Torna alla pagina principale
BIBLIOTECA

SLAVI
Cechi

MITI SLAVI
LA FONDAZIONE DI PRAHA
Cosmas Pragensis
CHRONICA BOHEMORVM
EPICA ANTICO-RUSSA
TESTI ECCLESIASTICI ANTICO-RUSSI
CRONACHE ANTICO-RUSSE
▼ CRONACHE CECHE
Avviso
Chronica Bohemorum
Monumenta historica Bohemiae
De Bohemorum origine
Regni Bohemiae historiae
Schema
CHRONICA BOHEMORUM - Saggio
CHRONICA BOHEMORUM - Testo
Note
Bibliografia
Titolo Chronica Bohemorum
Autore Cosmas Pragensis (1045-1125)
Genere Cronaca storica
Lingua Latino
Epoca 1119-1125
Cosmas Pragensis
CHRONICA BOHEMORUM

La Chronica Bohemorum

Incipit primus libellus in Cronicam Bohemorum. Quam composuit Cosmas Pragensis Ecclesiae Decanus...

Chronica Bohemorum

Pagina dal Codex Rosinianus [A1a], XII-XIII secolo. Conservato nella Gersdorfische Bibliothek di Bautzen. Segnatura: 15 (67) in .

Così inizia la Chronica Bohemorum [Kronika Čechů] di Cosmas da Praga, la più antica e la principale delle cronache storiche di Boemia. Capolavoro della storiografia medievale (redatto tra il 1119 e il 1125), e dunque scritto in un latino ricco e agile, è un testo erudito, ricercato nella forma, dall'intonazione fortemente retorica. Lo stile dell'opera non è prettamente annalistico, ma piuttosto un ibrido tra cronaca e narrativa. Alcuni eventi si espandono infatti in lunghi racconti che vanno ben oltre gli intenti di un puro lavoro di cronaca storica.

Primo testo di storia slava redatto da un autore slavo, la cronaca di Cosmas fissa per la prima volta le tradizioni sulla fondazione del regno boemo, secondo la concezione che nel Medioevo si aveva sull'etnogenesi dei popoli e la nascita delle nazioni. La Chronica Bohemorum non è soltanto un'opera storica, ma aveva anche un deciso intento ideologico, ragion per cui ha acquistato, nel corso dei secoli, una forte rilevanza politica, assurgendo a «cronaca nazionale» boema. Una parte rilevante dello sforzo di Cosmas intendeva giustificare l'affermazione del popolo ceco, attraverso la legittimazione del ducatus di Boemia e Moravia.

L'opera è ripartita in tre libri. Il primo parte dal mito biblico della torre di Babele, e quindi dall'etnogenesi del popolo slavo, e termina nell'anno 1038. Descrive la migrazione dei primi Slavi nella valle della Moldava e la fondazione del primo nucleo dello stato boemo, intorno all'anno 600. Per la prima volta compaiono Pater Bohemus (latinizzazione dell'eroe eponimo Čech), Krok e le sue tre figlie. Si parla della duchessa Libuše e del suo matrimonio con Přemysl, e quindi della fondazione della dinastia přemyslide. Con l'avvento del duca Bořivoj, nel IX secolo, si passa alla conversione dei Cechi pagani al Cristianesimo: compaiono quindi Santa Ludmilla e suo nipote San Venceslao. Si parla della vita di Sant'Adalberto e del regno dei tre Boleslav (X secolo), per concludersi con il racconto delle cruente guerre che seguirono il volgere dell'anno 1000.

Il secondo libro tratta la storia boema tra il 1038 e il 1092. Buona parte del testo è incentrato sulle imprese del duca Břetislav I (1034-1055), di suo figlio Spytihněv II (1055-1061), e del lungo, fulgido regno del duca Vratislav II (1061-1092), poi eletto primo re di Boemia. Con la sua morte termina il secondo libro.

Il terzo libro inizia con una descrizione del disordinato periodo di guerre civili che seguì alla morte di Vratislav. Il testo prosegue narrando vari fatti contemporanei allo stesso Cosmas e prosegue fino alla morte di Vladislav II (1120-1125) e all'inizio del regno di Soběslav I. Il libro si conclude con la morte del suo autore, nell'ottobre del 1125.

Cosmas Pragensis

Poche notizie abbiamo intorno a Cosmas Pragensis [Kosmas Pražský], e le uniche sicure provengono dal terzo libro della Chronica Bohemorum da lui scritta. Figura probabilmente piuttosto elevata e influente, nella vita ecclesiastica della Praga della prima metà del XII secolo, tutta la vita di Cosmas gravitò intorno alla cattedrale di San Vito, a Praga.

La sua data di nascita viene fatta risalire al 1045 grazie a un passaggio nel terzo libro della Chronica [III: 59], redatto nell'anno della sua morte (1125), dove egli stesso si dichiara ottuagenario. Poco sappiamo della sua infanzia. Dovette studiare nella scuola annessa a San Vito se, come egli affermava, si applicava sui Salmi nella cripta della cattedrale. Nel 1075 si recò a completare gli studi di grammatica a Liegi, allora uno dei più importante centri culturali del Sacro Romano Impero. Frank, il suo principale insegnante, rettore della scuola annessa alla cattedrale di San Lamberto, era all'epoca molto rinomato per le sue conoscenze matematiche. Ma Cosmas dovette anche molto appassionarsi alla letteratura latina, in particolar modo alla poesia, come testimoniano le molte citazioni di Orazio, Ovidio, Virgilio e Sallustio, sparse a piene mani nella Chronica.

Tra il 1081 e il 1082, Cosmas tornò in Boemia e s'introdusse tra il clero della cattedrale di Praga, probabilmente come diacono. Verrà ordinato sacerdote solo l'11 giugno 1099, a Esztergom, in Ungheria. Nel frattempo si era anche sposato: sappiamo che sua moglie aveva nome Božetěchou († 1117). Nell'Europa centrale, a quel tempo, non era inusuale per un religioso formare una famiglia. Cosmas ebbe anche un figlio chiamato Jindřich (Enrico), come apprendiamo da una nota nella Chronica in cui Kosmas appunta la morte di un certo Bertold, «seguace di mio figlio Jindřich» [III: 51]. Il figlio di Cosmas, lo si è voluto identificare, seppure con molti dubbi, con Jindřich Zdík (1083-1050) vescovo della diocesi di Olomouc e in seguito missionario presso i Prussiani.

Nel corso della sua carriera ecclesiastica, Cosmas intraprese parecchi viaggi, alcuni dei quali documentati nella sua opera. Nel 1086 era tra gli inviati boemi al sinodo di Meinz, e questo è il primo evento, citato nella cronaca, di cui l'autore fu diretto testimone [II: 37]. Nel 1110, Cosmas fu inviato a Olomouc, in Moravia, per risolvere una vertenza riguardante la restituzione dei proventi del vicino villaggio di Sekyřkostele (Strachotín). È probabile che, a quel tempo, Cosmas fosse stato già nominato decano del capitolo di San Vito, importante posizione ecclesiastica, subordinata soltanto a quella vescovile. Non lo sappiamo. Sicuramente, però, Cosmas aveva questo titolo nel 1120, com'è riportato nella prefazione del secondo libro della Chronica.

È anche incerto quando Cosmas cominciò a scrivere la Chronica Bohemorum. Il primo libro fu terminato intorno al 1120, come appuntato dal suo autore. Nella prefazione della prima parte dell'opera, dedicata a un Magistrus Gervasius, altro membro del capitolo di San Vito, Cosmas dichiara infatti di aver scritto il testo durante il regno di quattro sovrani, il che ci riporta necessariamente agli anni 1119-1122. In quanto al secondo e terzo libro, devono essere stati scritti a partire da questa data fino al marzo 1125, data della morte del duca Vladislav I, come si evince da un appunto di Cosmas: «che il mio libro si concluda con la morte del duca» [III: 58]. Nondimeno, Cosmas continuò a portare avanti la sua opera e aggiunse altri quattro capitoli. L'opera venne interrotta dalla sua morte, avvenuta nell'ottobre dello stesso anno.

Le redazioni

La Chronica Bohemorum ci è stata tramandata in un certo numero di manoscritti, risalenti a un lungo periodo tra il XII e il XV secolo. Uno risale al XVII secolo. Due sono frammentari. Questo è lo specchietto dei documenti, con l'epoca di redazione e l'indicazione della biblioteca dove sono oggi conservati:

A1a   Codex Rosinianus. XII-XIII secolo. Conservato nella Gersdorfische Bibliothek di Bautzen. Segnatura: 15 (67) in .
A1b   XV secolo. Conservato nel Městský Archiv, collana Wiesenbergova sbírka, di Brno. Segnatura: A 101.
A2a   XII-XIII secolo. Conservato alla Universitätsbibliothek di Leipzig. Segnatura: 1324 (1354b durchstrichen).
A2b   Codex Carloviensis. XV secolo. Conservato nel Kapitulní Knihovna di Praga. Segnatura: G 57.
A3a   XII-XIII secolo. Conservato nella Öffentliche Bibliothek di Dresda. Segnatura: J 43.
A3b   XIII secolo. Conservato nella Hofbibliothek di Vienna. Segnatura: 508 (Rec. 1544).
A4a   XII-XIII secolo. Conservato nella Stadtbibliothek di Strasburgo. Segnatura: 88.
A4b   XV secolo. Conservato nella Staatsbibliothek di München. Segnatura: 11029.
Bk   Inizio del XIII secolo. Conservato nella Kunglinga Biblioteket di Stoccolma. Sine signo.
Bh   XVII secolo. Conservato alla Hofbibliothek di Vienna. Segnatura: 7391 (Rec. 1213).
C1a   Prima metà del XIV secolo. Conservato nel Kapitulní Knihovna di Praga. Segnatura: G 5, 14.
C1b   XV secolo. Conservato nella Fürstliche Fürstenbergische Bibliothek di Donaueschingen. Segnatura: 697, 15.
C2a   XV secolo. Conservato nella Knížecí lobkowiczká knihovna di Roudnice. Segnatura: Fb 3 in .
C2b   XV secolo. Conservato nel Muzeum království Českého di Praga. Segnatura: D 20 in.
C3   Fine XV secolo. Conservato nella Klášterní knihovna di Břevnov. Segnatura: F 3.
    Fine XV sec. Conservato nella Fuldensis di Blaubeuren. Segnatura: A a 96. Frammento.
    XIV secolo. Conservato nella Landesbibliothek di Dresda. Segnatura: J 122.h.1. Frammento.

Il nostro testo deriva dal manoscritto A2a, confrontato con il ms. C1b. Comprende i nove capitoli iniziali del Primo Libro, più l'incipit del decimo capitolo: ovvero, la parte più prettamente mitologica dell'opera.

Cosmas Pragensis
CHRONICA BOHEMORUM
Capitolo primo
Capitolo secondo
Capitolo terzo
Capitolo quarto
Capitolo quinto
Capitolo sesto
Capitolo settimo
Capitolo ottavo
Capitolo nono
Capitolo decimo
       
Capitulum primum Capitolo primo  
1a

Post diluvii effusionem, post virorum maligna mente turrim aedificantium confusionem, humanum genus, quod tum fere constabat in LXX duobus viris, pro tam illicitis et temerariis ausis, cum divina ultione, quot capita virorum, tot in diversa linquarum genera dividerentur, sicut historiaca relatione didicimus, unusquisque eorum vagus et profugus longe lateque dispersi, per diversa spatia terrarum errabant, ac de die in diem corpore decrescentes, in generationes et generationes multipliceter crescebant.

Dopo la devastazione causata dal diluvio, dopo la confusione causata dall'indole malvagia degli uomini, che volevano costruire una torre, il genere umano, che allora consisteva in settantadue tribù, si divise in tante lingue quanti erano i loro capi. Questo fu il giusto castigo di Dio per azioni tanto disoneste e temerarie, così come abbiamo appreso dalle relazioni storiche. Esuli e profughi, gli uomini errarono in diversi luoghi della terra, disperdendosi in lungo e in largo, e di giorno in giorno decrescenti in statura crescevano di numero di generazione in generazione.

1b

Unde humanum genus Dei nutu omnia disponente in tantum diffusum est per orbem terrae, ut post multa secula tandem has etiam in partes deveniret Germaniae. Cum enim omnis illa regio sub Arcto axe Thanaytenus et usque ad occiduum sita, licet in ea singula propriis loca nominibus noncupentur, generali tamen vocabulo Germania vocitatur. Ad hoc ista retulimus, ut nostrae intentionis melius exequi possimus propositum. Verum tamen interim, priusquam ad exordium narrationis veniamus, situm terrae huius Bohemicae, et unde nomen sit sortita, breviter exponere tentabimus. Per ordine di Dio, che dispone ogni cosa, il genere umano si diffuse su tutta la terra, finché, dopo molti secoli, giunse in quella sua parte che è la Germania. È infatti chiamata Germania quella terra che si stende dal polo boreale, sotto l'Orsa, al fiume Tanais, anche se ogni singola regione ha un suo nome. Spieghiamo qui tali cose per meglio raggiungere il nostro scopo. Ma prima di principiare la nostra narrazione, tenteremo di esporre brevemente la situazione della terra di Boemia, e da dove sia venuto il suo nome.
       
Capitulum secundum Capitolo secondo  
2a In divisione orbis secundum Geometricos Asia nomine sub suo dimidium mundi obtinuit, et dimidium Europa et Africa. In Europa sita est Germania, cuius in partibus versus aquilonalem plagam est locus late nimis diffusus, cinctus undique montibus per gyrum, qui mirum in modum extenduntur totius terrae per circuitum, ut in aspectu oculorum, quasi unus et continuus mons, totam illam terram circumeat et muniat. Nella divisione della Terra effettuata dai geografi, l'Asia occupa sotto il suo nome metà del mondo, e l'altra metà è occupata da Europa e Africa. La Germania è posta in Europa, verso settentrione. È un vasto paese, cinto da una catena di monti che si estende lungo tutto il suo perimetro, simile all'occhio a un'unica e ininterrotta montagna che cinge e difende tutta quella terra.
2b Huius terrae superficiem tunc temporis vastae tenebant solitudines nemorum, sine habitatore hominum; nimis tamen sonorae erant examinibus apum, et diversarum modulationibus volucrum, ferae sylvarum innumerae ceu maris arenae, vel quot sunt stellae in aethere. Nec ab ullo perterritae errabant per devia terrae, et bestiarum gregibus vix sufficiebat tellus. Ad numerum locustarum, aestate per arva saltantiun, vix poterant aequiparare armenta iumentorum. Aquae illic nimis perspicuae, et ad humanos usus sanae. Similiter et pisces suaves, et ad comedendum salubres. Mira res, et unde perpendere potes, quam in alto aere pendeat haec regio, cum nulla peregrina han influat aqua, sed quotquot amnes, parvi et immanes ex diversis montibus orti, a maiori aqua, quae dicitur Labe, recepti usque aquilonale fluunt in mare. Et quia haec regio tempore in illo intentata iacebar aratro, et homo, qui tentaret, adhuc eam non intrarat, de fertilitate sive sterilitate eius magis placuit tacere, quam inexpertam rem dicere. A quell'epoca, la superficie di questa terra era avvolta da vaste, selvagge foreste, senza alcun uomo che le abitasse. Non si udiva che il ronzio delle api e il canto di innumerevoli specie di uccelli. Le fiere selvatiche erano innumerevoli come i granelli di sabbia del mare o le stelle del firmamento. A branchi, gli animali si aggiravano senza nulla che li spaventasse, e quanto produceva la terra era appena sufficiente per sfamarli. Gli armenti erano così fitte nelle mandrie che potremmo equipararli al numero di locuste che d'estate volano sui campi. Le acque erano straordinariamente trasparenti, dissetanti per gli uomini. I pesci erano gradevoli, salubri e appetibili. Infine, cosa mirabile, quella terra si erge a tale altitudine che nessun fiume vi arriva dall'esterno: bensì, tutti i corsi d'acqua, piccoli e grandi, sgorgano dai monti e, dopo essere confluiti in un fiume più copioso, chiamato Elba, scorrono fino al mare settentrionale. E poiché a quel tempo quella terra giaceva intatta all'aratro, né l'uomo aveva ancora provata a dissodarla, sarà opportuno tacere se fosse fertile o sterile, piuttosto che parlare di ciò che non sappiamo.
2c Has solitudines quisquis fuit ille hominum incertum est quot in animabus postquam intravit, quaerens loca humanis habitationibus oportuna, montes, valles, tesqua, tempe visu sagaci perlustravit, et ut reor, circa montem Rzip, inter duos fluvios, scilicet Ogram et Wltavam, primas posuit sedes, primas fundavit et aedes, et quos in humeris secum apportarat, humi siti Penates gaudebat. Non sappiamo chi fu quell'uomo che per primo giunse in queste contrade deserte, alla ricerca di un luogo dove potessero dimorare gli esseri umani, e quali emozioni provò nel suo animo. Egli perlustrò con sguardo attento i monti, le valli, i luoghi deserti e fu – io credo – presso il monte Říp, tra i fiumi Ohre e Moldava, che finalmente si fermò, costruì le prime abitazioni e vi stabilì i Penati che aveva trasportato con sé, sulle spalle.
2d Tunc senior, quem alii quasi Dominum comitabantur, inter caetera suos sequaces sic affatur: O socii non semel mecum graves labores per devia nemorum perpessi, sistite gradum, vestris Penatibus litates libamen gratum, quorum opem per mirificam hanc vobis olim fato praedestinatam tandem venistis ad patriam. Haec est illa, haec est illa terra, quam saepe me vobis promisisse memini: terra obnoxia nemini, feris et volatilibus referta, nectare mellis et lactis humida et, ut ipsi perspicitis, ad habitandum aere iocunda. Aquae ex omni parte copiosae, et ultra modum piscosae. Hic vobis nihil deerit, quia nullus vobis oberit. Sed cum haec talis, tam pulchra ac tanta regio in manibus vestris sit, cogitate aptum terrae nomen quod sit. Allora il vecchio, che gli altri accompagnavano quasi fosse un sovrano, si rivolse così ai suoi seguaci: «O compagni, che tra tante difficoltà mi avete seguito attraverso foreste prive di sentieri, siete ora arrivati in questa patria a voi predestinata da un fato benevolo, deponete dunque i Penati e offrite loro grate libagioni. È questa, è questa la terra che tante volte vi ho promesso! Terra di nessuno, ricca di animali e di uccelli, umida di latte e nettare dal sapore di miele e, come voi stessi riconoscete, con aria salubre per viverci. Le acque scorrono copiose da ogni parte, oltremodo ricche di pesci. Qui non vi mancherà nulla, e nessuno vi nuocerà. Ma ora che una così grande e bella terra è nelle vostre mani, pensate quale sia un nome adatto ad essa».

2e

Qui mox, quasi ex divino commoniti oraculo: Et unde, inquiunt, melius, vel aptius nomen inveniemus, quam, quia tu, o Pater diceris Bohemus, dicatur et terra Bohemia? E gli altri, quasi ispirati da un oracolo divino, gli chiesero: «E quale nome migliore del tuo potremmo trovare, o padre Bohemus? Che questa terra si chiami dunque Boemia!»
2f Tunc senior motus sociorum augurio, coepit terram osculari prae gaudio, gaudens eam ex suo nomine nuncupari, et surgens ac utrasque palmas tendens ad sidera, sic orsus est loqui: Salve, terra fatalis, mille votis quaesita a nobis, olim diluvii tempore viduata homine, nunc, quasi monimenta hominum, nos conserva incolumes et multiplices nostram sobolem a progenie in progenies.
 
Allora il vecchio, spinto dal medesimo oracolo, si chinò a baciare gioiosamente la terra, felice di chiamarla con il suo stesso nome. E poi, sollevando i palmi delle mani verso le stelle, così prese a parlare: «Salve, terra predestinata, da noi desiderata con mille preghiere! Terra deserta fin dai tempi del diluvio, quasi ad ammonimento degli uomini, conservaci incolumi e moltiplica la nostra stirpe nelle generazioni a venire!».
       
Capitulum tercium Capitolo terzo  
3a Quorum autem morum, quam honestorum vel quantae simplicitatis et quam admirandae probitatis tunc temporis fuerint homines, quamque inter se fideles et in semetipsos misericordes, cuius etiam modestiae, sobrietatis, continentiae, si quis his modernis hominibus valde contraria imitantibus pleno ore narrare temptaverit, in magnum deveniret fastidium. Propterea haec praetermittimus, et pauca, ac quae sunt vera, illius primae aetatis de qualitate dicere cupimus. Felix nimium erat aetas illa, modico contenta sumptu, nec tumido inflata fastu. Cereris et Bachi munera haud norant quia neque erant. Sera prandia solvebant glande vel ferina carne. Incorrupti latices haustus dabant salubres. Ut solis splendor vel aquae humor, sic arva et nemora, quin etiam et ipsa connubia erant illis communia. Nam more pecudum singulas ad noctes novos probant [incunt] hymeneos, et surgente aurora trium gratiarum copulam, et secreta [ferrea] amoris rumpunt vincula; et ubi nox quemque occuparat, ibi fusus per herbam, frondosae arboris sub umbra dulces carpebat somnos. Di quale onestà, quanta semplicità e quale ammirevole rettitudine furono i costumi degli uomini d'allora, leali e misericordiosi tra loro. Gli uomini di oggi, così contrari a seguire l'esempio dei loro antenati, si infastidirebbero se provassi a ricordar loro di tanta modestia, sobrietà e moderazione. Evito dunque di parlarne. Voglio però aggiungere poche cose, ma vere, sulla vita che si conduceva a quei tempi. Era un'epoca felice, soddisfatta di poco, priva di ostentazione e di lussi. Non implorava i favori di Cerere e Bacco, che non conosceva affatto. Si cenava, la sera, con ghiande o selvaggina. Si beveva pura acqua di sorgente. Come lo splendore del sole e le roride acque, i campi e i boschi appartenevano a tutti, e anche le donne. Come gli animali, gli uomini trascorrevano ogni notte in un nuovo matrimonio e, al sorgere dell'aurora, rompevano il nodo delle tre Grazie e i segreti [ferrei] vincoli d'amore. E dove la notte li aveva sorpresi, là, stesi nell'erba, all'ombra dei frondosi alberi, li coglieva il dolce sonno.  
3b Lanae vel lini eis usus ac vestis ignotus, hieme ferinis aut ovinis pellibus utuntur pro vestibus. Nec quisquam meum dicere norat, set ad instar monasticae vitae, quicquid habebant, nostrum ore, corde et opere sonabant. Ad stabula non erant repagula, nec portam inopi claudebant, quia neque fur, neque latro, neque inops quisquam erat; nullum scelus aput eos furto gravius et latrocinio. Nullius gentis arma videre, tantummodo sagittas, et has propter feriendas feras habuere. Non conoscevano l'uso della lana o del lino: e d'inverno si coprivano con le pelli degli ovini e degli animali selvatici. Non conoscevano la parola «mio» ma, proprio come nella vita monastica, tutto risuonava come «nostro» attraverso la bocca, il cuore e le azioni. Nelle stalle non c'erano catenacci, né le porte venivano chiuse in faccia ai poveri, poiché non vi erano ladri, banditi o mendicanti. Nessun delitto era da loro considerato più grave del furto o della rapina. Non si vedevano armi, a parte le frecce per colpire le bestie selvatiche.  
3c Quid plura? Proh dolor! prospera in contraria, communia in propria cedunt; securam paupertatem olim amabilem quasi coenosam rotam vitant et fugiunt, quia amor habendi saevior ignibus Aethnae in omnibus ardet. His ac talibus malis emergentibus, de die in diem peius et peius iniuriam, quam nemo prius inferre norat, alter ab altero sibi illatam patienter sufferebat, et cui querimoniam suam apploraret, iudicem nec principem habebat. Post haec quicumque in sua tribu vel generatione, persona, moribus potior et opibus honoratior habebatur, sine exactore, sine sigillo, spontanea voluntate ad illum confluebant, et de dubiis causis ac sibi illatis iniuriis salva libertate disputabant. Che altro? Ahimé! Quando la prosperità muta in avversità, la comunanza cede alla proprietà. E allora gli uomini evitano e fuggono la povertà, un tempo tanto sicura e amabile, come fosse una ruota impantanata nel fango, e in tutti la cupidigia comincia ad ardere più violenta dei fuochi dell'Etna. Con l'emergere di tanti mali, gli uomini sopportavano rassegnati le offese che si infliggevano l'un l'altro, offese di cui prima non erano neppure consci ma che, di giorno in giorno, si facevano sempre più gravi. E per chi lamentava le ingiustizie, non vi erano né giudici né principi. Perciò la gente si rivolgeva di sua spontanea volontà a chi, nella propria tribù o nel proprio tempo, risultasse più degno nei costumi e più stimato nelle ricchezze, affinché trattasse liberamente, senza autorità né sigilli, le questioni irrisolte e le offese subite.
3d Inter quos vir quidam oriundus extitit nomine Crocco, ex cuius vocabulo castrum iam arboribus obsitum in silva, quae adiacet pago Stibrene, situm esse dinoscitur. Vir fuit hic in suis generationibus ad unguem perfectus, rerum secularium opulentia praeditus, iudiciorum in deliberatione discretus, ad quem tam de propriis tribubus quam ex totius provinciae plebibus velut apes ad alvearia, ita omnes ad dirimenda convolabant iudicia. Emerse tra di loro un tale, di quella razza, di nome Krok. C'è una fortezza, soffocata dagli alberi nella selva, che porta il suo nome, situata presso il villaggio di Ztibečné. Il luogo è visibile ancor oggi. Krok fu l'uomo migliore della sua generazione, fornito della ricchezza del tempo, discreto nel formulare giudizi. Le genti accorrevano a lui come api all'alveare, sia dalla propria tribù che dalle altre province, affinché dirimesse le vertenze con i suoi giudizi.
3e Hic tantus vir ac talis, expers virilis fuit prolis; genuit tamen tres natas, quibus natura non minores, quam solet viris, sapientiae dedit divitias. Questo grande uomo non ebbe figli maschi. Generò però tre figlie, a cui la natura diede una ricca dote di sapienza, non minore di quella che suole attribuire al genere maschile.  
       
Capitulum quartum Capitolo quarto  
4a Quarum maior natu nuncupata est Kazi, quae Medeae Colchicae herbis et carmine nec Paeonio magistro arte medicinali cessit; quia saepe Parcas cessare interminali ab opere. Ipsaque fata sequi fecit sua carmine iussa. Unde et incolae huius terrae, quando aliquid est perditum, et quod se posse rehabere desperant, tale proverbium de ea ferunt: Illud nec ipsa potest recuperare Kazi. Ad Cereris natam haec est ubi rapta tyrannam, eius usque hodie cernitur tumulus, ab incolis terrae ob memoriam suae dominae nimis alte congestus, super ripam fluminis Mse, iuxta viam qua itur in partes provinciae Bechin, per montem qui dicitur Osseca. La maggiore delle tre fanciulle si chiamava Kazi, e non era inferiore nella conoscenze delle erbe e dei canti magici alla colchide Medea e nell'arte medica al maestro Peone. Spesso aveva obbligato le Parche a interrompere la loro opera fatale e con gli incantesimi sottometteva il fato stesso alla sua volontà. Da lei, gli abitanti della sua terra, qualora abbiano perduto qualcosa e non riescano a ritrovarla, hanno tratto un proverbio: «Non riuscirebbe a riaverlo neppure Kazi». Fu infine rapita dalla tiranna, la figlia di Cerere, e la sua tomba si può ancora oggi scorgere sotto un tumulo, eretto assai alto dagli abitanti della terra in memorie della sua signora, sopra le rive del fiume Mže, accanto alla strada che conduce nelle zone della provincia di Bechyně, presso il monte Osek.
4b Laude fuit digna set natu Tetcka secunda. Expers et maris, emunctae femina naris, quae ex suo nomine Tethin castrum natura loci firmissimum, praeruptae rupis in culmine iuxta fluvium Msam aedificavit. Haec stulto et insipienti populo Oreadas, Driadas, Amadriadas adorare et colere, et omnem superstitiosam sectam ac sacrilegos ritus instituit et docuit; sicut hactenus multi villani velut pagani, hic latices seu ignes colit, iste lucos et arbores aut lapides adorat, ille montibus sive collibus litat, alius quae ipse fecit ydola surda et muta rogat et orat, ut domum suam et se ipsum regant. Fu degna di lode ma seconda per nascita, Tetka. Libera e coraggiosa, donna arguta e sagace, diede il suo nome a Tetín, un'inespugnabile fortezza da lei eretta sulla cima di uno scosceso dirupo presso il fiume Mže. Ella insegnò al popolo stolto e ignorante ad adorare e onorare le oreadi, le driadi e le amadriadi, e istituì superstizioni e culti sacrileghi. Ancora oggi molti villani, come pagani, ancora venerano le sorgenti o i fuochi; adorano i boschi e gli alberi, o le pietre; altri offrono sacrifici ai monti o alle colline; altri pregano e interrogano idoli sordi e muti che hanno costruito con le loro mani, affinché proteggano la loro casa e loro stessi.
4c Tertia natu minor set prudentia maior, vocitata est Lubossa, quae etiam urbem tunc potentissimam iuxta silvam quae tendit ad pagum Stebecnam construxit, et ex suo nomine eam Lubossin vocitavit. Haec fuit inter feminas una prorsus femina in consilio provida, in sermone strennua, corpore casta, moribus proba, ad dirimenda populi iudicia nulli secunda, omnibus affabilis set plus amabilis, feminei sexus decus et gloria, dictans negotia providenter virilia. Set quia nemo ex omni parte beatus, talis ac tantae laudis femina, heu dira conditio humana! fuit phitonissa. Et quia populo multa et certa praedixit futura, omnis illa gens commune consilium iniens, patris eius post necem hanc sibi praefecit in iudicem. La terza per nascita, minore d'età ma di maggiore sapienza, si chiamava Libuše. Ella fondò, presso la selva che si stende presso il villaggio di Ztibečné, una fortezza, al tempo molto potente, che dal suo nome fu detta Libušín. Libuše fu, tra le donne, preveggente nelle decisioni, eloquente nei discorsi, casta nel corpo, proba nei costumi, seconda a nessuno nel giudicare le controversie, affabile in tutto ma, ancora di più, amabile; decoro e gloria del sesso femminile, benché fosse capace anche nelle attività maschili. Ma poiché nessuno è perfetto in ogni cosa, una donna degna di tanta lode era – empia natura umana! – una pitonessa. Predisse al popolo molti eventi destinati ad avverarsi, e la gente comune, allorché doveva prendere una decisione, ricorreva a lei. Alla morte del padre, Libuše gli succedette in qualità di giudice.
4d Ea tempestate inter duos cives, opibus et genere eminentiores et qui videbantur populi esse rectores, orta est non modica litigio agri contigui de termino. Qui in tantum proruperunt in mutuam rixam, ut alter alterius spissam unguibus volaret in barbam, et nudis convitiis semetipsos turpiter digito sub nasum confundentes, intrant bachantes curiam, ac non sine magno strepitu adeunt dominam, et ut ratione iustitiae dubiam inter eos dirimat causam suppliciter rogant. Sorse a quel tempo tra due cittadini, i quali erano ritenuti degni di comandare il popolo in ragione della loro nascita e ricchezza, una violenta discussione su una questione di confini tra campi. Venuti alle mani, si strapparono le folte barbe con le unghie e, gridando senza ritegno e agitando le dita l'uno sotto il naso dell'altro, entrarono infuriati nella curia e, con gran clamore, si avvicinarono alla signora e la supplicarono, in nome della giustizia, di risolvere la causa della loro discussione.  
4e Illa interim, ut est lasciva mollities mulierum quando non habet quem timeat virum, cubito subnixa, ceu puerum enixa, alte in pictis stratis nimis molliter accubabat. Cumque per callem iustitiae incedens, personam hominum non respiciens, totius controversiae inter eos ortae causam ad statum rectitudinis perduceret, tunc is, cuius causa in iudicio non obtinuit palmam, plus iusto indignatus terque quaterque caput concussit, et more suo terram ter baculo percussit, ac barbam pleno ore saliva conspergens exclamavit: O iniuria viris haud toleranda! femina rimosa virilia iudicia mente tractat dolosa. Scimus profecto quia femina sive stans seu in solio residens parum sapit, quanto minus cum in stratis accubat? Revera tunc magis est ad accessum mariti apta, quam dictare militibus iura. Certum est enim, longos esse crines omnibus set breves sensus mulieribus. Satius est mori, quam viris talia pati. Nos solos obprobium nationibus et gentibus destituit natura, quibus deest rector et virilis censura, et quos premunt feminea iura. Libuše giaceva sull'alto letto dipinto. Era distesa su un gomito, nella posa lasciva a cui si abbandonano le donne che non temono gli uomini. Decisa a fare giustizia, ella non tenne in alcuna considerazione il rango della persone che aveva davanti, ma solo la natura della controversia sorta tra loro e, in modo ragionevole, la risolse. Allora, quello dei due che aveva perso la causa, indignato scosse il capo tre o quattro volte e, secondo il suo costume, batté tre volte a terra con il suo bastone. Poi, sputacchiando nella barba, esclamò: «Che intollerabile offesa, per un uomo! Una femmina corrotta che giudica le cause virili con intenzioni fraudolente! Sappiamo bene che, in piedi o assisa in seggio, una donna ha poco buon senso, ma quanto ancor meno ne ha, sdraiata su un letto? Ella sembra piuttosto pronta a ricevere un amante che ad emettere giudizi di guerrieri. Le donne, è noto, hanno lunghi i capelli ma corti i cervelli. E per un uomo sarebbe meglio morire che sopportare un tale affronto. Noi soltanto, siamo divenuti la vergogna delle nazioni e delle genti, privi di una guida virile e guidati dai giudizi di una donna!»
4f Ad haec domina illatam sibi contumeliam dissimulans, et dolorem cordis femineo pudore celans, subrisit et: Ita est, inquit, ut ais; femina sum, femina vivo, set ideo parum sapere vobis videor, quia vos non in virga ferrea iudico, et quonian sine timore vivitis, merito me despicitis. Nam ubi timor est, ibi et honor. Nunc autem necesse est valde, ut habeatis rectorem femina fortiorem. Sic et columbae olim albiculum milvum, quem sibi elegerant in regem, spreverunt, ut vos me spernitis, et accipitrem multo fortiorem sibi ducem praefecerunt, qui fingens culpas tam nocentes quam innocentes coepit necare et ex tunc usque hodie vescitur columbis accipiter. Ite nunc domum, ut quem vos cras eligatis in dominum, ego assumam mihi in maritum. Libuše, ignorando gli insulti che le venivano rivolti e, celando il dolore in cuore, con pudore femminile, sorrise. «Come affermi, io sono una donna e vivo da donna. Ma a voi sembra che io abbia scarso sapere, solo perché non vi giudico con una verga di ferro e, dal momento che vivete senza temermi, mi disprezzate. Infatti, là dove c'è la paura, c'è anche il rispetto. Ma ora avete bisogno di un capo più forte di una donna. Come le colombe, che una volta elessero re il nibbio bianco, allo stesso modo mi disprezzate, e volete per sovrano un duca più energico, un uomo che, trovando colpe dovunque, uccidesse tanto i colpevoli quanto gli innocenti. Questo è la ragione per cui ancora oggi il nibbio divora le colombe. Ma ora andate a casa, ché colui che domani eleggerete signore, io prenderò per marito».
4g Interea praedictas advocat sorores, quas non impares agitabant furores, quarum magica arte et propria ludificabat populum per omnia; ipsa enim Lubossa fuit, sicut praediximus, phitonissa, ut Chumaea Sybilla, altera venefica ut Cholchis Medea, tertia malefica ut Aeaeae Circes. Illa nocte quid consilii inierint illae tres Eumenides, aut quid secreti egerint, quamvis ignotum fuerit, tamen omnibus luce clarius mane patuit, cum soror earum Lubossa et locum ubi dux futurus latuit, et quis esset, nomine indicavit. Quindi, ella convocò le proprie sorelle, le quali erano in preda a un furore non minore del suo, affinché la aiutassero a ingannare il popolo con le loro arti magiche. Infatti, la stessa Libuše era, come abbiamo detto, una pitonessa, come la Sibilla Cumana; l'altra era velenosa come Medea Colchide; la terza malvagia come la maga Circe dell'isola di Eea. Nessuno sa quali decisioni presero nottetempo quelle tre Eumenidi, né quali segreti evocarono, ma il risultato fu evidente a tutti alla luce del sole, quando la loro sorella Libuše indicò il luogo dove si trovava il futuro duca, e lo chiamò per nome.
4h Quis enim crederet quod de aratro sibi ducem praerogarent? Aut quis sciret, ubi araret qui rector populi fieret? Quid enim phitonicus furor nescit? Aut quid est, quod magica ars non efficit? Potuit Sybilla Romano populo seriem fatorum fere usque in diem iudicii praedicere, quae etiam, si fas est credere, de Christo vaticinata est, sicut quidam doctor in sermone suae praedicationis versus Virgilii ex persona Sibyllae de adventu Domini compositos introducit. Potuit Medea herbis et carmine saepe e coelo Hyperionem et Berecinthiam deducere; potuit ymbres, fulgura et tonitrua elicere de nubibus; potuit regem Eiacum de sene facere iuvenem. Carmine Circes socii Ulixis conversi sunt in diversas ferarum formas, et rex Picus in volucrem, quae nunc dicitur picus. Quid mirum? Quanta egerunt artibus suis magi in Aegipto? qui pene totidem mira carminibus suis fecerunt, quot Dei famulus Moyses ex virtute Dei exhibuisse perhibetur. Hactenus haec. Ma chi avrebbe potuto credere che si potesse scegliere un duca intento a maneggiare un aratro? E chi sapeva quali campi stesse arando, il futuro signore del popolo? Ma infine, cosa può rimanere nascosto all'ispirazione di una pitonessa? Cos'è impossibile all'arte magica? La Sibilla fu in grado di predire al popolo romano tutti gli avvenimenti fino al giorno del Giudizio e ha persino vaticinato, se possiamo crederlo, l'avvento di Cristo, così come un certo dottore introdusse nei propri sermoni quegli stessi versi sull'avvento del Signore che Virgilio aveva desunto dalla Sibilla. Con erbe e con canti, Medea poteva trascinare dal cielo Iperione e Berecinzia; poteva evocare piogge, lampi e tuoni dalle nubi; riuscì addirittura a far tornare giovane il vecchio re Esone. Con i suoi incantesimi, Circe trasformò in animali i compagni di Ulisse, e re Pico nell'uccello chiamato picchio. C'è poco da stupirsi! Quali arti esibirono i maghi in Egitto? Con i loro canti magici, mostrarono altrettante meraviglie quante ne compì il servo di Dio, Mosè, per virtù divina. E basti quanto detto.
       
Capitulum quintum Capitolo quinto  
5a Postera die, ut iussum fuerat, sine mora convocant coetum, congregant populum; conveniunt simul omnes in unum, femina residens in sublimi solio concionatur ad agrestes viros: O plebs miseranda nimis, quae libera vivere nescit, et quam nemo bonus nisi cum vita amittit, illam vos non inviti libertatem fugitis, et insuetae servituti colla sponte submittitis. Heu tarde frustra vos poenitebit, sicut poenituit ranas, cum ydrus, quem sibi fecerant regem, eas necare coepit. Aut si nescitis, quae sunt iura ducis, temptabo vobis ea verbis dicere paucis. Il giorno seguente, com'era stato stabilito, senza alcun ritardo fu convocata l'assemblea e si riunì il popolo: tutti si radunarono insieme. Seduta sul suo alto seggio, la donna si rivolse ai contadini: «O gente degna di compassione, incapace di vivere libera! Spontaneamente fuggite quella libertà che nessun uomo perderebbe se non insieme alla vita, e da soli vi sottomettete a un'insolita servitù. Troppo tardi ve ne pentirete, e inutilmente, così come si pentirono le rane le quali scelsero per re il serpente, il quale iniziò a ucciderle. E se non sapete quali siano i diritti di un duca, proverò a riferirveli, in poche parole.
5b Inprimis facile est ducem ponere, set difficile est positum deponere; nam qui modo est sub vestra potestate, utrum eum constituatis ducem an non, postquam vero constitutus fuerit, vos et omnia vestra erunt eius in potestate. Huius in conspectu vestra febricitabunt genua, et muta sicco palato adhaerebit lingua. Ad cuius vocem prae nimio pavore vix respondebitis: Ita domine, ita domine, cum ipse solo suo nutu sine vestro praeiudicio hunc dampnabit, et hunc obtruncabit, istum in carcerem mitti, illum praecipiet in patibulo suspendi. Vos ipsos, et ex vobis quos sibi libet, alios servos, alios rusticos, alios tributarios, alios exactores, alios tortores, alios praecones, alios cocos seu pistores aut molendinarios faciet. Constituet etiam sibi tribunos, centuriones, villicos, cultores vinearum simul et agrorum, messores segetum, fabros armorum, sutores pellium diversarum et coriorum. Filios vestros et filias in obsequiis suis ponet; de bubus etiam et equis sive equabus seu peccoribus vestris optima quaeque ad suum palatium tollet. Omnia vestra quae sunt potiora, in villis, in campis, in agris, in pratis, in vineis auferet, et in usus suos rediget. Quid multis moror? Aut ad quid haec, quasi vos ut terream, loquor? Si persistitis in incepto et non fallitis voto, iam vobis et nomen ducis et locum ubi est indicabo. «In primo luogo è facile eleggere un duca, ma è difficile poi deporlo. Infatti, ora potete ancora decidere se avere un duca o no, ma una volta che lo avrete eletto, voi e tutte le vostre cose apparterrete a lui. Quando sarete al suo cospetto, vi tremeranno le ginocchia, e la lingua si ammutolirà e si attaccherà al palato riarso. Al suono della sua voce, risponderete tremanti: “Sì, signore! Sì, signore!” E lui, senza consultarvi, con un solo cenno del capo, l'uno farà giustiziare, l'altro mutilerà, questo sbatterà in prigione, quello appenderà al patibolo. Sceglierà tra di voi coloro che vorrà, e li farà servi, contadini, tributari, esattori, carnefici, banditori, cuochi, o piuttosto trebbiatori e mugnai. Avrà tribuni, centurioni, fattori, vignaioli, agricoltori, mietitori, fabbri d'armi, conciatori e calzolai. I vostri figli e figlie porrà nel suo seguito; tutto quanto avete di buono, le porterà alla sua dimora: i vostri buoi, i vostri cavalli, le vostre giumente, le vostre pecore. Quanto avete di meglio, nelle fattorie, nei campi, nelle valli, nei prati, nelle vigne, lo porterà via e lo farà diventare suo. Ma a che serve parlare ancora, come se non vi avessi spaventati abbastanza? Se persistete nel vostro proposito e non volete mancare la vostra promessa, io vi dirò ora il nome del vostro duca e vi indicherò dove si trova».
5c Ad haec vulgus ignobile confuso exultat clamore; omnes uno ore ducem sibi poscunt dari. Quibus illa: En, inquit, en ultra illos montes, et monstravit digito montes, est fluvius non adeo magnus nomine Belina, cuius super ripam dinoscitur esse, villa, nomine Stadici. Huius in territorio est novale unum, in longitudine et in latitudine XII passuum, quod mirum in modum, cum sit inter tot agnos in medio positum, ad nullum tamen pertinet agrum. Ibi dux vester duobus variis bubus arat; unus bos praecinctus est albedine et albo capite, alter a fronte post tergum albus, et pedes posteriores habens albos. Allora, l'ignobile volgo esplose in un clamore scomposto e tutti, unanimi, chiesero che venisse dato il nome del loro duca. Libuše indicò con il dito i monti e rispose loro: «Ecco, oltre quei rilievi vi è un fiume non molto grande, chiamato Belina, sulla cui riva si scorge il villaggio di Stadice. In quel territorio vi è un campo coltivato di dodici passi in lunghezza e in larghezza, e ciò che è straordinario è che quel campicello non appartiene a nessuno, pur trovandosi in mezzo ad altre proprietà. Lì, il vostro duca sta arando con due buoi di diverso colore: l'uno ha bianchi i fianchi e il capo, l'altro lo è dalla fronte alla schiena, e ha bianche anche le zampe posteriori.
5d «Nunc, si vobis placet, meum accipite thalarium et clamidem ac mutatoria duce digna, et pergite ac mandata populi atque mea referte viro, et adducite vobis ducem et mihi maritum. Viro nomen est Premizl, qui super colla et capita vestra iura excogitabit plura, nam hoc nomen latine sonat praemeditans vel superexcogitans, Huius proles postera hac in omni terra in aeternum regnabit et ultra. «Ora, se è questo che volete, prendete la mia lunga veste, e il clamide, e mantelli degni di un duca, andate da quell'uomo a nome mio e di tutto il popolo e portatelo qui, quale vostro duca e mio marito. Il nome dell'uomo è Přemysl, perché escogiterà molte leggi che peseranno sulla vostra teste. Infatti il suo nome in latino suona come praemeditans o excogitans. La sua stirpe regnerà su questa terra in eterno e oltre».
       
Capitulum sextum Capitolo sesto  
6a Interea destinantur qui iussa dominae et plebis ad virum perferant nuncii; quos ut vidit domina quasi inscios de via cunctari: Quid, inquit, cunctamini? Ite securi, meum equum sequimini, ipse vos ducet recta via et reducet, quia ab illo non semel illa via est trita. Vana volat fama, nec non et opinio falsa, quod ipsa domina equitatu phantasmatico semper in noctis conticinio solita sit ire illo, et redire prae gallicinio: quod Iudaeus credat Apella. Furono designati dei messaggeri affinché recassero a quell'uomo gli ordini della signora e del suo popolo, ma non appena Libuše li vide indugiare, incerti sulla via da intraprendere, domandò: «Perché indugiate? Andate sicuri, seguendo il mio cavallo. Esso vi condurrà sulla giusta strada, che ha già percorso più di una volta, e vi riporterà indietro». Subito si sparse una voce, la falsa notizia che la signora fosse solita recarsi dall'uomo nel silenzio della notte, in groppa a un cavallo fantasma, e tornare prima del canto del gallo. Lo creda pure il giudeo Apella!
6b Quid tamen? Procedunt nuncii sapienter indocti, vadunt scienter nescii, vestigia sequentes equi. Iamque montes transierant, iam iamque adpropinquabant villae ad quam ibant, tum illis puer unus obviam currit, quem interrogantes aiunt: Heus bonae indolis puer, estne villa ista nomine Stadici: aut si est in illa vir nomine Premizl? Che cosa accadde, dunque? I messaggeri avanzarono pur sapendo di non sapere, consapevolmente ignari seguirono le impronte del cavallo. Oltrepassati i monti, si avvicinarono a delle case. Non appena vi giunsero, un ragazzino corse loro incontro. Gli chiesero: «Ascolta, bravo giovane! Non è questo il villaggio di Stadice? Vi abita forse un uomo di nome Přemysl?»  
6c Ipsa est, inquit, quam quaeritis villa, et ecce vir Premizl prope in agro boves stimulat, ut, quod agit, citius opus peragat. «È proprio il villaggio che cercate» rispose il ragazzino. «Ed ecco, Přemysl è nel campo che incita i buoi, perché desidera terminare in fretta il suo lavoro».  
6d Ad quem nuncii accedentes inquiunt: Vir fortunate, dux nobis diis generate! Et, sicut mos est rusticis, non sufficit semel dixisse, set inflata bucca ingeminant Appressandosi a Přemysl, i messaggeri esordirono: «O uomo fortunato, duca generato per noi dagli dèi». E, poiché alla gente di campagna non basta dire le cose una volta sola, ripeterono a gonfiando le guance:  
 

«Salve dux, salve, magna dignissime laude,
Solve boves, muta vestes, ascende caballum!»

«Salve, duca, salve, o degno di grandissima lode!
Libera i buoi, cambia le vesti, sali a cavallo!»

 
6e Et monstrant vestes sternuntque caballum. Domina nostra Lubossa et plebs universa mandat, ut cito venias, et tibi ac tuis nepotibus fatale regnum accipias. Omnia nostra et nos ipsi in tua manu sumus, te ducem, te iudicem, te rectorem, te protectorem, te solum nobis in dominum eligimus. Gli mostrarono le vesti e sellarono il cavallo. «Ci manda la nostra signora Libuše e tutto il nostro popolo affinché tu venga subito, per ricevere un regno destinato a te e ai tuoi discendenti. Tutte le nostre cose e noi stessi siamo nelle tue mani: ti eleggiamo nostro unico giudice, governatore, protettore e difensore».  
6f Ad quam vocem vir prudens, quasi futurorum inscius, substitit, et stimulum quem manu gestabat in terram fixit, et solvens boves: Ite illuc inde venistis! dixit; qui statim citius dicto ab oculis evanuerunt, et nusquam amplius comparverunt. Corilus autem, quam humi fixit, tres altas propagines, et quod est mirabilius, cum foliis et nucibus produxit. Viri autem illi videntes haec talia ita fieri, stabant obstupefacti. A tali parole, quell'uomo prudente si fermò, ignaro del suo destino. Piantò in terra il pungolo che impugnava e, sciogliendo i buoi, «Tornate da dove siete venuti!» ordinò loro, e quelli scomparvero dalla sua vista e non ricomparvero mai più. Ma intanto, dal nocciolo che aveva conficcato in terra, erano germogliati tre rami e, cosa ancor più straordinaria, con foglie e nocciole! I presenti, assistendo a tale prodigio, rimasero sbalorditi.  
6g Quos ille grata vice hospitum invitat ad prandium, et de pera subere contexta excutit mucidum panem et formatici partem, et ipsam peram in cespite pro mensa et super rude textum ponit et caetera. Interea dum prandium sumunt, dum aquam de amphora bibunt, duae propagines sive virgulta duo arverunt et ceciderunt, set tertia multo altius et latius accrescebat. Unde hospitibus maior excrevit admiratio cum timore. Přemysl li invitò a mangiare con lui, quali suoi graditi ospiti, trasse da una bisaccia di corteccia del pane ammuffito e un pezzo di formaggio, e usando una zolla come fosse una mensa, vi depose il cestino e sopra vi stese un pezzo di rude stoffa e altre cose. E quindi, mentre tutti pranzavano e bevevano l'acqua dall'anfora, due dei ramoscelli si seccarono e caddero, ma il terzo crebbe ancora più alto e robusto. Perciò salivano negli ospiti ammirazione e timore.  
6h Et ille: Quid admiramini?» inquit. «Sciatis ex nostra progenie multos dominos nasci, set unum semper dominari. Atqui si domina vestra non adeo de hac re festinaret, set per modicum tempus currentia fata expectaret, ut pro me tam cito non mitteret: quot natos heriles natura proferret, tot dominos terra vestra haberet. E Přemysl: «Di che vi meravigliate? Sappiate che dalla nostra gente sono nati molti capi, ma a governare è sempre stato uno soltanto. Se la vostra signora non avesse tanto premuto per questa cosa, ma avesse atteso ancora per breve tempo il compiersi dei fati, non vi avrebbe mandato a cercarmi tanto presto. Quanti padroni può generare la natura, tanti signori avrebbe avuto la vostra terra».  
       
Capitulum septimum Capitolo settimo  
7a Post haec indutus veste principali et calciatus calciamento regali, acrem ascendit equum arator; tamen suae sortis non inmemor, tollit secum suos coturnos ex omni parte subere consutos, quos fecit servari in posterum, et servantur Wissegrad in camera ducis usque hodie et in sempiternum. Dopo aver indossato la veste principesca e infilato le calzature regali, l’aratore montò sul focoso cavallo. Tuttavia, non immemore della sua sorte, tenne con sé i suoi zoccoli cuciti nella corteccia, che fece conservare per il futuro. Ancora oggi sono custoditi nella camera ducale del Višehrad, e così sarà per sempre.
7b Factum est autem, dum per compendia viarum irent, nec tamen adhuc illi nuncii ceu ad novitium dominum familiarius loqui auderent, set sicut columbae, si quando aliqua peregrina ad eas accedit, inprimis eam pavescunt, et mox in ipso volatu eam assuefaciunt et eam quasi propriam faciunt et diligunt; sic illi cum fabularentur equitantes et sermocinationibus iter adbreviarent, ac iocando per scurilia verba laborem fallerent, unus, qui erat audacior et lingua promptior: «O domine, dic, inquit, nobis, ad quid hos coturnos subere consutos et ad nichilum nisi ut proiiciantur aptos nos servare fecisti, non satis possumus admirari». Mentre proseguivano per le vie più brevi, i messaggeri non osavano ancora parlare con confidenza al nuovo signore. Ma come colombe che, all'avvicinarsi di un altro piccione, in primo luogo si spaventano, ma subito dopo familiarizzano con lui e volano insieme, sicché esso diviene uno di loro; così questi, nel cavalcare, si narravano cose e, discorrendo, abbreviavano il viaggio, ingannando la fatica con facezie e racconti buffi. E uno di essi, che era più audace e risoluto di lingua, chiese: «Signore, siamo assai meravigliati che tu ci abbia chiesto di conservare questi zoccoli di corteccia, che non servono a niente».  
7c Quibus ille: «Ad hoc» inquit «eos feci et faciam in aevum servari, ut nostri posteri sciant, unde sint orti, et ut semper vivant pavidi et suspecti, nec homines a Deo sibi commissos iniuste opprimant per superbiam, quia facti sumus omnes aequales per naturam. Nunc autem et mihi liceat vos vicissim percontari utrum magis laudabile est, de paupertate ad dignitatem provehi, an de dignitate in paupertatem redigi? Nimirum respondebitis mihi, melius esse provehi ad gloriam, quam redigi ad inopiam. Atqui sunt nonnulli parentela geniti ex nobili, set post ad turpem inopiam redacti et miseri facti; cum suos parentes gloriosos fuisse et potentes aliis praedicant, haud ignorant, quod semetipsos inde plus confundunt et deturpant, cum ipsi per suam hoc amiserunt ignaviam, quod illi habuerunt per industriam. E Přemysl disse a loro: «La ragione per cui l'ho fatto e per cui li farò conservare in futuro, è perché i nostri posteri sappiano dove sono nati, e perché, vivendo sempre timorati e sospettosi, non s'insuperbiscano e non opprimano ingiustamente gli uomini a loro affidati da Dio: noi tutti siamo uguali per natura. Ora, se mi è permesso rivolgervi a mia volta una domanda: forse è più lodevole avanzare dalla povertà al prestigio, oppure cadere dal prestigio alla povertà? Certamente mi risponderete, è meglio inoltrarsi nella gloria che ridursi in miseria. Eppure alcuni, nati da nobili genitori, si sono poi ridotti in povertà e sono divenuti ignobili e miseri; e se raccontano agli altri quanto i loro parenti fossero gloriosi e potenti, non si accorgono di sfigurare e disonorare sé stessi per primi, perché sembra abbiano perso per propria incapacità ciò che i loro antenati avevano conquistato per operosità.  
7d Nam fortuna semper hanc ludit aleam sua rota, ut nunc hos erigat ad summa, nunc illos mergat in infima. Unde fit, ut dignitas terrena, quae erat aliquando ad gloriam, amissa sit ad ignominiam. At vero paupertas per virtutem victa, non se celat sub pelle lupina, set victorem suum tollit ad sydera, quem olim secum traxerat ad infera. «Infatti la ruota della fortuna gioca sempre d'azzardo, e se costoro li innalza fino alla cima, altri li precipita giù. La dignità terrena, che una volta tendeva alla gloria, viene ora abbandonata all'infamia. In verità, vinta dalla virtù, la povertà non si cela sotto una pelle di lupo, ma innalza il suo vincitore fino alle stelle, quello stesso che una volta trascinava seco agli inferi».  
       
Capitulum octavum Capitolo ottavo  
8a Postea vero quam iter emensi fuerant, et iam iamque prope ad urbem venerant, obviam eis domina stipata suis satellitibus accelerat, et inter se consertis dextris cum magna laetitia tecta subeunt, thoris discumbunt, Cerere et Bacho corpora reficiunt, cetera noctis spatia Veneri et Himenaeo indulgent. In verità, una volta compiuto il tragitto, e giunti ormai in vista della città, la signora si affrettò incontro a loro, attorniata dal suo séguito e, le mani destre unite, i due sposi entrarono lieti sotto lo stesso tetto, si misero a tavola e ristorarono le membra con Cerere e Bacco. Il resto della notte indulsero con Venere e Imeneo.  
8b Hic vir, qui vere ex virtutis merito dicendus est vir, hanc efferam gentem legibus frenavit, et indomitum populum imperio domuit, et servituti qua nunc premitur subiugavit, atque omnia iura quibus haec terra utitur et regitur, solus cum sola Lubossa dictavit. Přemysl, che giustamente possiamo chiamare uomo per le sue virtù, guidò questa gente barbara con le leggi, asservì questo popolo indomito con la sua autorità e lo sottomise a un'obbedienza che dura ancora oggi. Tutte le leggi con le quali questa terra è retta e governata, le dettò lui solo con la sola Libuše.
       
Capitulum nonum Capitolo nono  
9a Inter haec primordia legum quadam die praedicta domina, phitone concitata, praesente viro suo Premizl et aliis senioribus populi astantibus, sic est vaticinata: Un giorno, agli inizi del loro governo, la signora Libuše, invasa dallo spirito profetico, vaticinò in presenza di suo marito Přemysl e degli anziani del popolo, e disse così:  
9b Urbem conspicio fama quae sydera ianget,
Est locus in silva, villa qui distat ab ista
Terdenis stadiis, quem Wlitava terminat undis.
«Vedo una città che per fama raggiunge le stelle.
È un luogo nel bosco, che dista da questa dimora
tre volte dieci stadi, chiuso dalle onde della Vltava.
 
9c Hunc ex parte aquilonali valde munit valle profunda rivulus Brusnica; at australi ex latere latus mons nimis petrosus, qui a petris dicitur Petrin, supereminet loca. Loci autem mons curvatur in modum delphini marini porci, tendens usque in praedictum amnem. Ad quem cum perveneritis, invenietis hominem in media silva limen domus operantem. Et quia ad humile limen etiam magni domini se inclinant, ex eventu rei urbem quam aedificabitis, vocabitis Pragam. «Dalla parte nord, la difende la profonda valle scavata dal ruscello Brusnice; sul lato meridionale la sovrasta un monte pietroso, detto appunto Petřín. Questo rilievo si prolunga piegandosi come la schiena del delfino, o porco marino, e giunge fino al Brusnice. Quando vi arriverete, vi imbatterete in un uomo che, in mezzo al bosco, sta intagliando la soglia della sua casa. E poiché sulla soglia di un'umile dimora, anche i potenti chinano il capo, da questo presagio, la città che fonderete, la chiamerete Praga.
9d Hac in urbe olim in futurum binae aureae ascendent olivae, quae cacumine suo usque ad septimum penetrabunt coelum, et per totum mundum signis et miraculis coruscabunt. Has in hostiis et muneribus colent et adorabunt omnes tribus terrae Boemiae nationes reliquae. Una ex his vocabitur Maior Gloria, altera Exercitus Consolatio. Plura locutura erat, si non fugisset spiritus pestilens et prophetans a plasmate Dei. «In un lontano futuro, in questa città cresceranno due olivi dorati, le cui cime penetreranno fino al settimo cielo e tutta la Terra rimarrà scossa da tali segni. Le tribù della terra Boema li coltiveranno, in ricompensa per le vittorie contro i loro nemici, e li adoreranno. Uno di loro verrà chiamato Maior Gloria, l'altro Exercitus Consolatio». E avrebbe detto altre cose, se a quel punto non si fosse allontanato da lei quel maligno spirito che profetizzava contro i comandi di Dio.
9e Continuo itur in antiquam silvam, et reperto dato signo in praedicto loco urbem, totius Boemiae dominam, aedificant Pragam. Subito dopo, si recarono nell'antica foresta e, trovato il segno nel luogo predetto, fondarono la città di Praga, signora di tutta la Boemia.  
9f Et quia ea tempestate virgines huius terrae sine iugo pubescentes, veluti Amazones militaria arma affectantes et sibi ductrices facientes, pari modo uti tirones militabant, venationibus per silvas viriliter insistebant, non eas viri, set ipsaemet sibi viros, quos et quando volverunt, accipiebant; et sicut gens Scitica Plauci sive Picenatici, vir et femina in habitu nullum discrimen habebant. Unde in tantum feminea excrevit audacia, ut in quadam rupe, non longe a praedicta urbe, oppidum natura loci firmum sibi construerent, cui a virginali vocabulo inditum est nomen Divin. Allora, le fanciulle boeme crescevano senza alcuna educazione, come Amazzoni; ambivano impugnare le armi dei guerrieri ed eleggevano i loro capitani. Si battevano come soldati e al pari degli uomini andavano a caccia nelle foreste. Non erano i maschi a sceglierle come spose, ma erano loro stesse, quando lo volevano, a scegliersi i mariti. Proprio come avviene tra certe genti scitiche, come i Plauci o Pečeneghi, esse non facevano differenza tra abiti maschili e femminili. Tanta era l'audacia di queste donne, le quali eressero una fortezza su una rupe non lontana da Praga. Dalle fanciulle, essa era stata chiamata Děvín.
9g Quod videntes iuvenes, contra eas nimio zelo indignantes, multo plures insimul conglobati non longius quam unius buccinae in altera rupe inter arbusta aedificant urbem, quam moderni nuncupant Wissegrad, tunc autem ab arbustis traxerat nomen Hrasten. Indignati da tali fatti, i giovani, spinti da un eccessivo spirito d'emulazione, si raccolsero in gran numero su una rupe non lontana, tanto che dall'una all'altra si poteva udire il richiamo del corno, e qui, in una zona boscosa, eressero un'altra fortezza. Oggi è chiamata Višehrad, ma che allora aveva preso nome Hrasten, per gli alberi che la circondavano.
9h Et quia saepe virgines solertiores ad decipiendos iuvenes fiebant, saepe autem iuvenes virginibus fortiores existebant, modo bellum, modo pax inter eos agebatur. Et dum interposita pace potiuntur, placuit utrisque partibus ut componerent cibis et potibus simbolum, et per tres dies sine armis sollempnem insimul agerent ludum in constituto loco. Quid plura? Non aliter iuvenes cum puellis ineunt convivia, ac si lupi rapaces quaerentes edulia, ut intrarent ovilia. Primum diem epulis et nimiis potibus hylarem ducunt. E perché le fanciulle erano più abili a ingannare i ragazzi, mentre i ragazzi superavano in forza le fanciulle, tra di loro ora si faceva la guerra, ora la pace. Durante uno di questi intervalli di pace, piacque a entrambe le parti di celebrare la riconciliazione con cibi e bevande, e per tre giorni, deposte le armi, si divertirono con giochi solenni nel luogo stabilito. Che cosa di più? I ragazzi si unirono al banchetto con le fanciulle, come lupi feroci che entrano in un ovile alla ricerca di cibo. Lieti, trascorsero il primo giorno mangiando e bevendo senza freni.  
  Dumque volunt sedare sitim, sitis altera crevit,
Laetitiamque suam iuvenes vix noctis ad horam differunt:
Nox erat et coelo fulgebat luna sereno;
Inflans tunc lituum, dedit unus eis ita signum, dicens: Lusistis satis, edistis satis atque bibistis;
Surgite, vos rauco clamat Venus aurea sistro.
E mentre vogliono dissetarsi, la sete cresce,
l'allegria dei giovani si trascina fino a tarda ora:
era notte, e nel cielo sereno rifulgeva la luna.
Allora, soffiando nel lituo, uno diede il segnale dicendo:
«Avete giocato abbastanza, mangiato e bevuto.
Alzatevi: l’aurea Venere vi chiama con il rauco sistro».
 
9i Moxque singuli singulas rapuere puellas. Mane autem facto, iam pacis inito pacto, sublatis Cerere et Bacho ex earum oppido, muros Lemniaco vacuos indulgent Vulcano. Et ex illa tempestate, post obitum principis Lubossae, sunt mulieres nostrates virorum sub potestate. E subito, ogni ragazzo afferrò una fanciulla. E quando sorse il mattino, già stretto il patto di pace, ormai placati Cerere e Bacco, la fortezza cedette al dio di Lemno, Vulcano. Da allora, fin dopo la morte di Libuše, le nostre donne sono sempre rimaste sotto la potestà degli uomini.  
9j Sed quoniam omnibus ire quidem restat, Numa quo devenit et Ancus, Premizl iam plenus dierum, postquam iura instituit legum, quem coluit vivus ut deum, raptus est ad Cereris generum. Ma poiché andarsene è destino di tutti, e Numa morì e così Anco, anche per Přemysl si conclusero i giorni. Il fondatore del diritto e delle leggi, che in vita era stato venerato come un dio, fu rapito dal genero di Cerere.  
9k Cui Nezamizl successit in regnum. Hunc ubi mors rapuit, Mnata principales obtinuit fasces. Quo decedente ab hac vita, Vogen suscepit rerum gubernacula. Huius post fatum Vnezlau rexit ducatum. Cuius vitam dum rumpunt Parcae, Crezomisl locatur sedis in arce. Hoc sublato e medio, Neclan ducatus potitur solio. Hic ubi vita decessit, Gostivit throno successit. Gli succedette nel regno Nezamysl. Quando la morte lo rapì, Mnata ottenne gli onori principeschi. Quando la vita lasciò questi, prese il timone Vojen. Conclusosi il suo destino, Vnislav resse il ducato. E quando le Parche ne spezzarono la vita, Křesomysl fu posto nella fortezza. Tolto costui di mezzo, Neklan s'impadronì del soglio ducale. Quando anche questi si separò dalla vita, gli successe Hostivit.  
9l Horum igitur principum de vita aeque et morte siletur, tum quia ventri et somno dediti, inculti et indocti assimilati sunt peccori, quibus profecto contra naturam corpus voluptati, anima fuit oneri; tum quia non erat illo in tempore, qui stilo acta eorum commendaret memoriae. Set sileamus de quibus siletur, et redeamus unde paulo deviavimus. Non si sa nulla sulla vita e sulla morte di questi principi: dediti al ventre e al sonno, incolti e ignoranti come pecore, per le quali, senza alcun dubbio, il corpo fu soggetto al piacere contro natura, l'anima agli impegni. Non c'era infatti a quel tempo chi consegnasse alla penna la memoria delle loro gesta. Quindi tacciamo su quelli di cui non si può dir nulla, e torniamo al punto in cui abbiamo un poco cambiato discorso.  
       
Capitulum decimum Capitolo decimo  
10a Gostivit autem genuit Borwoy, qui primus dux baptizatus est a venerabili Metudio episcopo in Moravia, sub temporibus Arnolfi imperatoris, et Zvatopluk eiusdem Moraviae regis. Hostivít generò Bořivoj, il quale fu il primo duca a venire battezzato dal venerabile Metodio, vescovo di Moravia, al tempo dell'imperatore Arnolfo, quando Svatopluk era re di Moravia.  
  [...] [...]  
       

NOTE

1a ― L'avvio è naturalmente affidato al dato biblico. La tradizione del numero di lingue, settentadue, in cui si divise l'umanità dopo l'episodio della torre di Babele, era ben conosciuta nel mondo medievale. Così, la diminuzione di statura degli esseri umani è senz'altro connaturata alla concezione secondo la quale gli eroi dell'antichità erano dei veri e propri giganti se paragonati agli uomini attuali. L'idea, presente anche nella Bibbia (Genesi [VI: 4]), è citata tra gli altri in Virgilio.

1b ― Il fiume Tanais [Thanaytenus] altri non è che il Don. La parola Germania, com'è dunque intesa da Cosmas, sembra indicare tutta l'Europa di nord-est, dalla Scandinavia all'Ucraina.

Mappamondo a «O-T».
British Library. Ms. C-5933-06; Royal 12 F 4° - f.135v.

Da un manoscritto delle Etimogie di Isidoro di Siviglia custodito nella British Library, un bellissimo mappamondo medievale, con l'orbe terrestre suddiviso in Asia, Africa ed Europa. I bracci della T rappresentano in senso orario: il Nilo, il Mediterraneo e il Mar Nero. Gerusalemme viene posta al centro del disco.

2a ― In questa rapida descrizione, l'orbe terrestre viene tripartito secondo la struttura dei mappamondi medievali O-T. L'Asia, come si vede, occupa metà del disco terrestre, mentre l'altra metà viene divisa equamente tra Europa e Africa.

2c ― Con Penates, Cosmas intende probabilmente i dedki, sorta di piccoli idoli, rappresentanti gli antenati, che si presumeva gli Slavi portassero con sé nelle loro migrazioni (si vedano anche gli dziady polacchi celebrati da Adam Mickiewicz). La scena qui descritta è tuttavia debitrice, più che del folklore slavo, di quello classico. Si veda al riguardo la scena virgiliana in cui Enea fugge da Troia portando con sé i Penati: quem secum patrios aiunt portare penates (Eneide [IV: 598]). Vltava è il nome ceco del fiume Moldava.

2ePater Boemus è ovviamente l'eroe eponimo della Boemia. Questo personaggio, in altre tradizioni, è chiamato Praotec Čech «padre Čech», da cui appunto il nome della Cechia [Česko]. Cosmas crea una traduzione latina del nome di Praotec Čech «padre Čech», dove lo slavo Čech è latinizzato in Boemus. Il toponimo Boemia deriva in realtà dal nome che i Germani diedero al territorio anticamente occupato dai galli Boi, i quali furono effettivamente i primi abitanti del territorio. Il toponimo fu in seguito latinizzato in Boiohaemum.

2fSurgens ac utrasque palmas tendens ad sidera, «sollevando i palmi delle mani verso le stelle». Cfr. Virgilio: Duplices tendens ad sidera palmas (Eneide [I: 93]).

3cAmor habendi saevior ignibus Aethnae in omnibus ardet, «la cupidigia comincia ad ardere più violenta dei fuochi dell'Etna». Cfr. Boezio: Sed saevior ignibus Aetnae fervens amor ardet habendi (Sulla consolazione della filosofia [II: v: 25]).

3d ― Il nome di Krok viene fornito dalla maggior parte dei manoscritti nella lezione Crocco; è tuttavia Crecko in [A3a | A3b] e Croh in [Bk]. ― Il luogo indicato, nei vari manoscritti, Ztibene [A1a], Stibene [A1b], Stibrene [A2a], Stybeczne [A2b], Ztbecne [A3a], Zthecne (cacografia) [A3b], Zcibene [A4a], Ztibecne [Bk | Bh], Ztibenc (Stebno) [C1a | C1b | C2a | C3], Stebne [C2b], corrisponde al villaggio di Ztibečné, oggi Zbečno: un piccolo centro di 400 abitanti lungo il fiume Berounka (il Mže della cronaca), nel kraj Středočeský. Non vi sono però segni di fortificazioni nei boschi intorno a Zbečno, nonostante Cosmas parli di resti ancora visibili ai suoi tempi. Si tratta forse dei resti di qualche costruzione germanica o celtica in seguito del tutto scomparsa? In realtà è probabile che Cosma faccia confusione con il mito della fondazione di Cracovia (Kraków), la cui fondazione il mito polacco assegna a Krak.

4a ― Il nome di Kazi non presenta, nei manoscritti, lezioni alternative. ― Peone era, nella mitologia greca, l'archiatra divino, medico degli dèi. In epoca posteriore era stato identificato con Asclepio/Esculapio. Cosmas mostra qui la sua conoscenza delle fonti latine, nelle quali Peone viene rappresentato come esperto nelle erbe. Cfr. Ovidio (Metamorfosi [XV: 535]); e Virgilio (Eneide [VII: 769]).― La «tiranna», «figlia di Cerere», è ovviamente Persefone, sposa di Ade e dea degli inferi.

4b ― Il nome di Tetka è presente in molte lezioni: Tethka e Thetka [A1b | A2b], Tetcka [A2a], Tetnka [A3a | A3b], Thechka [A4b], Tetha [Bk | Bh], Tetka [C1a | C1b | C2b]. È anche attestata la cacografia Lethka [A1a]. ― Abbiamo, per il nome della fortezza da lei edificata, Tetín, le forme: Thethin [A1b], Tethin [A2a | A4a | Bk | Bh | C1a], Thetin [A1b | A3a | A3b | C1b | C2a | C3], Thetyn [A2b | C2b], Thechin [A4b]. È analogamente attestata la cacografia Lechin [A1a]. ― «Le oreadi, le driadi e le amadriadi»: interprætatio classica con la quale Cosmas c'informa che gli antichi slavi adoravano le ninfe delle montagne e degli alberi. La notizia è probabilmente tratta da una notizia di Procopio di Cesarea, secondo cui gli Slavi veneravano «fiumi e ninfe e altri dèi» (De Bello Gothico [III: 14]). Della credenza degli antichi Slavi nelle creature soprannaturali della natura, fa fede il folklore di molti popoli dell'Europa orientale. I russi ad esempio conoscevano le beregyni, spiriti femminili delle montagne, le rusalki, ninfe dei ruscelli e dei laghetti, i lešij, sorta di satiri che vivevano nel profondo dei boschi; il folklore boemo ricorda invece le lesní panny, sorta di spiriti femminili la cui vita è legata ai singoli alberi. In una tradizione posteriore, Krok era legato sentimentalmente a una di queste creature, la quale sarebbe stata appunto madre di Kazi, Tetka e Libuše.

4c ― Il nome di Libuše è presente per lo più nella lezione Lubossa; troviamo anche Lybussa [A2b], Libussie [C1a], Libusse [C1b]. ― Analogamente, la fortezza da lei fondata, Libušín, presenta per lo più la lezione Lubossin; tra le varianti, Lubossam [A], Lubosin [A1a], Lybussyn [A2b], Libossin [C1a], Libussin [C1b]. Essa non è probabilmente da identificare con la cittadina di Libušín, nella Boemia centrale, la quale fu fondata dal duca Břetislav I intorno al 1050. ― Nemo ex omni parte beatus, «nessuno è perfetto in ogni cosa». Cfr. Orazio: nihil est ab omni parte beatum (Carmina [II: xvi, 27]).

4eTerque quaterque caput concussit, «scosse il capo tre o quattro volte». Cfr. Ovidio: Terque quaterque concutiens illustre caput (Metamorfosi [II: 49]).

4fVos non in virga ferrea iudico, «non vi giudico con una verga di ferro». Cfr. la citazione biblica: Reges eos in virga ferrea (Vulgata: Salmi [II: 9]). ― Libuše si riferisce qui alla favola di Fedro, Il nibbio e le colombe [Milvus et columbae].

Qui se committit homini tutandum improbo,
Auxilia dum requirit, exitium invenit.
Columbae saepe cum fugissent milvum
et celeritate pennae vitassent necem,
consilium raptor vertit ad fallaciam
et genus inerme tali decepit dolo:
«Quare sollicitum potius aevum ducitis,
quam regem me creatis icto foedere,
qui vos ab omni tutas praestem iniuria?»
Illae credentes tradunt sese milvo;
qui regnum adeptus coepit vesci singulas
et exercere imperium saevis unguibus.
Tunc de reliquis una: «Merito plectimur».

Chi si affida alla protezione di un malvagio, mentre va in cerca di aiuto, trova la sua rovina. Le colombe erano riuscite a sfuggire spesso al nibbio e grazie alla velocità delle ali avevano evitato la morte; il rapace allora si decise per l'inganno e abbindolò quella razza inerme con un tranello simile: «Perché preferite trascorrere la vita sempre in ansia e non stipulate piuttosto un patto con me facendomi vostro re? Io vi garantirei la protezione da ogni danno». Quelle si consegnano al nibbio, prestandogli fede; e il nibbio, preso possesso del regno, comincia a mangiarsele a una a una e a esercitare il potere con artigli crudeli. Allora una delle sopravvissute: «Ben ci sta se siamo punite».

Fedro: Favole [I: xxxi]

― Con il latino dux «duca», Cosmas traduce il titolo tradizionale dei primi sovrani boemi, in ceco kníže (femminile kněžna). È un titolo regale comune nei paesi slavi, traducibile tanto con «duca» quanto con «principe» (cfr. russo knjaz', il «gran principe» di Kiev). Esso caratterizza i regnanti di Boemia fino a Přemysl Otakar (1155-1230), il quale nel 1198 fu eletto král «re», col nome di Otakar I. Il titolo regale venne ereditato da tutti i sovrani successivi.

4g ― Eumenidi [Euménides], le «Benevole», è un epiteto eufemistico delle Erinni, le Furie vendicatrici del mito greco. È interessante che Cosmas identifica Libuše e le sue sorelle con le tre implacabile dee della vendetta.

4hPhitonicus furor: si tratta ovviamente di un «furore profetico», nel senso che Libuše è stata invasa da uno spirito profetico che parla per sua bocca. Il termine furor è, in qualche modo, la resa latina della radice protogermanica *wōđ-, che nei suoi esiti designa l'ebbrezza, l'eccitazione, il furore, il genio poetico (gotico Wōds «posseduto», anglosassone wōð «canto», norreno óðr «ebbrezza poetica», tedesco Wut «furore»). La radice è presente nel nome del dio-poeta della mitologia germanica, Wotan/Óðinn, il cui carattere era stato appunto sintetizzato da Adamo di Brema con la frase «Wodan, id est furor» (Gesta Hammaburgensis ecclesiae pontificum [IV: 26-27]). Dalla radice indoeuropea *WĀT- sono anche derivati il latino vates «poeta ispirato» e il protoceltico *watus «poesia profetica» (continuato nell'irlandese fáith «poeta» e nel gallese gwawd «poesia, preghiera»). Questa serie di significati può dare un'idea del senso che Cosmas intende dare all'espressione phitonicus furor. ― Versus Virgilii ex persona Sibyllae de adventu Domini compositos introducit, «quegli stessi versi sull'avvento del Signore che Virgilio aveva desunto dalla Sibilla». Il riferimento è sul noto passo nella quarta ecloga delle Bucoliche, nella quale Virgilio riferisce una profezia della Sibilla Cumana sulla prossima nascita di un puer destinato a riportare la terra all'età dell'oro:

Ultima Cymaei venit iam carminis aetas,
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo;
iam redit et Virgo, redeunt Saturna regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo.
L'ultimo tempo intanto si compie, predetto da Cuma:
rinasce un grande corso di secoli;
e già ritorna la Vergine, il regno ritorna di Saturno,
e nuova stirpe discende dal profondo cielo.
Tu, pura Lucina, sostieni il fanciullo nascente,
per cui non ci sarà più la gente dell'età ferrigna,
e una razza aurea verrà al mondo: già regna il tuo Apollo.
Virgilio: Bucoliche [IV: 5-10]

Questi importanti versi sarebbero stati in seguito interpretati come una profezie dell'avvento di Cristo tanto che, nel Medioevo, Virgilio si fece la fama di mago e profeta. Cosmas da Praga, d'altra parte, mostra al riguardo un sano scetticismo, con quel suo inciso si fas est credere «se possiamo crederci». ― Le due frasi: Medea herbis et carmine saepe e coelo Hyperionem et Berecinthiam deducere, «con erbe e con canti, Medea poteva trascinare dal cielo Iperione e Berecinzia» (cioè il sole e la luna), e Carmine Circes socii Ulixis conversi sunt in diversas ferarum formas «con i suoi incantesimi, Circe trasformò in animali i compagni di Ulisse», dipendono da un distico tratto sempre dalle Bucoliche:

Carmina vel caelo possunt deducere lunam;
carminibus Circe socios mutavit Ulixi.
Le malie possono anche far cadere dal cielo la luna;
Circe, con le malie, mutò i compagni di Ulisse.
Virgilio: Bucoliche [VIII: 69-70]

― La leggenda di Esone, re di Tessaglia e padre di Giasone, ringiovanito da Medea, è narrata da Ovidio (Metamorfosi [VII: 162-293]). Si noti che Cosmas, per qualche motivo, ne compita il nome nella forma Egacum o Eiacum. Soltanto il ms. [A4b] corregge la lezione inserendo regem Esonem patrem Iasonis. ― Di Pico, antichissimo re del Lazio trasformato in picchio da Circe, trattano sia Ovidio (Metamorfosi [XIV: 320-440]) che Virgilio (Eneide [VII, 189-191]).

5aEt quam nemo bonus nisi cum vita amittit [...] libertatem, «quella libertà che nessun uomo perderebbe se non insieme alla vita». Cfr. Sallustio: libertatem, quam nemo bonus nisi cum anima simul amittit (La congiura di Catilina [33: 4]). ― Libuše cita anche qui una fiaba di Fedro, Le rane chiesero un re [Ranae regem petierunt]. L'istruttivo apologo viene narrato da Esopo agli Ateniesi i quali, dopo gli eccessi di una troppo libera democrazia, piangono la dura repressione effettuata dal tiranno Pisistrato:

Ranae vagantes liberis paludibus
clamore magno regem petiere ab Iove,
qui dissolutos mores vi compesceret.
Pater deorum risit atque illis dedit
parvum tigillum, missum quod subito vadi
motu sonoque terruit pavidum genus.
Hoc mersum limo cum iaceret diutius,
forte una tacite profert e stagno caput
et explorato rege cunctas evocat.
Illae timore posito certatim annatant
lignumque supera turba petulans insilit.
Quod cum inquinassent omni contumelia,
alium rogantes regem misere ad Iovem,
inutilis quoniam esset qui fuerat datus.
Tum misit illis hydrum, qui dente aspero
corripere coepit singulas. Frustra necem
fugitant inertes, vocem praecludit metus.
furtim igitur dant Mercurio mandata ad Iovem,
afflictis ut succurrat. Tunc contra deus:
«Quia noluistis vestrum ferre» inquit «bonum,
malum perferte».

Le rane, abituate a girare liberamente nei loro stagni, con gran chiasso domandarono a Giove un re che con la forza reprimesse la maniera sregolata di vivere. Il padre degli dèi rise e diede loro un piccolo travicello che, appena gettato, atterrì con il suo tonfo e con il movimento improvviso dell'acqua la pavida genia. Le rane rimasero immerse nel pantano per un bel po' di tempo; quand'ecco che una, senza fare rumore, tira su la testa dallo stagno e dopo avere esaminato il re, chiama fuori tutte le altre. Quelle, lasciato ogni timore, a gara si precipitano nuotando e in massa, sfacciatamente, saltano sopra il pezzo di legno. Dopo averlo insozzato con ogni tipo di oltraggio, inviarono un'ambasceria a Giove per avere un altro re, perché quello che era stato dato era una nullità. Allora Giove mandò loro un serpente che con i suoi denti aguzzi cominciò ad afferrarle a una a una. Incapaci di difendersi, le rane cercano invano di sfuggire alla morte; la paura toglie loro la voce. Infine, di nascosto, affidano a Mercurio l'incarico di pregare Giove che le soccorra nella calamità. Ma il dio risponde: «Poiché non avete voluto sopportare il vostro bene, rassegnatevi a sopportare questo male».

Fedro: Favole [I: ii]

La discutibile morale, riferita da Esopo in epilogo alla fiaba e che, nel testo di Cosmas, Libuše sembra far sua, è che conviene tollerare un cattivo governo perché potrebbe venirne uno peggiore.

5bEt muta sicco palato adhaerebit lingua, «la lingua si ammutolirà e si attaccherà al palato riarso». Cfr. Et linguam tuam adhaerere faciam palato tuo (Vulgata: Ezechiele [III: 26]).

Přemysl l'Aratore [Přemysl Oráč],
Monumento di Josef Max (1841)

Situato presso il cosiddetto Campo Reale [Královské pole] presso il paese di Stadice (provincia di Ústí nad Labem, Repubblica Ceca). Fotografia di Ondřej Žváček.

5c ― Il nome di questo villaggio è presente nei manoscritti in diverse lezioni: Ztadici o Ztadiczi [A1a | A4a | A4b], Stadici [A2a | C2a | C2b], Stadycie [A2b], Stadice [C1b], Ztadice [C3]. È l'attuale paese di Stadice, presso Řehlovice, nella Cechia settentrionale. Il luogo è tutt'ora legato alla leggenda di Přemysl, come testimonia il monumento che vi è stato eretto in memoria del duca aratore.

5d ― Il nome del primo duca di Boemia è fornito, nei vari manoscritti, in un certo numero di lezioni, di cui le più diffuse sono Primizl e Premizl. Abbiamo inoltre Przyemisl [A2b], Przemysl [C1a | C2a], Prziemysl [C1b], Primysl o Przimysl [C2b], Přěmmízl [C3]. Cosmas fa derivare il nome Přemysl dal ceco přemýšlet «riflettere, meditare», e lo interpreta attraverso i participi latini praemeditans o excogitans. ― In omni terra in aeternum regnabit et ultra, «regnerà su questa terra in eterno e oltre». Cfr. Dominus regnabit in aeternum et ultra (Vulgata: Esodo [XV: 18]).

6aVana volat fama, «subito si sparse una voce». Cfr. Virgilio: fama volat (Eneide [III: 121]). ― Quod Iudaeus credat Apella, «lo creda pure il giudeo Apella». Cfr. Orazio: Credat Iudaeus Apella, non ego (Satire [I: v: 100]). Chi sia stato, questo ebreo credulone, non lo sappiamo.

7a ― Il Vyšehrad «alto bastione» è, almeno stando ai dati della leggenda, la più antica fortezza di Praga, posta su una sprone sulla sponda sinistra della Moldava, a sud della città. I dati archeologici, tuttavia, fanno risalire la costruzione della primitiva fortezza solo al X secolo. Insieme al Pražský Hrad, il «castello di Praga» (posto invece sulla sponda destra, a nord-ovest della capitale boema), il Vyšehrad costituisce una delle due sedi tradizionali dei sovrani cechi. La fortezza godette di una certa rinomanza durante la seconda metà dell'XI secolo, quando il duca Vratislav II vi stabilì la sua sede principale e il complesso venne ristrutturato in modo da comprendere, oltre al palazzo ducale, una chiesa e la sede del capitolo di Praga. Solo in seguito, intorno al 1140, Sobeslav I riportò la sede ducale al Pražský Hrad. Oggi, il sito del Vyšehrad è dominato dalle due guglie della Basilica di San Pietro e San Paolo; nell'annesso cimitero, sono sepolti alcuni famosi personaggi quali Antonín Dvořák, Bedřich Smetana, Karel Čapek. Il nome del Vyšehrad è riportato nei manoscritti in diverse lezioni: Wissegrad e Wisegrad [A1a | A1b | A3a | A3b], Wissegrar [A2a], Wyssegrad [A2b | C2b].

8b ― La paraetimologia secondo la quale la parola vir «uomo» deriverebbe da virtus «virtù», è già attestata in Isidoro di Siviglia: vir a virtute (Etimologie [XI: 274]).

9c ― Il toponimo Praha, «Praga», viene infatti fatto derivare, per paraetimologia, dal ceco prah «soglia».

9d ― Anche qui, Cosmas gioca con le sue paraetimologie. Maior Gloria è infatti la traduzione latina del ceco větší sláva, espressione che richiama il nome di Václav «Venceslao». Venceslao I (907-935) fu il duca che introdusse ufficialmente il cristianesimo in Boemia; passato in seguito agli onori degli altari come San Venceslao è, insieme a Santa Ludmilla, il patrono della Boemia. ― Exercitus Consolatio richiama invece il ceco voje útěcha, e qui il riferimento è al nome Vojtěch «Adalberto». Sant'Adalberto (956-997) fu arcivescovo di Praga. Provvide ad evangelizzare le genti boeme e dei regni circostanti, ancora pagane. Amministrò il battesimo a re Géza d'Ungheria e a suo figlio István I (in seguito canonizzato a sua volta come Santo Stefano d'Ungheria). Adalberto venne martirizzato durante una missione evangelizzatrice presso i Prussiani del Baltico. La chiesa cattolica lo considera patrono di Boemia, Ungheria, Polonia e Prussia.

9f ― Il nome della fortezza di Děvín è infatti correlato alla parola ceca děva «fanciulla».

9g ― Cosmas fa derivare il toponimo Hrasten dal ceco chvrasten «pieno di alberi».

Bibliografia

  • ALBERTI Arnaldo: Gli Slavi. Mondadori, Milano 1996.

  • CONTE Francis: Gli Slavi. Le civiltà dell'Europa centrale e orientale. Einaudi, Torino 1986.

  • MANN Stuart Edward, Czech Historical Grammar. Helmut Buske, Amburgo 1977.

  • PRAMPOLINI Giacomo, Letteratura ceca e slovacca. In: «Storia universale della letteratura», vol. 7. UTET, Torino 1953.

  • VÁŇA Zdeněk, Svět slovanských bohů a demonů. Praha 1990.

  • WOLVERTON Lisa [cura]: COSMAS of Prague, The Chronicles of the Czechs. CUA Press, Washington 2009.

BIBLIOGRAFIA
Archivio: Biblioteca - Guglielmo da Baskerville
Area: Slava - Koščej Vessmertij
Traduzione di: Caterina Fastella.
Cura e note di:
Dario Giansanti.
Creazione pagina: 18.12.2010
Ultima modifica: 24.11.2015
 
POSTA
© BIFRÖST
Tutti i diritti riservati