivi sorgeva la reggia di Maroboduus. |
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j |
Maroboduus enime eje荒is Bojis, Marcomannos, ſeque & regiam ſuam in Bohemiam
transtulit, de qua rurſus re c Tacitus: Præcipua Marcomannorum gloria, vireſque,
atque ipſa etiam ſedes, puls olim Bojis, virtute parta. De eadem re verba
etiam Velleji Paterculi, qui Tyberio imperante historiam ſuam edidit, huc
reponemus. Nihil, inquit, erat in Germania, quod vinci poſſet, præter gentem
Marcomannorum quæ Maroboduo Duce excita ſedibus ſuis, atque in inferiora
refugiens, cin荒os Hercyniæ ſylvæ campos incolebat. |
Infatti Maroboduus, ricacciati i Boii, si trasferì con la sua corte e i Marcomanni
in Boemia: così di nuovo [riferisce] Tacitus: «Spiccano per gloria e potenza i
Marcomanni che si sono conquistati
valorosamente anche la sede, una
volta ricacciati i Boii». Sul medesimo argomento qui riferiremo anche le parole di Velleius Patercolus, il quale rese nota la sua storia sotto l'impero di Tiberius.
Questi dice che niente vi era in Germania che si potesse
vincere,
soprattutto la gente dei Marcomanni, la quale, sotto la guida di Maroboduus,
uscita dalle sue sedi originarie e rifugiandosi nelle zone meridionali, abitava
il territorio della Hercynia silva. |
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j |
Ac paulò post: Sentio, inquit, Saturnino mandatum, ut per Catthos, excis continentibus Hercyniæ ſylvis, legiones Bojohemum, id regioni quam incolebat
Maroboduus nomen est, ipſe à Carnunto, qui locus Norici regni proximus ab hac
parte erat, exercitum, qui in Illyrico merebat, ducere orſus est. Hæc Vellejus. Sed jam
fatis explorata vocabuli origine, ad primordia, & incunabula gentis
Bohemæ, ut res & veritas ſe habet, stylum convertamus. |
E poco oltre vengo a sapere di un ordine a Saturninus che, fatti abbattere
dai Chatti i boschi contigui all'Hercynia [silva], cominciò egli stesso a condurvi le
legioni di Boemia – questo è il nome della regione in cui risiedeva Maroboduus –
e l'esercito che combatteva nell'Illirico, da Carnuntus, luogo che da questa
parte era molto vicino al regno dei Norici. Questo [dice] Velleius. Ma ciò
detto, esplorata l'origine della parola, ritorniamo a trattare i primordi e le
origini della gente di Boemia, come si ritiene sia la verità. |
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Sarmatia omnium Slavinarum gentium partus ceu equus Trodanus |
La Sarmazia, madre di tutte le genti slave ovvero il cavallo di Troía (?) |
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k |
Sarmatia igitur illa, quam Protelmus ab ortu Lacu Mæotide, & Tanai, ab occaſu
Istula, à ſeptentrione Oceano Sarmatico, à meridie Carpathiis montibus terminat,
omnium gentium, quas nunc Sclavinas vocant, communis quondam patria fuit. Ipſæ
porrò gentes varia ſunt fortitæ vocabula: nam aliæ earum Hyrri, aliæ Scyri, aliæ
Venedi appellabantur, de quibus in hunc modum Plinius libro quarto, capite
tredecimo, ubi de inſulis Septentrionalis Oceani agit: Sevo, inquit, mons ibi
immenſus, nec Ripheis jugis minor, immanem ad Cymbrorum uſque promontorium,
efficit num, cui Codanus vocatur, refertus inſulis, quarum, clariſma
Scandavia est incompertæ magnitudinis. |
La Sarmazia, pertanto, che secondo Protelmus confina a oriente con il Lago
Meotide e il
Don, a occidente con la Vistola, a settentrione con l'Oceano Sarmatico, a meridione
con i
Carpazi, fu un tempo patria comune di tutti i popoli oggi chiamati Slavi.
Queste stesse genti ebbero poi nomi vari e occasionali. Alcune di esse, infatti,
si chiamavano Irri, altre Sciri, altre Venedi. Di costoro Plinius, nel libro quarto,
capitolo tredicesimo, dove tratta delle isole dell'Oceano Settentrionale, parla
così: «Colà il Sævo, un monte immenso, non inferiore alla catena
dei Rifei, abbraccia, fino al promontorio dei Cimbri, un vastissimo golfo
chiamato Codanus, ricco di isole, la più famosa delle quali è la Scandinavia,
di grandezza sconosciuta». |
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k |
Ac mox deinde: Quidam hæc habitari Istulam uſque fluvium à Sarmatis, Venedis,
Scyris, Hyrris tradunt. Nam de Syrbis libro ſexto commemorat, quoniam propius ad
Mæoticas gentes accedunt. |
E subito dopo: «Alcuni tramandano che queste [terre] fino al fiume Vistola siano
state abitate da Sarmati, Venedi, Sciri, Irri». Poi, riguardo ai Sorbi, nel
libro sesto ricorda perché si avvicinano di più alle genti meotiche. |
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k |
Vetus autem omnium Sarmatarum mos erat Pomponio Mela Autore, statis perpetuiſque non uti ſedibus, ſed ut invitavere pabula, vel ut
cedens & ſequens hostis exigebat, ita res, opeſque ſecum trahere ſolebant,
castra ſemper habitantes, bellatores, liberi, indomiti. |
Secondo il loro antico costume, afferma Pomponius Mela, i Sarmati non si
servivano di sedi fisse e stabili ma, attratti da altri pascoli o costretti da
vecchi o nuovi nemici, si spostavano – bellicosi, liberi, indomabili – con i
loro attendamenti, portando con sé tutte le loro cose e sostanze. |
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Venedi in Vandalos, Syrbi in Luſatios, Hyri in Illyrios tranſfierunt |
I Venedi si trasferiscono presso i Vandali, i Sorbi presso i
Łusaziani, gli Irri
presso gli Illiri. |
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l |
Proinde nihil mirum, Augusti jam Cæſaris tempestate in Thracia, ut ſeribit
Strabo, promiſcuè cum Thracibus vixerint, deinde littora Oceani, paludeſque,
& eas regiones, quas Vandali, populus quondam Germaniæ tenuerant, occupaverint, nomenque bi ex devi荒a gente, ut fieri interdum ſolet, adoptaverint, pro
Venedis, ve Vendis, Vandalos ſe cognominantes: illoque cognomine Gallias, Hiſpanias, & ipſam Africam
penetrantes, in qua uſque ad Justiniani Cæſaris
tempora, regnum bi constituerant, hodieque cognomen Vandalorum in regionibus,
quas initio proprius Oceanum ceperunt, retinent. |
Non dobbiamo dunque stupirci se, già all'epoca di Caesar Augustus, come
scrive Strabo, [i Venedi] abbiano vissuto insieme ai Traci nella Tracia e se
in seguito abbiano occupato le coste acquitrinose dell'Oceano e quelle regioni
della Germania tenute un tempo dai Vandali. Costoro, come talora accade,
prendendo il nome delle genti sottomesse, si chiamarono Vandali invece di Venedi
o Vendi. Con questo nuovo nome, penetrarono poi nelle Gallie, nella Spagna e
persino in Africa, dove, fino ai tempi
dell'imperatore Iustinianus, si erano costituiti in regno, e anche oggi mantengono
il nome di Vandali nelle regioni conquistate all'inizio, più vicine
all'Oceano. |
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l |
At Syrbi, ſuperiore & inferiore Luſatia occupata, Luſatios se nunc appellant. |
I Sorbi, invece, avendo occupato la Łusazia settentrionale e meridionale, ora si
chiamano Łusaziani. |
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l |
Hyrri verò, & Scyri, vagam diu mercenariamque militiam, interdum etiam
Alanis &
Gotthis permixti militabant, donec cum cæteris Sarmatis in Illyria & Histria ſedes ſuas figerent. Placuit deinde, vicitque apud illas gentes novum Slovanorum
vocabolum, ex commercio unius linguæ natum. |
Gli Irri e gli Sciri, invero, militarono in una soldatesca a lungo incerta e
mercenaria, talora mescolati anche agli Alani e ai Goti, finché non
fissarono con altri Sarmati le loro sedi in Illiria e in Istria. piacque poi e
s'impose presso quei popoli, il nuovo termine di Sloveni, nato dalla pratica
della stessa lingua. |
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Etymon Sclavinorum. |
Etimo degli Slavi |
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m |
Id enim
Slowo
apud Sarmatas, quod verbum apud Latinos perſonat. Quoniam igitur omnes
Sarmatarum nationes, latè jam tunc, longeque, per regna & provincias ſparſæ,
unum tamen eundemque ſermonem, atque eadem propemodum verba ſonarent, ſe uno etiam cognomine
Slovanos cognominabant. |
Vi è infatti, presso i Sarmati, SLOWO, parola che risuona
presso i Latini. Pertanto, poiché tutte le etnie dei Sarmati sparse anche allora in ogni dove, per regni e province,
parlavano tuttavia un solo e medesimo linguaggio e facevano risuonare quasi le
medesime parole, si chiamavano anche con un
solo etnonimo: Slovani. |
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m |
Ad ipſa præterea gloria, quæ apud illos
Slawa
appellatur,
Slowutnii
di荒i. Græci hoc cognomen, postquam vim vocabuli non intelligerent, in Sclavenos,
Itali in Sclavos detorſerunt: Latini deinde Illyrios vocare cæperunt. |
E per quella gloria stessa, che presso di loro si dice SLAWA,
furono detti SLOWUTNII. I Greci, dal momento che non
capivano il significato del vocabolo, distorsero questo etnonimo in Sclaveni, e
gli Italici in Sclavi. I latini, poi, cominciarono a chiamarli Illiri. |
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S. Hieron. Stridonens Slavus |
San Hieronymus, slavo di Strido |
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n |
Ex hac gente Divus Hieronymus prognatus, ſuis popularibus vetus novumque Testamentum ſermone vernaculo interpretatus est, Gratiano & Theodoo Imperium
administrantibus: Illaque interpretatione, in hanc huſque diem Illyri tum in
hymnis divinis, tum in ſacrificiis utuntur, ut mirer extare, qui prodant
Sclavenos, ſub Mauritio demum Cæſare Illyriam invaſſe, occupaſſeque. |
San Hieronymus, nato da queste genti, tradusse per il popolo l'Antico e il Nuovo
Testamento nella lingua del proprio paese, mentre erano a capo dell'impero Gratianus e Theodosius. Di quella interpretazione, gli Illiri
si servono ancora oggi, sia negli inni sacri, sia nei sacrifici,
tanto che mi meraviglierei se ci fosse ancora chi racconta come, alla fine, gli
Slavi abbiano invaso e occupato l'Illiria sotto l'imperatore Mauritius. |
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I |
Ἀφορμὴ migrationis Croatiorum in Bohemiam. Czechius gentis conditor & Lechus frater. |
Le migrazioni dei Croati in Čechy. Čech guida di genti e suo fratello Lech. |
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I a |
Ex Illyria igitur, quæ modò Croatia cognominatur, Bohemi isti novitii ad hunc modum
prodierunt: Czechius Croata erat domi, & nobilitate & fa荒ione potens: is apud
ſuos, fortè, an conſulto, cædem ingnem fecit: cujus nomine reus, ac citatus, die
constituta ad cauſam dicendam non venit,
acrius hinc urgentibus eum
adverſariis, ac magna parte Croatiæ jus ſuum adverſus contumacem armis exequi
parante, non expe荒avit Czechius, dum in ultimum diſcrimen ſalutem ſuam
adduceret, ſed amicorum parens conlio, ſe in viam per tempus dedit, eo prorſus
animo, ut pro vetere patria novas bi quæreret ſedes, quæ perfugium, mul &
domicilium exuli forent. |
Questo è come i futuri Čechové uscirono dall'Illiria, che oggi è chiamata Croazia.
Čech era di patria e nobiltà croata, e a capo di una fazione. Ma questi, vuoi
per caso o per determinazione, si macchiò in patria di un eclatante delitto.
Accusato del crimine e citato in giudizio, non si presentò nel giorno stabilito
per discutere la causa. Mentre aspramente premevano i suoi avversari e gran
parte della Croazia si preparava ad esercitare con le armi il diritto di
vendetta contro il contumace, Čech non aspettò di mettere la sua salvezza a
rischio estremo ma, obbedendo al consiglio degli amici, si pose subito in
cammino, con la ferma intenzione di cercare, al posto della vecchia, una nuova
patria, nuove sedi che fossero per l'esule rifugio e insieme dimora. |
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I a |
Migravit unà frater Czechii nomine Lechus, & cum utroque cognati affines, amici, clienteſque & vernulæ,
quos uxores atque liberi, ac cætera hominum ingens turba,
ad mul proficiſcendum parata, longo ac frequenti agmine ſubſequebatur, eo
itinere, quod per Valeriam regionem, inter Danubium & Dravum fluvium tam, & à
Croatis tum poſſeſſam, illos uſque ad Pannoniam ſuperiorem Moravis vicinam
deducebat. |
Insieme, si mise in cammino il fratello di Čech, di nome Lech, con entrambi i cognati, gli
affini, gli amici, i clienti e i servi. Li seguivano le mogli e i figli: una
gran folla di persone disposte a partire, tutte insieme, lungo la strada che, attraverso la regione Valeria, tra i fiumi Danubio e Drava, allora
in mano ai Croati, li conduceva fino alla Pannonia settentrionale, presso i
Moravi. |
|
I a |
Cum igitur in Moraviam divertiſſent, & illam jam pridem à gentibus ſuis, quemadmodum & Saxoniæ bonam partem occupatam reperiſſent, paululum
ſubstiterunt.
Interim Moravi peregrinationis cauſa cognita, hoſpites & populares ſuos docent,
haud procul regionem distare, quam Germani Bœheim vocarent, ab eiſdem Germanis
quondam habitatam, nunc vastam penè & deſertam, ni quod Vandalorum nonnulli, &
ip populares per Tuguria ſpar illam incolerent.
Aut igitur hanc illis regionem, aut nullam aliam, ad capiendas fedes, qua non
armati, ſed togati quærerent, appotiſmam videri. |
Poi, avendo ripiegato in Morava e ripresa quella terra già occupata in
precedenza dalle loro genti, e cioè una gran parte della Sassonia, si fermarono
lì. Nel frattempo i Moravi, conosciuto il motivo della peregrinazione,
informarono gli ospiti e il loro popolo che non lontano distava una regione che
i Germani chiamavano Bœheim, un tempo abitata dagli stessi Germani, ora
devastata e quasi abbandonata, a meno che non l'abitassero alcuni Vandali oltre
agli stessi indigeni, sparsi in capanne. Pertanto, o che questa regione fosse la
più adatta, o che non ve ne fosse nessun'altra per stabilirne una sede, la
richiedessero loro, e non da uomini armati, ma da gente civile. |
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A Moravia in penitiorem Bohemiam Czechius deducitur |
Čech viene condotto dalla Morava alla Boemia più interna |
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I b |
Hæc di荒a eo proclivius
approbavit Czechius, quod in eo statu res ſuas conſpiciebat eſſe tas, ut non legere
conditiones, ſed oblatas accipere magis conveniret. Redintegrato itaque
itinere re荒a per Hercynium jugum vadens, ſe in Bohemiam, cum bona ubique pace
innuavit. Ibi quacunque ibat, aſpe荒us fidem faceibat eorum, quæ auribus paulo
ante acceperat, incultam videlicet, deſertamque eſſe Bohemiam, à pecudibuſque, &
armentorum gregibus potius, quàm ab hominibus obſeſſam, adeò bene multi in
illa greges pecundum, rariſmi autem incolarum apparebant. |
Čech approvò quelle parole, tanto più di buon grado perché capiva di trovarsi
nello stato di non poter scegliere condizioni e gli conveniva di più accettare
l'offerta. Così, ripreso il cammino, diritto verso le cime dell'Hercynia
[silva],
giunse in Boemia pacificamente. Dovunque andasse, l'aspetto [del territorio]
aderiva a quanto aveva appena appreso, e cioè che la Boemia era incolta,
abbandonata, occupata da bestiame e da armenti piuttosto che da uomini.
Chiaramente, infatti, in quella [regione] appariva gran quantità di bestiame,
mentre scarsissimi erano gli abitanti. |
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I b |
Incolæ ſanè inculti, inton, ac planè pastores: ii ignotæ primo gentis adventu
percul erant, mox audita vernacula lingua, intelle荒oque hoſpites non hostes
adveniſſe, mutuam ſalutationem fecerunt, hoſpitaliaque dona hoſpitibus miſerunt,
lac, caſeolos, carnem, duceſque itineris dederunt; qui eoſdem hoſpites in
Bohemiam interiorem deducerent. |
Gli abitanti, sicuramente dei pastori del tutto incolti, con barba e capelli
lunghi, si spaventarono all'arrivo di quelle genti a loro sconosciute; poi,
udita la lingua del luogo, compresero che non si trattava di nemici, ma di
ospiti. Li salutarono, ricambiati, e offrirono, in segno di ospitalità, latte,
formaggio, carne, e dettero guide per il loro cammino, che li conducessero in
veste di ospiti nel cuore della Boemia. |
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I b |
Cum perventum eſſet ad montem, inter duo flumina
Albin, & Vultaviam aſſurgentem, (incolæ Rzip vocant, qua tu ſpeculam dicas, quoniam inde
ſubje荒a monti planicies, latiſme perſpeculari potest:) ad eum statim montem conſcendit
Czechius, perlustranſqne oculis nunc cœlum & aerem ſalubrem, munc terram ubere gleba conſpicuam, nunc
ſylvas & nemora paſcuis
idonea, nunc flumina aquis & piſcibus redundantia, tacitum gaudium celare
diutius nequivit, ſed manibus in cœlum ſublatis in hanc vocem erupit: Dii (inquiens)
vestram fidem, quantis me, fratremque meum bonis, quantis amico nostros commodis
beatis, hanc patriam nobis perpetuam efficitis. |
E giunto al monte che si eleva tra i due fiumi Labe e Vltava (gli abitanti lo
chiamano Říp, cioè «osservatorio», dal momento che vi si può osservare la
pianura sottostante per vastissimo tratto), subito Čech salì fino in vetta e,
perlustrando con lo sguardo ora il cielo e l'aria salubre, ora la terra dal
suolo fertile, ora i boschi e i campi adatti al pascolo, ora i fiumi ricchi
d'acqua e di pesci, non poté più a lungo celare l'intima gioia ma, alzate le
mani al cielo, proruppe con tali parole: «O dèi, per quanti siano i beni miei e di mio
fratello, per quanto ricchi i privilegi dei nostri amici, avremo fede in voi, se
ci concedete questa patria per sempre». |
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I b |
Post hæc cæs quas ſecum
adducebat vi荒imis, ſacrum ſuo more facit, deſcendenſque rurſus in plana, mul
univerſos pari gaudio implet, ſpe allata finiendæ tandem vagæ
peregrinationis, ſede nimirum certa & stabili reperta. Mox univerſos adhortatur ad ædificia &
te荒a constituenda, & inprimis, ut ſe ad agros excolendos converterent, ne ritu
ferarum, venatu tantummodo & carne vitam tolerare inhumanam cogantur. Croatæ
erant tam ædificare, quam agros colere do荒i: itaque pro ſe quiſque animo alacri
operam pollicetur. Nihilo tamen ſecius circuire ngulos Czechius, operiſque
intereſſe, & instare, ac promptos quidem laude, ſegnes verò castigatione, ad
perficiendum quod inceptum erat, perurgere, quoad agris, pratis, ædificiis
cultior Bohemia videretur. |
Dopo di che, uccise le vittime che conduceva con sé, offre un sacrificio secondo
il suo costume, e disceso di nuovo in pianura, si colmano tutti di gioia, alla sopraggiunta speranza di concludere finalmente il
loro errare, avendo trovato con certezza una sede fissa e sicura. Subito dopo
esorta tutti a costruire edifici e case e, soprattutto, a dedicarsi alla
coltivazione
dei campi, per non essere costretti a condurre una vita indegna agli esseri umani,
nutrendosi di cacciagione e di carne, alla maniera delle bestie feroci. I Croati
erano abili tanto nel costruire quanto nel coltivare i campi,
e tutti si misero
all'opera con spirito alacre. Ciononostante, Čech sollecitava le persone, si interessava ai lavori, incalzava con lodi i più attivi,
castigando i
pigri, e insisteva a portare a termine quanto incominciato, affinché la Boemia divenisse sempre più ricca di campi, prati ed edifici. |
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Lechus à fratre ſecedit |
Lech lascia il fratello |
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I c |
Au荒is indies magis ac magis habitatoribus, ex frequenti tum Vandalorum, tum
Damlatarum in Bohemiam, tanquam in locum à bellis pacatiorem migratione Lechus
fratrer, ambiguum, invidia an æmulatione, ut & ipſe fortan novæ regionis, nationiſque Author haberetur, Czechiû adit, rogatque,
ut per eum bi liceat cum iis, qui ſua ſponte ſequi voluerint, alias ad habitandum
ſedes vestigare, quas non invenerit, ad fratrem ſe reverſurum
promittit. |
Con il tempo, sempre più accresciuti gli abitanti per la frequenti [migrazioni]
ora di Vandali, ora di Dalmati in Boemia, come luogo più al riparo dalle guerre;
così Lech, fratello [di Čech] (non sappiamo se per invidia o emulazione, ma
forse per essere considerato anch'egli fondatore di una nuova regione e
nazione), si reca da Čech e gli chiede il permesso di andare a cercare altre
sedi da abitare, insieme a quanti vogliano seguirlo di propria volontà. Nel caso
non ne trovi, promette al fratello di tornare indietro. |
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I c |
Quo facilè impetrato, montes tranſcendit Aquilonem verſus, pervenienſque in illa loca, quæ inpræſentiarum partim à Sletis, partim à
Polonis obtinentur, pari ac frater felicitate illa novis cultoribus complet,
adhibetque eandem curam, meditationem, diligentiam in agris, & ædificiis
constituendis. Sed nec alia atque Czechius animi moderatione, adverſus ſuos
utitur, æquo militer cum ſuis jure, & ne ulla dominatus ambitione vitam
tranfigens. Cujus rei cauſa, utrumque gens ſua post mortem obitam æterna
conſecravit memoria. |
Esaudita facilmente la richiesta, [Lech] valica i monti verso settentrione,
giungendo nella terra che oggi appartiene in parte agli Slesiti e in parte ai
Polacchi, e con un entusiasmo pari al fratello la riempie di nuovi coloni e usa
la stessa cura, la stessa preparazione e diligenza nel coltivare i campi e
costruire case. Né usa nei loro
confronti moderazione d'animo diversa da quella di Čech e,
allo stesso modo, con il suo popolo si serve di leggi giuste, trascorrendo la
vita senza alcuna ambizione di dominio. Per tale ragione le loro genti consacrarono entrambi, una volta defunti, a eterna memoria. |
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Bohemorum & Polonorum dis indigetes. |
Gli dèi indigeni di Čechové e Poloni |
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I d |
Quippe in hunc uſque diem Bohemiſe à Czechio, Czechios, Paoloni autem à Lecho,
Lechitas, utrique conditores ſuos agnoſcentes, appellant. Defun荒o ne liberis
Czechio, Bohemi ex vetere gentis instituto, popularem statum ample荒untur. Quale
autem institutum hoc fuerit, Procopius in historia ſua Gothica commemorat.
Sclavinorum inquiens nationes, non ab homine aliquo uno regi, ſed jam inde ab
antiquo, plebeja, communique libertate vivere, & idcirco de rebus omnibus, quæ
cogitatu fa荒uve graviores occurrunt, communiter deliberare. |
Da quel giorno i Boemi vengono chiamati Čechové, da Čech, mentre i Polacchi allo
stesso modo prendono il nome di Leciti, da Lech, riconoscendoli come propri
fondatori. Morto Čech senza figli, i Čechové legiferano rifacendosi alle antiche
tradizioni del loro popolo. Quale in verità fu tale statuto, Prokópios ne fa menzione nel
suo De bello Gothico. Afferma che, fin dai tempi più antichi, le tribù slave vivevano
libere, in comunità agresti,
non soggette ad alcun uomo in veste di re; e per tutte quelle cose che
richiedevano decisioni più gravi,
deliberavano di comune accordo. |
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Δημοκρατεία apud Sclavinos |
Democrazia presso gli Slavi |
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I e |
A荒um certe, in novo videlicet adhuc populo, Bohemis eo facilius perſequi hoc institutum licebat, quod nemo unus inter illos emineret, ut præ ceteris ad illum
regimen deferendum eſſe videretur. |
Certamente agì così anche il nuovo popolo, tanto più conveniva ai Čechové seguire
tale tradizione, in quanto nessuno emergeva tra loro da doversi deferire più
degli altri all'attività di governo. |
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I e |
Dein quod nihil ſupererat de quo valde certarent, aut in fa荒iones diſcederent,
cum in promiſcuo uſu illis eſſent penè omnia. A lebat denique mutuam inter illos
concordiam, quod nullis adhuc externis nationibus, quæ aut lingua, aut moribus
eſſent diſcordes, immixti, ſed gente, & ſermone, & institutis pares Bohemiam
inhabitabant, in eaque ſocietate, & inter ſe conjun荒ione, quam inter miles
natura conciliare ſolet, magno cum conſenſu acquieſcebant. At posteaquam
alienigenæ paulatim in Bohemiam allabi, aliique eorum communem agrorum, &
aliarum nonnullarum rerum uſum irridere, alii à plebeja gubernatione abhorrere,
agrestemque incolarum vitam fastidire cæperunt, ſenm etiam æquabilis ille,
pupulariſque in Bohemia status, labaſcere cæptabat. Amat enim varietatem, rerumque
mutatiotem varium & mutabile vulgus. |
In seguito, poiché nulla sovrabbondava per cui combattere aspramente o dividersi
in fazioni, essendo quasi tutto condiviso, si manteneva, alla fine, tra loro,
una reciproca concordia. Dal momento che, fino ad allora, non si erano mescolati
a popolazioni straniere, diverse per lingue o per costumi, ma abitavano,
all'interno della Čechy, pari per stirpe, lingue e tradizioni, si erano
stabiliti con grande armonia in quella società e con quel legame che la natura
suole stringere tra simili. Ma dopo che cominciarono a penetrare a poco a poco in
Čechy
delle popolazioni straniere, alcuni a deridere l'uso comune delle loro terre e
di
molte altre cose, altri a contrastare il governo della plebe e a disdegnare la
vita agreste degli abitanti, anche quello stato ugualitario e popolare iniziò
lentamente a cedere in Čechy. Poiché il popolo, vario e mutevole, ama la
varietà e il cambiamento delle cose. |
|
I e |
Et quoniam raro uſu venit, ut fine aliqua rerum interturbatione, benè in
republica constituta immutentur, turbari tunc, & miſceri cun荒a malis
concionibus, turbulentes cætibus, & rixos contentionibus videres, dum alteri
de vetere statu retinendo, alteri de abrogando rixantur, intereaque
reverentiam adverſus magistratum exuunt, metum judiciorum deponunt, leges
populares contemnunt: Contra audaciæ & cupiditati frena laxant, quid per jus non
licet, auda荒er ac cupidè peragentes, invicem ſe deprædantes, invicem ferientes
& cœdentes, atque ut uno velut faſce multa comple荒ar, latrocinium ibi
constituentes, ubi paulò ante publicum conlium fuit. Quibus malis tandem
defatigati, vi荒ique, rurſus animum ad reparandum, reipublicæ statum convertunt.
Et cum democratia non placeret, reſpicere Monarchiam qualis ſub Czechio fuerat,
incipiunt. |
E poiché capita di rado che, dato un certo turbamento degli eventi, in una
società le istituzioni cambino bene, vedresti allora che tutto è disordinato e
confuso da cattivi discorsi, e i turbolenti in conventicole rissose, mentre
alcuni si contendono per mantenere il vecchio stato, altri per abrogarlo; nel
frat-tempo tolgono rispetto a chi esercita la giustizia, perdono il timore dei
processi, disprezzano le leggi del popolo: sciolgono i freni all'audacia e alla
cupidigia, perseguendo in modo audace e avido ciò che non è lecito per legge,
mentre si depredano a vicenda e a vicenda si feriscono e uccidono. E per
strin-gere insieme molti esempi, dànno vita alla frode laddove poco prima c'era
stata una pubblica risoluzione. Fiaccati e infine vinti da tali mali, si volgono
di nuovo a rinnovare lo stato della società. E poiché la democrazia non era
gradita, ricominciano a prendere in considerazione la monarchia, come quella che
c'era stata sotto Čech. |
|
II |
Croccus populari ſpreto imperio ad ducale fastigium eve荒us.
Numen ut Czechius Romulus. |
Krok, rifiutato il potere popolare, viene innalzato alla dignità di kníže.
Čech divinità come Romolus. |
|
II a |
Croccus tunc erat, in quem oculos ſuos omnes conjecerant, indoeumque eſſe putabant, qui in locum Czechii
ſuccederet, quoniam ante alios boni, justique
vivi ſpeciem præſeferebat, ſermoneque comis & affabilis habebatur, ac
multitudini maximè gratus ex opinone divinitatis, quam ex divinatione augurio collegerat. Non ſecus enim ad eum viri, mulioreſ affluebant, ac
adfluerent ad
Apollinis oraculum. Et quanquam gratuitam, non autem quæstuariam
divinationem faceret, ne quæstu tamen illa ei non erat, ultrò conſultoribus stipem obtrudentibus: qua ille au荒us, prædium
bi Crocci cognomine ædificavit,
haud procul à Stebna pago, quo postea animi venationiſque cauſa Principes
Bohemiæ frequentiſmè ſecedebant: In eoque prædio ſuo Croccus tantiſper
habitavit, dum ad eum regimen deferretur. Non videlicet, ut ad Principem, qui ex
arbitrio ſuo imperaret, ſed ut ad Prætorem, qui ex æquo & bono jus diceret. |
C'era allora Krok, verso il quale tutti rivolgevano lo sguardo, ritenendolo
idoneo a succedere a Čech, dal momento che più degli altri
si dimostrava un uomo giusto e buono; era considerato gentile e affabile nel
parlare e soprattutto era gradito alla gente per la fama di divinità che si era
guadagnato dalla pratica di indovino e di augure. Infatti correvano a lui uomini
e donne, come se affluissero all'oracolo di Apollo. E sebbene divinasse
gratuitamente, non
per remunerazione, non rimaneva senza guadagno, dal momento che i richiedenti
spontaneamente insistevano per un'oblazione. Con tali guadagni, [Krok]
costruì una fattoria, che chiamò «Krok», non lontano dal villaggio di Ztibečné, dove in
seguito i knížata di Čechy si sarebbero spesso ritirati per divertirsi e praticare la
caccia. In quel luogo, Krok abitò per un certo tempo, finché non gli venne
conferito il potere: non certamente come a un principe che governava a suo
arbitrio, ma come a un pretore che esercitava la giustizia in modo buono ed
equo. |
|
II a |
Nondum enim ullæ ſcriptæ extabant leges, ſed id habebatur inter plebiſcita, quod
conſuetudo & mores populi approbaverant. Hunc denique majorum ſuorum utatum in
judicando morem Croccus percipuè retinendum putavit, nihil quidquam de illo
immutans, imò ut illum magis adhuc confirmaret, quoteins litem cogniturus pro
tribunali aſderet, neminem qunquam, ni uſu, & experentia, talium morum
peritum in conlium advocavit. Sæpius tamen res controverſas componebat, quam
judicabat, quia magis aliquanto tranſa荒io popularis eſſe, quam judicium
videbatur. |
Infatti non vi erano ancora leggi scritte, ma nelle assemblee si seguiva ciò che
era stato approvato dalla consuetudine e dai costumi del popolo. Soprattutto nel
giudicare, Krok volle conservare le usanze consuete dei suoi antenati, non
mutando niente di esse, anzi, per confermarle ulteriormente. Ogni volta che si
assideva in tribunale per dirimere una lite, non chiamava in consiglio nessuno
se non esperto per uso e conoscenza di tali costumi. Tuttavia componeva le
controversie più spesso di quanto le giudicasse, in quelle che sembravano essere
piuttosto transazioni popolari che non processi veri e propri. |
|
II a |
Cæterum valde ſuperstitio ſus Croccus erat, ut qui fontes, & lucos
pro diis coleret. Sed non ab re fuerit, posteaquam in ſuperstitionem gentis
incidimus, breviter explicare, quam olim opinionem de Deo conceptam Sclavinorum
natio habuerit. Igitur rurſus à Procopio ea, quæ ſuper hac re ſcript, ex
Historia Gothica mutuabimur. |
Fra l'altro, Krok era molto superstizioso perché venerava le fonti e i boschi sacri agli
dèi. Ma non sarà da ciò che, dopo esserci imbattuti nelle superstizioni
popolari, spiegheremo in breve quale opinione un tempo la nazione slava avesse
concepito della divinità. Perciò prenderemo a prestito di nuovo da Prokópios
quanto scrisse su tale argomento nel De bello Gothico. |
|
|
Religio ve cultus Sclavinorum sacer |
La religione ovvero il sacro culto degli Slavi |
|
II b |
In hanc itaque ſententiam Procopius: Sylvas Sclavini & Nymphas colunt, & Dæmones
alios, iiſque ſacrificia faciunt, & inter ſacrificandum vaticinantur. Habent
præterea lege cautum, à majoribuſque traditum, ut inter numerum Deorum, unum
illum, qui t fuminis fabricator, dominum omnium rerum, ac ſolum Deum eſſe credant, illique
boves, & hostias ejus generis alias ma荒ent. Fortunam verò
quid ea t, nec ſciunt, nec vim ullam in homine habere fatentur. Sed quando,
vel domi morbo languentibus, vel foris in prælio periclitantibus mors imminent,
jubentur pro incolumitate ſacrificare, habentque perſuaſum, per ſacrificia ſalutem
bi redemtpum iri. Atque hæc vetus quide eorum ſuperstitio. Succeſt
deinde nova, Carolo Magno rerum potiente, vi荒oreſque Saxonum, & in his
Sclavonorum quoque, quos Rugianos cognominant. |
In questo passo Prokópios afferma: «gli Slavi venerano le selve, le ninfe e altri
demoni, a loro rendono sacrifici e sacrificando traggono vaticini». Hanno
inoltre difeso della legge, quanto è stato tramandato dagli antenati; credono
che, nel novero degli dèi, soltanto chi è l'artefice del fulmine sia signore di
tutte le cose e unico dio, e a lui immolano buoi e vittime del genere. Tuttavia non sanno che cosa sia il destino, né riconoscono che nell'uomo ci sia alcun potere. Ma quando
languiscono in casa per una malattia, o fuori rischiano la morte in battaglia, si ordina di sacrificare per
la loro incolumità e credono di potersi guadagnare la salvezza per mezzo di tali
sacrifici. Queste erano le loro antiche superstizioni. Né seguì una nuova,
quando s'impossessò del potere Carolus Magnus, vincitore dei Sassoni, e tra loro
anche di quegli slavi che chiamano Rügiani. |
|
|
Vitus tutelaris Rugiorum in Svatevitum mutatus |
Vitus, patrono dei Rügiani trasformato in Svantevit |
|
II c |
Placuerat vi荒ori, ut gens vi荒a, cultui præterea & ſacris ritu Romano
peragendis animos dederet, ac cum cæteris Saxonibus ad ſanitatem paulò ante ab
eodem Carolo revocatis, ut templum divi Viti, maxima tunc in veneratione apud
illas nationes habiti, tributis coleret. Pendebant Rugiani templo tributa, quoad
incolumis viveret Carolus: ipſo mortuo nec tributa dare, nec cultum retinere
Romanorum volebant, ſed domi bi fanum, & in eo mulachrum constituentes,
stipem quotannis viri muliereſque, unum quiſque eorum per capita, nummum fano
inferebant. Et cum tributi reddendi nomine à finitimis appellarentur, contentos
ſe eſſe domestico, & Vito, & tributo, reſpondebant. Huic mulachro Svuatoviti,
hoc est divi Viti, vocabulum indiderant. |
Era piaciuto al vincitore che la gente conquistata si disponesse di più al culto
ed officiasse le cerimonie sacre secondo il rito romano; e poi, con gli altri
Sassoni ricondotti poco prima alla salvezza dallo stesso Carolus, venerasse con
tributi il tempio di san Vitus, che allora godeva della massima venerazione
presso quelle popolazioni. I Rügiani pagarono tributi al tempio finché Carlo fu
in vita: una volta morto, però, non vollero più dare tributi, né conservare il
culto romano, ma, costruendo per sé in patria un tempio con la statua, ogni anno
uomini e donne portavano, in offerta, un danaro ciascuno. Ed essendo chiamati
dai confinanti a dare un nome al tributo, rispondevano che andava bene per loro
che fosse «domestico», o «Vitus», o semplicemente «tributo». A questa statua
avevano imposto il nome di Svantovit, cioè «san Vitus». |
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Idoli Suatoviti figura & ritua colendi |
Aspetto dell'idolo di Svantovit e pratica dei riti |
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II d |
Effigies erat quadrifons, qualis olim Jani apud nonnullos, ut circumstantes ab
omnì fani parte, conſpe荒u myulachri perſuerentur. Dextra cornu, leva arcum
gestabat, proximè ſuſpenſa erant, ens, frenum, ſella, juxtaque candidus equus stabulabatur
mulachro conſecratus: eum ſacerdos fani albat, ſeque & populum
opinione implebat, qua Suatovitus, equo illo adverſus religionis ſuæ hostes
militaret. Sæpe enim idem ſacerdos, anhelantem adhuc & ſudantem, à no荒urna
exercitatione diluculo eum ſpe荒atoribus ostendebat, ſacraque Suatovito, vino &
placenta faciebat: vinum pridie ſolemniter in cornu, quod dextra gerebat,
infuſum, postridie integrum ne ulla diminutione manebat, bonum incrementi
liquidarum fluentiumque rerum illius anni egventum gnificari dicebat: malum
verò quid de vino fuerat ſua ſponte diminutum. Habuit & placenta, à ſacerdote
& populo comeſa, ſua præſagia, futuram ejus anni frugum copiam, aut inopiam
præſagiens. Eratque ſacrificium utrumque ad mores gentis prorſus appotiſmum,
quidem in hune uſque diem Sclavini placentis & vino nimium dele荒antur,
tra荒antque libenter arma & belligerantur, mulachrum illud vetus bellicoſum
armiſque instru荒um imitantes. |
La statua era quadrifronte, simile, presso alcuni, alla vecchia figura di Ianus, affinché
gli abitanti fruissero della sua immagine da ogni lato del tempio. Con la destra
teneva il
corno, con la sinistra l'arco; vicini erano sospesi la spada, le briglie, la
sella, e appresso stava in una stalla un candido cavallo consacrato al
simulacro: lo nutriva un sacerdote del tempio che appagava sé stesso e il popolo
con l'idea che quasi Svantovit combattesse su quel cavallo contro i nemici
della sua religione. Spesso, infatti, lo stesso sacerdote, lo presentava in
pubblico sul far dell'alba ancora ansante e sudato dopo l'esercitazione
notturna, e offriva sacrifici a Sventovit con vino e focacce. Diceva che, se il
vino solennemente versato la vigilia nel corno che portava nella destra fosse
rimasto intatto il giorno dopo, senza alcuna diminuzione, stava a significare il
buon presagio di un abbondante incremento di beni, per quell'anno, ma cattivo se
un po' di vino fosse spontaneamente diminuito. Anche la focaccia, mangiata dal sacerdote e dal
popolo, espresse E aveva la focaccia,
mangiata dal sacerdote e dal popolo, esprimeva i suoi presagi, indovinando la
futura abbondanza o scarsezza di raccolti del medesimo anno. Ed entrambi i
sacrifici erano proprio molto consoni alle abitudine della popolazione, se anche
oggi gli Slavi si dilettano troppo di focacce e vino, maneggiano volentieri
le armi e si fanno la guerra, imitando quell'antica bellicosa statua adorna di
armi. |
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Primo congreſſu Bohemorum ſalutatio. |
Il saluto dei Čechové al primo incontro |
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II e |
Diu hæc ſuperstitio, & cultus ejuſdem mulachri, etiam inter Bohemos viguit, donec
Divus Wenceslaus, Principe Bohemiæ agens, impetratis ab Othone Cæſaræ Divi Viti
reliquiis ſan荒um Virum idolo
profano abolito, venerandum Bohemis exhibuit. Sed ne t quidem memoriam
Suatoviti dlere ex mente Bohemorum quivit: quippe nunc quoque nullam magis ſolemnem Bohemi
ſalutationem habent qua eam, quæ fit ſub Viti nomine: exceptum
enim vel ſoſpitem, vel amicum, vel intimum quem quam peregre advenientem, Vitei
Vitei ingeminant, ſoſpitati, qua á Suatovito conceſſæ, ita congratulantes, quia fortè ita evenit unt peste
circumvicinos increbeſcente, ip duntaxat, qui
Suatovitum colebant, à contagio integri & incolum? permaneſerint. |
A
lungo questa superstizione e il culto di tale statua rimase in voga
anche presso i Čechové, finché san Václav, allora
kníže di Čechy,
ottenute da Cesare Ottone le reliquie di San Vito, abbattuto l'idolo profano,
mostrò ai Čechové il santo uomo da venerare. Ma non riuscì a togliere
dalla mente dei Čechové neppure il ricordo di Svantevit: dal momento che anche ora i Boemi non
hanno nulla di più solenne del saluto che avviene nel nome di Vito; infatti,
ricevuto un ospite o un amico o un parente venuto da lontano, ripetono Vitei
Vitei, rallegrandosi così per l'ospitalità, quasi concessa da Svantovit. Era
avvenuto, infatti, per caso che, diffondendosi la peste tra i popoli vicini,
soltanto quelli che veneravano Svantovit, rimasero sani e salvi dal contagio. |
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Croccus Solonis vel Lycurgi munere apud Polonos perfun荒us |
Krok assume il compito di Sólōn e Lykoûrgos presso i Poloni |
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II f |
Sed ut jam à diverticulo in via redeamus, tanta cum laude & gloria Croccus rem
publicam Bohemiam administravit, pagiſque illam acibuſque, & aliis novis
ædificiis ampliavit inventis tunc fortè in fluminibus auri ramentis, non ſolùm
domi apud ſuos, ſed foris atia apud Polonos gratioſus fuerit, adeo ut Poloni ad
eum legatos mitterent oratum, ne gravaretur in Poloniam venire, ibi quoque statum
reipublicæ, controveras hominum compoturus. Venit ille, venienſque ita est fun荒us
officio ſuo, ut Poloni, in honorem ejus, arci novæ e oppido, cui tunc primum
fundamenta ad Vistulam flumen poſuerant, Croccoviæ vocabulum indere. |
Ma per ritornare dalla digressione al discorso principale, Krok amministrò lo
stato ceco ricavandone tanta lode e gloria, e l'ampliò con villaggi e fortezze
e con altri nuovi edifici. Avendo poi trovato per caso sabbia d'oro nei fiumi,
non solo godette di favori in patria, presso i suoi, ma anche fuori, presso i
Polacchi, tanto che questi gli inviarono ambasciatori per pregarlo di non
disdegnare di venire in Polonia, per ricomporre anche là l'assetto dello stato e
le controversie degli uomini. E veramente egli, venendo, adempì così bene il suo
ufficio che i Polacchi, in suo onore, alla nuova rocca e cittadella di cui
finora avevano posto le fondamenta presso il fiume Vistola, assegnarono il nome
di Krákow. |
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Croccovia in Polonia erigo. Filiæ Crocci ſeu Sibylla, Bela, Tetcha. |
Krákow edificata in Polonia. Le figlie di Krok, cioè Sibylla, Bela, Tetka |
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II g |
Nulla Crocco virilis
ſexus proles fuit, ſed moriturus tres à morte ſua filias ſuperstites reliquit
omnes (ut ipſe erat) fatidicas, vel magas potius qualis Medea & Circes fuerant.
Nam
Bela nata filiarum maxima, herbis incantandis Medea imitabatur, Tetcha natu
minor, carminibus magicis Circem reddebat. Ad utramque
frequens multitudinis concurſus fieri, dum alii eorum formam bi & amorems
conciliare, alii cum bona valetudine in gratiam redire, alii res amiſſas
recuperare cupiunt. Qua arte ita Belam excelluiſſe ferunt, ut proverbii vice, in
re inventu prorſus difficili ja荒aretur: ne Belam quidem reperire id poſſe, quod
t perditum: hæc arcem Belinam, illa altera, arcem Thetin, ex mercenaria
pecunia (nihil enima gratuitò faciebant) ædificandam curavit. |
Krok non ebbe figli maschi ma, alla sua morte, lasciò tre figlie, tutte
profetesse, così
come era lui stesso, o piuttosto maghe, come erano state Medea e Circe.
Bela, la maggiore, imitava Medea con erbe incantate;
Tetka, la
seconda, ricordava per le sue formule magiche, Circe. La gente accorreva
numerosa al loro cospetto: alcuni desideravano conciliare la bellezza e l'amore,
altri recuperare una buona salute, altri reperire cose perdute. E
si tramanda che in tale arte eccellesse Bela, tanto che, a mo' di proverbio, si
andava dicendo, di fronte a cose proprio difficili da ritrovare, che ciò che
nemmeno Bela fosse in grado trovare era davvero perduto.
Per mezzo
del denaro che ricevevano (non facevano nulla di gratuito) l'una edificò la rocca di Belín, l'altra la fortezza di Tetín. |
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III |
Lybuſſa imperio praficitur |
Libuše profetizza il principato |
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III a |
Liberalior in hac re Lybuſſa natu minima apparuit, ut quæ à nemine quidquam
extorquebat, & potius fata publica omnibus, quàm privata ngulis præcinebat:
qua liberalitate, & quia non gratuita ſolùm, ſed etiam minus fallaci
prædi荒ione utebatur, aſſecuta est, ut à viris comitia prætoria habentibus, in locum
patris Crocci ſubrogaretur. Vetus autem mos etiam Germania fuit, ut
mulieribus fatidicis fummos haberent honores. Etenim ſcribit Tacitus, ſe, cum
Veſpaanus Cæſar imperium obtineret, vidiſſe, Germanam Velledam diu apud
pleroſque Germanos Numinis loco habitam, ne quis, ut rem novam miretur, Bohemi Lybuſſam vatem
ſuam bi præpoſuerint. Numini enim hoc magis, quam homini
datum est. Ergo etiam multò tolerabilius vatem illam, quam judicem tolerabant.
Lis fortè ditiori cum tenuiore de finibus agrorum inciderat, eamque litem ambo
in foro Lybuſſæ perſecuti ſunt, in quo palam convi荒us ditior, injuriæ illatæ
est condemnatus. |
In merito,
Libuše, la minore, si dimostrò più liberale: non estorceva
nulla a nessuno, prediceva davanti a tutti i pubblici destini, piuttosto che
il futuro alle singole persone. Per tale liberalità, e poiché praticava profezie
non solo gratuite, ma anche meno fallaci, finì per essere collocata, dagli
uomini che tenevano i comizi pretori, al posto del padre Krok.
Era infatti un antico costume, anche presso i Germani, di riservare sommi onori alle donne che
predicevano il futuro. E dal momento che Tacitus scrisse di aver visto, quando Caesar Vespasianus ottenne l'impero, la germanica Velleda, considerata a lungo
presso gran parte dei Germani come una divinità, nessuno si meravigli, come di
una stranezza, se anche i Čechové abbiano preposto Libuše come loro sibilla. Tale
capacità, infatti, viene conferita a un dio, più che a un uomo. Perciò la
tolleravano assai più facilmente come indovina che come giudice. Era scoppiata
una lite, per questione di confini agricoli, tra un uomo più ricco e uno più povero,
ed entrambi presentarono la loro vertenza a Libuše, nel foro, dove il più ricco,
confutato pubblicamente, fu condannato per aver recato offesa. |
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Traducitur γυναικοκρατεία |
S'instaura la ginecocrazia |
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III b |
Non tenuit is infra dentium ſeptum iracundiæ vocem, ſed ad ſuos comites verſus, quouſque tandem, inquit, una muliercula tot
viris inſultabit, ac non ſatis
aliunde nobis dedecoris ſuperest, ni ut quoque cumulus imperii muliebris
accedat? Quanto honestius est viros regi à viris, id quod & natura &
mores
gentium approbant, quam turpiter ſubjici fœminæ, ad penſa inter puellas
diſpenſanda, quam ad negotia virilia tra荒anda magis idoneæ. |
Non trattenne a denti stretti la voce dell'ira ma, rivolto ai suoi compagni,
disse: «Fino a quando una donnicciola insulterà tanti uomini e non ci resta
abbastanza disonore, in altro modo, se non in questo eccessivo potere
femminile? Quanto è più
onesto che gli uomini siano governati da uomini, e questo lo approvano sia la
natura, sia i costumi dei popoli, anziché essere turpemente soggetti a una
femmina, ben più idonea a dispensare i lavori tra ragazze che a trattare questioni
virili». |
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III b |
Adhæc Lybuſſa, ut erat animo maſculo prædita, ingenueque & libere educata: Quo
pa荒o (ait) id quod nata ſum negare ego poſm ant debeam? Planè ita est ut dicis, mulier
ſum ego, ſed ad quam tu quoque cum cæteris juriſdi荒ionem transtuleris, non eo utique, ut ex tua libidine,
ſed ut ex æquitate jus æquabiliter dicerem, proinde aufer hinc intempestivam contumeliam, & vince
potes argumentis, injuriam tibi à me eſſe fa荒am. |
A queste parole, Libuše, dotata
di animo virile ed educata in modo schietto e libero, rispose: «Per quale
motivo potrei o dovrei negare ciò per cui sono nata? Certamente, come tu dici,
sono donna, alla quale però, anche tu, con gli altri, hai trasferito
l'amministrazione della giustizia, non per servirtene a tuo piacimento, ma
affinché con imparzialità esponessi equamente il mio giudizio; perciò smettila
con insulti inopportuni e prova ad argomentare, se puoi, l'offesa che ti
avrei arrecato». |
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III b |
At ille furibundus, minitabunduſque è conſpe荒u ſe proripit, ne abiens destitit dominatum muliebrem,
ut præposterum, traducere multis rurſus mutationis rerum cupidis. Quo illa
cognito & præterea comperto, quod viri novarum rerum studio in arcem Lybs
nomine, (quam ad Albim fluvium ubi num Colonia est bi Lybuſſa construxerat,)
ventum eſſent, intromitti venientes jubet, ac pris ipſa loqui incipit inquiens:
|
Ma quello, furibondo e minaccioso,
rapidamente si allontanò dal suo cospetto, né andandosene desistette dall'idea che il potere
femminile, come ormai fuori tempo, passasse a molti desiderosi, ormai, di
cambiare le cose. E lei, compreso ciò ed essendo venuta a sapere fra l'altro che
nella fortezza chiamata Libušín (che Libuše si era costruita presso il fiume
Labe dove ora è Kolín) erano giunti uomini fautori di novità, comandò di
farli entrare, e per prima ella stessa cominciò a parlare dicendo: |
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Excuſatio Lybuſſæ |
Autodifesa di Libuše |
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III c |
Dabitis mihi hanc veniam viri Bohemi, antea,
quam voſ audiam defenonis meæ rationem putem habendam ita enim uti faciam non
magis innocentia mea quam pudor vester flagitare videtur. Nam ego indigna honore
cuiquam vestrûm eſſe videor, quia puella nata ſum, vobis profe荒o erubeſcendum,
qui ultro ingnia honoris ad puellam detuleritis. Sin plus valuit qualis existimatio
nominis mei, cujus gratia me publico magistratu condecorandam putaveritis meus
iste jam pudor meaque culpa fuerit, impotam mihi a vobis perſonam, non ea qua
debeam virtute ſustineam. |
«Mi perdonerete, o cechi, se prima di ascoltarvi, io ritenga si debba
aver ragione della mia difesa e fare sì che non tanto la mia innocenza quanto il
vostro rispetto sembrino sollecitarla. Infatti, essendo nata femmina, sono
considerata da qualcuno di voi indegna d'onore; in realtà dovrete accrescerlo
proprio voi che, spontaneamente, avete conferito le insegne di tale onore a una
donna. Ma se è valsa di più una qualunque stima del mio nome, grazie al quale
avete ritenuto di elevarla a una carica pubblica, ora la mia vergogna e la mia
colpa sarebbero quelle di non sostenere il ruo-lo da voi impostomi con quella
virtù che dovrei. |
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III c |
Hic verò ego nullius libentius quam vestram impoloro conſcientiam. Nemo enim est vestrûm qui neſciat quemadmodum me in magistratu geſſerim, geramque, non aliter
videlicet ac pater meus ſe geſt, qui jus æquabile perpetuo coluit, deditque ſedulam operam, ut pari inter
vos jure, ita ut cives inter cives vivere convenit,
viveretis, ſed nec aliter justus haberi potuiſſet, ni ad huncmodum in officio
ſuo ſe geſſſet. Nec item ego ſucceſone justi patris in Magistratu digna eram, injusta ſequi, gratiamque cujuſvis æquitati anteferre voluiſſem:
ſed hæc
voluntas justitiæ paternæ mutandæ nec nunc mihi adest, nec unquam aderit, vobis
autem diſpiciendum est, tne vobis omnibus propter unius iniquitatem &
importunitatem, præſens rerum status commutandus. |
«Ma in verità io qui non imploro niente di
meglio della vostra coscienza. Infatti non c'è nessuno di voi che non sappia
come mi sia comportata e mi comporti nel gestire la giustizia: proprio non
diversamente da come fece mio padre che curò sempre un diritto egualitario e si
applicò attivamente affinché viveste con pari diritto tra voi, così come si
conviene che cittadini vivano tra cittadini; altrimenti non si sarebbe potuto
ritenere giusto se, nel [fare] il suo dovere, non si fosse comportato così. E
parimenti non sarei stata degna di succedere a un padre giusto nel suo lavoro di
magistrato se avessi voluto assecondare cose ingiuste e anteporre all'equità il
favore di qualcuno. Ma questa volontà di cambiare la giustizia paterna, ora non
è presente in me, né mai lo sarà; d'altra parte, voi dovete discernere se, per
l'iniquità e l'impudenza di una sola persona, si debba trasformare il presente
stato delle cose. |
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Seditio adverſus Lybuſſam |
Reazione contro Libuše |
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III d |
Reticentibus ad hæc cæteris, iterum is qui Author ſeditionis fuit, Lybuſſæ c inſultat: Annon
animadvertitis, inquit, cives, quam invita de lætioribus paſcuis bucula ista
decedat, ſed jam vi inde exturbanda est, ſua ſponte loco ſuo concedere viro alicui
Principi noluerit. |
A queste parole tutti gli altri rimasero in
silenzio, e per la seconda volta colui che era stato l'autore del conflitto così insulta
di nuovo Libuše: «Per Annon, cittadini, osservate quanto mal volentieri questa
piccola vacca si allontani dai pascoli più rigogliosi; ma ormai deve essere
cacciata da qua, se non vorrà cedere spontaneamente il suo posto a un uomo, a un
qualche principe! |
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Apologus milis Æſopico de ranis petentibus ab Iove Regem. Vide Phædrum |
Apologo simile a quello di Aesopus delle rane che
chiedono a Iuppiter un re. Vedi Phaedrus |
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III e |
Nihil hac voce deterrita Lybuſſa, rurſum
cum viris, ſed jam per apologum agit, inquiens: Mares quondam columbi dicuntur
in comitiis ſuis Principem bi palumbem fœminam delegiſſe,
celeriterque commutata ſententia imperium eidem abrogaſſe, quod imperii
mollioris indulgentioriſque sub muliere turbam tæderet, illudque mox ad
accipitrem tanquam natura & ſexu ferociorem transtuliſſe: porro accipitré imperio
in columbos accepto, planè virum ſe erga illos demonstraſſe, aſſultu, raptu,
laniatu, qualem morem in hunc uſ diem posteri accipitris obtinerent in obvias
columbas alis & unguibus involantes, eaſque diſcerpentes. Ne quid igitur mile
columbarum ex mutatione Magistratus Bohemis eveniat, ips quam maxime intentis
oculis, re adhuc integra eſſe videndum, ne post rem malè a荒am, ſero fa荒i pœniteat.
|
Per nulla intimorita da queste
parole, Libuše, rivolta di nuovo agli uomini, si esprime allora con un apologo,
dicendo: «Si tramanda che, un tempo, dei colombi maschi si fossero scelti, nei
loro comizi, come capo, una colombella, ma che presto, cambiato parere, le
avessero tolto il comando, dal momento che
alla moltitudine rincresceva il potere più debole e indulgente di una
femmina, e lo trasferirono subito a uno sparviero, per natura e per sesso più
feroce. Dopo di che, ottenuto il comando sui colombi, lo sparviero si dimostrò
davvero virile nei loro confronti, assalendo, rapinando, dilaniando, secondo il
modo che, fino a oggi, i suoi discendenti hanno mantenuto verso i colombi che
vanno loro incontro, piombando loro addosso con le ali e gli artigli, e
facendoli a pezzi. Perciò, affinché non capiti ai Čechové qualcosa di simile alla
favola dei colombi, per il cambiamento di un magistrato, essi stessi devono
badare a che la cosa, finora integra, lo rimanga, per non pentirsi troppo tardi
del fatto, dopo una questione mal gestita». |
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III e |
Cum per hæc quoque ſurdis
narrareret fabulam, jamque inſuper metueret ne arbitrio concionis Princeps,
qualem ipſa minimè cuperet, declararetur (talis verò erat qui Caurimn vico
præfuit, pruximus dignitate à Crocco,) orare institit, ut diis potius quam
hominibus authoribus vir aliquis in Bohemia Princeps crearetur.
|
E narrando la favola, con queste parole,
anche a quelli che non ascoltavano, e temendo oltretutto che ad arbitrio
dell'assemblea fosse dichiarato kníže
chi ella stessa non desiderava affatto (tale era in realtà uno che ebbe il
potere sulla via di Kouřim, di dignità pari a Krok), insistette a chiedere che
in Čechy fosse creato principe qualcuno, più per volere degli dèi che degli
uomini. |
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Deo Au荒ore Principes creandi |
Gli knížata
creati per volere di Dio |
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III f |
Orationi aſſentientes reverti postridie omnes ad audiendum
oraculum, quod dii per no荒urna ſacrificia propitiati de futuro Principe
ediderint, jubet. |
A quelli che furono d'accordo con il suo discorso, comandò di tornare tutti il
giorno dopo, per ascoltare l'oracolo che gli dèi, resi propizi dai sacrifici
notturni, avrebbero emanato sul futuro kníže. |
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LIBER SECVNDVS |
LIBRO SECONDO |
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IV |
Premiaũ & maritum & potestatis conſortem aſciſcit Lybuſſa |
Libuše si prende Přemysl come marito e principe
consorte |
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IV a |
Postridie mane ad horam revers omnibus (excitaverat enim per tempus omnes dederium
cognoſcendi Principis, quem fata Bohemis destinaſſent:) Lybuſſa in medium eorum
cum puellis progreditur, & an pridianum mentis rigorem fle荒ere viri nollent,
principio interrogat. Reſpondentibus, nolle, tum deinde illa, quod bonum ait faustumque
& felix t: Dii mihi maritum, vobis Principem dant, Premislaum nomine. |
L'indomani mattina, ritornati tutti all'ora stabilita (infatti li aveva
svegliati tutti, per tempo, il desiderio di conoscere il kníže
che il fato
avrebbe destinato ai Čechové), Libuše, accompagnata dalle altre fanciulle, avanza
in mezzo a loro, e subito
chiede se gli uomini non vogliano rinunciare all'ostinazione del giorno
precedente. Al loro diniego, lei annuncia dunque ciò che
di buono, fausto, felice sta accadendo: «Gli dèi dànno a me un marito, e a voi un kníže, di nome
Přemysl». |
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IV a |
Obstupefa荒i ad nomen & hominem
bi ignotum, rogant Lybuſſam, ubinam gentium vir ille vitam coleret? Virum eſſe
indigenam Lybuſſa respondet, & præterea fortunam quoque viri ſcire cupiant,
planè eſſe colonum & rusticum. Cæterum utriuſque rei cauſa Diis eſſe gratiam
habendam, prioris, quod oves vernaculas domestico pastori, non autem lupo externo
committendas decreverint: posterioris, quod ſummum honorem ad infimam eoque minus
inſoleſcentem hominis ſortem transtulerint, eidemque conceſſerint facultatem per
fortes futura prædicendi. Ejus adeo hominis maturo conſpe荒u perfrui
concupiſcenrent, mature eſſe deligendos legatos, qui illum adeant, Principemque
conſalutatum in arcem Vicegradum deducant. |
Stupefatti per il nome e
per la persona a loro ignota, chiedono a Libuše
dove mai viva quell'uomo. È un uomo del posto, risponde
Libuše, e se vogliono anche conoscere la sua condizione, è evidente che
si tratta di un colono, di un uomo di campagna. «E
proprio di questo si devono ringraziare gli dèi. Innanzi tutto per aver
stabilito di affidare le greggi domestiche a un pastore locale e non a un lupo
straniero e, in secondo luogo, per aver conferito il sommo onore a un uomo tanto
umile, e perciò meno insolente, e di avergli anche concesso la facoltà di
predire il futuro per mezzo di oracoli. Perciò, se desiderate
che sia quanto prima al vostro cospetto, è tempo di scegliere dei legati che si
presentino a lui e che, salutatolo come principe, lo conducano alla rocca di
Vyšehrad.» |
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Premiaus arator equi Lybuſſa indicio deprehenditur |
L'aratore Přemysl viene riconosciuto da Libuše su
indizio di un cavallo |
|
IV b |
Deligunt continuo legatos viros primores decem, quibus ad Lybuſſam addu荒is,
ostendit eis Lybuſſa equum ſuum, instrato & ſella constratum, mandatque, ut decem
equum ſua ſponte vadentem legati tanquam comites aſſe荒arentur, de via in nullam
partem defle荒entes quoad pervenerint ad aratorem ad menſam ferream prandentem.
Quo demum viſo ſalutatoque, injungit, ut eundem aratorem Principem appellarent,
indutumque purpura & calceis quos dabat, ut re荒à in arcem Vicegradenſem
adducendum curarent. |
Scelgono subito come ambasciatori dieci tra gli uomini più in vista e, condotti
da Libuše, ella mostra loro il suo cavallo bardato di gualdrappa e di sella e
comanda che i dieci legati seguano il cavallo, senza deviare mai dal suo
percorso, fino a quando non giungeranno presso un aratore intento a mangiare su
una mensa di ferro. E ingiunge che, finalmente visto e salutato, lo chiamino
kníže e vestitolo di porpora e dei calzari dati
loro, lo accompagnino degnamente alla rocca di Vyšehrad. |
|
IV b |
Legati mandatis à Lybuſſa accepetis, equi vestigiis instunt quacunque præiret
nec jam ne tædio, quippe paulò minus quinquaginta millia paſſuum pedibus emen
erant cum ecce tibi equus, ut est ventum ad ripam fluvii Belinæ, quo loco pagus Stadicius vitur, ſubito ſe de via in agrum convertit, recens tunc & pro
meliori parte proſciſſum, pergitque re荒o gradu ad aratorem, ac proximè accedens,
poplites ei una cum cervice, qua venerabundus ſubmittit. Sedebat immotus arator in
stiva, atrumque panem & caſeolum de vomere, menſæ vicem fungente ſustollens arrodebat, tentiſper, dum legati mandata Lybuſſæ exequerentur, eumque Principem
conſalutarent: inde confestim exurgens, stimulum colurnum, qui juxta aratrum
jacebat arripit, aditque ad boves ſuos, qui proxime paſcebantur, ambo candidi,
ni quod maculis fulvis alicubi aſper fuerunt: eos boves stimulo illo
exstimulat, faceſte hinc, dicens, ſudoris laborisque ſocii, retroque unde venistis protinus devolvamini. Atque illi repente ambo ex oculis in tenuem evaneſcunt
auram, mox stimulum ipſum plantæ modo in terram pangit, qui pun荒o item temporis in corylum coaluit, ternis ramis frondentem, quorum
duo illico exaruerunt, at tertius nuces etiam avellanas ostendit. |
Gli ambasciatori, ricevuti gli ordini da Libuše, si mettono sulle orme del
cavallo, lasciandolo vagare liberamente. Dopo aver percorso quasi cinquantamila passi,
erano ormai annoiati, quand'ecco il cavallo, giunto sul sponda del fiume Bílina, dove sorge il villaggio di Stadice,
all'improvviso devìa dalla strada in un campo, la cui miglior parte era stata
lavorata da poco. Con passo regolare [il cavallo] si dirige verso l'aratore e,
appressatosi a lui, piega le zampe e china il capo, quasi nell'atto di venerarlo. L'uomo
sedeva immobile sulla stanga dell'aratro e, sollevandolo dal vomere che usava
come tavolo, masticava pane nero e formaggio. Intanto, eseguendo gli ordini di
Libuše, gli ambasciatori lo salutano come kníže.
Ad un tratto, alzatosi, [l'uomo] afferra il pungolo di nocciolo che si trovava
presso l'aratro e si dirige verso i buoi, che pascolavano lì vicino,
entrambi dal manto bianchissimo, appena cosparso di macchie rossicce. Stimola i
buoi con il pungolo, dicendo: «Via di qua, compagni di sudore e di
fatica, ritornate subito indietro, da dove siete venuti». E immediatamente
quelli svaniscono da entrambi dagli occhi, in un'aura sottile, e subito il pungolo, a
mo' di pianta, si radica in terra e cresce all'istante un nocciolo
frondoso, con tre rami. Di questi, due subito si seccano, mentre sul
terzo spuntano anche le nocciole. |
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|
Præſagiæ de incrementis & duratione imperii Bohemici. |
Presagi sullo sviluppo e la durata del principato
di Čechy |
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IV c |
Ab his tandem præstigiis ad legatos verſus, cedamus inquit, pareamuſque Numinibus ab aratro
nos ad ſolium Principale
vocantibus. Quam vellem tamen, cuperemque ut paulò ſerius huc adveniſſetis, tum
videlicet, cum veru a荒um exaraſſem, majora
omnino tunc imperii olim incrementa forent, etiam præſentia boni
conſulere jure optimo debeamus. Quo finito
vestitum obſoletum rusticanumque deponit,
ac ſe purpura & calceis à Lybuſſa miſs induit,
lautiorque jam inde equum conſcendit, Vicegradum iturus ad celebrandas nuptias,
& ad capeſcendum in Bohemos imperium. Cum paulum proceſſſet, heu mihi, inquit,
manticulam in qua obſonium inerat, &
carbatinas quibus calceatus eram, charas mihi exuvias, mecum auferre oblitus ſum,
redeat oro unus aliquis in agrum & ad me
utraque referat. |
Dopo tali prodigi, [l'aratore] si rivolge agli ambasciatori, dicendo:
«Andiamo e obbediamo agli dèi che ci chiamano dall'aratro al trono del
kníže. Quanto avrei voluto e desiderato, però, che foste arrivati un po'
più tardi. Allora, senz'altro, avendo portato a termine l'aratura, il regno
si sarebbe un giorno elevato a più alti destini, anche se dobbiamo apprezzare a buon diritto le cose
presenti». Detto ciò, depone il suo abito obsoleto e rustico, si veste della
porpora e dei calzari inviati da Libuše e, ormai sontuoso, monta a cavallo
per andare al Vyšehrad, per celebrare le nozze e assumere la sovranità sui
Čechové. Ma
dopo aver cavalcato per un po', disse: «Ahimé, ho dimenticato di prendere la
bisaccia nella quale tenevo il cibo e i calzari villerecci che indossavo,
miei trofei in fibra vegetale. Vi prego, che qualcuno torni al campo e mi
riporti entrambe le cose». |
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IV c |
Qui retulit, quid est, inquit, Princeps, cur tanti tu æstimes vilem perulam &
agreste calciamentum, abjicienda mea opinione utraque potius, quam oculis
alicujus ingerenda ni rideri ob hæc à ſpe荒atoribus, quam celebrari
mavis? |
L'incaricato, al suo ritorno, chiese: «Come mai,
kníže, stimi tanto una semplice bisaccia e un
rustico calzare che, secondo me, sarebbero da buttar via, a meno che tu non
preferisca essere deriso, esponendoli alla vista di ognuno, anziché essere
celebrato dagli astanti?» |
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Agathocles fictilibus cenabat |
Agatocle cenava in piatti d'argilla |
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IV d |
Immo celebrabor per ista, inquit, magis quam deridebor, fortunæ meæ ad
posteros monumentum reliquero, quo ſubmoniti ſucceſſores Principes, minus olim intumeſcant. Valde enim
inſolens Princeps fuerit, quiſquis crepundiis originis ſuæ tam agrestibus conspe荒is, tumorem animi & inflationem
non ſepoſuerit. |
«Senz'altro sarò per questo celebrato più di quanto non sarò deriso» rispose,
«se avrò lasciato ai posteri una memoria della sorte che mi è toccata. Servirà
da ammonimento ai futuri principi, affinché non montino in maggior superbia.
Sarebbe infatti un principe assai insolente quello che, sprezzando un'origine
tanto umile, non allontanasse da sé la superbia e la baldanza d'animo.» |
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IV d |
Captus tam tempestivo reſponſo legatus, pergit inter eundum cætera exquirere.
Quorſum vicelicet prodigia de bobus, deque stimulo tenderent. |
Colpito da una risposta così tempestiva, il legato passò a interrogarlo sul
resto: che cosa significassero cioè, i prodigi dei buoi e del pungolo. |
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Posteritas Premislai quamdiu duratura |
Per quanto tempo sarebbe durata la discendenza di
Přemysl |
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IV e |
Illud, reſpondit, ad gloria ſuam pertinere, quod à bobus ad equos, ut dicitur,
tranſcenderit, hoc ad filios quo habiturus eſſet. Ut enim duo rami ex stimulo
prognati statim aruerunt, ita olim fata duos bi filios ostenſura eſſe tantummodo, ac mox è medio ſublatura. Tertium tantum modo non
ſolum ad lætas frondes, verum etiam ab uberes fru荒us prove荒um
iri. Et vestro,
inquit, interventu aratio non fuiſſet
interrupta, ſed abſoluta, futurum mul fuiſſet, ut stirps mea virilis nunquam
apud Bohemos exareſceret. Nunc multa quidem ſæcula illam eſſe duraturam, ad prostremum
tamen occaſuram, cum nepos ultus fueri avum. |
[Přemysl] rispose che era da ascriversi a sua gloria il fatto che, come si
suol dire, fosse asceso dai buoi al cavallo, e che così sarebbe stato per i
suoi figli. E come infatti i due rami, spuntati dal pungolo, si erano subito seccati,
così i fati gli avrebbero mostrato e subito tolto due suoi figli. Soltanto il terzo non solo sarebbe arrivato a fronde rigogliose ma
anche a frutti abbondanti. «E se l'aratura non fosse stata interrotta dal
vostro intervento, ma fosse stata portata a termine,» continuò, «allo stesso
modo, la mia progenie maschile non si sarebbe mai estinta
presso i Čechové. Essa durerà per molti secoli; alla fine, però, tramonterà,
quando un discendente avrà vendicato il suo avo.» |
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IV e |
Post has milesque verborum ambages
arci Vicegrado appropinquantibus, viri Bohemi, qui ad Lybuſſam venerunt, magno
alius alium antevertendi studio obviam
procedunt, ac pro ſe quiſque gaudium aut officium ostentant: pari animi
alacritate Lybuſſa eundem excipit, nuptiaſque
pariter, ut dignum fuit, apparat. |
Dopo queste e simili misteriose parole, ormai vicini alla rocca di Vyšehrad,
quei cechi che erano venuti da Libuše, gli vanno incontro con l'intento
esclusivo, l'uno di reprimere, l'altro di ostentare, ciascun per sé, la gioia o
il senso
del dovere. Con pari alacrità d'animo, Libuše riceve
Přemysl e
organizza degne nozze. |
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Praha ortus, etymon & augurium |
Praga: fondazione, etimologia e profezia |
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IV f |
Atque ita
quod nulla ratione, nullaque perſuaone conſequi potuit, in arte & præstigiis
conſecuta est, ut imperium in viros mulier
continuaret, vocabulum tantummodo Principis inane Premislao relinquens, ipſa vim
potestatemque imperii bi perpetuo uſurpabat. Et quoniam parum laxè pro
magnificentia habitare in arce Vicegrado bi videbatur, ad urbem in loco arci
propinquo ædificandam animum adjecit, ipſaque constituendis mœnibus & domibus
areas atque fines definivit, juſtque prima ædifici exordia archite荒os sumere eo
loci, quo vir quidam colonus dedolaret bi caudicem. |
E così, ciò che non si poté conseguire con
il ragionamento o la persuasione, [Libuše] lo ottenne con scaltrezza
e artifici; la donna, lasciando a Přemysl il vuoto titolo
di kníže, ne usurpò
definitivamente
l'energia e l'autorità, riuscendo così a conservare il suo potere sugli uomini.
E poiché le sembrava di scarsa magnificenza abitare nella fortezza di Vyšehrad,
decise di edificare una città in un luogo non lontano e lei stessa progettò dove
innalzare le mura, gli spazi
delle case e i confini, e ordinò che gli architetti
principiassero la costruzione nel luogo in cui un contadino stesse
segando un tronco
d'albero. |
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IV f |
Vadunt archite荒i mœnium fundamenta degnaturi, inciduntque in colonum, ramos
de trunco deſecantem, cum unus aliquis ex illo
archite荒orum numero rogat, quidnam ex trunco adeo curtim detruncato effingere
pararet? Reſpondit ille patrio ſermone, prah,
id est limen, ſe bi ad hostiolum ſuum
fingere; quo ad Lybuſſam relato, illa nomen urbi Praha indit, ac c inter eos qui circumstabant diſſerit:
Quantumvis ipſum
limen res contemnenda eſſe videatur, efficit tamen non raro ut magni Principes
impa荒is in limen pedibus, læſos ſe eſſe querantur, ita ſperarent fore, ut Majestas
& potentia hujus urbis, vel ipſos olim Reges hostilia in eam parantes fit
offenſura. Accedet & hoc urbis Majestati, quod duos habebit præsides, quorum uterque ſuo cœlum divino capite continget. Videre enim mihi viſa ſum, inquit,
geminos olivæ ramos ad aquilonarem urbis partem divinitus enatos, quorum
ſublimitas uſque ad ſydera pertenderet. |
Vanno gli architetti per tracciare le fondamenta delle mura e si imbattono in un
colono che sta ripulendo un tronco dai rami: quando uno
degli architetti gli domanda che cosa si accinga a fabbricare con quel tronco
abbattuto, l'altro risponde, nella sua lingua natia: prah, una «soglia»,
da utilizzare per la sua porticina. Riferita la cosa a Libuše, ella dà alla città il nome di
Praha, e così si esprime verso i presenti: «Sebbene sia ovvio che la situazione non debba tener conto di tale
soglia, non è raro che grandi principi, inciampando su di essa, lamentino di
essersi feriti, così da sperare che sarà la maestà e la potenza di questa città
a contrastare quegli stessi re che un giorno la
minacceranno. E alla maestà della città si aggiunga anche questo: che
avrà due patroni e l'uno e l'altro, per sua mente divina, raggiungerà
il cielo. Mi parve infatti di vedere due rami gemelli di ulivo
miracolosamente spuntati nella zona settentrionale della città, la cui cima si
elevava fino alle stelle». |
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IV f |
Certam quidem ſpem omnes qui aderant animo præſumſerant, ita videlicet olim fore,
ut prædiceret Lybuſſa, ſed nemo tunc intelligebat quinam illi tam ingnes viri
eſſent futuri. Post aliquot ſecula tandem documentis apparuit, viſum tale,
vaticiniumque, divum Venceslaum, divumque Adalbertum prænunciaſſe, quorum alter
Pragæ ut Princeps, alter ut Pontifex præfuit, atque ambo in cœlum atque inter
numina cœlestia relati ſunt. |
Tutti i presenti sperarono certamente che sarebbe
accaduto così come prediceva Libuše, ma nessuno allora poteva capire quali
uomini sarebbero mai stati così insigni. Finalmente, dopo alcuni secoli, in
certi documenti
apparve – e tale fu considerato – un vaticinio che aveva preannunciato
[l'avvento di] svatý
Václav e svatý Vojtěch, il primo dei quali fu kníže di Praha, mentre l'altro
vescovo, ed entrambi furono elevati al cielo nel
novero dei santi. |
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Mors Lybuſſa Repub. prius constituta. |
La morte di Libuše, primo ordinamento politico |
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IV g |
Tres filios Lybuſſa Premislao enixa est, ſed duo præmatura occubuerunt morte:
tertius utrique parenti ſuperstes fuit. Paulò ante obitum ſuum Lybuſſa diſcreto
per ordines populo, nobilibus quidem Magistratus atque honores capiendi potestatem
fecit: colonos verò & opifices intra ſuam quem eorum pelliculam continere ſe
juſt. |
Libuše partorì a Přemysl tre figli, ma due soggiacquero a morte prematura; solo
il terzo sopravvisse ai genitori. Poco prima della sua fine, Libuše, diviso il
popolo in classi, diede ai nobili facoltà di assumere le magistrature e le alte
cariche, mentre ai contadini e agli artigiani ordinò di accontentarsi del loro
stato. |
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IV g |
Obiit autem in arce ſua Lybus, ibidemque ſepulta est, cujus obitu cura
administrandæ reipublicæ tota ad Premislaum est devoluta, virum paritem
ſuperstitioſum, ut uxor fuit, eademque ſuperstitione, qua uxor populum regentem,
ni quod paulò ille agrestius. |
Morì poi nella sua rocca di Libušín, dove fu sepolta.
Dopo di che, l'intero compito di amministrare il principato fu affidato a
Přemysl,
uomo del pari superstizioso, com'era stata la moglie, e che resse il popolo con
le medesime false credenze di lei, se non un po' più rozze. |
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Conjuratio muliebris |
La congiura delle donne |
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IV h |
Erat inter alumnas Lybuſſæ puella quædam Vlasta nomine, præstigiarum patrona,
divinationumque conſcia peritaque: cujus tutelæ Lybuſſa moritura puellas, quas
gynecæo habuit, una cum ipſa arce Lybus commendaverat. At illa arcis tutelam
indepta, ex ea aſpirare ad altiora cœpit. Itaque apparato ad certum diem festivo
in arce convivio, eodem miles studii audaciæque viragines invitat. Ubi finis edendi fa荒us est,
amotis arbitris, Vlasta c ſocias puellas adoritur: |
Tra le seguaci di Libuše vi era una giovane, una certa
Vlasta, fautrice di
incantesimi, abile ed esperta nelle divinazioni, alla cui tutela Libuše,
in punto di morte, aveva affidato le fanciulle che teneva nel gineceo, insieme
con la sua stessa fortezza di Libušín. Ma [Vlasta], ottenuta la potestà sulla rocca, cominciò
a nutrire più alte aspirazioni. Così, organizzato per un certo giorno un allegro
convito alla rocca, vi invitò donne agguerrite, simili a lei per intenzioni e
audacia. Alla fine del pranzo, allontanati i testimoni,
Vlasta si rivolse così alle
sue compagne: |
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IV h |
Doleo, inquit, meam, vestramque omnium vicem, quod non perinde ut dignitas nostra
postulat, jus nostrum contra viros obtineamus, nimium videlicet à morte Lybuſſæ in
ordinem à viris reda荒æ, qua mul cum Lybuſſa omnium aliarum mulierum virtus
interiiſſetm cum ego hic non paucas diſcipulas adeſſe videam, magistra etiam
Lybuſſa præstantiores, ſed nec ego libenter ceſſerim eidem Lybuſſæ de arte, quam
de illa didici. Si igitur una Lybuſſa ingenio, artificioque tantum potuit, ut
viros ſub jugum ſuum mitteret, quid illis fiet postea, nos mul omnes
adverſus eoſdem viros, pro dignitate pristina recuperanda conſpiraverimus? Nec est quod rusticum Principem timeamus, rus enim ille merum olet, nec alia ei major
quam de rure cura. Vos modò mihi dextram in hoc date, ne me neve cauſam vestram,
quovis metu obje荒o prodatis, ſpondeo fore, ut brevi in viros imperium
recuperetis. |
«Mi affliggo per la disgrazia mia, vostra e di tutte, dal momento che,
sottomesse all'ordine maschile, proprio in seguito alla morte di Libuše
non godiamo più dei nostri diritti davanti agli uomini, come richiede la
nostra dignità.
È come se insieme a lei fosse morta l'eccellenza di tutte le donne, mentre io qui vedo presenti non poche alunne di Libuše, anche più
abili
della loro maestra, né io cederei volentieri alla stessa Libuše
riguardo alle arti
che ho appreso da lei. Perciò, se Libuše, con ingegno e artificio insieme,
tanto poté da mettere gli uomini sotto il suo giogo, cosa ne sarà di loro se noi,
tutte insieme, cospireremo per recuperare l'antica
dignità? E ciò non è perché temiamo il kníže contadino: quello puzza solo di
stalla e non ha maggiore interesse che zappare la terra. Perciò,
porgetemi la destra,
per non tradire, per qualsivoglia timore, né me né la nostra causa, e prometto che in breve recupererete
autorità sugli uomini». |
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IV h |
Dant dextras, oblatamque ab Vlasta potionem medicamento odii in viros temperatam,
ordine delibant, remanentque ibidem statim complures, quæ invitatæ advenerant,
ſeque equestri & pedestri, atque aliorum militarium operum meditatione exercent: |
Dànno le destre e in ordine gustano una pozione offerta loro da
Vlasta, mescolata a
un filtro di odio verso gli uomini, e lì rimangono parecchie delle invitate e s'intrattengono a discutere di cavalleria, di fanteria e
di altri aspetti guerreschi. |
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Somnium Premislai ominoſum. |
Il sogno funesto di Přemysl |
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IV i |
Inter hæc Premislao dormienti ſpecies puellæ per ſomnum obje荒a est, dextera
pateram gestantis, eamque Premislao propinare gestientis, quam cum ille accipere
abnueret, puellam viſam eſſe ſanguinem ex eadem patera in terram fundere,
malaque multa capitibus virorum canere. Consternatus tali in ſomnio Premislaus, cœtum virorum ad ſe evocat, præmonetque ſaluti ſuæ, rerumque ſuarum ut
custodes
eſſe vellent diligentiores, ingens enim exitium eis à puellis, imagine, quam per
quietem vidiſſet, denunciari. Ibi aliqui riſu, aliqui convitiis etiam, di荒a Premislai inſomnia proſequi, pars vero puellis inſuper applaudere, quod virilia
munia fœmineis miſcerent. |
Nel frattempo, a Přemysl, mentre dormiva, si presentò in sogno l'immagine di una
fanciulla. Recava nella destra una coppa e la porgeva a Přemysl; e poiché lui non voleva
bere, gli parve che la fanciulla versasse a terra del sangue dalla coppa e invocasse malanni sulla testa degli
uomini. Costernato da tale sogno, Přemysl convocò
un gruppo di uomini, chiese loro di essere custodi più diligenti della sua
incolumità e
dei suoi beni, e li informò di aver avuto in sogno la visione di un immenso
sterminio deciso dalle fanciulle ai loro danni. E allora,
alcuni con risa, altri con schiamazzi, si misero a commentare le parole e
i sogni di Přemysl; qualcuno applaudì le ragazze per aver
frapposto gli impegni virili alle faccende muliebri. |
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Conjuratio muliebris |
La congiura delle donne |
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IV j |
Quo Vlasta accepto, majora indies infestioraque tentare audet, ac modò greges in
agris infestare, modò per vias obvios ſpoliare, modò ipſos agros populari,
prædasque omnium in arcem agere, viris etiam tum cun荒a ista, vel diſmulantibus, vel negligentibus: donec negligentiam ejusmodi incuriamque,
atrociſmum
facinus conlio Vlastæ immani commiſſum viris excuteret. Instruxerat rurſus in arce
convivium Vlasta, jamque non cœlibes modò puellas, ſed ipſas etiam matresfamilias,
quibus non admodum cum maritis conveniebat, ad id ineundum invitaverat. Posteaquam
ſatis ex largiore cibo potuque convivium calere viſum est, interrogat Vlasta nuptas, liberæ an ſervæ vivere mallent?
libertatem
præferentibus, instare
eadem multis verbis, fornitemque odii contra maritos illis ſubministrare,
quoad uſque intelligeret tanto eas furore, quanto cupiebat in maritos eſſe
incenſas: ibi conlium
deinde ſuum aperit, no荒emque
unam omnibus præstituit,
qua ſomno ſopitos interficiant maritos, imperatque ut cæde perpetrata ad ſe cum
ſpoliis maximè equorum & armorum mox revertantur. |
Compreso tutto questo, Vlasta osava tentare imprese
ogni giorno più audaci e più pericolose; ora [le fanciulle] molestavano le
greggi nei campi, ora depredavano quelli che incontravano per via, ora
saccheggiavano gli stessi campi e portavano nella loro rocca il bottino di
tutti. Gli uomini continuavano a trascurare e minimizzare tutto ciò, finché un
atroce misfatto, commesso per crudele decisione di Vlasta,
non scosse la negligenza e l'incuria degli uomini. Di nuovo Vlasta aveva
imbandito nella rocca un banchetto e aveva invitato a parteciparvi non solo le
ragazze nubili, ma anche le madri di famiglia, alle quali non conveniva
presenziare con i mariti. Quando il banchetto si era ormai acceso per il cibo
abbondante e per il bere, Vlasta interrogò le
sposate: se preferissero vivere come donne libere o come serve. Poiché
preferivano la libertà, lei stessa le incalzò con molte parole e fornì loro
motivi di odio contro i mariti, fino a che non si accorse di averle accese, come
voleva, di furore contro gli uomini. A quel punto, manifestata la sua decisione,
stabilì per tutte la notte in cui uccidere i mariti addormentati, e comandò che,
compiuta la strage, ritornassero subito da lei con un bottino soprattutto di
cavalli e di armi. |
|
IV j |
Quod ubi est fa荒um, attoniti inopinato parricidio affines cognatique & amici
cæſorum, ad Principem cum armis adfluunt, existimantes, promptum illum tanti
ſceleris ultorem ſe inventuros: at ille fatis ſe impediri, quo minus festinaret,
ad exigendas de mulieribus pœnas, ſed & ips affinibus impendere exitium
dicebat, per ſe ultionem properarent. Tum verò non contemptus modò, ſed
ingens inſuper indignatio adverſus Principem fuit, qua miſerias, necem
deplorantium, ludibrio etiam magis, quam auxilio dignas putaret. |
Appena queste azioni
furono compiute, stupiti per gli inaspettati delitti, i congiunti, i parenti e
gli amici degli uccisi affluirono in armi dal kníže,
credendo di trovarlo pronto a vendicare tali crimini. Ma quegli disse che il
fato gli impediva di affrettarsi ad esigere castighi nei confronti delle donne e
che la malasorte avrebbe sovrastato anche i congiunti [degli uccisi], se da soli
si fossero apprestati alla vendetta. Sorse allora verso il principe, non solo
disprezzo, ma anche grande indignazione, come se considerasse cosa da nulla,
degna di scherno anziché di aiuto, l'eccidio di coloro che stavano piangendo. |
|
IV j |
Igitur per ſe, ne Principe conglobantur, vaduntque indignabundi, pœnas de
puellis exa荒uri: & quacunque incedunt obvios quoslibet agmini ſuo aggregant,
eratque agmen abſque certo Duce & gnis, prorſus inconditum. |
Così [i congiunti] si riunirono per conto loro, senza il kníže, e
andarono
gonfi d'ira a esigere castighi nei confronti delle donne, aggregando alla
loro schiera chiunque incontrassero per via; ed era una moltitudine del tutto
disordinata, priva di un vero comandante e d'insegne. |
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Vlasta prodit in aciem |
Vlasta si schiera in battaglia |
|
IV k |
Contra Vlasta per turmas compota venerat, primæ turbæ Milada, ſecundæ Hodeca,
tertiæ Suatava, quartæ Radeca, præpota fuit. Ipſa Vlasta cum reliquis agmen
claudebat. |
Al contrario, Vlasta era venuta organizzata
per squadre: della prima era stata messa a capo Mlada, della seconda
Hodka,
della terza Svatava, della quarta
Radka. La stessa Vlasta chiudeva il
contingente con le rimanenti. |
|
IV k |
Cœpto prælio, viri pauliſper impreſonem ſustinuerunt, mox procella equitum à
fronte & à lateribus circumfu in medio turpiter ſunt cæ. Ferunt Vlastam ſua
manu ſeptem viros validos interfeciſſe, tantumque ſui metum à vi荒oria illa
ſuſcitaſſe, ut cæteri ſuperstites viri multo magis de petendis induciis, quam de
bello instaurando fuerint ſolliciti, interim & tributa Vlastæ pendebant. |
Iniziata la battaglia, gli uomini per un po' sostennero l'impeto, ma
all'improvviso, circondati da una tempesta di amazzoni, di fronte e di lato,
furono vergognosamente trucidati. Tramandano che Vlasta
stessa avesse ucciso di sua mano sette uomini valorosi e che avesse suscitato,
in seguito alla vittoria, tale timore di sé, che i superstiti furono molto più
solerti a chiedere una tregua che ad organizzare una guerra. Nel frattempo,
presero a pagarle tributi. |
|
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Aſylum muliebre |
Il rifugio delle donne |
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IV l |
Induciarum tempore Vlasta tumulum ad Vultaviam flumen è regione Vicegradi tum
occupat, illoque foſſa, aggere, & ſepibus communito, aſylum mulieribus aperit,
ac paulò mox affluente mulierum copia, arcem ibidem ædificat, appellatque
Devinam, (quo vocabulo vernacula lingua puellæ cognominantur:) ut invidiam
declinaret, quæ ne dubio exortura erat, ſuo privatoque potius, quam communi
omnium puellarum nomine arcem ingniiſſet. |
Nel periodo della tregua, Vlasta occupò un piccolo monte presso la Vltava, nella zona del Vyšehrad, e fortificatolo con un fossato, un argine e
delle siepi, offrì asilo alle donne. Dopo un po', affluendone una certa
quantità, edificò in quel luogo una fortezza e la chiamò Děvín (così
vengono dette le ragazze nella lingua locale): e ciò per evitare l'invidia che
senza dubbio sarebbe sorta se, col suo nome piuttosto che con il nome
comune di tutte le fanciulle, avesse reso famosa la rocca. |
|
IV l |
Vasta tunc, incultaque circum illam
loca erant, & qui agri frumentarii propius apparebant, eos coloni puellis
infesti, arabant, frumentumque ſupprimebant, ne emendi illius potestas puellis
fieret.
Ut igitur ſent Vlasta ſe arcem fine commeatu tenere diutius non poſſe,
rumpendas ante tempus inducias diſſerit, ni ante tempus fame mori, quam per
ſocietatem vivere mallent. Decernitur statim ab univerſo cœtu puellarum, ut
traje荒o Vultavia flumine in proxima Principis horrea & armenta impetus fiat.
Abripiebantur penè in conſpe荒u Principis frumenta ex horreis, gregeſque ex
agris abigebantur, vel non auſo illo, vel nolente vim puellarum arcere, qua
fata ei nondum faverent. |
I luoghi circostanti, a quel tempo, erano vasti e incolti, e se si scorgevano
vicini alcuni campi di frumenti, questi venivano arati da contadini avversi alle
donne, che nascondevano le messi per non dare loro la possibilità di comprarne.
Pertanto, come Vlasta capì di non poter reggere più
a lungo la fortezza priva di viveri, dichiarò di dover rompere la tregua
anzitempo, se non volevano morire di fame, invece che vivere per la loro
comunità. L'intera assemblea delle donne stabilì subito di attraversare la Vltava, assalire i vicini granai e gli armenti del kníže.
E mentre il kníže non osava o non voleva contenere
la violenza delle fanciulle, come se il fato non gli fosse ancora favorevole,
quelle rubavano, quasi davanti ai suoi occhi, il frumento dai granai e portavano
via il bestiame dai pascoli. |
|
IV l |
Eò promptius Vlasta pergit inſuper ire adverſus amicos Principis, ut agros eorum
populetur, prædas agat pecorum, & colonos in ſervitutem adigat, miraturque non
plus animi illis, quam Principi ad restendum adeſſe. Soli ſupererant juvenes
audaciores, qui interdum postremum puellarum agmen, globis aſſilirent,
lacerarentque. Illis in hunc modum indias Vlasta instruxit. |
Tanto più audacemente Vlasta osava opporsi ai sostenitori del kníže,
saccheggiando i loro campi, depredando pecore e riducendo i coloni
in servitù, tanto più si meravigliava che non avessero coraggio di opporsi non
tanto a loro, quanto al kníže.
Soltanto i giovani più audaci erano ancora in grado, con i loro squadroni, di
assalire e sgominare le schiere delle fanciulle. Contro di loro
Vlasta ordì il seguente inganno. |
|
|
Stratagema in adoleſcentes amatores. |
Trappola per giovani amanti |
|
IV m |
Componi juſt literas, nominibus puellarum forma præstantium ſubſcriptas, quæ
ſe maritandi dederio teneri, nec ni unam Vlastam bi obstare, quo minus dederio potiantur,
aſmularent. Hanc capi aut tolli facile poſſe, complures armati no荒e illis constituta propius arcem accedant, eamque una cum
Domina à ſe illis traditam accipiant. |
Comandò di
mandare messaggi firmati con i nomi delle fanciulle più attraenti,
che simulassero di essere arse dal desiderio di sposarsi, e che la sola
Vlasta
si opponesse al loro esaudimento. Ma [Vlasta] la si poteva
facilmente catturare ed
eliminare se molti armati, in una notte prestabilita, si fossero avvicinati il più possibile alla fortezza:
a quel punto l'avrebbero espugnata e insieme avrebbero avuto in loro potere la sua signora. |
|
IV m |
Le荒is hujuſmodi literis juvenes, amoribus perſequendis, quam dolis effugiendis
curioores, præstitutam no荒em bene multi conveniunt, & uſque in vestibulum
arcis ne injuria intromittuntur: progreſ ulterius, alii eorum de ponte
præcipites, alii post vestibulum neci dantur, ne ullo ſolatio ultionis, quia
per cœcas tenebras ulciſci non licebat. |
Lette missive di tal genere, molti giovani, assai più ansiosi di ottenere l'amore che
di sfuggire al pericolo, si riunirono ben volentieri, in una notte prefissata,
e arrivarono incolumi fino all'ingresso della fortezza. Ma dopo, avanzati ulteriormente, alcuni vennero fatti precipitare dal ponte,
e altri vennero uccisi subito dopo il vestibolo, senza alcuna speranza di
restituire i colpi, dal momento che era impossibile difendersi nella fitta oscurità. |
|
|
Stiradius Principi ignaviam exprobrat |
Ctirad biasima l'ignavia del kníže |
|
IV n |
Luce orta, primus hujus cædis nuncius ad Stiradium, præcipua authoritate &
gratia apud Principem ingnem pervenit, quo ille vehementer permotus in
conclave Principis irrumpit, & vincente pudorem dolore, Quid est (inquit)
Princeps, quod jam amplius expe荒es, te neque parricidium muliebre in maritos
commiſſum, neque strages nuper tot virorum, neque hac no荒e totidem penè juvenum,
ad vindi荒am ſumendam haud commovet? an non cogitas, quo loco ſis? quàm
ſustineas provinciam? non certè eam, ut hîc ſedens ariolum nobis agas, ſed ne
nos conlio in periculis, auxilio in præliis, vindi荒a in ſceleribus admiſs
destituas: quod ni nunc feceris, teque à torpore, quo nimis diu intorpeſcis,
excitaveris, ſcias fore, ut quos tu in præſens deſeris, ab eiſdem mox, ut deſerare. |
Sorto il sole, il primo annuncio delle strage pervenne a un certo
Ctirad,
insigne per autorità e favore presso il kníže. Fortemente
colpito, [Ctirad] irruppe in assemblea e, superata
la timidezza con il dolore, esclamò: «Perché mai, o kníže,
aspetti ancora di più se né i delitti commessi dalle mogli contro i mariti, né
le stragi recenti di tanti uomini, né quella di quasi altrettanti giovani,
questa notte, non ti spingono alla vendetta? O non pensi quale sia la tua
posizione, quale carica stai sostenendo? No, certo, perché tu, qui sedendo, ci
faccia da indovino; ma per non privarci di consigli nei pericoli, di aiuto nelle
battaglie, di vendetta per i crimini commessi. E se ora non farai in modo di
svegliarti dal torpore nel quale troppo a lungo ti sei assopito, sappi che
coloro i quali oggi hai abbandonato, ben presto ti abbandoneranno a loro
volta». |
|
IV n |
Post hæc di荒a abire parantem, retinet Princeps, rogatque ne ipſe etiam
Stiradius ultro bi malum accerre velit, fatis relu荒ando, nec expe荒ando dum
illa ſuo decreto, tempus vindi荒æ constituant. Rogat ille viciſm Principem, ut
depere denat, omiſſoque vano augurio, certa ac bi ſuisque conducibilia,
cum ratione ut perſequatur. Porrò Vlasta à coryceis ſubauſcultantibus, quos
mercede corruptos in aula Principis habebat, edo荒a, quàm malè Stiradius in
puellas animatus eſſet, vi aut fraude quàm primum tollere eum statuit. |
Detto ciò, Ctirad fece per uscire, ma il principe
lo trattenne e lo pregò di non voler procacciarsi il male opponendosi ai fati
ma attendesse piuttosto che essi stabilissero, per loro decreto, il tempo della
vendetta. A sua volta, Ctirad chiese al principe di
smettere di vaneggiare e, ignorato l'inutile vaticinio, di perseguire con
la propria testa quel che gli sembrava più sicuro e vantaggioso per sé e per i
suoi.
Ma Vlasta, messa al
corrente dalle spie che aveva corrotto, dietro ricompensa, affinché origliassero
nella sala del kníže, di quanto Ctirad fosse ferocemente adirato
contro le fanciulle, stabilì di eliminarlo quanto prima o con la violenza o con
l'inganno. |
|
|
Stiradius dolo circumventus immane feminarum ubit upplicium. |
Ctirad, attirato con l'inganno, subisce da
parte delle donne un atroce supplizio |
|
IV o |
Prior occao componendæ fraudis advenit, quam hac ratione compoſuit: Certior
fa荒a daturum ſe eſſe in viam Stiradium, ut litibus quarum arbitrium ſuſceperat,
finem imponeret, ad proximam ſylvam, qua ei fuerat eundum, puellam elegantem,
cui Sarca nomen, arbori alligat, juxtaque lagunculam mul plenam, & corniculum
venatorium ſuſpendit, monstratque cætera, quemadmodum videlicet illam adverſus
Stiradium eſſe oporteat ſubdolam. Introeunti ſylvam Stiradio, Sarca voce
clariore quiritari, opemque implorare incipit: ad cujus vocem, cum unus comitum
de via deflexiſſet, ac mox revertens Stiradio renunciaſſet, virginem eſſe adoleſcentulam,
& ni ornatus falleret, genere non ignobilem, quam neſcio quis ad arborem loris
devinxerit. Non temperat bi Stiradius, quin ipſemet ſpeculator adeat, viſaque
adoleſcentula loramentis circum arborem obligata, authorem injuriæ requirit. |
Alla prima occasione, organizzò il siffatto tranello. Informata che
Ctirad si sarebbe messo in cammino, per por fine a
un dissidio di cui aveva assunto il giudizio, [Vlasta],
presso una vicina foresta per la quale egli sarebbe passato, legò a un albero
una leggiadra ragazza di nome Šárka, e insieme
sospese una fiaschetta di vino dolce, un piccolo corno da cacciatore, e mise in
mostra quanto serviva per ingannare davvero gli occhi di
Ctirad. E quando lui entrò nel bosco, Šárka
cominciò a gridare a gran voce e a implorare aiuto. A tale grida, un uomo del
seguito deviò dalla strada e ritornò a riferire a
Ctirad di aver visto una giovane fanciulla che, se
l'aspetto non l'ingannava, non era di vile sembiante, e che qualcuno l'aveva
assicurata con corde a un albero.
Ctirad non si trattenne dall'andare a vedere egli
stesso e, scorta la ragazza serrata dalle corde contro l'albero, le chiese chi
fosse il responsabile di tale offesa. |
|
IV o |
Hîc illa lachrymabunda, ad quemnam alium (inquit) mi Domine hæc injuria, quam ad
Vlastam illam mulierum crudeliſmam ejusque comites pertineat? Cum quibus ego,
quia ſceleris ſocietatem contra viros nullo pa荒o inire volui, multis prius
convitiis & probris male accepta, deinde ad hoc, quod vides, exemplum, arbori
circumligata ſum, ſagittis ni interveniſſes peritura: nam in hoc jam arcus
intentos nonnullæ habebant, ut in me tela torquerent, ſed mulac hinnitum atque
strepitum equorum tuorum audivêre, continuo illæ ſe in pedes dederunt, tanta
festinatione, ut & hanc lagenam, & hoc cornu quod in arbore cernis, ſecum
auferre oblitæ fuerint. Fac igitur mi Domine, ut te miſereatur puellæ indigna
ferentis, indignioraque mox laturæ, periclitanti per tempus non ſubveneris,
meque parentibus meis non restitueris. |
A questo punto, in lacrime, Šárka rispose: «A chi altri, mio signore, può
competere tale offesa se non a Vlasta, la
più crudele delle donne, e alle sue compagne? E dal momento che io non volli
aver
parte, in nessun modo, delle sue imprese delittuose ai danni degli uomini, fui
dapprima maltrattata con urla e ingiurie poi, come vedi, legata a quest'albero
e
destinata a morire a colpi di freccia, come esempio per le altre, se tu non fossi intervenuto. Alcune avevano già
teso i loro archi per scagliare i dardi contro di me, ma non appena udirono il
nitrito e lo strepito dei tuoi cavalli, subito si dettero alla fuga. Tale, la
fretta, da dimenticare di portar via questa
fiaschetta e questo corno che vedi ancora appesi all'albero. Abbi pietà, mio signore, di
una fanciulla che soffrì cose indegne e dovrà sopportarne di peggiori, se
non porterai per tempo soccorso a chi è in pericolo e non mi restituirai ai miei
genitori». |
|
IV o |
Tanta per hæc miſeratione Sarca Stiradium implevit, ut ſuis ipſe manibus nodos
funium, quibus illa retrorſum innodata fuit, reſolveret. Tum perfida Sarca,
repente ut est vincula ſoluta, in terram velut impos animi provolvitur, ac
paulatim deinde animum recolligens, ſeſeque attollens, lagunculam depoſcit, qua
vires corporis ſorbitiuncula mul recreatura, nec tamen ipſa quidquam exſorbet,
ſed mulſum medicatum Stiradio exhauriendum propinat, intereaque dum is poculo
indulget, ipſa cornu inflato concinit, accepto gno fraudis conſciæ puellæ,
ſubitò è latebris in comites Stiradii effunduntur, ac partem eorum concidunt,
partem fugant, de in Stiradium ex potione venefica tam mente quam corpore velut
attonitum invadunt, rapiuntque ad ſupplicium, quod rota peragitur, horrendum,
atque proxime arcem Vicegradum, confra荒um membratim corpus, & radiis rotarum
inſertum constituunt, ut ex conſpe荒u horrendi supplicii dolor Principi increſcat. |
Con queste parole, Šárka colmò
Ctirad di tanta pietà che egli stesso sciolse le
funi con le quali era stata legata. Allora la perfida, appena libera
dai legami, rotolò a terra, come svenuta; quindi, a poco a poco riprendendo le forze e alzandosi, chiese con insistenza la fiaschetta,
come per risollevare le forze del corpo con dei piccoli sorsi. Ma [Šárka]
non bevve affatto: piuttosto offrì a Ctirad la
bevanda adulterata, affinché lo stordisse, e mentre lui indugiava nel bere, ella
stessa suonò soffiando nel corno. Ricevuto il segnale, le ragazze, complici
dell'inganno, all'improvviso si gettarono dai loro nascondigli sui compagni di Ctirad e parte li uccisero, parte li
misero in fuga, Quindi assalirono Ctirad, frastornato nella mente e nel
corpo dalla pozione venefica, e lo trascinarono all'orrendo supplizio della ruota.
Infine abbandonarono presso la fortezza di Vyšehrad il suo corpo
fatto a pezzi tra i raggi della ruota, affinché alla vista di tale atroce
supplizio si accrescesse il dolore del kníže. |
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Sacra [sic] ſylva à perfida puella cognominata |
La foresta viene chiamata Šárka dal nome della
perfida fanciulla |
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IV p |
Sylva illa, in qua Stiradius interceptus fuit, in hunc uſque diem Sarca
vocabulum à puella indiatrice retinet. |
Quei boschi nei quali fu catturato Ctirad portano ancora oggi il nome di
Šárka,
la fanciulla che tese l'agguato. |
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Sævitia in infantes |
Sevizie sui bambini |
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IV q |
Ac ne quod exemplum ſævitiæ muliebris in ipſarum imperio dederaretur, ſævitiem
adverſus teneram quoque ætatem crudeliter distrinxerunt, pueris & adoleſcentibus,
quoſcunque na荒æ erant, dextræ manus pollices amputando, dextrosque oculos
eruendo, ne postquam in viros adoleverint, gladios commodè tra荒are, nevè in
arcum aciem intendere poſſent. |
E affinché tale esempio di crudeltà femminile non fosse rimpianto durante il
loro dominio, [le ragazze] rivolsero atroci sevizie anche contro la tenera età, amputando ai
bambini, agli adolescenti e a quelli in cui si erano imbattute, il pollice
della mano destra e cavando l'occhio destro, affinché, una volta divenuti
uomini, non potessero usare facilmente la spada, né tendere l'arco in battaglia. |
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Sic ars deluditur arte |
Così l'inganno è vinto con l'inganno |
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IV r |
Hinc tandem à veterno excitatus Premislaus, ad referendam Vlastæ
gratiam cœpit advigilare, placuitque ſuis illam artibus per dolum & indias
adoriri. Igitur certum ad illam hominem allegat, qui mitti ad ſe fide
publica unam è ſodalitio puellam ſecretorum Vlastæ maximè conſciam postulet. Venit
Milada ea coram queritur Princeps, ſe jam pridem tædio dominandi affici, cum
ipſa quoque ætas & tempora bi fuiſſent ad dominandum accomodatiora. |
Finalmente, Přemysl, destatosi dalla sua codardia, studiò un modo per conquistarsi il favore di
Vlasta e gli piacque affrontarla con le sue arti, per
mezzo cioè di inganni e di insidie. Così le inviò una persona fidata affinché la
invitasse a mandargli, con un salvacondotto, la fanciulla del suo sodalizio che,
più di ogni altra, condividesse i suoi segreti. Venne Mlada e, di fronte a lei,
il kníže si lamentò di essere stato colto da tempo dal
tedio del potere, dal
momento che per lui erano passati gli anni, così
come i tempi più adatti per governare. |
|
IV r |
Nunc ſenem atque identidem languentem quomodo non tædet ejus dominationis, quæ
laborum atque periculorum t plena? bi igitur locum paratum eſſe & proviſum,
ubi otioſus privatusque, per Vlastam licuerit, cum ſuis transigat. Cæterùm de
arce Vicegrado, quæ Imperii in Bohemia ſedes haberetur, ita ſecum statuiſſe
atque decreviſſe, ut illam ſua sponte ad Vlastam transferat, nihil addubitans,
quin Vlasta beneficii hujus memor, ſenem ſe injuria omni & calamitate unà cum
filio adhuc impubere prohibeat. Laudato Principis, confirmatoque conlio,
Milada ad Dominam redire festinat, ut lætiſmo illam nuncio statim adimpleat,
horteturque, ut cœlitùs oblata munera plena statim manu capiat, dilationem enim
obeſſe, quàm prodeſſe ſæpius. |
Ora vecchio, sovente malato,
come
non poteva detestare un potere che
diventava pieno solo di fatiche e di pericoli? Se Vlasta lo
permetteva, gli era già stato preparato e organizzato un luogo dove
poteva trasferirsi con i suoi, senza impegni e da privato cittadino. Tra l'altro,
disse di
avere stabilito e decretato che, per sua volontà,
la
fortezza di Vyšehrad, sede del governo ceco, fosse trasferita a
Vlasta, non dubitando affatto che lei, memore di tale
favore,
tenesse lontano lui
vecchio, insieme con il figlio appena adolescente, da ogni offesa e ogni
calamità. Lodato e confermato il progetto del principe, Mlada si affrettò a
ritornare dalla padrona per gratificarla subito con quella stupenda notizia e
per esortarla ad accettare a piene mani quell'offerta dal cielo, ché l'indugio è
più spesso d'ostacolo che di utilità. |
|
IV r |
Arridens Vlasta, jubet Miladam ea quæ hortaretur, exequi, ac postridie mox cum
dele荒o puellatum globo ad Premislaum reverti, ut poſſeſonem arcis
Vicegrandens ab eo acciperet, mul ſponderet Vlastam in locum patris bi
Premislaum ſumere, nes ſecus filium ejus, quàm fratrem ſuum curæ bi perpetuæ
futurum. Rediit igitur Milada, multis stipata puellis in arcem, expotisque
Vlastæ mandatis, concedi bi de arce postulabat. |
Sorridendo, Vlasta
ordinò a Mlada di eseguire subito quel che il
vecchio stava esortando e di ritornare, il giorno successivo, con un gruppo
scelto di ragazze, da Přemysl, per prendere
possesso, dalle sue mani, della rocca di Vyšehrad,
e insieme promettergli che Vlasta lo avrebbe
accolto come suo padre, e che suo figlio, non diversamente da un fratello,
sarebbe stato oggetto di cura perpetua. Ritornò così Mlada
alla rocca, circondata da molte fanciulle, espose le istruzioni di
Vlasta e chiese le venisse consegnata la fortezza. |
|
|
Milada convivii prætextu Vicegradi jugulatur. |
Col pretesto di un banchetto, Mlada viene uccisa
nel Vyšehrad |
|
IV s |
Hic valde comiter Premislaus Miladam appellat, rogatque ut antea quà ceſo
fiat, ipſa cum toto comitatu ſecum prandeat. Quo impetrato, multa rurſus
comitate hilaritateque inter prandendum illam permulcet, usque dum bi
videretur tempestivum eſſe, destinatas indias perpetrare. Tum ipſe de menſa
aſſurgit, qua ad purgandum, stendumque narium ſanguinem, quem bi largius
profluere aſmulabat, re vera, ut gnum daret armatis ad irrumpendum ex
latebris, conficiendumque ſanguinarias puellas eodem genere leti, quo ipſæ nuper
juvenes fraude ad ſe ille荒os confeciſſent, cæde nimirum, & præcipitio, extra
unam ancillam, quæ custodiendis equis reli荒a, & mox inter primum tumultum elapſa
erat, cæteræ omnes chlamydibus nudatæ, vel fenestris deje荒æ, vel ferro
transfoſſæ ſunt. |
A quel punto, Přemysl si
rivolse molto cortesemente a Mlada e la pregò affinché, prima che
avvenisse la
cessione, ella pranzasse con lui, insieme al suo seguito. Ottenuto ciò, durante il
banchetto, [Přemysl] la lusingò di nuovo con molta amabilità e ilarità, e continuò fino a quando gli sembrò
il momento di far scattare il tranello che aveva predisposto.
Si alzò allora dalla mensa, come per detergere e stagnare il sangue che fingeva gli
uscisse copioso dal naso, in realtà per dare ai suoi armati il segnale di irrompere dai
loro nascondigli e di eliminare quelle
vergini sanguinarie, paghi di ucciderle così come esse avevano ucciso i giovani attirati con
l'inganno. La strage fu rovinosamente rapida, feroce e, tranne un'ancella che
era stata lasciata a custodire i cavalli e che subito, al primo tumulto, era
fuggita, tutte le altre, spogliate delle loro clamidi, furono scaraventate giù dalle
finestre o trafitte con le spade. |
|
IV s |
Celeriter, in tanta vicinitate ancilla, quæ fugerat ad Vlastam cum tristi hoc
nuncio pervenit. Poſcit ſubito Vlasta, equum & arma, jubetque ſocias itõ puellas
repente armari, & quà breviſmus per Vultaviam trantus est, illac tranre.
Cum propius rotam, in qua Stiradius nuper pendebat, acceſſſet, erumpit
continuò ex arce virorum agmen, equis, & clamydibus puellarum, quæ occisæ erant,
ita exornatum, ut primo eorum aſpe荒u dubitare cœperit, an vera de nece
puellarum ancilla renunciaverit, ſed ubi ex propinquiore loco, fraudem ſubeſſe
virorum perſonatam cognovit, ſolita in viros rabie fertur. |
Rapidamente, data la vicinanza, l'ancella che era fuggita, tornò da
Vlasta con
la triste notizia. Subito, Vlasta chiese armi e cavallo, e parimenti comandò
alle sue giovani compagne di armarsi velocemente e di attraversare la Vltava
per il guado più breve. Arrivate presso la ruota alla quale poco tempo prima era
stato appeso Ctirad,
subito irruppe dalla
rocca una moltitudine di uomini con i cavalli e le clamidi delle fanciulle, tanto che, a prima vista, [Vlasta] dubitò che l'ancella
le avesse riferito la verità riguardo all'eccidio delle ragazze. Ma quando,
giunti più vicini, comprese l'inganno architettato dagli uomini, presa dalla solita furia, si lanciò contro di loro. |
|
IV s |
Cæterùm, vis major penes viros, quã penes puellas fuit, libenter vivam Vlastam
intercepiſſent, ſed nequaquam viva capi potuit, tantum animi ad tuendum ſe, nec
aliter quam pugnando occumbendum ſuperfuit. |
Gli uomini si batterono con maggior forza rispetto alle fanciulle e volentieri
avrebbero preso Vlasta viva, ma in nessun modo riuscirono a catturarla, tanto coraggio le rimase per uccidersi e non
soccombere in altro modo se non combattendo. |
|
|
Vlasta prælians occumbit: unà excuſſum est puellare jugum. |
Vlasta muore combattendo: insieme viene abbattuto
il giogo delle fanciulle |
|
IV t |
Occisa Vlasta, cædes inde non pugna fuit: Ita à præpostero Amazonum
erubeſcendoque imperio, Bohemi post ſeptimum tandem annum vindicarunt: |
Uccisa Vlasta, fu un massacro, non una battaglia;
così del dominio vergognoso e fuor di tempo delle amazzoni, i Čechové, finalmente,
dopo sette anni si vendicarono. |
|
IV t |
Ac ne quis muliebres pugnas, ut rem vanam fi荒amque derideat, ſciat
antiquiſmum morem in Sarmatia fuiſſe, autore Pomponio Mela, ut fœminæ cum
viris bella inirent. Idem enim Mela, arcus, inquit, tendere, equitare, venari,
puellaria penſa ſunt, ferire hostem, adultarum stipendium est, adeo ut non
percuſſſe, pro flagitio haberetur, tque eis pœnæ virginitas: Ut Spartanos
leam, apud quos militer virginibus palestra, Eurotas, ſol, pulvis, labor,
militia, in studio fuerunt, prodente Cicerone. Atque Plato ipſe, nonne artes
gymnasticas, & res bellicas æ mulieribus, atque viris in ſua Republica
attribuit? ne quis nimis barbarum morem, virgines arma tra荒are autumet. |
E affinché nessuno derida queste guerre femminili
come impresa vana e favolosa, sappia che, presso i Sarmati, secondo Pomponio
Mela, vi fu un costume antichissimo, che le donne andassero in guerra con gli
uomini. E infatti lo stesso Mela attesta che sia compito delle ragazze tendere
l'arco, cavalcare, cacciare, mentre le adulte sono pagate per ferire i
nemici, tanto che il
non aver colpito viene considerata una vergogna e la stessa verginità diventa
loro di pena. Per non parlare degli Spartani, presso i quali anche le giovani
donne similmente dividevano la palestra, l'Eurota, il sole, la polvere, la
fatica e le attività militari, stando a quanto afferma Cicero. E lo stesso
Plato, nella sua Repubblica, non assegna
anche alle donne
come agli
uomini le arti ginniche e quelle marziali? Nessuno consideri perciò un'usanza
troppo barbara il fatto che delle fanciulle usassero armi. |
|
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Metallorum indagator Premislaus. |
Přemysl scopritore dei metalli |
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IV u |
Sed, ut redeamus ad Premislaum, ſublatis è medio tumultuos puellis, magna inde
tranquillitate principatum inter viros uſque ad mortem administravit, primusque
repertis argenti metallis, argentarias in Bohemia coluit. |
Ma per ritornare a Přemysl, tolte di mezzo le tumultuose fanciulle, da quel
momento egli resse il governo tra gli uomini con grande serenità, fino alla
morte, e avendo scoperto per primo le miniere d'argento, coltivò in Čechy
l'arte argentiera. |
|
IV u |
Moriturus, proferri ex arcula ſua manticam, & carbatinas, qua ingnem aliquam
ſupelle荒ilem, atque in loco religioſo ſeponi juſt; Non temere alias promendam,
palamque ſpe荒atoribus ostendam, ni in comitiis, creando Principi habendis:
Custoditaque est ſolemniter extrema ejus hæc voluntas, non ſolum à profanis
Principibus, ſed deinceps etiam à Christianis Regibus, ut eo videlicet die, quo
inaugurabatur Rex, unà cum ipſa corona & ſceptro aureis, vilia hæc quoque ingnia,
ſacrorum minister ad aram inferret, Regi illa ob oculos commonendi gratia
obtrudens, ut primæ ſuæ oirinis memor fortunam reverenter haberet. Sed ut
prelaque alia antiquæ conſuetudinis non ſpernandi exempla, c hujusce moris
uſurpatio paulatim exolevit. |
Stando per morire,
ordinò di tirar fuori da una sua cassetta la bisaccia e i calzari di contadino,
come si trattasse di un qualche arredo prezioso, e di custodirli in un luogo
sacro; [chiese infine] che non si dovesse cavarli fuori e mostrarli agli astanti
senza ragione, se non nelle assemblee riunite per la scelta del
kníže. Questa sua ultima volontà fu osservata in modo
solenne non solo dai
knížata pagani, ma successivamente anche dai re
cristiani. Nel giorno in cui veniva consacrato il sovrano, insieme
alla corona e allo scettro d'oro, il ministro delle sacre cerimonie
avrebbe portato
all'altare anche queste vili insegne, ponendole di fronte agli occhi del re,
affinché, memore della sua antica origine, considerasse la sua fortuna
con gran rispetto. Ma come la maggior parte degli esempi atti a non disprezzare
le antiche consuetudini, anche l'uso di tale costume a poco a poco si perse. |
|
V |
Nezamislius, F. Epimetheus, pater vero Prometheus |
Nezamysl significa Epimētheús mentre il padre Promētheús |
|
V a |
Deceſt Premislaus ſucceſſore filio Nezamislio, qua tu dicas, hebeti,
nullique excogitationi idoneo. Is igitur, ut nomini ſuo reſponderet, nihil ipſe
ſuo ingenio excogitare, nihil ſua industria efficere potuit, ſed quicquid ageret,
id alieno prædio agebat, prorſus ut ſolis auribus ſapere eum diceres. Et
divinare est, (ut Auſonius dixit) nomen componere, quod videlicet t morum &
ingenii futuri indicium, egregius certè vates haberi debuit Premislaus, qui
filio rerum ſuarum incurioſo vocabulum Nezamislii, id est Epimethei, indiderit,
eum ipſe tanquam providus nomen Promethei poſſederit. Et enim quem Prometheum
Græci, eum Bohemi ſua voce Premislaum appellant, rurſus quem illi Epimetheum,
Bohemi Nezamislium dicunt. |
Morì Přemysl e gli succedette il figlio
Nezamysl, che diresti quasi ebete,
incapace di alcun pensiero. Egli, infatti, per rispondere al suo nome, non seppe
escogitare alcuna cosa con la sua mente, né attuarla con le sue capacità: quanto
intraprendeva, lo portava a termine con l'aiuto altrui; avresti detto, insomma,
che lui capisse solo con le orecchie. E se vaticinare, come disse Ausonius, è scegliere un nome che sarà futuro indizio di comportamento e ingegno,
certamente Přemysl dovrebbe essere ritenuto un vate egregio, lui che a suo
figlio, indifferente in tutte le cose, impose nome Nezamysl, cioè
Epimētheús,
mentre lui, preveggente, si chiamava Promētheús. Infatti, quello che i Greci
chiamano Promētheús, i Čechové nella loro lingua dicono Přemysl e, certamente,
quello che [i Greci] chiamano Epimētheús, i Čechové dicono Nezamysl. |
|
|
Gurimens æmulus |
Il rivale di Kouřim |
|
V b |
Hic tamen ob patris memoriam, favorem ordinum obtinuit, atque ab illis more
ſolenni in arce Vicegraden Princeps conſalutatus est, indigniſmè ferente
vicino, qui oppidum Gurimenſe tantum non Principis titulo poſdebat. Se enim,
quam Nezamislium digniorem eſſe ad ineundam legitimi Principis dignitatem existimabat.
Impetu igitur in agros Nezamislii ſemel interumque fa荒o, magnas inde prædas
agebat, ſperans futurum, ut ille, metu bellorum consternatus, de loco cederet,
vitam privatam amplexus. Quod postquam fieri non videt, male facere pergit,
hancque maleficii cauſam prætendit, qua pater Nezamislii pagum quendam
attre荒aſſet, bique vendicaſſet, qui pridem in jus, ditionem Gurimenſem conceſſerat. |
Questi, tuttavia, a ricordo del padre, ottenne il favore degli ordini sociali
e fu salutato kníže con rito solenne nella rocca di Vyšehrad. Tale
elezione fu invece mal sopportata da un confinante che possedeva la fortezza di Kouřim,
sebbene non il titolo di kníže. Infatti, si riteneva più degno di
Nezamysl di
ottenere la dignità di principe legittimo. Pertanto, fatta
ancora una volta irruzione
nei suoi campi, si portò via un gran bottino, sperando che Nezamysl,
sconvolto dal timore di una guerra, rinunciasse al suo rango per abbracciare la
vita privata. Ma non vedendo accadere quanto sperava, proseguì nelle sue azioni
malvagie, adducendo a ragione di tale grave comportamento il pretesto che il padre di
Nezamysl, essendosi
interessato a un certo villaggio, precedentemente concesso alla giurisdizione di Kouřim,
lo avesse rivendicato. |
|
V b |
Provocavit ad judicium Princeps, ſed æmulus provocantem ridebat, ludebatque.
Veniunt tandem ultro Nobilium primores ad Principem conlii inopem, ei
ſuadentes, ut duce & militibus le荒is ferociam Satrapæ contundat, & rebellem vel
ad officium, vel ad pœnã petrahat, ſe quoque cum ſuis affuturos, ubi adeſſe
illos voluerit. Ad locum cui
Styrhow vocabulum, copiæ ſunt
contra荒æ, præliumque ibidem atrocius initum, quàm ut iniri in tanta hominum
paucitate debuerit, inter affines & cognatos interque cives nuper in Bohemia,
velut in una civitate coalitus. |
Il kníže lo convocò a giudizio, ma il rivale
derideva e scherniva colui che lo aveva citato. Alla fine giunsero
spontaneamente dal kníže, incapace di prendere una
decisione, i nobili più insigni per persuaderlo affinché, al comando di truppe
scelte, reprimesse la ferocia di quel satrapo e riconducesse il ribelle ai suoi
doveri, o al supplizio; e [dissero] che sarebbero stati presenti, insieme ai
loro uomini, dovunque li avrebbe guidati. L'esercito fu radunato nel luogo detto
STYRHOW, e lì si accese uno scontro più cruento di quello
che si sarebbe dovuto affrontare, data la scarsezza di uomini che vi era in
Čechy, tra affini, parenti e cittadini, quasi cresciuti in una sola città. |
|
V b |
Nam omnes, qui in prima acie stabant, occi sunt, numerus virorum amplius
quadringentorum, vi荒rice tamen acie Principis, cæteri aut vulnerati, aut elap,
aut capti. Inter captivos, belli quoque concitator, & author fuit, aliquandiu
latitans: dein cognitus, & ad Principem, dedu荒us, quem ille aſpicere dedignatus
est. Cæterùm Duci certaminis potestatem dedit flatuendi de illo pro arbitrio ſuo:
Dux falce ferrata, nare & auriculis deras amputatisque, cum magna ignominia
dimittit incolumen. |
Infatti, furono uccisi tutti coloro che si trovavano nella prima schiera, più
di quattrocento uomini, ma vinse tuttavia la schiera del kníže; gli
altri vennero feriti, fuggirono o furono catturati. Tra i prigionieri vi era anche
colui che aveva provocato e causato la guerra, da qualche tempo latitante. Riconosciuto
e portato davanti al kníže, quello disdegnò di
guardarlo. Però dette facoltà al comandante che aveva condotto la battaglia di
giudicarlo a suo arbitrio. Il generale, dopo avergli mozzato naso e orecchie con
una falce di ferro, gli risparmiò la vita lasciandolo andar via, con sua grande
ignominia. |
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|
Salina reperta, invidia amiſſa |
Trovato il sale, eliminata l'invidia |
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V c |
Pax inde tranquilla fuit, ſed non otioſa, nobilitate plebeque occupata in
ædificandis novis ædificiis, arcibusque & oppidis, aut ſylvis radicitùs exstirpandis,
agrisque inarandis. Affulſerat mul & ſpes ſalis inveniendi, quo planè Bohemia
caret, jamque inventus fuit fons aquis ſals ſcaturiens, ad quem multæ operæ,
ſalis coquendi, ac novi oppidi condendi gratia, undatim adfluxerant. |
Da quel momento regnò una pace tranquilla, ma non inattiva, essendo nobiltà e
plebe occupate a costruire nuovi edifici, rocche e fortezze, ad abbattere le
foreste e ad arare i campi. Arrideva, parimenti, la speranza di trovare il sale
di cui la Čechy scarseggia del tutto; e presto fu rinvenuta una sorgente di
acque salse, presso la quale si intrapresero molti lavori, uno appresso
all'altro, al fine di asciugare il sale e fondare una nuova fortezza. |
|
V c |
Durat in hunc diem oppidum, à ſale Slana vernacula lingua nuncupatum. Cæterùm,
ſal brevi tempore evanuit, vel ips aquis ſua ſponte fa荒is inſuls, vel
hominum potius culpa, aliorum aliis invidentium lautiorem fortunam, qualiter
tunc Zatecenſes affe荒i fuisse dicuntur, per invidiam Slanenbus denuntiantes,
ne ſalinas instituerent, alioqui novum opus ſe manu violenta inhibituros.
Instant operi Slanenſes, ſecumque adverſarios congreſſos, plus quam centum
interficiunt. Zatecenſes ægritudinem animi ex clade acceptam totum annum
diſmularunt, quo evoluto, ſuo dehinc tempore Slanenſes incautos adoriuntur,
cædunt, fugantque, & omnes circum ſalinas demoliuntur, obstru荒o fonte ſalis
robore lignorum, moleque lapidum, ne qua facultas cuiquam instaurandi ſupereſſet,
mulque oppidum statim occupant, dedu荒is eò colonis ſuis civibus, qui ex
frequentia multitudinis civitati ſuæ oneri eſſe videbantur. |
Tale fortezza esiste ancora ed è chiamata Slaný, dal termine
«sale» in lingua locale. Di poi in breve tempo il sale si esaurì, sia per le
acque divenute spontaneamente insipide, sia piuttosto per colpa degli uomini.
Infatti, alcuni invidiavano agli altri la maggior fortuna; così si dice fu il caso
degli abitanti di Žatec, i quali, per invidia, intimarono a quelli di Slaný di
non impiantare le saline, altrimenti avrebbero impedito i lavori con la violenza.
Gli Slané si misero all'opera e riuniti presso di loro gli avversari, ne
uccisero più di cento. I Žatecký, subìto il dolore per il massacro,
dissimularono per un anno intero, trascorso il quale, a suo tempo, assalirono gli
incauti Slané, li uccisero, li misero in fuga e distrussero tutte le saline
all'intorno. Ostruita la sorgente con robusti tronchi e con una massa di pietre,
affinché non rimanesse ad alcuno la possibilità di farla nuovamente sgorgare,
occuparono contemporaneamente la fortezza, sostituendo i coloni con i propri
cittadini, ma l'affluenza di una tale moltitudine fu considerata un peso per la
propria città. |
|
V c |
Nam ex Serbiis gente militer Sarmatica, qui nunc Lusatii appellantur, pleri
deſertis in ſuperiore Luſatia jugis montium, ad plana & ſaltuoſa loca, qualia
Zatecenſes incolunt, Lucenſes inde cognominati, immigrabant, Nezamislio interim
pulchrè ſecum agi existimante, quòd neminem bi tam infestum cerneret, qui
adverſus ſe hostilia apertè inceptaret. |
Infatti, dal territorio dei Serbi, popolazione similmente sarmatica, ora
chiamati Łusaziani, molte persone, lasciati i monti della Łužyca
superiore,
si spostavano verso le pianure boschive abitate dai Žatecký, oggi detti Lučané. Nel frattempo,
Nezamysl si considerava
assai fortunato perché non vedeva nessuno tanto avverso da intentare apertamente
azioni ostili contro di lui. |
|
VI |
Mnatha venationis indulget |
Mnata indulge nella caccia |
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VI a |
Post hujus obitum Mnatha filius in legitimo principato ſucceſt: haud æquè ac
pater ingenio hebes, animoque stupidus, ſed neque ille tamen quicquam amplum,
atque magnificum ad imperandum attuliſſe viſus, dum in venationis ſæpius, quàm
in ſeriis rebus agendis ſeſe exercet. Tanto namque studio venandi tenebatur, ut
triennio continuo post adeptum principatum, in ſeceſſu arcis, largam cervorum,
aprorum, urſorum, atque aliarum ferarum venationem ſuppeditantis, perduraverit,
cura interim ac præfe荒ura Vicegradi, atque etiam jurisdi荒ionis, uni Verſovicenum
(quæ tunc familia dignatione cæteris antecellebat) commiſſa. |
Dopo la sua morte, gli fu legittimo successore al principato il figlio
Mnata, non così carente d'ingegno e stolto come il
padre; neppure lui, tuttavia, parve destinato ad apportare al regno qualcosa di
grande e di magnifico, in quanto si dedicava assai più spesso alle attività
venatorie che a quelle politiche. Era preso da tanta passione per la caccia che,
per tre interi anni, dopo aver
conseguito la sovranità, rimase in un angolo appartato presso la fortezza,
abbondante di
prede quali cervi, cinghiali, orsi e altri animali; nel frattempo affidava la
cura e il governo del Vyšehrad, e anche le questioni inerenti la giustizia, a
uno dei Vršovici, stirpe che allora superava in dignità tutte le
altre. |
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|
Verſovicenſes affe荒ant principatum. |
I
Vršovici aspirano al regno |
|
VI b |
Cæterùm paulò minus evenit, quin juxta proverbium, ovem lupo commiſſe videretur,
Verſovicio jam pridem ambiente Principis locum, qua ſe occao offerret. Oblata
porrò videbatur, aliis abſentiam Principis accuſantibus & negligentiam, aliis
ſolemnem cauſarum cognitionem dederantibus, ne qua fieri non poſſe
dicebatur, ut pacatè ſuum quiſque proprie obtineret. Plurimis præterea ad
officium Principis haud pertinere ſuſurrantibus, ut privatas ſuas voluptates
communibus utilitatibus anteponeret. Itaque occaone hac ille uſus, exulceratos
illorum animos magis adhuc lingua ſua aculeata exulcerare adverſum Principem
pergit, nullis in illum verborum contumeliis parcens, ac contra de ſe ingentia
pollicens Princeps in locum illius declaratus fuerit. Quo audito, rei novitate
qui tunc aderant obstupefa荒i (nec enim Principis mutationem per querelas ſuas,
ſed vitæ illius morum emendationem exoptabant:) rogitant ad deliberandum ejus
diei moram, posteroque die mane ſe redituros ad conſultandum ſuper illo negiotio
ſpondent. |
Ma era un po' come aver consegnato, come si dice,
la pecora al lupo, in quanto Vršovic ambiva da tempo a occupare il posto del principe,
se si fosse
presentata l'occasione. Si offrì più avanti: allorché alcuni accusavano l'assenza
e la negligenza del principe, mentre altri desideravano avere una conoscenza
legittima dei processi, senza la quale, si diceva, non era
possibile vedere riconosciuti i propri diritti in modo pacifico e appropriato.
Altri ancora, tra
l'altro, mormoravano che non si addicesse ai doveri di un
principe anteporre i suoi piaceri privati al bene comune. Così, approfittando
della situazione, Vršovic si volse a inasprire contro il kníže i loro
animi – fino ad ora irritati più che altro dalla sua lingua pungente –, non risparmiandogli
offese verbali e, al contrario, promettendo grandi cose se fosse nominato kníže al posto dell'altro. Udito ciò, i presenti,
stupefatti per la novità (infatti non desideravano che le loro proteste
portassero alla deposizione del kníže, ma alla
correzione della sua vita e dei suoi costumi) chiesero un giorno di tempo per
deliberare, dicendo che l'indomani mattina sarebbero ritornati per consultarsi
su quella faccenda. |
|
VI b |
Mora impetrata, extrudunt confestim ex numero duos viros præstantiores, qui
curriculo ad Mnatham currant, ipſumque doceant quo in periculo ta t vita &
dignitas ipus, ni prima statim luce indiis occurrat. Adest ille ad tempus,
ſeque inter ſuos occultat, ne prius agnoſceretur, quam arce introiret. Ibi accerto
Verſovitio, quid hoc rei, inquit, est? Nonne ego te præfe荒um arcis hinc ſecedens
reliqui, finesque tibi præſcrip, quibus intra officium vicarium te contineres?
Qua tu audacia, munera inſuper principalia tibi uſurpare auſus es, ut istos pro
imperio ad te vocares? novaque cum iis conlia, novosque conventus celebrares?
An quia tu Principem tuum per ſummam perfidiã prodere eras promptus, istos quo
tui miles futuros putasti? ignarus, quod cut malus ni male, ita bonus ni bene
agere neſciat. Quare utrumvis tibi horum elige, ut aut te gladio transfodias,
aut acerrimas proditorum pœnas palam ſubeas. Stringit ille protinus ensem,
illoque in conspectu omnium supplicium de se sumit. |
Ottenuto il rinvio, convocarono due tra gli uomini più prestanti, i quali
prontamente corsero da Mnata e lo informarono a
quale pericolo fosse posta la sua vita e la sua stessa dignità se all'alba non
avesse affrontato l'insidia. Egli si presentò a tempo e si nascose tra i suoi
per non essere riconosciuto al momento di entrare nella fortezza. Qui, fatto venire Vršovic,
«Che significa questo?» chiese. «Andandomene, non ti ho forse lasciato come sovrintendente della rocca e non
ti ho prescritto i confini entro quali esercitare il mandato come vicario?
Con quale audacia hai osato invocare per te privilegi superiori a quelli dello
stesso kníže,
tanto da chiamare costoro presso di te? Forse per
celebrare con loro nuovi consigli e nuove assemblee? E dal momento che, in
sostanza, eri
pronto a tradire perfidamente il tuo kníže,
credevi che anche costoro sarebbero stati come te? Ignorando che, come il
malvagio non sa fare che il male, così il buono non sa fare che il bene. Perciò,
scegli ora tra le due: se trapassarti con la tua stessa spada, o subire in
pubblico i più atroci supplizi dei traditori.» Quegli, immediatamente, afferrò
la spada e al cospetto di tutti, si dette la morte. |
|
VI b |
Cadavere elato ſeniores populi Mnatham ſubmiſſe deprecantur, ut in paterna
avitaque arce ac ſede redeat, ut animum & voluntatem ad publica negotia
administranda, majore quam ha荒enus industria curaque convertat, ſuique adeundi
liberiorem potestatem præbeat. Et quando relaxandi animi cupido interveniat,
ut ſe quidem daret jucunditati, ſed caveret ne venationes negotiis ſeris
anteponeret. |
Portato via il cadavere, gli anziani del popolo pregarono Mnata
di
stabilirsi nella fortezza, sede paterna e avita, e di convertire, con maggior
successo e attenzione, la mente e la volontà all'amministrazione dei pubblici
uffici, dimostrando una maggiore capacità di controllo. E se mai gli venisse il
desiderio di rilassarsi e divertirsi, badasse bene, però, di non
anteporre le cacce agli impegni seri. |
|
VI c |
Formidabiliores namque instare venationes dicebant, hinc Gallis & Germanis, cum
Imperatore Carolo, non Saxones modò, verum etiam Vandalos & Serbios populares
ſuos oppugnantibus: hinc Hunnis, gente omnibus feris ferociore crudelioreque
Pannoniam repetentibus. Ab omni itaque parte vigilante opus eſſe Principe, qui
ante tempus proſpiciat, ne omnia imparatis veniant agenda. |
Come infatti dicevano, le cacce più formidabili riguardavano sia i Galli che i
Germani – i quali sotto l'imperatore Carolus stavano combattendo non solo i Sassoni, ma
anche i Vandali e i loro alleati Serbi – sia gli Unni, più feroci e
crudeli di tutte le belve, che si stavano impadronendo della Pannonia. C'era
appunto
bisogno di un kníže che vigilasse da ogni parte e provvedesse per tempo
affinché tutto non venisse affidato a persone impreparate. |
|
VII |
Vogenus ac dicas Martialis. |
Vojen, o come diresti, il
guerresco |
|
VII a |
Approbat magis conlium Mnatha, quam exequitur, iterum ad eundem relapſus
ſeceſſum, ibidemque ex pestilenti tandem lue mortuus, filio adoleſcentulo hærede
reli荒o, cui Vogeno nomen (bellicum quiddam hoc vocabulum perſonat) huic tantiſper
datus tutor, dum pota prætexta, virilem togam ſumeret. |
Approvò Mnata il consiglio, più che metterlo in pratica, e di nuovo ritornato
nel medesimo ritiro, alla fine vi morì di malattia, dopo aver
lasciato come erede il figlio appena adolescente, di nome Vojen (termine che evoca
l'idea della guerra). A costui, per un certo tempo fu dato un tutore finché,
deposta la toga pretesta, non indossasse quella virile. |
|
VII a |
Rohovitius autem Verſovicens erat, cui tutela illa ac plane totius principatus
administratio demandata fuit, opinantibus cun荒is talem in administratione
officii futurum, qualis in vita privata fuerit, in qua illi ad ſpeciem comitatis,
æquitatis, moderationis nihil deerat. Se non temere à veteribus di荒um est,
Magistratus indicat virum. |
Vi era però, un altro della stirpe dei
Vršovici, un certo Rohovic, al quale fu affidata
quella tutela e la quasi completa amministrazione dell'intero principato,
ritenendo tutti che egli si sarebbe rivelato nell'adempimento dei suoi compiti,
così com'era nella vita privata: non sembravano infatti difettargli cortesia,
equità e moderazione. Ma non senza ragione è stato detto dagli antichi che il
potere svela l'uomo. |
|
VII b |
Id quod brevi tempore apparuit, ut ille mul omnia male diu diſmulata per
vitam privatam vitia in magistratu profunderet, agrestem arrogantiam, pervicacem
contumaciam, ſummam iniquitatem & aviditatem, qua ſuccenſus, ad patrandum uſque
cædem intolerabilem exart. |
E come fu subito chiaro, egli fece conoscere tutti insieme, nell'esercizio
del potere, i vizi a lungo mal
dissimulati durante la vita privata: arroganza da
villano, pervicace ostinazione, somma ingiustizia e avidità; acceso da quest'ultima, si infiammò fino a commettere un
orribile delitto. |
|
VII c |
Senex quidam erat ordinis equestris, amiſſa uxore,
& liberis, viduus orbus, cæterùm opibus pollens:
Hunc sæpius captando blanditiisque, & aliis illecebris venando, cum ſeſe nihil
proficere videt, ad cœnam vocat, ſenem poculis provocat, convivium ad Solis
occaſum producit, ſublataque menſa invitat ad ambulatiunculam, postremo ſedu荒um
in locum arcis arduum, de ſaxo agit præcipitem, affingens vertigine ex ebrietate
correptum ſua ſponte decidiſſe. Sed non latent diu enormia ſcelera. Ipſe namque
paulò post ſemet prodidit, dum à morte interfe荒i in omnes illius fortunas ſua
libidine invadit, frustra cognatis & affinibus lementantibus, quoad rerum omnium
potestas in manibus Rohovitii erat. |
C'era un vecchio vladyka che, persa la moglie, era vedovo e senza
figli, ma ricchissimo. E quando Rohovic si avvide
che nulla otteneva a prenderlo con frequenti lusinghe e non riusciva a
conquistarlo con altri allettamenti,
invitò il vecchio a cena, lo sfidò col troppo bere e portò avanti il convito fino
al tramonto del sole. Poi, tolta la mensa, lo invitò a fare una passeggiatina.
Infine, portatolo in disparte in un punto assai alto della fortezza, lo fece precipitare
giù dalla rupe, asserendo poi che l'altro, colto da vertigine per l'ebbrezza,
fosse caduto
da solo. Ma non rimangono nascosti a lungo i grandi delitti. Infatti, poco
dopo [Rohovic] si tradì avventandosi con la sua cupidigia su tutti i beni di
chi era stato colto da morte, mentre invano i parenti e gli affini si lamentavano che
ogni proprietà fosse caduta
nelle sole mani di Rohovic. |
|
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Principem tam puberem Vicegrado excludit. |
Il giovane kníže viene escluso dal Vyšehrad |
|
VII d |
Properatum igitur cum virili toga, qua cum induiſſent Vogenum proceres, fidem ei
ſuam, ut Principi obligant, & ad ſedem Principalem, in arce tunc Vicegraden
potam deducere parant. Arci appropinquantes, portas clauſas, quemadmodum aliàs
fieri ſolebat Rohovitio abſente, reperiunt. Rati itaque eum abeſſe, pulſari
magno strepitu, portasque aperiri jubent. Ibi tandem Rohovitius de fenestra proſpe荒ans
caput exerit, voce alta exclamat inquiens: Si ut privatus, tutelæque suæ
creditus Vogenus veniat, ſe ut privatum eum admiſſurum: n ſecus, neque de arce,
neque de jure ſuo communi omnium ſuffragio ad gubernandum regnum bi acquito,
conceſſurum. Gliſcente verborum contentione, admovet quidam ſecurim, portasque
perfringit, per quas cæteri quoque irruperunt. |
Affrettandosi a investire Vojen della toga virile,
i maggiorenti del popolo concessero a lui, come kníže,
la loro fedeltà e si prepararono a condurlo alla sede appropriata, cioè alla
fortezza di Vyšehrad. Avvicinandosi alla rocca, trovarono le porte sbarrate:
cosa che di solito accadeva soltanto durante l'assenza di
Rohovic. Perciò, convinti che questi fosse uscito, ordinarono che si
bussasse sonoramente e si aprissero le porte. A questo punto,
Rohovic, guardando da una finestra, si affacciò ed
esclamò a gran voce che se Vojen fosse venuto da
privato cittadino e si fosse affidato alla sua tutela, come privato sarebbe
stato ammesso: altrimenti, né da coloro che erano nella rocca, né per il diritto
acquisito dal comune assenso di tutti, gli sarebbe stato concesso di governare
il regno. Lamentando la violenza delle parole, uno afferrò una scure e spaccò la
porta, attraverso la quale irruppero anche gli altri. |
|
|
Fugit ad Zatecenſes |
Fuga presso gli Žatecký |
|
VII e |
Ægrè Rohovitius muro clam demiſſus elabitur, pauliſperque in arce quadam ſua ſub
stens, dum comites videlicet contrahit, cum illis ad Zatecenſes profugit,
adjicitque ad dominandum urbi animum. Quo cives intelle荒o renuntiant illi,
ab incœpto non deerit, mili eum præcipitio periturum, atque ſenex ille, ab
eo nuper præcipitatus, miſerè periit: |
Con difficoltà Rohovic, calatosi di nascosto da un muro,
fuggì via e, soffermandosi un po' in una sua fortezza, radunò alcuni compagni, si
rifugiò con loro presso gli Žatecký e si apprestò ad assumere il potere sulla
città. Compreso ciò, i cittadini gli fecero sapere che se non avesse desistito
dai suoi propositi, lo avrebbero gettato in un precipizio simile [a quello in cui]
era miseramente morto quel vecchio, da lui fatto precipitare poco tempo prima. |
|
VII f |
Non ere荒is ut aliàs, ſed demiſs auriculis, ut iniquæ ſortis aſellus, ista
audiens, ejicit ſe protinus foras, locumque de proximo quam potest ad muniendum
idoneum occupat, illum cæs arboribus & vallo, foſſaque communit, atque inde
in Lucenſes hostiliter graſſatur, tanta audacia, ut ab ips mœnibus pastores
cum gregibus ad aſylum ſuorum latronum abigeret, tantoque ſucceſſu, ut quum à
civibus plenis, repente portis effus jam interciperetur, clamitans ille,
pugnamque ſuos iterare jubens, non ſolum manus civium evaſerit, ſed occis
illorum centum, & alterum præterea tantum captivorum ſecum abduxerit. |
Non con le orecchie dritte come altre volte, ma reclinate come quelle di un asinello
[abbattuto] dalla
cattiva sorte, udendo queste parole, [Rohovic] subito
si allontanò e occupò un luogo nelle
vicinanze, idoneo, quanto possibile, a essere fortificato. Abbattuti gli alberi,
lo munì di un vallo e di un fossato, e da quel luogo prese a infierire
ostilmente contro i Lučané, con tanta audacia da ricacciare dalle mura i pastori
con le loro greggi, verso i nascondigli dei suoi predoni. Riuscì così bene nei
suoi propositi che,
mentre guidava i suoi uomini e li esortava a rinnovare lo scontro, i cittadini
uscirono in gran folla dalle porte della città e, quando erano ormai sul punto
di intercettarlo, [Rohovic] non
solo schivò le mani della gente ma, uccisi cento di loro e facendone altrettanti
prigionieri, li trascinò via con sé. |
|
|
Legato caput præſcindit. |
Mozzata la testa a un ambasciatore |
|
VII g |
Aliquanto tamen eam rem Vogenus mitius tulit, quam quod legatum ſuum, contra jus
Gentium capite truncaverit, caputque ejus clam ad portas arcis Vicegradens in
mantica ſuſpenderit: Itaque convocatis ad conlium ſubditis armarique, & ad
certum diem in armis apparere juſs, ipſe quoque Princeps, armatus ante agmen
progreditur ad expugnandum Rohovitium qui cum à pugna, cui ſe parem eſſe non
videbat, ad obdionem tolerandam animum convertiſſet, indignum militibus viſum,
trahere ſecum juvenem Principem ad obdium latronum. Illo igitur in oppido
reli荒o, ip duabus ex partibus clauſum intra vallum Rohovitium oppugnare
contendunt, irrito plusquam unum menſem conatu. |
A tali fatti, Vojen mantenne un atteggiamento
piuttosto tollerante, almeno fino a che [Rohovic] mozzò
la testa a un suo ambasciatore, contro il diritto delle genti, e la fece
appendere dentro una sacca davanti alle porte della fortezza di Vyšehrad. A quel
punto, convocati i sudditi in assemblea e ordinato loro di armarsi e di affluire
in un giorno stabilito, lo stesso kníže avanzò in
armi alla testa delle schiere per assediare Rohovic.
Questi, vedendosi impari nella battaglia, si era risolto a subire l'assedio,
mentre sembrava ai soldati cosa indegna portare con loro il giovane kníže
all'assalto dei predoni. Pertanto, lasciatolo nella fortezza, essi stessi si
cimentarono a contrastare Rohovic, chiuso entro il
vallo da due parti, in un assedio vano per più di un
mese. |
|
|
Laqueo vitam finit Rohovitius |
Rohovic chiude la sua vita con un cappio |
|
VII h |
Eruptione tandem latronum fa荒a, multisque illorum interfe荒is, milites vi荒ores
cum vi荒is in vallum penetrant, ibidem Rohovitium capiunt, & ad Principem
deducunt, nihil aliud rogantem, nisi carnifici ut ne traderetur.
Conceſſum ut ipſe bi laqueum indueret, ac ſe in quercu juxta viam pota,
ſuſpenderet. |
Finalmente, avvenuta una sortita da parte dei predoni e uccisi molti di loro, i
guerrieri vincitori penetrarono con i prigionieri nella fortificazione,
catturarono Rohovic e lo condussero dal principe: quegli chiese soltanto di non
essere consegnato al carnefice. Gli venne concesso di mettersi da solo il cappio
e di impiccarsi a una quercia posta lungo la via. |
|
|
Narvali Miſnenũ prædonum in Bohemia prima excuro |
La prima incursione dei predoni Míšni in Čechy |
|
VII i |
In eadem paulò post Regione, Miſnii (portio est Saxonum) primi
externorum, ad populandum Bohemiam, remigio lintrium & ſcapharum, quas adverſo
Albi flumine agebant, irruperunt, prædas hominum atque jumentorum ex agris
Litomericenbus ac Belinenbus abigentes: & priusquam oppidani ad arcendam vim
advenarum concurrerent, ſecundo rurſum flumine cum præda effugientes. Conlium
Principi datum, ut proximè Albim firmam conderet arcem, ex qua inhiberi hostibus
licentia navigandi, latrocinandique poſſet. |
Nella medesima regione, poco tempo dopo, irruppero i Míšni (cioè una parte dei
Sasové), primi tra gli stranieri a saccheggiare la Čechy, con un remeggio di
barche e scafi che essi conducevano attraverso il fiume Labe, portando via gran
bottino di uomini e bestiame dai campi di Litoměřice e di Bílina. E prima che
gli abitanti della fortezza accorressero per contenere la violenza dei
forestieri, essi erano già fuggiti con le loro prede attraverso il fiume.
Consigliarono allora al kníže di fondare una roccaforte vicino
alla Labe,
dalla quale si potesse inibire ai nemici la possibilità di navigare e di fare
razzie. |
|
VII i |
Arci nomen Straka fuit: Sed ut canis à corio nunquam absterrebitur un荒o,
ni ei cruri perfregeris, c tum Miſnii dulcedine prædæ capti, ad degustatum
bolum ore ſemper hiabant. Itaque omiſſa navigatione, ad montes & ſylvas, ſubter quas Albis illic labitur, defle荒unt, præmiſs ad explorandum ſuis,
cubi stratis arboribus aut custodiis obje荒is itinera eſſent impedita. Fottè in duo
bi obvios illi incidunt, atque utrumque corripiunt, cognitoque ex nova illa
arce eos veniſſe, ambos ad Centuriones ſuos adducunt. Interrogat ſeorm, hæc
pariter reſpondent: Nudius tertius præfe荒um arcis ad Vogenum eſſe profe荒um
cura arcis quinquagenario cum quinquaginta militibus commiſſa, reliquam manum
eſſe opificum quoniam opus arcis nondum effet abſolutum. |
Alla rocca fu dato il nome di Střekov. Ma come un cane non si riterrà mai
disgustato da un pezzo di carne grassa, a meno che tu non lo percuota a una
zampa,
così allora i Míšni, attirati dalla squisitezza della preda, stavano sempre a bocca
aperta a gustare il cibo. Così, smesso di navigare, si ritirarono sui monti e tra
i boschi, nelle terre bagnate dalla Labe, ma non prima di aver mandato i loro uomini
in avanscoperta, per accertarsi se da qualche parte il cammino fosse impedito da distese di alberi
o dall'opposizione dei difensori. Per caso, si imbatterono in due uomini,
che andavano loro
incontro, li assalirono e, saputo che erano venuti dalla nuova fortezza, li
condussero entrambi dai loro capi. Interrogati, diedero queste stesse
risposte: tre giorni prima, il prefetto della fortezza si era recato da
Vojen, affidando la difesa a un cinquantenne con cinquanta
soldati. Il resto del personale era costituito da artigiani, dal momento che
il lavoro della rocca non era ancora ultimato. |
|
|
Capta & direpta arx à Miſniis |
La fortezza presa e distrutta dai Míšni |
|
VII j |
Læti ex hoc ſermone Miſnii, continenti agmine prævios illos ſubſequuntur, juſs
ita diſpenſare iter, ut circiter quartam no荒is vigiliam ad arcem pervenire
poſſent. Inde magno tumultu, locum qui nondum obstru荒us erat, aggrediuntur,
opifices ſemiſomnes interficiunt: mox per milites ad restendum excitatos, vi &
ferro bi viam, uſque ad quinquagenarium aperiunt, quem statim captum in Miſniam
mittunt, direptaque & combusta arce, ad vastandos alios pagos convertuntur,
prædamque recuperata navigatione, per Albim ratibus avehunt, brevi tempore ad
oppida quoque expugnanda ſe reverſuros palàm denunciantes. |
Soddisfatti da questo discorso, i Míšni si avviarono con le loro schiere,
facendosi precedere da essi, con l'ordine di regolare il cammino in modo da
raggiungere la fortezza intorno alla quarta vigilia notturna. A quel punto, con gran
tumulto, assalirono la roccaforte, la quale non era stata ancora adeguatamente
munita e uccisero gli operai mezzo addormentati; in fretta, usando la violenza e le armi, si aprono la strada
tra i soldati chiamati in difesa, fino al
cinquantenne, e catturatolo, lo mandarono subito a Míšeň. Poi, distrutta e
bruciata la rocca, si volsero a devastare altri villaggi e, ripresa la
navigazione, portarono via il bottino su zattere annunciando apertamente che in
breve sarebbero ritornati per espugnare anche la cittadella fortificata. |
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VII j |
Redierat tunc Vogenus ab expeditione contra Moravos fa荒a, qui Bohemiam,
militer atque Miſnii, incuronibus ac deprædationibus infestabant, ſaltus
militer & juga montium occupabant, at inde in pagos & colonos impetum faciebant. |
Vojen era tornato allora da una spedizione contro i
Moravané che, similmente ai Míšni, infestavano la Čechy con incursioni e saccheggi, e alle stesso modo
occupavano le selve e i gioghi dei monti e di là assalivano villaggi e
contadini. |
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VII j |
Quem quidem tumultum Princeps interventu ſuo repreſt: ſed non plane compreſt,
quia nuſquam in apertum Moravus, aut in aciem deſcendere voluit. Et Principem
illuc reverti res hortabatur, ubi majus periculum imminebat. Novo igitur dele荒u
habito, castra adverſus hostes promovet, cum jam illi viribus Saxonum au荒i,
Lucenum mœnibus inſultarent: ſed appropinquante Principe obdionem omittunt,
ſeque ad locum, ad quem Bilina fluvius in Albim influit, conferunt, ut ibi manus
cum Bohemis conſerant. |
E per la verità tale scompiglio fu represso dal kníže col suo intervento, ma
non del tutto eliminato perché in nessun luogo il moravo volle scendere in campo
aperto o in battaglia. E la situazione esortava il principe a volgersi colà dove
incombeva maggiore pericolo. Perciò, effettuata una nuova leva militare, mosse gli
accampamenti contro i nemici dal momento che quelli, accresciuti dalle forze dei
Sasové, assalivano le mura dei Lučané. Ma avvicinandosi il principe,
abbandonarono l'assedio e si riunirono nel luogo dove il fiume Bělá affluisce
nella Labe, per battersi con i Čechové. |
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VII j |
In duo cornua hostes divi erant, dextrum Saxones, nistrum Miſnii tenebant:
contra Bohemi utrunque. Dato pugnæ gno fit acris utrinque impreſo, & planè
commoritura dimicatio alteris in alteros, propter mutuum odium, ne ullo mortis
metu ruentibus, neutrisque loco ſuo demigrantibus. |
I nemici erano disposti su due ali: quella destra la tenevano i Sasové, la
sinistra i Míšni: i Čechové erano di fronte a entrambi. Dato il segnale della
battaglia, vi fu da ogni lato uno scontro violento, un combattimento degli uni
contro gli altri, reso mortale dall'odio reciproco e senza alcun timore della
morte per coloro che si lanciavano rovinosamente e senza cedere dalla propria
posizione. |
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VII j |
Quo Princeps conſpe荒o, ſubmittit ad Cadanum, à quo etiam oppidum Cadana
vocabulum obtinet, qui ei nuntiet tempus emergendi ex indiis adeſſe. Advolat
mox ille cum ſuis, ac latera hostium invadens, perturbat illorum ordines: non
expe荒ant amplius Bohemorum Triarii, qui fustuariam inire pugnam ſolent cum
flagellis, quibus frumenta in areis flagellant, ſed strepitu ex illorum
agitatione commoto, haud ne terrore hostes adoriuntur, plagas ingerunt, crura
& oſſa comminuunt, ac reliquos in Albim flumen agunt. Non alia ante Bohemorum
pugna adeo atrox fuit, nec ad audaciam Saxonum retundendam conducibilior. |
Visto ciò, il principe si rivolse, in segreto, a un certo Kadan
– da cui anche la cittadella di Kadaň trae il nome – per fargli sapere che era
giunto il tempo di risollevarsi dalle insidie. Quegli corse prontamente con i
suoi e, avventandosi ai fianchi dei nemici, scompigliò le loro file; non
aspettarono oltre i triari dei Čechové, i quali erano soliti entrare in battaglia
a suon di legnate, usando i bastoni con i quali nei campi battevano il frumento.
Scoppiato un clamore per quella agitazione, assalirono non senza panico i
nemici, procurando ferite, spezzando gambe e ossa e gettando gli altri nel fiume
Elba. Nessun precedente scontro dei Čechové era stato così atroce, né più utile a
rintuzzare la furia dei Sasové. |
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Expeditio in Moravos |
Spedizione contro i Moravané |
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VII k |
Ab hac cura liberatus Vogenus, intendit animum in ultionem Moravorum, qui paulo
minus ſexcentos Bohemos in oppugnatione arcis Lipnicæ occiderunt, quam arcem
Moravi bi in Bohemia in hoc excitaverant, ut propinquum ac tutum in illam à
prædationibus in Bohemia fa荒is receptum haberent, illiusque prædio plus, quam
viribus freti, debachari graffari, indies magis ac magis haud denebant,
plurimumque Gzaſavienbus incommodabant. Quorum querelas tam frequentes diutius
ferre Princeps non ſustinens, impetum tandem expellendi Moravos è Bohemia cœpit,
veniensque ad Lipnicam arcem, eam exercitu circumdedit, ita ut nec introire, nec
exire quiſquam poſſet. Sed ne ea res Moravos terret, commeatu abunde instru荒os,
& ad defendendum ſe animo paratos. Jacula hincinde telaque volare cœpta, ſed
Moravorum ex loco ſuperiore miſſa, rarò frustra cadebant, compluresque Bohemos
interficiebant, militer cadebant, qui ſuccedere vallo, foſſamque complere
conabantur. |
E
Vojen, liberato da questa incombenza, si dispose
alla vendetta sui Moravané. Questi avevano ucciso poco meno di seicento cechi
nell'assedio della rocca di Lipnice, la quale fortezza, i Moravané avevano
eretto per sé, per avere un sicuro, vicino rifugio dopo le razzie perpetrate in
Čechy; e confidando più in quel presidio che nelle loro forze, non smettevano
ogni giorno di più di infuriare, di fare ruberie, e soprattutto nuocevano agli
abitanti di Čáslav. E il kníže, non potendo
sopportare più a lungo le loro frequenti querimonie, finalmente intraprese lo
sforzo di espellere i Moravané dalla Čechy e, venendo alla roccaforte di
Lipnice, la circondò con l'esercito cosicché nessuno potesse entrare e uscire.
Ma quella situazione non spaventò i Moravané, ben forniti di viveri bastanti e
preparati a difendersi. Incominciarono a volare da una parte all'altra dardi e
frecce ma, quelli dei Moravané, scoccati da un luogo più alto, raramente
cadevano invano e uccisero gran parte dei Čechové; similmente cadevano coloro che
tentavano di attraversare il vallo e riempire il fossato. |
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Lipnica arx flammis ab ſumpta |
La fortezza di Lipnice data alle fiamme |
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VII l |
Qua re commotus Princeps, ignem ja荒are in ſæpes, arborumque strues, & alia
ſepta lignea jubet, atque illa vento coorto ſuccenſa, repente tam validas
excitarunt flammas, ut cætera quo arcis loca, & ipſa lignea inflammarentur,
arderentque intus omnia, adeo, ut qui in arce clau erant dubitarent, quid
peterent, quid vitarent. Præstare tandem unus illorum dicit, eruptione fa荒a,
vel mori potius per virtutem, quam per ignominiam flammis torreri. |
Il kníže, turbato da ciò, ordinò di appiccare il fuoco alle siepi, alle
cataste di alberi e alle altre barricate di legno; e quelle, incendiate dal
vento che intanto si era levato, repentinamente sollevarono fiamme così alte che
anche le altre parti della roccaforte e tutto ciò che era in legno prese fuoco e
tutto arse, tanto che quelli che stavano rinchiusi nella fortezza,
non sapevano che cosa chiedere e come scampare. Uno disse alla fine di
essere pronto, fatta una sortita, a morire con onore piuttosto che a bruciare tra le fiamme in modo vergognoso. |
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VII l |
Hæc dicentem, atque erumpentem, extra pauculos, qui mox intercepti ſunt,
ſequuntur alii omnes in unum qua globum conglobati, quia viderant diſperios
eſſe Bohemos, & ad comburendam arcem intentos: Hinc minore cum periculo ac cæde
Moravi per vacua penè Bohemorum castra evadunt. Mox tamen Princeps quoque ſuos
in unum contrahit, mulque hortatur, ut instent fugientibus, ultionemque
maleficiorum & injuriarum de illis exigant, nec prius finem perſequendi, quam in
Moravia, faciant: Currentes (quod ajunt) incitabantur, adeò ſua ſponte ad
inſequendum prompti erant. |
A colui che così parlò e uscì fuori, seguirono altri, e tutti serrati insieme
– tranne pochissimi, subito uccisi –, in quanto avevano visto che i Čechové erano
dispersi e intenti a dare fuoco alla fortezza. Da qui, con minore
pericolo e minori vittime, i Moravané evasero attraverso gli accampamenti quasi
vuoti dei Čechové. Ben presto, tuttavia, anche il kníže
radunò i suoi uomini e insieme li esortò a incalzare i fuggitivi, a esigere la
propria vendetta per i loro misfatti e le loro offese, e non smettere di
inseguirli prima di arrivare in Morava. A tal punto venivano incitati a correre – dicono –
che spontaneamente scattavano all'inseguimento. |
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Profligati Moravi |
Cacciata dei Moravané |
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VII m |
Quum noviſmum agmen aſſecuti, nonnullos neci dediſſent, alii ſummum collem ad
restendum capiunt. Sed ne in loco quidem ſuperiore constere illos Bohemi
patiuntur: imò dilapſos, per ſylvas proximas, uſque in Betoviam, arcem in
Moravia tam, inſequuntur, atque inde quoque hostes expellunt, arcem
demoliuntur. Posthac Vogenus pacatiorem Bohemiam habuit. |
Rinforzati da nuove schiere e avendo ucciso non pochi nemici, altri [moravané]
presero la sommità di un colle, cercando di resistere. Ma i Čechové non
permisero loro neppure di fermarsi in un luogo più alto, anzi, li inseguirono,
ormai disfatti, per i boschi vicini, fino a Bítov, castello sito in Morava, e
anche là cacciarono i nemici e distrussero la roccaforte. Dopo questi fatti,
Vojen resse una Čechy più pacificata. |
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VIII |
Vneslaus & Vratislaus fratres |
I fratelli Vnislav e
Vratislav |
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VIII a |
Hic duos post obitum ſuum filios ſuperstites reliquit, Vneslaum natu majorem, &
minorem Vratislaum: huic proceritas corporis, & forma Principe digna, plusquàm
alteri lenocinari viſa est. |
[Vojen], dopo la sua morte, lasciò due figli,
Vnislav il maggiore e
Vratislav il
minore: l'altezza e la bellezza degne di un kníže sembrarono far credito più
a quest'ultimo che al primo. |
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VIII a |
Sed vicit alter tamen ætatis prærogativa, qua ut prior erat, partes quoque
priores in ſucceſone Principatus abstulit. Ac ne quando fratrum concordiam
individuus Principatus dirimeret, ita inter illos hæreditatem dividi placuit, ut
ſeptentrionalis plaga, ad quam Lucens ſeu Zatecens Regio pota est,
Vratislao attribueretur, totam autem reliquam Bohemiam Vneslaus, tanquam Bohemiæ
Princeps, ut obtineret. Sorte ſua uter contentus, fraternam inter ſe
benevolentiam colebant, mutuaque bi invicem auxilia præstabant adverſus
Carolum Cæſarem, Saxones etiam tum & Vandalos, ipſosque præterea Bohemos
oppugnantem. Vratislao, qui prior deceſt, Vlastislaus filius, in Principatu
Lucen hæres fuit, cut Vneslao, paulò post mortuo Crevomislius, qua tu
Latine dicas flexanimus, quod à re荒o animum defle荒eret ad curva & obliqua. |
Tuttavia vinse l'altro per la prerogativa dell'età, in base alla quale, essendo
primo, ottenne anche le parti migliori nella successione al principato. E
affinché un principato indivisibile non mettesse fine alla concordia tra
fratelli, decisero di dividere così l'eredità fra di loro, in modo che la zona
settentrionale, verso la quale è posta sia la regione dei Lučané che quella
dei Žatecký fosse affidata a Vratislav; mentre tutta la rimanente parte
ceca
l'ottenesse Vnislav, in quanto kníže di
Čechy.
Entrambi contenti della loro
sorte, rispettavano fra loro una benevolenza fraterna e si portavano
reciprocamente aiuto contro l'imperatore Carolus che combatteva anche allora i
Sasové, i Vandali e gli altri Čechové. A Vratislav, che morì per primo,
succedette
come erede nel principato dei Lučané il figlio Vlastislav, così come a
Vnislav, morto poco
dopo, succedette Křesomysl, il quale era – per dirla alla latina –
di «animo volubile» [flexanimus], in
quanto volgeva il suo interesse da una direzione retta verso linee curve e
oblique. |
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IX |
Crevomislius ad mala proclivis |
Křesomysl, incline al male |
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IX a |
Sic olim Pertinax Cæsar Crestologus est appellatus, quod bene diceret, & male
faceret.
Depravati autem parumque nceri animi Crevomislius adverſus Horymirium hanc
memoriam ad fabulam uſque commemorandam reliquit. Annonæ fortè caritas tunc
invaluerat, ejus rei culpam vulgo omnes Principi aſgnabant, quod aratores ab
agris colendis, ad metalla effodienda transferret. Nemo tamen præter Horymirium
inventus, qui hanc culpam Principi exprobrare auderet. Huic cum mox horrea
arderent, juxta, ſchedæ eſſent repertæ cum hac inſcriptione contumelioſa: Fame
pereat, qui inter frugum acervos famen timebat: Quas adeo ſchedas ſatis constabat
foſſores metallorum ſparſſe Horymirio infestos, qua non ſolum Principis, ſed
illorum quoque lucra intercipere ſatageret. |
Come un tempo l'imperatore Pertinax fu chiamato Chrestologus perché parlava bene
ma agiva male, Křesomysl, anch'egli di animo
depravato e poco sincero, consegnò alla leggenda questa memoria [del suo
conflitto] contro Horymír, affinché venisse
tramandata. Si era allora aggravata, per sfortuna, la penuria dei viveri, della
qual cosa tutti, comunemente, davano la colpa al kníže
per aver trasferito i contadini dalla coltivazione dei campi all'estrazione dei
metalli. Non si trovò nessuno, tuttavia, tranne Horymír,
che osasse rimproverare al kníže tale colpa. Ben
presto, essendo andati a fuoco i suoi granai e subito dopo essendo state trovate
delle scritte con questa frase ingiuriosa: «muore di fame chi la fame temeva fra
cumuli di frumento», risultò abbastanza chiaro che tali scritte erano state
sparse dagli estrattori di metallo avversi a Horymír, quasi che lui brigasse a
intercettare non solo i guadagni del principe, ma anche i loro. |
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IX a |
Igitur tanquam incendii reis dicam illis Horymirium ſcript, ſed illi conſcio
Principe ad dolum ver, officinam quandam ſuam nullius pretii, ſua ſponte
exurunt, accuſantque viciſm Horymirium velut inflammatorem manifestarium.
Cæteri qui cognitioni interfuerunt, ſuis Horymirium ſententiis abſolverunt,
ſolus Crevomislius pravo capitis ſui indicio inſontem damnavit. |
Pertanto, Horymír scrisse a quelli – come a dire, ai responsabili dell'incendio
–, ma essi, vòlti all'inganno con la complicità del principe, bruciarono
volontariamente una sua bottega senza alcun valore e a vicenda accusarono
Horymír
come manifesto incendiario. I presenti al processo emisero sentenze di
assoluzione nei confronti di Horymír. Solo
Křesomysl, per un malvagio indizio della sua
mente, condannò l'innocente. |
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Fabella de Horymirio |
Favoletta di Horymír |
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IX b |
Sequitur nunc fabula, quam Historiæ non inſeruiſſem, ni adeò ſcriptis aliorum
invulgata, fidemque tantam apud Bohemos adepta eſſet, ut juxta adagium veriora
iis, quæ apud Sagram acciderunt, continere videatur. Ferunt igitur Horymirium
post damnationem ſui precibus egiſſe cum Principe, ut bi ante ſupplicium
ſubeundum, inſcendere equum, quem ingnem habuit, ac bis ter intra arcem
Vicegradenſem, portis arcis occlus obequitare liceret: atque illum precibus
tanquam ludicris & frivolis annuiſſe. Vadit Horymirius ad sternendum ſella equum,
& verba quædam ei, ceu auſcultanti at intelligenti dicit ad aurem. Mox illo
inſcenſo, arcem ſaltabundus perequitat, tanto equi ardore, ut impetum illius
eques ultra non ſustinuerit, quo ille à porta us ad portã, & ab illa per muros,
& flumen transvolavit, inſeſſorẽ in altera Vultaviæ ripa incolumen stens, eo
loci, quo in hodiernum diem è regione arcis Vicegrands pagus
Zliichow, ab
aſperone cognominatus, tus est: quoniam idem equus ad alteram ripam, aqua
conſperſus hoc verbo
Zliichow, uſus
fuiſſe narratur. |
Segue ora una leggenda che non avrei inserito tra i fatti storici se non fosse stata così
divulgata dagli scritti altrui e non avesse conseguito tanto credito presso i
Čechové da sembrare loro che [anche] le cose più reali che avvennero presso Sagra
contenessero quasi un significato allegorico. Tramandano, infatti, che
Horymír,
dopo la sua condanna, si fosse rivolto al kníže con una supplica affinché gli
fosse concesso, prima di subire il supplizio, di montare il suo magnifico
stallone [Šemík] e di cavalcare due o tre volte intorno alla rocca di Vyšehrad, a porte chiuse; e [narrano] che [il kníže]
avesse assecondato una preghiera tanto risibile e stravagante. Si diresse
Horymír a bardare il cavallo della sella e gli
sussurrò all'orecchio alcune parole, come se quello potesse ascoltarlo e
capirlo. E appena montato, girò intorno alla rocca e, galoppando, il cavallo
mostrò tanto ardore che il cavaliere non riuscì a sostenere il suo impeto,
finché esso, da porta a porta, volò oltre le mura e il fiume, lasciando il
cavaliere incolume sull'altra riva della Vltava, nel luogo in cui, oggi, si
trova il villaggio di Zlíchov, [così chiamato] in seguito all'«aspersione»; dal
momento che si narra che il medesimo destriero, sulla riva opposta, madido
d'acqua, avesse pronunciato questa parola: ZLÍCHOV. |
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IX b |
Id videlicet fabulæ defuerat, ut equus etiam cum ſuo Horymirio, cui per tempus
ſalutem attulit, loqueretur. Nihil est, quod præterea aliud hic Princeps
memoratu dignum geſſerit. |
E certamente questo mancava alla leggenda, che anche il cavallo parlasse con il
suo Horymír, al quale, a tempo opportuno, aveva arrecato salvezza. Oltre a
ciò non vi è altro che questo kníže abbia fatto, degno di essere ricordato. |
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LIBER TERTIVS |
LIBRO TERZO |
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X |
Neclan |
Neklan |
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X a |
Defun荒o Crevomislio filius ipſius Neclan principatu potitutr. Neclan autem
Bohemis est, vir imbellis, & ad feriendum hebes, ut eſſe cuneus ſolet, qui aciem
gerit obtuſam, & ad findenda ligna ineptam. Ad hunc fanè modum, ingenio animoque
degenerem, cum Vlaſtislaus patruelem ſuum eſſe videret, bello terrendum
principatumque illi armis extorquendum putavit. Cujus rei gratia, armorum
officinas per oppida ſua instruit, & undecunque poteſt artifices opificesque
contrahit, atque ex improviſo cum armata manu in fines Neclan populabundus
inſilit, repertoque loco intra duos montes, novo condendo oppido idoneo, condere
protinus id cœpit, atque ex nomine ſuo Vlatislaviam vocavit. |
Morto
Křesomysl, s'impadronì del regno suo figlio
Neklan. Ma costui fu, per i Čechové, un uomo imbelle,
incapace di ferire, come suole essere un cuneo dalla punta smussata e inadatto a
spaccare pezzi di legno. E Vlastislav, vedendo che
suo cugino era proprio così, privo d'ingegno e di coraggio, pensò di atterrirlo
con una guerra per usurpargli, con le armi, il principato. A tal fine fece
costruire nelle sue città fabbriche di armi e, ovunque poteva, radunò artigiani
e operai, finché, all'improvviso, si lanciò oltre i confini di
Neklan, devastando. Quindi, trovato un luogo tra
due monti, idoneo a fondare una nuova città, senza indugio cominciò a
costruirla, chiamandola, dal suo nome, Vlastislav. |
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X a |
Pavore Neclan perculſus, duos ex intimis aulicos ad patruelem legat, pacem &
mutuam amicitia moraturos, quos ille quaſi exploratum miſſos, coclites domum
remittit, ſuo utrique effoſſo oculo. Supervenerunt mox alii, qui iratum
muneribus haud ſpernendis placarent. Sed & illi di荒a contumelioſa minarum plena
retulerunt. Sic orationem ſuam Vlastislao finiente, non muneribus, ſed toto
Principatu miſſo opus eſſe, ſi ſuam orexim ſedare Neclan voluerit. Stri荒um
deinde enſem per Lucenſem regionem, cum ejusmodi edi荒o circumferri jubet, ut
mares omnes qui enſis longitudinem corporis proceritate adæquarent, militatum
venirent, alioquin enſe illo perituri, quicun illorum militiam detre荒averint.
Ad hoc tam durum aſperumque edi荒um, cum major quàm animo præceperat multitudo
conveniret, tum quaſi de vi荒oria futura certus, multa vana gloriabundus ja荒at, &
inprimis pedites ad barbaram crudelitatem acuit, injungens, ut nemini prorſus
tam in via quàm in acie parcerent, non ſeni, non juveni, non puero, non puellis,
quinetiam la荒entes infantes ab uberibus matrum abreptos confoderent, ipſis
matribus in hoc duntaxat incolumibus ſervatis, ut illæ pro infantibus ſuis
catellos Lucenſium poſt hanc vi荒oriam nutrirent. Tum ad equites converſus,
abjicite inquit ſcuta, quibus in fuga & cæde hoſtium nihil opus eſt: ac vice
illorum, accipitres, falcones, cæterasque aves rapaces in manus ſumite, ut
illarum ingluviem hoſtili carne ſaturetis. Hæc ferox Vlaſtislaus. |
Neklan, preso da gran timore, inviò al cugino due
cortigiani, tra i più fedeli, per accattivarsi pace e reciproca amicizia, ma [Vlastislav],
quasi fossero stati mandati come spie, li rimandò indietro dopo averli fatti
accecare da un occhio. Ne vennero altri, per placare quell'iracondo con
doni certamente da non disprezzare, ma anche loro riferirono offese e minacce.
Così Vlastislav finiva il suo discorso: non c'era
bisogno di doni, ma di consegnare tutto il regno, se
Neklan voleva sedare il suo appetito. Ordinò, quindi, che una spada
sguainata fosse portata in giro per il territorio dei Lučané con un editto
siffatto: che tutti gli uomini i quali in altezza eguagliassero la lunghezza
della spada, venissero a combattere, altrimenti sarebbero morti di quella stessa
spada, e così tutti coloro che si fossero sottratti alla coscrizione. Ed essendo
convenuta, a questo aspro e duro discorso, moltitudine maggiore di quanto avesse
pregustato dentro di sé, gloriandosi, tirò fuori molte parole vane e soprattutto
spinse i fanti a una barbara crudeltà, ingiungendo loro che assolutamente non
risparmiassero nessuno, né quelli trovati per via né in battaglia: non un
vecchio, non un giovane, non un bambino, non le fanciulle: che anzi, uccidessero
anche i lattanti strappati al seno materno, e che fossero lasciate incolumi
soltanto le madri affinché nutrissero, dopo quella vittoria, i cuccioli dei cani
dei Lučané. Poi, rivolto ai cavalieri, disse: «Gettate via gli scudi dei quali
non ci sarà bisogno, giacché i nemici saranno uccisi o messi in fuga; al posto
loro prendete sparvieri, falconi ed altri uccelli rapaci per saziare la loro
voracità con carni umane». |
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Sagarum ænigmatæ fallacia |
La fallacia degli enigmi di Saga |
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X b |
At Saga mulier, quam in oppido ſuo habebat, alium prælii eventum futurum
privigno ſuo canebat, illum clam ſubmonens, ut ſi domum ex prælio cruento &
infauſto ſuperſtes reverti cupiat, eum qui primus hoſtium ſibi occurrerit, gladio
transfonderet, atque utramque ejus auriculam amputaret, ſecumque celeri curſu
domum repetens, ad uxorem ſuam referret. |
Ma un'indovina, una certa Saga, che aveva nella sua città, prediceva al suo
figliastro [Straba] che si sarebbe verificato un diverso fatto di guerra, ammonendolo
segretamente che, se voleva ritornare a casa incolume da uno scontro così
violento e infausto, doveva trapassare con la spada il primo uomo che gli si
fosse fatto incontro, amputandogli entrambe le orecchie e, riportandole con sé
nella sua corsa veloce verso casa, le consegnasse alla moglie. |
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Siderius à Chaynovo ſuppoſititius Princeps |
Štyr, di Chýnov, sostituisce il kníže
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X c |
Habuit tunc & Neclan in exercitu ſuo Sagam quoque ſuam, quæ Aſello diis ſuis ad
fontem quendam immolato, fecunda omnia & proſpera divinabat. Cæterum Principem
ignavum timidumque, ad aciem ne divinatione quidem ſua protrudere valuit: in
morem enim ſoricis in conſpe荒u felis apparere non audentis, in tabernaculo illo,
quaſi in cavernula forex deliteſcebat: propius deinde accedente Vlaſtislao,
atque inſtantibus omnibus, præſentiamque ipſius multum flagitantibus, Siderium à
Chaynovo equitem ſtrenuum, qui æmula facie perſimilis habebatur, equo & armis
ſuis armat, magniſque precibus rogat, ut perſonam & nomen Principis gerat,
omnesque Ducis partes in prælio obeat, relaturus ob iſtud officium honores à ſe
& præmia lauta. Quod est calcar equo ſponte currenti. Hæc fuerunt di荒a
promissaque Principis ad exſtimulandum Siderium, ut tanto videlicet promptius
libentiusque juſſa capeſſeret, atque omnia in acie præſtaret, quæ Ducem ſtrenuum
præſtare oportet. |
Allora anche Neklan ebbe nel suo esercito la
propria indovina, la quale, sacrificato ai suoi dèi, presso una fonte, un asinello,
profetizzava tutti eventi favorevoli e prosperi. Ma neanche le sue profezie furono capaci di spingere in combattimento un kníže
così ignavo e timido; infatti, come un topo che non osa apparire di fronte a un
gatto, [Neklan] si nascondeva nella sua tenda come
un sorcio nella sua tana. Poiché
Vlastislav si faceva più vicino e tutti quanti reclamavano la sua
presenza, [Neklan] vestì del suo cavallo e delle
sue armi un certo Štyr, di Chýnov, valoroso
cavaliere che, emulandolo nell'aspetto esteriore, era ritenuto molto somigliante
a lui e, con magnifiche parole, lo pregò di rappresentare la persona e la
dignità del kníže
e di assumere, in battaglia, il ruolo del condottiero: per
questo incarico avrebbe ottenuto da lui onori e lauti premi. Era come dare di
sprone a un cavallo che corre da sé. Tali
furono le parole e le promesse del principe per stimolare
Štyr, è evidente, affinché tanto più prontamente
e di buon grado
eseguisse gli ordini e, in combattimento, compisse tutto quanto è opportuno che
faccia un comandante valoroso. |
|
X c |
Prælium in campo Turſcho commiſſum fuit, meliore ſucceſſu
eorum qui ſcuta retinuerunt, quàm qui illa abjecerunt. Mirabatur ſimul &
indignabatur Vlaſtislaus, ubi vidit Neclan (hunc enim ſe videre putabat) quovis
alias lepore pavidiorem, tunc in prima acie velut leonem verſari, in ipſum
itaque inflammatus, infeſtusque haſtam dirigit: Cui haſtatus occurrit Siderius,
Vlaſtislaumque cuſpide transfixum, equo moribundum deturbat. |
La battaglia si combatté nel campo di Tursko, con maggior successo da parte di
coloro che avevano trattenuto gli scudi che da parte di quelli che se ne erano
disfatti.
Vlastislav si meravigliava e nello stesso tempo s'irritava vedendo Neklan
(credeva infatti di vedere costui), altre volte più pavido di una lepre, che ora
si agitava nelle prime file come un leone, perciò infiammato e minaccioso,
diresse l'asta contro di lui; a questi andò incontro
Štyr,
a sua volta armato d'asta, la cui punta trafisse
Vlastislav buttandolo, moribondo, giù dal cavallo. |
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X c |
Ab occaſu Ducis,
tanta repente conſternatio, tantusque ſtupor equos pariter at homines Lucenſes
inceſſit, ut nec ultra progredi, nec retrò pedem referre poſſent, à Saga, ſuo
quiſque loco ne profugerent, miro ſtupore inje荒o affixi. Extra unum privignum,
qui domum reverſus, non hoſtem, ut opinabatur, ſed uxorem ſuam gladio confoſſam,
& auribus truncam reperit, ſeroque tandem agnovit, à noverca nurui infeſta, hanc
cædem fuiſſe procuratam, ſiquidem auriculæ illæ, quas ſecum retulit, capiti
uxoris admotæ protinus in loco ſuo coaluerunt. |
Per la morte del capo, rapidamente, tanta costernazione e tanta sorpresa colpì
sia i cavalli sia gli uomini dei Lučané, da non poter avanzare oltre né
retrocedere, inchiodati da Saga ciascuno al suo posto per non avere scampo,
essendo loro infuso un incredibile torpore. A parte uno, il figliastro che,
ritornato a casa, scoprì che non il nemico, come credeva, ma sua moglie era
stata trafitta da spada e amputata delle orecchie; troppo tardi alla fine capì che
quella strage era stata procurata dalla matrigna, ostile alla nuora, dal momento
che quelle piccole orecchie che aveva portato con sé, mozzate dal capo di sua
moglie, subito si riattaccarono al loro posto. |
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X c |
In hac pugna Syderius cecidit non tam ab hoſtibus, quàm à fuis, qui virtuti &
gloriæ ipſius invidebant, oppreſſus. Inde porro ad evaſtandam rapinis
incendiisque totam Lucenſem regionem itum, urbem namque Zateciam latis foſſis
altisque muris tutam, capere non poterant. |
In questa battaglia Štyr morì, sopraffatto non
tanto dai nemici quanto dai suoi, invidiosi del suo valore e della sua gloria.
Di là, poi, si procedette a devastare, con rapine e incendi, tutta la regione
dei Lučané, finché infatti poterono conquistare la città di Žatec, protetta da
ampi fossati e da alte mura. |
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Duringi Alnus |
L'ontano di Duryňk |
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X d |
Sed inſtar urbis captæ erat captivus Vlaſtislai filiolus, apud matronam Vlaſtislai
affinem, unà cum pædagogo quodam Duringo interceptus, & ad Principem Neclan addu荒us.
Quo ille conſpe荒o, cum vix ſeptimus annum ageret, miſericordia puelli motus,
reduci continuo eum, curæque illorum reſtitui, quorum tutela ejus à parente
demandata fuit, jubet, aſſignatis inſuper agris quibusdam pupillo, ex quibus
commodius honeſtiusque nutriretur. Placebant agri Duringo, ſed niſi pupillo
ſublato, ſpes aſſequendi illorum nulla aderat. Vi荒us igitur agrorum ſacra fame
Duringus, nefarium conſilium interficiendi pupilli capit, beneficium Principis
ſic interpretans, quaſi ille non miſericordia, ſed metu invidiæ addu荒us,
puero ad tempus pepercerit, cæterum gratiorem illi maturam hoſtis mortem, quàm
longiorem illius vitam futuram. Amputat igitur illi caput, linteoloque involutum,
ſecum ad Principem adfert. |
Ma altrettanto importante che prendere la fortezza fu avere come prigioniero [Zbislav], il
figlioletto di
Vlastislav, sorpreso presso una sua parente, insieme con il suo pedagogo,
certo Duryňk, e condotto da
Neklan. Il kníže, guardatolo e preso da
compassione per il bambino, che aveva appena sette anni, ordinò di ricondurlo
immediatamente e restituirlo alla cura di coloro ai quali il padre ne aveva
affidato la tutela; e [dispose] inoltre che fossero assegnati al fanciullo certi
terreni grazie ai quali sarebbe stato allevato in modo più conveniente e
dignitoso. Piacevano quei campi a Duryňk, ma non si
profilava alcuna speranza di ottenerli se non togliendo di mezzo il ragazzino.
Vinto, però, da quella maledetta fame di terra, Duryňk,
prese la malvagia decisione di uccidere il fanciullo, interpretando così la
buona azione del kníže come se egli, a suo tempo,
avesse risparmiato il ragazzo spinto non da compassione, ma dalla paura [di
essere tacciato] d'invidia e che, tra l'altro, a Neklan
sarebbe stata più gradita la morte precoce di un nemico che, per lui, una vita
più lunga. Pertanto, gli mozzò la testa e, avvolta in un panno, la portò con sé
dal kníže. |
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X d |
Prandebat tum fortè Neclan, cum introgreſſus Duringus, ſe quoque ferculum
prandenti afferre diceret, non edule quidem, ſed tale potius, quale ei ſolidam
in poſterum ſecuritatem ſpondeat. Et cum di荒o, amoto linteolo, caput puerile,
ita ut adhunc erat cruentum ob oculos prandentis obtrudit. Cruore viſo Neclan
adeò ſubito obriguit, ut velut femianimis aliquantiſper in menſa jaceret.
Recepto dein animo ſententiae eorum ſubſcribit, qui cenſuerant, & ad hoc
coegerant Duringum, ut ipſe ſe, verſa facie, vultuque ad Duringiam ſuam, in
arbore Alno penſilem faceret, quæ quoad arbor illa ſteterat, Duringi Alnus
dicebatur. |
In quel momento, Neklan stava pranzando, allorché
Duryňk, presentatosi, si mise a dire che anche lui
portava un piatto, per il commensale, certamente non da mangiare ma tale da
garantirgli, in futuro, una sicurezza duratura. Detto ciò, rimosso il telo,
gettò con violenza davanti agli occhi di chi mangiava quel capo infantile,
imbrattato di sangue, così come era stato fino ad allora. Visto il sangue,
Neklan s'irrigidì così da rimanere mezzo morto,
disteso sulla mensa, per un po' di tempo. Ripreso vigore, sottoscrisse la
sentenza di coloro i quali avevano stabilito e a ciò avevano costretto
Duryňk, che egli stesso, rivolto lo sguardo verso
la sua Turingia, s'impiccasse a un ontano. Quell'albero, finché durò, fu detto l'ontano
di Duryňk. |
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Craſnitius Gurimenſuis negotium faceſſuit Neclam |
Krasník di Kouřim fa fallire i negoziati di Neklan |
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X e |
Sed ut ille haud abſurdè dixit, leone dormiente, mediam illius cervicem vel
murem percurrere, ita tunc, Principe per inertiam & ignaviam ſtertente, multi
mures ad rodendum illius Principatum ſuboriebantur, præter alios Craſnitius
juvenis ferox & ja荒abundus, ac ſibi propterea in primis placens, quod Tetrarcha
Gurimenſis regionis diceretur, cum interim nihil in arca nummaria poſſideret
nummorum, qui belli nervi ſunt, quod ei imminebat, qui ad Principatum alterius
per vim eripiendum anhelabat: Vana nihilominus fiducia atque audacia elatus, dum
ſibi perſuadet, cum omnium meticuloſiſſimo Principe negotium fore, villas
quaſdam Principales diript, & agros quoquo verſus devaſtat. Hac indignitate,
Montanus vir ex ordine equeſtri commotus, adit Principem: ſi jubes, inquit,
hoſtem ego tuum, aut vivum aut mortuum tibi ſiſtam. Vicinus enim ego illi habito,
cognitaque & explorata itinera & omnia diverticula habeo, ad quæ ſæpiſſimè ille
divertere ſoleat. Laudat Princeps, ſtrenuum & promptum militis animum, ac præmia
pollicetur, ſi deſtinatum facinus pera荒um fuerit. Montanus cum duodecim viris
dele荒is, in ſaltum ſe abdit ſecundum viam, quam animi laxandi gratia Gurimenſis
ſæpius terere ſolebat, in appropinquantem ſubito impetu magnoque clamore inſilit.
Clientes re improviſa territi, ac ſuſpicantes majores copias intra ſylvam latere,
fugæ ſe mandant: interim Gurimenſis equum in Montanum concitat, manuque ab illo
vulneratus, fugit & ipſe, Montanumque ſe perſequentem velocitate equi fruſtratur. |
Ma come giustamente si dice che, a un leone che dorme può correre anche un topo
in testa, così allora, dormendo il kníže
profondamente, sia per l'inerzia che l'ignavia, erano sorti molti topi a
erodere il suo regno. Oltre agli altri c'era Krasník,
giovane forte e millantatore che piaceva soprattutto a se stesso, in quanto
veniva detto vévoda della regione di Kouřim; in cassa, però,
non aveva un soldo, e i soldi sono risorse essenziali in una guerra e
questa gli pendeva sul capo dal momento che anelava a impadronirsi con la forza
di un regno altrui. Sostenuto da una fiducia per lo meno vana e dalla sua
audacia, mentre si persuadeva che sarebbe stato interesse di tutti [chiudere]
con quel kníže così pavido, assalì alcune fattorie di
sua proprietà devastando anche le campagne. Colpito da questi atti indegni, un
certo Horák, un vladyka, si
presentò al kníže dicendo: «Se lo comandi, ti
porterò il tuo nemico vivo o morto.
Abito infatti vicino a lui e ho già conosciuto ed esplorato tutti i sentieri per
i quali egli molto spesso suole deviare». Il kníže lodò
il pronto e risoluto coraggio del soldato e promise premi se avesse portato a
termine il disegno stabilito. Horák, con dodici
uomini scelti, si nascose in una zona boscosa lungo la via che più spesso
Krasník soleva percorrere per ritemprare lo
spirito; quindi, con impeto improvviso e grande clamore, si lanciò contro l'uomo
che si stava avvicinando. Il seguito [di
Krasník], atterrito da questo evento inaspettato e,
sospettando che nella selva si nascondessero più uomini, si dette alla fuga.
Frattanto Krasník spronò il cavallo contro
Horák e, dopo aver ricevuto una ferita a una mano,
fuggì eludendo Horák che lo inseguiva, per
la velocità del suo cavallo. |
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X e |
Poſtquam inſidiæ non ſucceſſerunt, obſidione cingi oppidum Gurimenſe, quo
Craſnitius ſe receperat, qui præter libidinem dominandi, nullam aliam belli
cauſam habebat, placuit. Miſſæ à Principe de conſilii ſententia copiæ, cum prope
oppidum caſtra poſuiſſent, cottidie oppugnationem continenti labore urgebant.
Oppidani ubi intelligunt, quintum jam diem tam acriter ſe ob unum Craſnitium
peti, eum ſilentio no荒is per murum demittunt, ac mane ipſi de deditione agunt.
Qua non impetrata, muro & turribus præsidio completis, ſe oppidumque ad o荒avum
uſque diem fortiter defendunt: eodemque die tandem vi荒i, ad internecionem à vi荒oribus
cæſi ſunt, ſalvis oppidi ædificiis, in quæ nec ferro nec igne ſævitum eſt.
Craſnitius in Moraviam ad Regem Hormidurum perfugiens, illius opem ad recuperandum Principatum amiſſum, quaſi non feciſſet, ſed accepiſſet injuriam,
ſupplex implorat, perfan荒eque illi jurat, nullum poſthac Dominum, niſi Regem
Moraviæ ſe agniturum. Rex qui jam pridem cupiditate regnandi in Bohemos
flagrabat, tam equitum quàm peditum catervas (magna ea manus fuit) cum illo in
Bohemos mittit. Ultra oppidum Czaslaviam Moravis occurrunt Bohemi, pugnamque
illorum excipiunt, violentius inſtantiusque equitibus pugnantibus, quàm
peditibus: non enim diu peditum acies impreſſionem Bohemorum ſuſtinuit. At
equites præliari urgereque Bohemos non ante deſtiterunt, quàm viderent Craſnitium
cum equo confoſſum in terram defluxiſſe. Interea Rex Moraviæ dum retra荒are arma,
viresque reparare ſtudet, peſte interceptus moritur. |
Poiché l'agguato non ebbe successo, si decise di cingere d'assedio la città di Kouřim entro la quale si era rifugiato Krasník, che
non aveva altro motivo di far guerra che il desiderio sfrenato di potere. Le
truppe, mandate dal kníže per decisione
dell'assemblea, avendo posto l'accampamento vicino alla città, ogni giorno
incalzavano all'assedio, sostenendo lo sforzo. I cittadini, appena capirono che si
stavano avviando ormai al quinto giorno, in modo così aspro e per colpa di uno
solo, Krasník, nel silenzio della notte lo lasciarono
scappare attraverso un muro e l'indomani trattarono la resa. Ma non avendola
ottenuta, presidiati il muro e le torri, difesero con vigore se stessi e la
città fino all'ottavo giorno: in quello, ormai vinti, furono dai vincitori
massacrati fino all'ultimo; furono risparmiati unicamente gli edifici della città contro i quali
non s'infierì nel col ferro né col fuoco. Krasník,
riparando in Morava, presso re Hormidurum, perso il suo sostegno per
recuperare il regno, quasi non avesse fatta ma anzi avesse ricevuto egli stesso
un'offesa, lo implorò e gli giurò, su quanto aveva di più sacro, che in avvenire
non avrebbe riconosciuto nessuno come signore, se non il re di Morava. Questi,
che già un tempo ardeva dal desiderio di regnare sui Čechové, inviò con lui un
gran numero di cavalieri e di fanti (era infatti una grande schiera), contro di
loro. Al di là della cittadella di Čáslav, i Čechové affrontarono i Moravané,
sostenendo il loro scontro, nel quale i cavalieri [moravi] combatterono con
maggior violenza e vigore rispetto ai fanti, la cui schiera, infatti, non
sostenne a lungo l'incalzare ceco. I cavalieri, invece, non smisero di
combattere e di premere contro i Čechové, prima di vedere
Krasník che, ucciso, a crollato a terra con il suo cavallo. Intanto, il
re di Morava, mentre si proponeva di ritirare le armi e reintegrare le forze,
morì di peste. |
|
XI |
Hostivitius Princeps |
Il kníže Hostivít |
|
XI |
Læto Principe Neclan, fortunæque ſuæ gratias agente, cujus favore, citra
ſementem (ut dicitur) citraque arandi laborem omnibus vi荒oriæ commodis frueretur,
uſque ad exitum vitæ ſuæ: Hoſtivitius natu major filius, in locum patris ad
ordinibus ſuffe荒us, graviter ferente juniore fratre, cui Miſtibogio nomen, quòd
in nullam partem Principatus, non ad Lucenſem, non ad Gurimenſem regionem aſcitus
fuerit, ſed ut planè alienus ab hæreditate præteritus ac negle荒us. Sic affe荒o
Croſmilius Verſovicenſis ſe in amicitiam inſinuat, iram juvenis acuit,
cupiditatem inflammat, & ad paternum Principatum aſſequendum impellit,
promittens non hortatorem ſolùm, verum etiam auxiliatorem cum ſuis omnibus, tam
affinitate quàm familiaritate ſibi conjun荒is, ſe futurum. |
Il kníže Neklan,
ringraziando la sua fortuna, per il cui favore – indipendentemente (come si
dice) dalla qualità della semente e dalla fatica di arare – aveva fruito di
tutti i vantaggi della vittoria, arrivò soddisfatto in fondo alla sua vita. Al suo posto fu
nominato dagli ordini il figlio maggiore Hostivít, e ciò fu preso assai male dal
fratello minore, Mstiboj, il quale non era stato accettato in nessuna regione del
knížectví, né presso i Lučané, né presso Kouřim. Come un perfetto
estraneo, fu escluso
dall'eredità e messo da parte. Verso di lui, così maltrattato, s'insinuò in
amicizia un certo Krosměl, di Vršovice. Costui
inasprì l'ira del giovane, infiammò la sua cupidigia e lo spinse a conquistarsi
il regno paterno, promettendo di essergli non solo di sprone ma anche di aiuto,
con tutti i suoi [uomini], uniti a lui sia per parentela che per amicizia. |
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XI a |
His auditis juvenis hoſtilem advertſus fratrem induit animum hoſtiliterque cum
turba temere colle荒a agros fraternos invadit. Mox au荒is viribus oppidum Caſinum,
in alto monte ſitum, unde longe deſpe荒us in campos patebat, & receptus in illo
tutus eſſe videbatur, inſtanter oppugnat. |
Sentite quelle parole, il giovane assunse un comportamento ostile verso il
fratello e, da nemico, con una turba radunata alla ventura, invase i suoi
possedimenti. Ben presto, aumentata la soldatesca, assalì con forza la
cittadella di Klapý, posta su un alto monte da cui si estendeva un'ampia vista
sui campi, così da sembrargli un rifugio sicuro. |
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XI a |
Sed non cun荒atur Hoſtivitius oppidanis laborantibus venire ſubſidio, virtuteque
militum nixus, promiſcuam ex gregario milite turbam facilè diſcutit, fratremque
cum Verſovicenſi in fugam vertit. Apparebat non ſublatam per hæc, ſed
exacerbatam potius inter fratres contentionem, ex qua ad colonos inprimis &
agricolas, magnum per populationem agrorum detrimentum redundaret, ſi nemo eſſet,
qui diſcordes fratres ad concordiam reduceret. Qua de re Hoſtivitius admonitus,
cauſam finiendarum ſimultatum fautoribus concordiæ committit. Illique hac lege
rem controverſam compoſuerunt, ut apud Hoſtivitium, ad quem de jure gentium,
tanquam ad ſeniorem fratrem ſucceſſio ſpe荒aret, Principatus remaneret Pragenſis,
& interim Miſtibogius tanquam junior, contentus ut eſſet poſſeſſione bonorum quæ
Gurimenſis poſſidebat. Quod ſi Hoſtivitius prior decederet, frater ut ei
ſuccederet, non autem filius: fratre mortuo, ut rurſus legitimis ſuccedendi ordo
ad liberos Hoſtivitii rediret, excluſis Miſtibogii liberis ad Gurimenſem
hæreditatem. |
Tuttavia, Hostivít non esitò a venire in aiuto
degli abitanti in difficoltà e, contando sul valore dei soldati, facilmente
disperse quella schiera confusa di mercenari mettendo in fuga il fratello con [Krosměl] di Vršovice.
Era chiaro che, per tali motivi, la contesa tra i due fratelli non si
superava, piuttosto si esacerbava; da essa sarebbe derivato un gran danno
soprattutto per i coloni e per i contadini, a causa della devastazione dei
campi, se nessuno avesse ridotto alla pace i due fratelli discordi. Consapevole di ciò,
Hostivít affidò ai sostenitori della pace il
procedimento per por fine alle ostilità. Ed essi composero la controversia con
questa risoluzione: che ad Hostivít,
il quale, secondo il diritto delle genti, come fratello maggiore spettava la
successione, rimanesse il knížectví di Praha, e nel frattempo
Mstiboj, in quanto fratello minore, si
accontentasse delle proprietà di Kouřim; che se Hostivít
fosse morto per primo, gli succedesse il fratello e non il figlio; morto il
fratello, per il legittimo ordine di successione, [il knížectví] ritornasse di
nuovo ai figli di Hostivít, escludendo dall'eredità
di Kouřim quelli di Mstiboj. |
|
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Succoslaus Bilinaus Principi inſultat |
Sukoslav di Belín insulta il kníže |
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XI b |
Finita hoc modo inter fratres offenſarum acerbitate, atque utroque ſua portione
contento, non tenuit ſe intra fines ſuos, eodem Verſovincenſe incentore,
Sucoslaus Bilinæ præfe荒us, ſed majora quam pro facultate conatus, hoſtem ſe
Principi denunciat, ja荒ans, ſe quoque ex eo ligno fa荒um, unde Principes
dedolantur. Huic Princeps, Creſſum audacia parem, opibusque non multo
inferiorem adverſarium opponit, eidemque injungit, ut damna per latrocinia
illata, talione retaliet, & ſi præterea poſſit, Sucoslaum quo intercipiat.
Accepto imperio Creſſus, poſſeſſiones & agros hoſtis flamma ac ferro populatur,
nec prius vaſtandi finem facit, quàm ſe e Sucoslaus cum filio Mileſio infeſtus
objicit. Initur prelium utrin cruentum: Quippe ex utra parte amplius trecenti
viri ſunt interfe荒i, & in iis Mileſius, neſcio tunc patre, exiſtimanteque, quòd
ſe fugientem filius ſequeretur. Nece mox comperta, jurat manes Mileſii, capite
Principis, ejusque filii morte ſe expiaturum, ſimulque injuriam Miſtibogii
ulturum. |
Esauritasi in questo modo, tra i fratelli, l'asprezza delle offese, ed essendo
entrambi soddisfatti della propria parte, non si tenne dentro i propri confini, per
istigazione di Krosměl, il prefetto di Belín,
Sukoslav,
ma osando più di quanto ne avesse facoltà, si dichiarò nemico del kníže,
vantandosi di essere fatto anche lui di quel legno di cui si scolpiscono i
principi. A costui il kníže oppose come
avversario,
Křes,
pari in audacia e di poco inferiore in ricchezza, ingiungendogli di applicare la
legge del taglione per i danni arrecati dalle ruberie e, inoltre, se poteva, di
intercettare anche
Sukoslav. Ricevuto il comando [da Hostivít],
Křes mise a ferro e a fuoco i possedimenti e le
proprietà terriere del nemico e non cessò di devastare non prima che
Sukoslav, con il figlio Miléš,
gli venisse incontro minaccioso. Ebbe inizio lo scontro, per entrambi
cruento; in verità da entrambe le parti furono uccisi più di trecento uomini,
tra cui Miléš e, non so come, dal momento che suo
padre credeva che il figlio lo stesse seguendo nella fuga. Scoperta la morte,
immantinente Sukoslav giurò che avrebbe placato i
mani di Miléš con la testa del kníže
e con l'uccisione di suo figlio, e insieme avrebbe vendicato l'offesa di
Mstiboj. |
|
XI b |
Currit ad Miſtibogium Verſovicenſis, narratoque ei Sucoslai juramento, quo ſe ad
vindicandum ipſius injuriam obſtrinxerat, à juvene impetrat, ut tres militum
centurias clàm armaret, quas ille per ſylvas & diverticula ad Sucoslaum adduxit.
Milite accreſcente, crevit rurſus Sucoslao audacia, nodum tamen ad prælium
ineundum, ſed incurſandos duntaxat agros, maximè circum Budinam, ubi Creſſus
habitabat, & circum Melnitium, quod oppidum Salinborius incoluit ſitos. Uterque
horum Principi percharus, ideoque ne deſertos auxilio amicos relinquere
videretur, impetum Hoſtivitius caput adoriendæ arcis, in quam ſe hoſtis abdidit,
illiusque expugnandæ & evertendæ, ne denuò latronibus receptaculum eſſe poſſet.
Expugnatis munitionibus, & in iis plerisque militibus ex utraque parte confoſſis,
arx ſcalis tandem capitur, cumipſo Sucoslao, qui ad Ducem perdu荒us, veniam
vitamque, humili, (ex tam inflata arrogantia) degenerique voce precatur: Faciliore in illum Principe, quam futurus erat in Verſovicenſem, qui inter
primum tumultum per feneſtram arcis elapſus eſt. Hanc verò in Sucoslaum
ſententiam Princeps di荒avit ut incolumi vita perpetuo attineretur carcere. At
miles cuſtodibus ereptũ, in vitam quo illius crudeliſsimè deſeviit, manus enim
illi pedesque detruncat, totum reliquum corpus in Egram flumen projicit, &
submergit. |
[Krosměl] di Vršovice corse da
Mstiboj e, riferitogli il giuramento di
Sukoslav, il quale si era impegnato a vendicare
l'ingiuria dello stesso [Mstiboj], ottenne dal
giovane di armare di nascosto tre centurie di soldati che, poi, lui stesso condusse,
per luoghi boschivi e vie traverse, da Sukoslav.
Aumentando i numeri dei soldati crebbe
di nuovo l'audacia di Sukoslav,
non abbasganza, tuttavia, per iniziare un conflitto ma soltanto per fare incursioni
nelle campagne, soprattutto intorno a Budín, dove abitava
Křes, e intorno a Mělník, dove abitava Slavibor.
Entrambi erano molto cari al kníže, perciò
affinché non sembrasse di lasciare gli amici privi di aiuto,
Hostivít prese la decisione di circondare la rocca
nella quale si era rifugiato il nemico, di espugnarla e di ridurla in rovina
affinché non potesse più essere un luogo di rifugio per i briganti. Espugnata la fortezza,
ed essendo stati uccisi in essa la maggior parte dei soldati dei due
schieramenti, la fortezza venne finalmente espugnata per mezzo di scale e con essa
[fu catturato]
lo stesso Sukoslav, il quale, condotto dal kníže,
supplicò il perdono e la vita con voce umile e lamentosa (dopo tanta arroganza),
dicendo che sarebbe stato più facile per il kníže andare contro di lui che contro Krosměl,
il quale, all'inizio del tumulto, era fuggito dalla fortezza attraverso una
finestra. Invero il kníže dettò questa sentenza:
che, risparmiandogli la vita, [Sukoslav] fosse
rinchiuso in carcere per sempre. Ma un soldato,
sottrattolo alle guardie, incrudelì ferocemente contro la sua vita:
infatti gli troncò mani e piedi e gettò, sommergendolo, il resto del corpo nel
fiume Ohře. |
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Suatoplucus Moravus Noſiſlaum Miſtibogio opponit |
Svatopluk di Morava oppone Nosislav a Mstiboj |
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XI c |
Non ceſſat interim profugus Verſovinceſis furere cum tota gente ſua, Principibus
semper infeſtiſſima, rurſusque inter ipſos fratres odia ferere, ac Miſtibogium
ad ſpes & cupiditates novas impellere conabatur. Sed nulla ratione Miſtibogius
pellici ad rebellandum denuò fratri potuit, quanquam avidus amplificationem
aliunde quàm ex fratris fortunis quærendam ratus, animum ad Moraviam intendit,
decerpere aliquid ſibi de illa meditans, Rege præſertim abſente. Rex tunc
Moravorum Suatoplucus erat, ad Cæſarem Arnolphum profe荒us, cui adeò commendatus
fuerat, ut Cæſar filium ejus Suatobogium è ſacro fonte lavaverit, transferens in
illum hoc boum tributum, quod Bohemi à Carolo domiti, Cæſaribus pendendum
receperant. Igitur in fines Moraviæ perpetrans Miſtibogius, complures Moravos
circumvenit, captosque in Bohemiam abduxit, prædam cum fratre partiens, quam
ille Regi mox à reditu ſuo in Moraviam reſtituit. Ægrè verò Miſtibogius id tulit,
quòd frater captivos reddiderit. |
Nel frattempo, il fuggiasco Krosměl non cessava
d'imperversare con tutta la sua gente, sempre molto ostile ai due knížata,
e a seminare, di nuovo, odio tra gli stessi fratelli, tentando d'indurre
Mstiboj a nuove speranze e nuove bramosie. Ma per
nessuna ragione Mstiboj poté essere spinto a
ribellarsi per la seconda volta al fratello, benché desiderasse ampliare il suo
knížectví; pensando, tuttavia, che tale ampliamento dovesse essere ricercato da
un'altra parte rispetto ai beni del fratello, rivolse la sua attenzione alla
Morava, meditando di strappare da essa qualcosa per sé, soprattutto ora che il
re era assente. A quel tempo, era král dei Moravané Svatopluk,
partito presso l'imperatore Arnulf, al quale era stato così raccomandato che
l'imperatore aveva fatto bagnare presso la sacra fonte il figlio di lui,
Svatoboj, trasferendogli quel tributo di buoi che i
Čechové, assoggettati da Carolus, avevano ripreso, per pagarlo agli imperatori.
Pertanto, entrando
Mstiboj nei confini della Morava, assalì molti Moravané e li portò prigionieri in
Čechy, dividendo la preda con il fratello, il
quale la restituì al re subito dopo il suo ritorno. Ma
Mstiboj mal sopportò che il fratello avesse
restituito i prigionieri. |
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XI c |
Inter ſuos juveniliter hæc ja荒ans: Non tot frater meus Moravos reſtituere
ſufficiet, quot ego illorum vel capiam, vel occidam. Sed poſtea quam cognovit
copias adverſus ſe in Moravia comparari, ſuppetias qui ferrent, mitti ſibi à
fratre poſtulabat. Hortatur ille fratrem, ne pergat irritare crabrones: ſatius
eſſe conciliare ſibi Regem qui plus poſſet, quàm illi, cum ſuo forſan malo
repugnare. Ingrata Miſtibogio hæc fratris adhortatio fuit. Ita ad illos
converſus, quos nuper in Moravia ſecum habuit, cedimusne? inquit, commilitones
Moravis, ceu frater ſuadet, an potius reſiſtimus illis quos paulò ante vicimus?
Cun荒is velut una voce reſspondentibus: Inſtandum eſſe cœptis, Moravosque
perſequendos: dat vela ventis Miſtibogius, bonamque pergentibus auram precatur.
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Tra i suoi, con la vanità di un giovane, diceva così: «Non conta il numero di Moravané che mio fratello
restituirà, ma quanti di loro io riuscirò a
catturare e a uccidere». Ma dopo essere venuto a sapere che in Morava si stavano
preparando delle truppe contro di lui, chiedeva al fratello di mandargli
soccorsi in grado di resistere. Quegli lo esortò a smettere di irritare i
calabroni: era più vantaggioso conciliarsi il re più potente, anziché
opporsi a lui, forse con proprio danno.
Mstiboj non gradì questa esortazione del fratello.
Perciò, rivolto a quelli che poco prima ebbe in Morava con sé, disse: «Cediamo,
o soldati, ai Moravané come consiglia mio fratello, o piuttosto resistiamo a
coloro che poco fa abbiamo vinto?» E poiché tutti rispondevano con una sola
voce, che bisognava insistere con quanto incominciato e incalzare i Moravané,
Mstiboj spiegò le vele ai venti, augurando una
brezza leggera a chi intendeva andare avanti. |
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XI c |
Noſislaum à vico in Moravia Noſislavia noncupatum, ſuis copiis Rex Moraviæ
præfecerat, mandavitque ne cui alii niſi Miſtibogio, ditioni & ſubditis ejus
noceret. Quæ mandata dum exequi parat præfe荒us, occurrit illi Miſtibogius, fuis
nondum omnibus coëntibus. Nam & Czaslavienſes & Malinenſes aberant, & Chrodus
miles ſtrenuus, alio itinere cum bona militum manu ibat. Placuit igitur certamen
differri, donec convenirent omnes. Contra Miſtibogius dicebat, quidquid temporis
intercederet, hoc omne vi荒oriam morari, datoque ſigno prælium incipit, quod
quidem haſtati, ſcutatique parumper ſuſtinuerunt, cæteri cum ipſo Miſtibogio in
fugam vertuntur. |
Il re di Morava aveva messo a capo delle sue schiere un certo
Nosislav, così chiamato dal villaggio moravo di
Nosislav, e gli ordinò di non nuocere ad alcuno se non a
Mstiboj e a chi era sottoposto al suo potere. E
mentre il comandante si preparava ad eseguire quegli ordini, gli si fece
incontro
Mstiboj che, però, non aveva ancora riuniti tutti i
suoi. Infatti erano assenti sia gli abitanti di Čáslav che quelli di Malín, e
Chrud, soldato valoroso, aveva preso un'altra
strada, con buona parte dei suoi soldati. Sembrava opportuno, perciò, differire lo
scontro finché tutti non si fossero riuniti. Al contrario,
Mstiboj disse che, qualsiasi tempo si fosse
aspettato,
sarebbe stato un ritardo alla vittoria; così, dato il segnale, iniziò la
battaglia che, in verità, gli armati di asta e di scudo per un po' riuscirono a
sostenere, mentre gli altri, compreso Mstiboj,
vennero messi in fuga. |
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XI c |
Noſislaus, veritus ne ad inſidias devenirent, fugientes non eſt inſecutus, ſed
ad populationem agrorum ſe convertit, cum poſtridie tandem Miſtibogius colle荒is
ex diſſipato curſu militibus, Chrodo quoque ſibi adjun荒o, non jam ad arbitrium
ſuum tantùm, ſed ad cæterorum præterea conſilium refert, ut conſultent, quænam
via ineunda ſit ad arcendum hoſtem, adeò effuſè populationem facientem.
Conclamant omnes, ignominiam temeritate acceptam, redintegrata cum hoſtibus
pugna eſſe abolendam. Juſſi no荒e illa quieſcere, ac mane ſtatim corpora cibo
curare, ut ſi longior pugna illos exciperet, viribus ſufficerent. |
Nosislav, temendo d'incappare in agguati, non
inseguì i fuggitivi, ma si diede a saccheggiare i campi, allorché, finalmente,
il giorno dopo, Mstiboj, riuniti i soldati dispersi
qua e là nella fuga, e aggiuntosi anche Chrud, non
si rimise, ormai, soltanto al suo arbitrio, ma soprattutto al giudizio degli
altri, al fine di stabilire quale via si dovesse prendere per respingere il
nemico che stava destando un così vasto tratto. Gridarono tutti che, rinnovato
lo scontro, si dovesse dimenticare per sempre il disonore subìto per un
comportamento sconsiderato. Si ordinò di dormire per quella notte e, di giorno,
provvedere subito al cibo affinché avessero forze sufficienti, se li avesse impegnati un combattimento più
lungo. |
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XI c |
Inde claſſico ſignum profe荒ionis datum, militibus quadrato agmine incedentibus,
ne ad ſubitum hoſtium accurſum, ordo illorum tam facilè turbaretur. Sed apud
hoſtes ex ſucceſſu ea negligentia fuit, ut ne ſpeculatores quidem haberent, qui
cum ſilentio explorarent, quid hoſtes agerent. Turpius igitur quàm pridem Bohemi
locis pulſi, fugatique, & omnibus rebus, quas interceperant ſpoliati ſunt. |
Fu dato, con uno squillo di tromba, il segnale della partenza, mentre i
soldati avanzavano in quadrato affinché le loro fila non venissero
facilmente scompigliate da un improvviso assalto nemico. Ma, in seguito al
successo, era derivata per i nemici quella negligenza a causa della quale non
disponevano neppure di spie che esplorassero, in segreto, le mosse degli
avversari. Così furono ricacciati da quei luoghi in modo più vergognoso di
quanto in precedenza non fosse capitato ai Čechové. Furono messi in fuga e privati
di tutte quelle cose che i nemici avevano loro sottratto. |
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XI c |
Ex hac quoque pugna Miſtibogius captivos ad fratrem miſit, brevique plures ſe
miſſurum gloriabatur, ere荒us ad ſpem nuncio turbatæ pacis, quæ aliquandiu
tranquilla inter Ungaros & Moravos fuerat, tunc verò illam præfe荒us Pannoniæ,
quem Ungari Giulam vocabant, (nondum enim Reges noverant,) fa荒o in Moraviam per
incurſiones impetu, turbaverat, unde ſatis negotii adeſſe Moravis ad ſuſtinendos
vel ſolos Ungaros, nedum alios inſuper hoſtes irritandos proſpiciebat. |
Anche dopo questa battaglia, Mstiboj mandò
prigionieri al fratello, gloriandosi che in breve tempo ne avrebbe mandati anche
di più; ma incoraggiato a sperare dalla notizia che la pace tra Moravané e
Maďaři,
rimasta tranquilla per lungo tempo, era stata turbata. Era stata sconvolta dal prefetto della Pannonia,
che i Maďaři
chiamavano gyula (infatti non conoscevano ancora i re), il quale aveva
attaccato la Morava con incursioni, per cui [Mstiboj]
prevedeva che i Moravané fossero abbastanza preoccupati di fronteggiare anche i soli
Maďaři e, a maggior ragione, di provocare altri nemici. |
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XI c |
Hac denique ſpe prove荒us, novam proprius Moraviam arcem, vocabulo Oheb, counivit,
ex quà in agros hoſtiles excurſiones faceret. Sed non diu Giula Ungarus à tumultu
excitato ſuperſtes fuit, telo fulminis ſupernè miſſo interfe荒us. Ne igitur
poſthac Ungari, tam facilè Moraviam incurſarent, Suatoplucus Rex, qui ſatis
providens eſt habitus, primum ad vada fluvii Vagi, qui Moraviam à Pannonia tunc
velut limes dirimebat, caſtella inædificare, præsidiaque illis imponere, tum
deinde montes ſylvis defe荒is ſepire, & alibi foſſis ac vallo munire, poſtremò
arces & oppida mœnibus cingere, murisque firmare. Atque id tunc maximè fecere,
cum jam nemo reſtaret, qui regnum ipſius temere infeſtaret. Nam Miſtibogius
quoque, inſolito genere mortis animam nuper efflaverat, à Demone ſub humana
ſpecie ipſum invadente, ſuffocatus. |
Spinto, dunque, da questa speranza, [Mstiboj]fortificò una sua rocca, più vicino alla
Morava, di nome Oheb, dalla quale poter fare incursioni ostili nelle campagne.
Ma dall'assalto che ne derivò, il gyula magiaro non rimase superstite
a lungo, essendo ucciso dal dardo di un fulmine scoccato dall'alto. Dopo di ciò,
affinché i Maďaři non attaccassero tanto facilmente la Morava, il král
Svatopluk ritenuto assai previdente, dapprima ai guadi del fiume Váh, che allora separava come un confine
la Morava dalla Pannonia, si mise a costruire fortezze, imponendo su di loro
presidi, a proteggere le alture
dopo aver abbattuto le foreste, a munire di fossati e di valli altre zone,
infine a cingere le piazzeforti e le cittadelle di mura, fortificandole con
pareti di pietra. E fece ciò soprattutto allora, quando ormai non restava più
nessuno a travagliare, senza ragione, il suo regno. Infatti anche
Mstiboj era spirato da poco con una morte insolita:
soffocato da un demone che, sotto apparenza umana, se ne era impossessato. |
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XI c |
Atque hoc ex pietate ſua, quam Chriſtiana religione eximiè coluit Suatoplucus,
tulit ſolatium, ut videret inimicos ſuos abs opera ſua, fineque magno
detrimento ſuorum divinitùs fuiſſe proſtratos. Nam adverſus Hoſtivitium
Miſtibogii fratrem, quanquam & ipſum Ethnicum, adusque tamen vitæ ipſius finem
pacem, fidemque ſervavit incorruptam. |
E dalla sua stessa clemenza, che ingentilì straordinariamente
Svatopluk, grazie
alla religione cristiana, egli derivò questo conforto: di vedere che i suoi
nemici erano stati prostrati dall'opera sua, per volontà di Dio e senza grave
pregiudizio per il suo popolo. Infatti, nei confronti di Hostivít
e del fratello Mstiboj, per quanto anche verso lo
stesso Ethnicus, mantenne sino alla fine della sua vita, pace e perfetta fedeltà. |
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XI c |
Ac tantùm de Principibus, cum Chriſtianiſmo nullum commercium habentibus. |
E questo soltanto [dovevo dire] sui knížata
che non ebbero alcuna pratica con il Cristianesimo. |
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LIBER QVARTVS |
LIBRO QUARTO |
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XII |
Borivorius primus Chriʃtianorum Bohemia ducum |
Bořivoj, primo kníže
cristiano di Čechy |
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XII a |
Meliore Bohemiæ fato incremento Borivorius Hoʃtivitio prognatus, regimen
paternum excepit, nec enim diu illud, ut impius & profanus, ʃed uti religioni
Chriʃtianæ deditus rexit. Hoc verò modo ille Chriʃtianiʃmum subiit: Diverterat
ad Regem Moraviæ Svuatoplucum, partim officii, partim amicitiæ paterne
confirmandæ gratia, venit eo fortè die & tempore ad Regem ʃalutandũ, quo ille à
. Dominicæ cœnæ convivio, in aulam reverʃus, menʃæ accumbere ʃuæ parabat.
Reddita igitur ʃalute Rex: Ignoʃcas (inquit) Boheme hoʃpes, quòd ad prandium hoc
noʃtrum in præsentiarum non invitêre, nec enim fas eʃt, nec jura Chriʃtiana
ʃinunt, revertenti à menʃa vivi Dei, eum convivam habere, qui menʃæ Deorum
mortuorum accumbere, de que illorum ʃacrificiis participare ʃoleat. Proinde ʃi
tibi noʃtra convivia arrident, fac ut ʃimul tibi noʃtra etiam arrideat religio.
Ac tum demum noʃter eris, & valde gratus conviva. |
Bořivoj, figlio di Hostivít,
assunse il potere paterno con migliore destino e incremento per la Čechy:
infatti non lo resse a lungo da persona sacrilega e pagana, bensì come seguace
del Cristianesimo. E, in verità, in tal modo si sottomise alla nuova religione.
Se ne era andato presso Svatopluk, re di Morava, in
parte per cortesia, in parte per consolidare l'amicizia paterna, giungendo,
probabilmente, nel giorno e nel momento del saluto, in cui il král,
ritornato nella sala, dopo la santissima Messa, si accingeva prendere posto alla
sua mensa. Restituito il saluto, il re disse: «Sappi, ospite ceco, perché per
ora non ti ho invitato a questo nostro banchetto: infatti non è lecito, né lo
permettono le regole cristiane, per colui che ritorna dalla mensa del Dio
vivente, di avere come convitato chi sia solito accomodarsi alla mensa di
divinità morte e partecipe dei loro sacrifici. Perciò, se ti sono graditi i
nostri conviti, fa in modo che ti piaccia anche la nostra religione. E quando
sarai, finalmente, dei nostri, allora sarai anche un commensale assai gradito». |
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XII a |
Pupugerunt iʃta animum Borivorii, ʃed magis adhuc eidem cogitationem de mutanda
ʃuperʃtitione injecerunt honores ab Arnolpho Cæsare ipʃi Suatopluco habiti,
poʃteaquam religione Chriʃtiana incitatus fuit. Nam tanta inde Arnolphus
benevolentia, tantoque favore Suatoplucum proʃecutus eʃt, ut in gratiam ejus
venire in Moraviam ad diem non gravaretur, ad quem invitatus erat, un filiolum
ʃuum è ʃacro fonte levaret. Ubi hac præterea in illum uʃus eʃt liberalitate, ut
tributum illi attribueret, quod Pricnipes Bohemiæ Cæʃari tunc pendebant. |
Queste parole percossero l'animo di Bořivoj ma
ancor più gli insinuarono il pensiero di cambiare religione, gli onori riservati
allo stesso Svatopluk dall'imperatore Arnulf, dopo
di che fu esaltato dal Cristianesimo. Infatti, se allora Arnulf trattò
Svatopluk con tanta benevolenza e tanto favore da
non dispiacergli di venire per lui in Morava nel giorno in cui era stato
invitato per sollevare dal sacro fonte il suo figlioletto. Inoltre, Arnulf
manifestò verso di lui anche questo gesto di liberalità: di attribuirgli, cioè,
il tributo che il kníže
dei Čechové allora pagava all'imperatore. |
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XII a |
Cum itaque non solùm honorificam Borivorius, ʃed etiam fru荒uoʃam videret eʃʃe
religionem Chriʃtianam, ad illam vehementer aʃpirare cœpit: Sed meliore mox
Spiritu afflatus fuit, quum Divum Methudium, Divi Cyrilli collegam, ambos
Moraviæ & primos Antiʃtites, de fide & religione Chriʃtiana differentem audivit;
alios videlicet honores, & alia præmia cultoribus illam ʃuis polliceri,
neutiquam fluxa & caduca, ʃed planè ʃtabilia atque æterna, ʃi quis illa per
baptiʃmus, qui fidem perficit, conʃummaverit. |
Perciò Bořivoj, vedendo che la religione cristiana
non solo era onorifica, ma anche fruttuosa, cominciò a desiderarla ardentemente.
Ma fu subito investito da uno Spirito divino allorché sentì san Methódios,
collega di san Cýrillos, entrambi moravi e primi sacerdoti, che dissertava di
fede e di religione cristiana, ed evidentemente prometteva ai suoi cultori altri
onori e altri premi per nulla effimeri e caduchi, ma assolutamente saldi ed
eterni, avendoli ricevuti attraverso il battesimo che conduce alla fede. |
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XII a |
Adfuit Spiritus san荒i gratia, animumque Borivorii luce fidei Chriʃtianæ ʃic
illuʃtravit, ut ibidem ʃtatim, cum bene multis ʃuis clientibus, aqua ʃalutari à
Methodio tingeretur: deinde uxor quoque ejus, cui Ludmillæ nomen, in Bohemia ab
eodem tin荒a fuit, & magnus præterea Bohemorum utriusque ʃexus numerus ad
baptiʃmum adfluebat. |
Si palesò la grazia dello Spirito Santo e illuminò con la luce della fede
cristiana l'animo di Bořivoj, tanto che lì fu
subito immerso con molti del suo seguito del divino Methódios; quindi anche sua
moglie, di nome Ludmila, fu battezza in Čechy dallo
stesso santo, e così un gran numero di cechi di entrambi i sessi affluiva per il
battesimo. |
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