Enea Silvio
Piccolomini (Pius II) |
DE
BOHEMORUM ORIGINE |
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- Contenuto
dell'opera
- Origine della gente boema
- Čech, primo kníže dei Boemi
- Krok, secondo kníže dei Boemi
- Libuše, figlia di Krok, che per molti anni governò la Boemia
- Přemysl, terzo kníže dei Boemi
- La fanciulla Vlasta
che per sette anni tenne con la forza, secondo il costume delle Amazzoni, il
regno di Boemia
- La fanciulla Šárka: in qual modo abbia
ingannato fraudolentemente il nobile Ctirad e consegnato a morte
- Nezamysl quarto, Mnatha quinto, Vojen sesto Vnislav settimo
kníže dei Boemi
- Křesomysl, detto Neklan, ottavo kníže
dei Boemi. L'aspra guerra che combatté contro lo zio paterno Vratislav
- L'infedeltà di Duryňk, che uccise il figlio di Vratislav e
fu degnamente punito
- Hostivít e Bořivoj, nono e decimo knížata dei Boemi. Bořivoj fu l'ultimo
kníže pagano. Finalmente, poi, accettando la
fede in Cristo, con sua moglie fu battezzato
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Proportio operis |
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a |
Bohemia in ſolo Barbarico trans Danuium ta, Germaniæ portio est: aquilonis
flatibus tota ferme expota. Cuius ad orientem uergens latur Moraui obtinent &
Sletarum natio: ſeptentrionem ijdem Sletæ de Saxones qui & Miſnenſes &
Thuringi appellantur. Ad occidentem aduocatorum terra est Boioari orum regio. Meridionalem plagam tum Baioarij, tũ australes habẽt, qui ripas Danubij utraſ accolunt: nec alia Bohemiæ, quam Theutonum terra coniũgitur. |
La Boemia, situata in territorio barbarico oltre il Danubio, è una parte della
Germania, quasi tutta esposta ai venti settentrionali. La regione orientale è
occupata dai Moravi e dagli Slesiti, mentre a settentrione vi sono gli
stessi Slesiti, e i Sassoni detti anche Míšni e Turingi. A occidente vi è la
zona di coloro che sono chiamati Bavari. Tale regione ha la parte sud abitata
sia dai Bavari, sia da altre popolazioni meridionali che vivono su entrambe le
sponde del Danubio, e non si unisce ad altro territorio boemo se non a quello
dei Teutoni.
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a |
Regionis longitudo latitudo pene parem formam rotundam ferunt: cuius diametrum
trium dierum itinere expeditio pateat. Sylua uniuerſam claudit, quam ueteres
Herciniam uocauere: cuius & græci ſcriptores & latini memimerunt. |
L'estensione in lunghezza e larghezza della regione presentano una pari forma
rotondeggiante, il cui diametro equivale a un cammino di tre giorni. La circonda
per intero una selva che gli antichi chiamavano Hercynia, citata anche dagli
scrittori greci e latini.
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a |
Flumina quæ terram irrigant uniuerſa in Albim exonerantur. Hic in montibus
exoriens, qui Bohemiam Morauiam disterminat, mediã ferme prouinciam perlabitur,
primo in occidentẽ, deide in septẽtrionem uerſus, ubi prouinciam relinquit, per
angustias montium & abrupta conualliũ præceps Saxoniã petit: quã duas in tes
dirimens in oceanum fertur, ibi a rheno flumine æquo terrarum atio distans. |
I fiumi del territorio si gettano tutti nell'Elba. Questo che, nascendo sui
monti, separa la Boemia e la Moravia, penetra per quasi tutta la provincia,
volgendo dapprima a occidente, quindi a settentrione, dove la lascia; quindi,
attraverso le gole dei monti e i pendii scoscesi delle valli, raggiunge la
Sassonia e, dividendola in due parti, confluisce nel mare, in un punto a uguale
distanza dal fiume Reno. |
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a |
Quod pleri Germaniæ terminũ, Sarmatiæ quondã dixere: ſed nostra ætate Oderã
fluuiũ qui Sleã interſecat, & ipſum Viſællam Pruthenorum amnem Germania
prætergrea Albim in alueo continet. Amnes alij quos Bohemi memorant, Orlioze
qđ aquilam gnat, Egra qui ex noĩe oppidi quod alluit uovitatur, ĩ terra
Aduocatorum exoriens apud Littomericiam Albi miſcetur, ſed cun荒os Multauia excedit,
qui metropolim regni Pragã influit: hic Saczanain et Luſmiaũ & Miſam & Albim
fecũ trahit. |
E questo territorio per lo più fu indicato con il termine di Germania e un tempo
di Sarmazia, ma attualmente [prende il nome] dal fiume Oder e dalla stessa
Vistola, fiume dei Prussiani che, lasciata la Germania, confluisce nell'alveo
dell'Elba. Gli altri fiumi che i Boemi ricordano sono l'Orlice, che vuol
dire «aquila»; l'Ohře, che prende nome dalla città che bagna; parimenti
scaturendo dal Vogtland [Královský Rychtář], si unisce all'Elba presso Litoměřice. Ma li
supera tutti la Vltava, che bagna Praha, la città principale del regno: questo
porta con sé la Sázava, il Lužnice, il Malše e l'Elba. |
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a |
Oppida toto regno mẽorabilia. Praga regi põtifici honesta ſedes ne mĩor ne ignobilior Etruſca Florentia, tris in tes diuiſa: quis nomina indidere, paruã
Pragam, ueterẽ, ac nouã. Parua nistrũ latus. Multa uiæ fluminis occupat: colli coniũgitur,
in quo ta est regia, ac ſan荒i Viti pontificale augustum templum.
Vetus Praga in plano iacet: uniuerſa magnificis operibus adornata. Inter quæ
prætoriũ & forũ & lætam curiam, & collegium imperatoris Caroli, mirificis
efferũt laudibus. Iũgitur autem minori Pragæ lapideo pontem, quatuor & uiginti
arcuum. Nouam ciuitatem, a ueteri foßa doungit profunda, utrim munita muro:
& in quam facile fluminis aqua deriuari potest. Hæc quo ciuitas ampla est, est
ad colles uſ protenditur, quorum alterum ſan荒i Caroli, alterum San荒æ Catherinæ
appellant: tertium Viegradum, in arcis modum exædificatum, ubi & collegium est,
cuius præpotium, & cancellarium regni & principem uocant. |
In tutto il regno sono degne di nota le città. Praha, onorata sede del re e del
vescovo, non minore né meno nobile dell'etrusca Firenze, è divisa in tre parti:
la piccola, l'antica e la nuova Praha. La piccola Praha occupa il lato sinistro
del fiume Vltava e si congiunge al colle su cui sono poste la reggia e
l'augusta cattedrale di San Vitus. La Praha antica è in pianura, tutta adorna di
architetture magnifiche; tra queste riscuotono lodi straordinarie il Palazzo
Pretorio, il Foro, la bella Curia, e il Collegio dell'imperatore Karel. Si
collega alla Praha minore con un ponte in pietra di ventiquattro arcate. La
città nuova è separata dalla vecchia da un fossato profondo nel quale si può
facilmente far defluire l'acqua del fiume. Anche questa città è ampia, e si
estende fino ai colli, dei quali uno è detto di san Karel, un altro di santa
Kateřina; il terzo è quello del Vyšehrad, edificata a mo' di fortezza, dove vi è
l'assemblea alla cui presidenza viene chiamato il principe, quale cancelliere
del regno. |
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a |
Post Pragam Litemeſce, altera in Bohemia pontificalis civuitas, uicina Morauis,
Cuthna quo haud parui nominis habetur, ubi argenti inexhaustæ uenæ ſuffodiuntur,
quamuis nostra ætate ſæptus capta exhausta fuerit: & in ipsas argenti fodinas
pluuiales aquæ deriuatæ. |
In Boemia, oltre Praha, vi à un'altra città vescovile, Kutná, vicino ai Moravi,
anch'essa ritenuta non di poca importanza, dove si depositano ricche vene
d'argento. Anche ai nostri tempi se ne trovano più spesso di esaurite, dal
momento che nelle stesse miniere d'argento affluiscono acque piovane. |
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a |
Nec Buduicium contemnere oportet, quæ lendidum & munitum habet etiam nomen
Slagenuerdium. Eaduum, Luna, & utraque Broda, altera Bohemica, altera Theotonica:
Budinge Colonia, Litomericium, Poggiebracium, & quod reginis dotale dicunt,
Grezium: potens inſuper, & diutina obdione memorabilis Pelzma, Zaziorum
ciuitas, & Bohemiæ dederis Iglaria, qua iter est in Morauiam. |
Né si deve tralasciare Budějovice, splendidamente fortificata, che ha anche il
nome di Slagenuerdium, e così Eaduum, Launa (?), le due Brod, l'una boema, l'altra teutonica; Budín (?) Kolín (?), Litoměřice,
Poděbrady, e quella che dicono data in dote alle regine (?) Hradec Králové, ma
più potente di tutte e memorabile per un lungo assedio, Plzeň, e la città di
Sázava, anche se si assegna alla Boemia la città di Jihlava, attraverso la quale
si arriva in Moravia. |
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a |
Postremo arx hæreticorum aſylum Thabor, memoria nostra ex ruinis alterius
Hauſchæ, difficili loco conditum oppidum, & ab Sigiſmundo Cæſare auitatis honore
donatum. |
Infine c'è la roccaforte e rifugio degli eretici, Tábor, secondo la nostra
memoria castello fondato sulle rovine dell'altra Ausca, in un luogo di difficile
accesso e donata dall'imperatore Sigismund [di Luxenburg] a onore della
città. |
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a |
Gelida prorſus regio, piſce atque armentis habũdans, cũ uolucre feris frumẽti
ferax. Sicera pro uĩo utitur; illi ceruisia uocãt, qua ex cerere fa荒um. |
La regione è proprio gelida, ricca di pesce e di armenti, con uccelli e bestie
selvatiche; ferace di frumento, Sušice è conosciuta per il vino; lo chiamano
«cervogia», come se fatta da Ceres. |
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a |
Ager toto regno optimus. Circa Zaziũ colles, apud Litomericium, conti uineis.
Vinum quod naſcitur acerbum: ditiores ex Austria at Hungaria importato utuntur. |
In tutto il regno, la terra è molto fertile. Tutt'intorno, i colli di Sázava (?),
presso Litoměřice, sono coltivati a vigne. Il vino prodotto è aspro. I più
ricchi usano quello importato dall'Austria e dall'Ungheria. |
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a |
Sermo genti & Dalmatis unus. Mos uetus in hanc uſ diem ſeruatur. In templis
ſermone Theotonico plebes docent, in cœmeterijs bohemico, ubi ſecularium
presbyterorum collegia ſunt, aut monachorum prædia poßidentiũ. Solis
mendicantibus libertas fuir, qua uellent lingua populum instruere. Quæ res palam
indicat regionem ipſam olim Theothonicã fuie. ſenm ſubintraße Bohemos. Quod
Strabonis testimonio confirma re licet: cuius hæc uerba ſeptimo cõmẽtario
inuenies: Sẽnones, Sueuorũ natio, ut ſuperius dixi, partĩ intra, partim extra
ſyluã habitat, Getarũ cõtermina gẽti. Sueuorum quidem gens ampliima, e Rheno quidem uſque ad Albim peruenit fluuium: eorum etiam portio trans Albĩ loca
depaſatur, quemadmodum Emondori et Lancobardi. Hæc Strabo. |
La lingua è quella dei Dalmati. Ancora oggi si osservano gli antichi costumi.
Nei templi si insegna alla plebe la lingua teutonica, nei cimiteri quella boema,
dove sono i collegi dei presbiteri secolari o i feudi dei monaci possidenti. Ai
soli mendicanti fu data la libertà d'istruire il popolo nella lingua che
volevano. E ciò indica in modo chiaro che la stessa regione un tempo era stata
teutonica e che a poco a poco sono subentrati i boemi. Questo è testimoniato da
Strábōn: nel suo settimo commentario, troverai queste parole: «I Senoni,
popolazione sveva come ho detto prima, in parte abitano dentro, in parte fuori
la selva ai confini con i Geti. Ed anche la numerosa popolazione sveva, dal
momento che
giunse dal Reno fino al fiume Elba, pure una parte di loro pascola i luoghi
oltre l'Elba allo stesso modo degli Ermonduri e dei Longobardi». Questo dice
Strábōn. |
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a |
Plebs toto regno bibula, & uentri dedita, ſuperstitionum; ſequax: & auida
nouitatum. Quotiens Cretenſe uinum caupones uenale proponunt, inuenies ̃plures,
qui iuramento ada荒i, nuñ cellam uinariam egredientus: ni exhausto dolio.
Idem efficiunt in ele荒is Italiæ uinis. |
In tutto il regno, la gente beve volentieri, è dedita al ventre, è seguace di
superstizioni, nonché avida di novità. Ogni volta che gli osti propongono un
vino cretese da vendere, troverai molti che, costretti da un giuramento, non
usciranno mai dalla cantina se non dopo aver svuotato una botte. Fanno lo stesso
con gli scelti vini d'Italia. |
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a |
Qui paulo excellunt, at inter plebes, nobilitatem medij ſunt, audaces, uerſuti,
ingenio uario, lingua præcipiti, rapinarũ auidi sunt: quibus nihil ſatis eße
poßit. |
Coloro che emergono un po' tra la plebe e la nobiltà sono mediocri, arroganti,
furbi, di varia intelligenza, di lingua pronta, avidi di ruberie, per i quali
niente può essere sufficiente. |
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a |
Nobilitatis gloriæ appetens, belli perita, periculorum contemptrix, ac
promißitenax: quãuis eius ingluuiem explere diffiallimum. |
La nobiltà [è] desiderosa di gloria, esperta di guerra, sprezzante dei pericoli e
salda nella parola data; malgrado la sua ingordigia, sia molto difficile da
soddisfare. |
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a |
At uniuerſum mul expendas populum, non est qui religioni aduerſetur. Sed
profe荒o in omni gente, qualis re荒or, talem inuenies & populum. Quomodo autem &
unde hoc genus hominum in Germaniam uenerit, ſcrip iam pridem integerrimo et
præstãtißimo patri Dominico cardinali Firmano, tuæ ſerenitati amicißimo: Id
hoc loco repetere non grauabor, quondo historiæ quam teximus omnino quadrat. |
Ma se si valuta tutt'insieme il popolo, non vi è che avversi la religione. E
senza dubbio, presso ogni popolo, tale troverai la gente quale è il suo capo.
Tuttavia, in che modo e da dove questa popolazione sia giunta in Germania, ho
già scritto all'integerrimo ed eminentissimo padre Domenico, cardinale
Firmano, molto amico della tua Serenità: perciò non mi sarà di peso riferirtelo
qui, dal momento che si adatta completamente alla storia che stiamo intessendo. |
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b |
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Origine della gente boema |
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b |
Bohemi cut cæteri mortalium, originem ̃ uestußimam ostẽdere cupientes
Sclauorum ſe prolem aßerũt. Sclauos autem inter eos fuiße, qui post uniuerſale
diluuium condendæ famoßime turris Babel autores habentur: at ibi dum linguæ
cõfuſæ ſunt, Sclauonos .i. uerboſos appellatos, proprium idioma ſumpße. Reli荒o
deinde campo Sennaar, ex Aa in Europã profe荒os, eos agros occupaße, quos nunc
Bulgari, Serui, Dalmatæ, Croaci & Boſnenſes incolunt. |
I Boemi, come gli altri popoli, desiderando mostrare anche un'origine molto
antica, affermano di discendere dagli Slavi, ma che, in verità, ci furono tra
loro gli Slavi che sono considerati, dopo il diluvio universale, gli artefici
della fondazione della famosissima torre di Babele; e lì, mentre le lingue erano
confuse, gli Slavi, cosiddetti «verbosi», si appropriarono di un loro
idioma. Quindi, abbandonata la pianura di Sennaar, partiti dall'Asia verso
l'Europa, occuparono le regioni che ora sono abitate da Bulgari, Serbi, Dalmati,
Croati e Bosniaci. |
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b |
Nondum ego quempiam legi autorem, cui fides adhibenda t, qui tam alte ſuæ
gentis initium reddiderit: Hebræos excipio, omnium mortalium primos. Multi ex
Germanis ſatis ſe nobiles arbitrãtur ex Romanis ortos, Romani ex Teucris
originem ducere glorioßimum putant. Franci, qui & Grmani fuerunt, Troianum ſe
ſanguinem eẽ dixerũt. Eadẽ Britannis gloria ſatis est, qui Brutũ quendam, exilio
profe荒um. generi ſuo principium dediße affirmant. At Bohemi longe altius or,
ab ipſa confuonis turre ſe mios ia荒itant. |
Io non ho ancora letto un qualche autore, al quale si debba dar credito, che
abbia riferito in maniera così eccelsa l'origine della sua gente, eccetto gli
Ebrei, i primi tra gli uomini. Molti dei Germani si ritengono nobili in quanto
nati dai Romani; i Romani ritengono un gran vanto trarre la loro origine dai
Troiani. I Franchi, che furono Germani, dissero di avere sangue troiano. La
medesima gloria è abbastanza presente nei Britanni, i quali affermano che un
certo Bruto, mandato in esilio, abbia dato origine alla loro stirpe. Ma i Boemi,
apparsi molto prima, si vantano di essere stati mandati dalla stessa torre della
confusione. |
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b |
Cæterum, nec qui tunc principes fuerint, nec quem regem habuerint, nec cuius
terræ cultores extiterint, nec ſub quo duce, nec quibus periculis in Europam
uenerint, nec quo tempore tradunt. Fuiße illic Sclauonos aiunt, dum labium
uniuerſæ terræ confuſum est. |
Tra l'altro non tramandano chi siano stati i loro primi capi, né quale re
abbiano avuto, né di quale terra siano apparsi come abitatori, né sotto quale
guida, né a costo di quali pericoli: né in che tempo siano giunti in Europa.
Dicono che là furono Slavi, mentre la parola della terra intera rimaneva
confusa. |
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b |
Vana laus, ac ridenda. Quod qui Bohemos imitari uelint, nobilitatem generis ex ipſa uetustate
quærentes, nõ iã ex turri Babilonica, ſed ex archa Noe, at ex ipſa deliciarũ
Paradiſo, primis parẽtibus, & ab utero Euæ, unde oẽs egreßi, facile bi
prĩcipia uẽdicabunt. |
Risibile vanagloria. Che se alcuni vogliono imitare i Boemi reclamando la
nobiltà della stirpe dall'antichità in quanto tale, non già dalla torre di
Babilonia, ma dall'arca di Noè e dallo stesso paradiso delle delizie e dai primi
progenitori e dall'utero di Eva, dal quale siamo usciti tutti, facilmente
rivendicheranno per sé il principio. |
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b |
Nos ista tranquam anilia deliramenta prætermittimus. Omnes reges ex ſeruis ortos,
omnes ſeruos ex regibus, ſcript Plato. Veram nobilitatem ſola atque unica
uirtus gignit. Multa ſunt quæ de Bohemis uera ac memorabilia traduntur: ad ea
nugis omißis, festinat calamus. |
Ma noi ora tralasciamo queste stravaganze senili. «Tutti i re sono nati da
servi, e tutti i servi da re», scrisse Platone. La sola unica virtù genera la
vera nobiltà. Molte sono le cose vere e memorabili che vengono tramandate
intorno ai Boemi: verso di esse, tralasciate le quisquilie, si affretta la
penna. |
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c |
De Zechiom, primo duce Bohemiæ |
Čech, primo kníže dei Boemi. |
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c |
Zechius Croatinus haud obſcuris parẽtĩbus ortus, gẽtẽ Bohemicã cõdidit:
homicidio domi petrato iudiaũ ultionẽ fugiẽs, in regionẽ eã uenit, cui nũc
Bohemia nomẽ est: ac mõtẽ incoluit Chezip uocatũ: quod uocabulum latine, reiciens, interpretatur. Surgit enim ex medio cãporũ æquore, fluuios intuens,
qui præcipui Bohemiam irrigant, Albim, Multauiam, atque Egram. |
Il croato Čech, non proprio di origine oscura, fondò la nazione boema. Avendo
perpetrato un delitto in patria, e fuggendo dal giudizio e dalla vendetta,
pervenne in quella regione chiamata ora Boemia e andò sul monte detto Říp:
tale parola alla latina significa respiciens. Sorge, infatti, in mezzo
a una distesa di campi, di fronte ai principali fiumi che bagnano la Boemia:
l'Elba, la Vltava e l'Ohře.
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c |
Terram incultam fuiße tradunt, nemoribus atque ſentibus aeram: feriſque quam
hominibus aptiorem. Credimus id quidem: nam priſci Germani, qui ea loca tenuerunt,
pastoralem uitam agentes, agrorum culturam neglexerunt, ac more Nomadum
alimoniam ex pecoribus trahentes, domesticum in carris tollentes instrumentum,
quocunque ſors tulit & opinio, cum ſuis armentis conuertebantur. |
Tramandano che la terra fosse incolta, aspra di rovi e di boscaglie, più adatta
alle bestie che agli uomini. E in verità lo crediamo. Infatti, gli antichi
Germani che tennero questi luoghi, conducendo una vita pastorale, trascurarono la
coltivazione dei campi e, secondo l'uso dei nomadi, traendo gli alimenti dal
bestiame, montando sui carri gli arnesi domestici, si dirigevano con i loro
armenti dove il caso o la loro scelta li conducesse. |
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c |
Non aentimur Bohemorum historiæ, quæ Zechium illum, omnem familiam ſuam, nam
frater cognati fugæ comites erant, glandibus ac ſyluestribus pomis tantum vitam
duxiße affirmat, oblitterato iam tum glandium uſu, nec post diluuium ex his fuiße
hominibus ui荒um crediderim. |
Non siamo d'accordo con la storia boema che afferma che questo Čech e tutta la
sua famiglia – il fratello e i parenti gli furono infatti compagni di fuga – si
siano tenuti in vita solo con ghiande e frutti selvatici, perché già da
allora l'uso delle ghiande era dimenticato, né crederei che dopo il diluvio si
potesse ricavare da esse cibo per gli uomini. |
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c |
Illud mihi perſuabilius fuerit, Zechium paucos inuenie cultores, quos la荒e
ac uenatu uiuentes, arare terram, triticum ſerere, fruges metere, ueſa pane
docuerit: atque ita bi rudes homines ac pene færos, ad uſum mitioris uitæ
redactos ſubiecerit. |
Sarebbe per me più convincente che Čech avesse trovato pochi allevatori che
vivevano di latte e di caccia, ai quali abbia insegnato ad arare la terra, a
seminare il frumento, a mietere le messi e a cibarsi di pane, e abbia, così,
sottoposto a sé uomini rozzi e quasi selvaggi, ricondotti a una condizione di
vita più mite. |
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c |
Nec rurſus apud me pondus habet omnia tum fuiße communia atque tam uiros quem
fœminas inceßie nudos. Neque enim illa regionis temperies est, ut hominem
aeruare nudum queat ex Dalmacia uenientem, ubi non defuit ucstis uſus: ni fortaßis in argumentũ quis aduexerit Adamitas, qui nostra tempestate apud
Bohemos emerſere, communione rerum omnium, nuditate gaudentes: quos breui
deletos constat. |
Né, d'altra parte, per me ha importanza il fatto che, allora, tutte le cose
fossero in comune e che sia gli uomini che le donne andassero in giro nudi. Né, infatti,
quella regione ha un clima temperato che possa tener conto di un uomo nudo proveniente
dalla Dalmazia, dove non mancò l'uso della veste, se non forse chi abbia messo
in argomento gli Adamiti che emersero nella nostra epoca presso i Boemi,
soddisfatti della comunità dei beni e dello stare nudi; ma risulta che in
breve furono tolti di mezzo. |
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c |
Zechio frater fuit nomine Leches, paupertatis & exilij comes. Hic ubi Germanum
agris ditatum, bobuſ potentem animaduertit, ad orientem profe荒us in magna
camporum planicie ſedem collocauit: Poloniam nomẽ ex loco dedit. Nam planicies,
Sclauonica lingua pole nominatur: Cuius hæredes in numeroſam multitudinem breui
coaluerunt, ac Ruſuniam, Pomeraniam, Caſubiam ſui generis hominibus impleuerunt. |
Čech ebbe un fratello a nome Lech, compagno di povertà e di esilio. Questi,
appena capì che il fratello era divenuto ricco e potente con la coltivazione dei
campi e l'allevamento del bestiame, partito verso regioni orientali,
pose la sede in un'estesa pianura campestre e dal luogo la chiamò Polonia.
Infatti, «pianura», in lingua polacca, si dice pole. I suoi eredi, in breve
tempo si accrebbero numerosi così da riempire la Rutenia (?), la Pomerania e la
Casubia, di gente della loro etnia. |
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c |
Zechij quo familiam, Bohemos id est, diriuos appellant, mirum in modum
germinantes: non ſolum prouinciam a ſe di荒am, ſed Morauiam Luſatiam puls
ueteribus incolis, occuparunt. Dum uixit Zechius nihil temere, nihil tumultuoſe
a荒um: eius imperio ne controuera obtemperatum. At eo uita fun荒o, cum bi
quiſque principatum uendicaret, diu ſeditionibus agitata prouincia est, ne
principe, ne certa lege, iudicio tantum multitudinis gubernata. |
Anche la famiglia di Čech, cioè i Boemi, vengono chiamati dirivos (?),
crescendo in modo
straordinario; ed occuparono non solo la provincia che prese il loro nome, ma
anche la Moravia e la Lusazia, dopo aver ricacciato gli antichi abitanti. Finché
visse Čech, non si verificò niente di temerario né di tumultuoso, essendo il suo
principato regolato senza opposizioni. Ma appena morì, poiché ciascuno voleva
rivendicare a sé il potere, a lungo la provincia fu agitata da sedizioni, senza
un principe, senza una legge certa, governata solo dall'arbitrio della gente. |
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c |
Postremo cum potentiores imbecilles opprimerent, ſerum at incertum eet
populare re medium, ex re uiſum est re荒orem aumere: qui omnibus prædens
imbecilles ac potentiores pari iure gubernaret. |
Alla fine, dal momento che i più potenti opprimevano i deboli e che il sostegno
popolare era tardivo e incerto, data la situazione, sembrò opportuno nominare un
rettore che, stando a capo di tutti, governasse potenti e deboli con pari
diritto. |
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De Croco, secundo Bohemorum duce |
Krok, secondo kníže dei Boemi |
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d |
Erat per idem tempus apud Bohemos uir nomine Crocus iustitiæ opinione ingnis,
ac propterea magnæ apud uulgus autoritatis: hũc bi principẽ deligũt, ſummam
ei rerum committunt. Cuius tanta moderatio fuit, ut nõ aliter ̃ pater a
prouincialibus coleretur. Ne enim ad ſuam uoluptatem, ſed pro ſubditorum
utilitate ac quiete prouinciam rexit, ferocem populũ, non tam imperio, quam
beneuolentia quietum continuit. Hic arcem apud Stemnam condidit, quam de ſuo
nomine Crocauiam nominauit. |
In quel tempo, presso i Boemi, ci fu un uomo di nome Krok, insigne per fama di
giustizia e perciò di grande autorevolezza presso la plebe: lo scelsero come
principe e gli affidarono il complesso dei pubblici affari. E fu di tale
moderazione da essere venerato dagli abitanti della provincia non diversamente
da un padre. Egli infatti la resse non per suo capriccio, ma per l'utilità e la
pace dei sudditi, e contenne la violenza del popolo non tanto con l'autorità ma
con la benevolenza. Fondò una roccaforte presso Ztibečné, che dal suo nome si
chiamò Krakovec. |
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d |
Moriens autem tres filias reliquit. Brelam, quæ castellum Brelum ædificauit:
herbarum ac medicinæ peritam. Therbam ue Therbizam augurem et ſortilegam.
Tertiam Libuam: quæ ut natu minor fuit, ita diuinarum humanarum rerum
ſcientia maior. |
Alla sua morte lasciò tre figlie: Bela, esperta di erbe e medicina, che eresse
la fortezza di Belín; Tetka, augure e indovina; la terza,
Libuše, che pur
essendo la minore fu maggiore nella conoscenza di cose umane e divine. |
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De Libua, filia Croci, quæ pluribus annis rexit Bohemiam |
Libuše, figlia di Krok, che per molti anni governò la Boemia |
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Libua autem uelut una ex Sibyllis habita, post obitum patris fauente populo
pluribus annis prouinciam gubernauit: et priuſquam Praga ædificaretur, arcem
Viegradenſem communiuit: fuit ſuum imperium patribus plebi iuxta gratum.
Postremo non crudelitate aliqua, non tyrannide aut ſecordia uſa: ſed re荒um
iudicium faciens popularem fauorem amit. |
Libuše, invero, ritenuta coma una delle Sibille, dopo la morte del padre,
governò la provincia per parecchi anni, con il favore del popolo e, prima che
fosse edificata Praga, fortificò la rocca di Vyšehrad; il suo potere fu
parimenti gradito sia alla nobiltà che alla plebe. Alla fine, però, non per una
qualche crudeltà, né per aver usato tirannia o negligenza, ma esprimendo un
giudizio equanime, perse il favore popolare |
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e |
Cõtendebant coram ea duo ex
optimatibus de poeßione agrorum. Sententia ex bono & æquo di荒a: potentior
humiliori damnatur. Ille tanquam iniuria eet pontetiorem in iudicio ſuccumbere,
populares appellans, indecorum ee indignum ait, tantum populum, tot procæres,
tãtum imperium, unius fœminæ ſubee arbitrio. |
Contendevano di fronte a lei due degli ottimati su un possesso di terreni. La
sentenza fu pronunciata in nome del bene e dell'equità; il più potente è
condannato a favore del più umile. Quegli, come se fosse un'ingiuria che, in un
processo, uno più potente debba soccombere, appellandosi ai popolari, dice che è
indecoroso e indegno che un popolo così grande, tante persone eminenti e tanto
potere soggiacciano all'arbitrio di una sola donna. |
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e |
Ad cuius uocem excitata multitudo muliebre regimen accuſare, uicinarum gentium
mores in medium adducere: uirũ qui bi dominetur expetere. Libua, indi荒o lentio, dederium ſe populi animaduertiße dicit, ne ſe illos eo frustraturam:
imperium ſubditis, non bi, post patris obitum tenuißime. Iubet ad diem posterum
redeant. Optemperatum est, itum at reuentum. |
Sobillato da queste parole, il popolo comincia ad accusare il regime muliebre, a
mettere in campo gli usi delle genti vicine, ad esigere un uomo che lo governi.
Libuše, ordinato il silenzio, dice di aver compreso il desiderio del popolo e
non l'avrebbe deluso: che, dopo la morte del padre aveva tenuto il potere non
per Sé ma a vantaggio dei sudditi. Ordina di ritornare il giorno dopo. Si
accetta di andar via e di ritornare. |
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De Premislao tertio Bohemorum duce |
Přemysl, terzo kníže dei Boemi |
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f |
Libua in concione ubi adeße multitudinem uidit. Ego uobis, inquit, Bohemi in
hanc uſque diem, placite, moliter, ut mulieribus mos est, imperaui: nulli quod
ſuum eßet eripui: nullum læ. |
Libuše, come vide che il popolo era già in assemblea, disse: «O Boemi, fino ad
oggi ho mantenuto il governo su di voi in modo pacifico e mite, com'è abitudine
per le donne: senza portar via ad alcuno ciò che fosse suo, senza offendere
nessuno. |
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f |
Matrem experti estis: non dominam. At uobis meum regimen ingratum. More humani
inginij mecum agitis. Nihil diu placet homini. Pium, iustum principem
dederant populi magis quam ferunt. Estote ergo iudicatu meo liberi: uirum qui
uobis præt, qui ſuo arbitratu capita uestra iudicet, cut optastis dabo. Ite,
equum meum albicantem sternite, atque in campos late patentes adducite, liberum
effrenem ibi dimittite: ſequentes eum quocunque ierit. Curret equus aliquandiu:
deni ante uirum ſubstet in menſa ferrea comedentem. Ille mihi coniunx erit,
uobis princeps. |
«Avete trovato una madre, non una padrona. Ma a voi il mio regime non piace. Vi
comportate con me secondo la mentalità umana: all'uomo non piace nulla che duri
a lungo. I popoli desiderano un principe pio e giusto più di quanto non lo
sopportino. Perciò, per mio volere, siate liberi. Vi darò l'uomo che vi governi
e vi giudicherà ognuno a suo arbitrio, come desiderate. Andate,
preparate il mio cavallo candido e portatelo in mezzo ai campi aperti, quindi
lasciatelo libero e senza freni, seguendolo dovunque andrà. Per un buon tratto,
il cavallo galopperà; alla fine si fermerà di fronte a un uomo intento a
mangiare su una mensa di ferro. Quegli sarà marito per me e principe per voi». |
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f |
Gratus ſermo concioni fuit. Emius equus decem millia pauum
percurrit.
Postremo ad flumen Bieli ante aratorẽ constitit, nomine Primislaũ. Secuti proceres populares, postquam
stantem equum, & aratori blandientem adulantem
uiderunt, accedentes propius: ſalue, inquiunt, bone uir, quem nobis ſuperi
dederunt principem. Solue boues: atque aſcenſo equo nobiſcum uenito. Libußa te
uirum, Bohemia ducem poſcit. Agrum colere, gregem paſcere, nauĩ regere, texere,
ſuere, ædificare, multi ſe ignorare fatentur. Magistratum in urbibus agere, regem
gerere, gentibus ac nationibus imperare, quod est difficillimum, nemo bi a
natura negatum dicit: & plerique ue laboris odio, ue ocij amore, oblatis
regnis abstinuere.
Primiaus, quamuis agrestis, nuncios benigne excipit: fa荒urũ postulata
reondit. Tanta est mortalibus regnãdi cupido memo ſe regno indignum putat.
|
Il discorso fu gradito all'assemblea. Fatto uscire il cavallo, esso percorse
diecimila passi, infine si fermò al fiume Bílina, dinanzi a un aratore di nome
Přemysl. Lo seguivano nobili e popolani. Dopo aver visto il cavallo che, stando
di fronte all'aratore, dava segno di venerarlo, avvicinandosi di più
esclamarono: «Salve, uomo dabbene, che gli dèi ci hanno concesso come kníže.
Sciogli i buoi, monta sul cavallo e vieni con noi. Libuše ti vuole come marito,
la Boemia come principe. Coltivare campi, pascere greggi, pilotare barche,
tessere, cucire, edificare: molti confessano di non saperlo fare. Ma svolgere
cariche pubbliche nelle città, esercitare la potestà regale, comandare su popoli e nazioni,
tutte cose molto difficili, nessuno sostiene di esservi negato per naturale
inclinazione, anche se moltissimi, o per avversione verso un compito
impegnativo, o per desiderio di tranquillità, quando sono state offerte loro
tali dignità, se ne sono astenuti». Přemysl, benché contadino, accolse
volentieri questi ambasciatori e rispose che avrebbe fatto quanto richiesto.
Tanto grande è per gli uomini l'ambizione di regnare che nessuno se ne reputa
indegno. |
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f |
Solutos boues, ut fabuloſa est omnis antiquitas, eleuatos in aera ferunt: & in
altißimam præſciæ rupis eluncam delituiße, nunquam postea uiſos. Stimulum
uero quo boues urgebãtur, terræ defixũ, mox frõduiße, ac tris corili ramos emiße:
ex quibus duo statĩ exaruerũt, tertiũ in arborẽ eiuſdẽ generis procerã excreuiße.
Non recipio ad me ueri istius periculũ: apđ autores ista quærãtur. |
Sciolti i buoi – com'è ricco di leggende il tempo antico! –, tramandano che,
levatisi in aria, questi si nascosero in una profonda spelonca, in un monte che già
conoscevano, e che non furono visti mai più. Dicono pure che il pungolo
con il quale [Přemysl]sollecitava i buoi, piantato a terra, subito avesse messo le
fronde e fatto spuntare tre rami di nocciolo, dei quali due immediatamente
seccarono, mentre il terzo diventò un alto albero, della medesima specie. Non
corro il rischio di dover dimostrare la veridicità: tali cose si chiedono agli
storici. |
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f |
Vidi tamen inter priuilegia regni, literas Caroli quarti Romanorum imperatoris,
diui Sigiſmundi patris: in quibus hæc tanquam uera continentur. Villæ illius
incolæ in qua hæc gesta creduntur libertate donantur: nec plus tributi pendere
iubentur, quam nucum illius arboris exiguam menſuram. Sed nec mihi Carolus fidem
facit: Nam reges plerum creduli ſunt, nec quicquam nõ verum putant, quod
generis ſui claritatem astruit. |
Ho visto, tuttavia, negli atti riguardanti i privilegi del regno, le lettere di Karel
IV, imperatore romano, padre del divino Zikmund, nelle quali questi eventi
sono contenuti come veri. Agli abitanti di quella campagna nella quale si
credono compiuti questi fatti, è concessa un'immunità: non gli si ordina di
pagare un tributo superiore all'esigua quantità dei frutti di quell'albero. Ma
secondo
me neppure Karel fa fede. Infatti, i re, di solito, sono facilmente creduli e
considerano sempre vera qualunque cosa garantisca la nobiltà della loro origine. |
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f |
Primislaus igitur audita legatione, inuerſo uomere, pane caſeo appoto, uiam
qua grandem fa荒urus, cibum ſunpt, Ea res Bohemorum animos confortauit:
menſam ferream, de qua Libua uaticinata fuerat, in uomere cognoſcentes.
stupentes edenten circumstant, ſaturũ equo imponunt: iubent festinare. Inter
eundum, quid bi uult stimulus frondens? interrogant: & cur duo rami mox
aruerunt? Ille, qui diuinandi peritia calleret, tris bi liberos naſcituros ait,
ex bus duo funere immaturo deficiant, tertium nobiles fru荒us editurum. Quod
ager totus exaruiet ante uocationem, genus eius maſculinum perpetuo regnaturum
fuie: cum ante tempus accertus t, eam em ademptam. |
Přemysl, pertanto, uditi gli ambasciatori, girato il vomere, vi pose pane e
formaggio e, come se stesse per affrontare un lungo cammino, si mise a mangiare.
La qual cosa animò i Boemi, che riconobbero nel vomere la mensa di ferro di cui
Libuše
aveva vaticinato. Stupiti lo attorniarono mentre mangiava e, una volta sazio, lo
fecero montare a cavallo, raccomandandogli di affrettarsi. Durante il viaggio lo
interrogarono: «Che significa il pungolo che si copre di fronde? E perché due rami
subito dopo si sono seccati?» Egli, che per pratica s'intendeva di divinazione,
rispose che gli sarebbero nati tre figli, dei quali due sarebbero morti in
giovane età, mentre il terzo avrebbe prodotto nobili frutti. E se avesse finito di
arare il terreno, prima di essere chiamato, la sua discendenza maschile avrebbe
regnato per sempre. Ma costretto a interrompere [il lavoro] prima del tempo, quella speranza
gli era stata sottratta. |
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f |
Interrogatus, cur nam calceos, querno robore fa荒os, ſecum afferret? ſeruandos in
arce Vißegraden reondit, ostendendos posteris, ut ſcirent omnes primum qui
principatum inter Bohemos accepißet, ex agro fuie uocatũ: ne inſoleſcendum
ee, qui ex humili fortuna ſolium aſcenderit. Servuati calcei diu apud Bohemos,
religioſe habiti, ac per ſacerdotes templi Vißegradens ante reges delati, dum
pompa coronationis educitur. |
Interrogato perché mai portasse con sé i calzari fatti di corteccia di quercia,
rispose che avrebbero dovuto essere conservati nella fortezza di Vyšehrad, e che
bisognava mostrarli ai posteri affinché tutti dicessero che il primo ad ottenere
il titolo di kníže in Boemia ne era stato chiamato dalla campagna: che, pertanto, non
si sarebbe dovuto insuperbire chi, da un'umile origine, fosse salito al
trono. Conservati a lungo, i calzari sono tuttora conservati religiosamente dai Boemi, e
vengono portati di fronte ai sovrani dai sacerdoti del tempio di Vyšehrad, mentre si
svolge la cerimonia dell'incoronazione. |
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f |
Cum Vißegradum appuliet Primislaus, ingenti fauore plebis at honore exceptus
est: Libußam bi matrimonio iũxit. Nec diu moratus, Pragenſe oppidum aggere at
muro cinxit: De cuius nomine dum diſceptaretur, iußit Libua ex artificibus,
qui primo occurrerit, rogari quid ageret: ac ex primo uerbo eius uocari oppidum.
Interrogatus faber lignarius quiiam: limen ſe agere dixit, quod Bohemice, praha,
dicitur. Inde nomen urbi datum. Sed corrupto uocabulo posteri Pragam dixere. |
Giunto al Vyšehrad, Přemysl fu ricevuto con immenso favore e onore
dal
popolo e si unì in matrimonio con Libuše. Senza indugiare a lungo, cinse la
cittadella prahense con un fossato e un muro. E poiché si discuteva sul nome
[da dare alla città], Libuše ordinò di chiedere agli operai, il primo che
s'incontrasse, cosa stesse facendo: che la fortezza si sarebbe chiamata
con la prima parola da lui pronunciata. Interrogato, un falegname disse che
stava fabbricando una soglia, che in lingua boema si dice praha. Da qui,
venne dato il nome alla città. Ma i posteri, alterato il vocabolo, lo
pronunciarono «Praga». |
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f |
Exinde leges conditæ, quibus Bohemi longo tempore u, prouĩcia pace & odio fruens, opibus au荒a est. Et Libußa castellum Libus ædificauit, nõ longe ab Albi
flumine: quod morienti ſepulchrum fuit. Qua mortua, imperium ad Primislaum ſolum
redijt, quod uiuente coniuge eius maximo conlio administrauit: fœminarum, quæ
illa uiuente plurimũ poterant, autoritas extĩ荒a. |
In seguito, emanate le leggi che i Boemi hanno da molto tempo, la provincia,
fruendo di pace e tranquillità, crebbe in ricchezza. E Libuše edificò la
fortezza di Libušín, che le divenne sepolcro alla sua morte. A quel punto, il
principato passò al solo Přemysl, il quale, essendo viva la moglie, aveva
governato con la suprema influenza di lei: ma ora era finita l'autorità delle
donne, le quali, durante la vita di Libuše, avevano goduto di grande potere. |
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De Puella Valaſca, quæ principatũ Bohemiæ more Amazonum, ſeptemmi potentur
obtinuit |
La fanciulla Vlasta che per sette anni tenne con la forza, secondo il costume
delle Amazzoni, il regno di Boemia |
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g |
Sed fuit inter uirgines, quæ Libuæ ministrare ſolebãt, Valaſca puella ingenti
Spiritus, & Amazonicæ gentis, quæ clanculum accertis comitibus: heram, inquit,
o ſorores perdidimus, quæ nos a uirorum contumelia uindicauit, nec paßa est
ſeruire uiris: contra, uiri eiuſdem imperium ſubire, nos reginarum honore
fungebamur. Nunc iugum aerum & miſerrimũ ferre oportet. Ni libertatem nobis
ips uendicemus, uilißima mancipia ſumus. |
Ma vi era, tra le ragazze che solevano essere al servizio di
Libuše, una giovane
di grande arditezza, di nome Vlasta, appartenente alle amazzoni. Questa,
convocate segretamente le compagne, disse loro: «Sorelle, abbiamo perso la
nostra padrona che ci proteggeva dal disprezzo degli uomini e non sopportò di
servirli; al contrario, gli uomini subivano la sua autorità mentre noi godevamo
dell'onore delle regine. Ora dobbiamo sopportare un giogo aspro e meschino. Se
non rivendichiamo a noi stesse la liberà, rimarremo vilissime schiave. |
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g |
Quod uobis id animi est, qđ mihi: facile pristinam autoritatem obtinebimus.
Ego ſecretorum Libuße conſcia, Therbizæ quo ſortes noui, herbarum uires non
minus ͂ Brela calleo: qđ tres habuere ſorores hoc mihi ſoli datũ est. Aßistite
audenti: uobis imperiũ in uiros polliceor. Probant ngulæ Valaſcæ conliũ:
coniurant, poculũ recipiunt, quo uirile genus odißent. |
«Se avete lo stesso coraggio che ho io, facilmente riotterremo l'antica
autorità. Consapevole dei segreti di Libuše, ho conosciuto anche le predizioni
di Tetka e conosco non meno di
Bela i poteri delle erbe. Ciò che possedevano le
tre sorelle, è stato dato a me sola. State vicino a chi osa: vi prometto il
dominio sugli uomini». Tutte le fanciulle approvarono la decisione di
Vlasta e
bevvero alla coppa per odiare il genere maschile. |
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g |
Interea loci Primislaus uirginem bi per quietem ſanguineũ ministrare potum
uidet. Territus ſomno, ac malũ quod erat futurũ ſuicatus, primores terræ
admonet, ne tantũ licentiæ fœmineo ſexui præbeatur. Mos enĩ uirginibus erat
equos aſcendere, fatigare curſu, fle荒ere in gyrũ, hasta contendere, gestare
pharetram & arcũ, ſagittare, iaculari, uenari, nihil officij uirilis omittere. |
Frattanto, Přemysl vide in sogno una fanciulla, la
quale gli somministrava del sangue da
bere. Atterrito dal sogno, e sospettando il male che gli sarebbe capitato,
avvertì i maggiorenti della regione di non permettere al sesso femminile tanto
arbitrio. Era allora in uso, tra le fanciulle, salire a cavallo, impegnarsi
nella corsa, fare evoluzioni, lanciare l'asta, portare faretra e arco, scoccare
le frecce, scagliare i giavellotti, andare a caccia, senza trascurare nessun
compito maschile. |
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g |
Quod Primislao tum periculoſum, tum bonis aduerſum moribus uidebatur. At
proceres ridere principem, fœmineum ſexum nil auſurũ magis credere. Mirari tanto
magis at amare puellas, quanto agiliores ac do荒iores dicerentur. Valaſca monere
inter diu no荒u conirationis ſocias, em bonam facere, audaciam augere,
poculis at carminibus mentes earũ a uirorum amore auertere, dictim plures
allicere, prouinciam uniuerſam ueneno inficere. |
E ciò era considerato da Přemysl sia pericoloso, sia estraneo ai buoni
costumi. Ma i nobili ridevano del fatto che il kníže credesse che le donne non
avrebbero osato niente di più. Ammiravano e tanto più amavano le fanciulle che si
ritenevano più agili e più dotte. Vlasta ricordava la cospirazione alle
compagne, di giorno e di notte; dava loro buone speranze, accresceva la loro
audacia, distoglieva con bevande e poesie le loro menti dall'amore per gli
uomini, allettando con la parola la maggior parte di loro e avvelenando l'intera provincia. |
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g |
Vbi iam uirginum ac nuptarum ſatis conueniße arbitratur, mandat oĩbus ſuos uiros,
parẽtes, germanos, filios mares, oẽs ſomno uino ſepultos no荒e occidant: armis
equiſ arreptis, in campũ prodeant, nõ longe a Praga mõstratũ. Maturatus ſcelus,
uirorũ ͂ tum imperatũ erat interficitur, ueniunt in campum armatæ fœminæ,
prostrato uirorũ exercitu, qui parricidas ĩ ſequæbantur: duce ĩ arce
Viegranden obdent. Quã cũ expugnare nequirẽt, castellũ bi haud procul
inde in prærupto undi colle, natura munitißimo ædificant: qđ Dieuizum
appellant, qua uirginũ castrũ. Dieuizæ nam, eorũ lingua uirgines nũcupantur. |
Appena ritenne che fossero tutte d'accordo, fanciulle e sposate, raccomandò
loro di uccidere, durante la notte, i loro uomini: genitori, fratelli, figli
maschi, tutti appesantiti dal vino e dal sonno e che, afferrati armi e cavalli,
scendessero in campo aperto per presentarsi [in un luogo] non lontano da Praha. Si maturò il
crimine, si uccisero gli uomini, come era stato ordinato; quindi le donne
scesero armate
in campo e, sconfitto l'esercito maschile che inseguiva le parricide, ne
assediarono il condottiero nella rocca di Vyšehrad. E non riuscendo ad espugnarla,
edificarono una fortezza poco lontana da là, su un colle scosceso da ogni parte,
ben protetto dall'ambiente naturale, e lo chiamarono Děvín, quasi una fortezza
delle ragazze. Infatti, nel loro lingua, le fanciulle sono dette dívky. |
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g |
Res uiſa patribus plebi, nicioßima, tũ propter admißum ſcelus, tũ , illarum
exemplo reliquas adduci fœminas uerebantur: & hostẽ cui domi eße formidabile
fuit. Hortantur ita principẽ puellas bello cœrceat, ſe cũ copijs affuturos
promittũt. Primislaus ſe a dijs admonitũ ait, perituros oẽs qui puellas armis
laceant, tempus aliud expe荒andum. |
Le cosa venne considerata pericolisissima dai senatori e dalla plebe, sia per
[la gravità d]el crimine subito, sia perché temevano che altre donne fossero attratte
dall'esempio di quelle. Avere un nemico in
casa era prospettiva terribile per ciascuno. Esortarono, perciò, il principe a
dichiarare guerra alle fanciulle e
promisero di parteciparvi con le loro truppe. Ma Přemysl affermò
che gli dèi lo avevano ammonito [dal prendere una simile decisione]: che
sarebbero morti tutti quelli che avrebbero assalito in armi le fanciulle, e che, perciò, bisognasse attendere un altro momento. |
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g |
Illi reto conlio, coa荒o ne principe
exercitu, castra ad Dieuiſum ponunt: puellas cingere obdione pergunt.
Valaſca nil territa in maiori diſcrimine maiorem adhibet animum, comites ne
mente labantur, plena fiducia hortatur: adueniße tempus affirmat quo toti
Bohemiæ leges imponant, uidere ſe omnes prouinciæ optimates in ſuam potestatem
uenie: uires tantũ acuãt, ui荒oriam in manibus eße. Ne nouũ uiros mulieribus
obedie, Amazones bi Aam ue荒igalem feciße: pugnae ad Troiam, Theſei at Herculis arma contempße. Si conlium at animus mulieribus adt, uires haud
quaquã decẽ: nullius Bohemi cõliũ ſuo præferre. |
Quelli, non tenendo conto dell'avviso, riunito un esercito senza il kníže, si
accamparono a Děvín e si avviarono a cingere d'assedio le fanciulle.
Vlasta, per nulla
intimorita, nel momento più decisivo mostrò maggior coraggio ed esortò le
compagne a una piena fiducia, affinché non perdessero la testa. Affermò che era
venuto il tempo d'imporre leggi in tutta la Boemia, di capire che tutti gli
ottimati della provincia fossero caduti in suo potere, soltanto, di rinvigorire le
forze, ché la vittoria era nelle loro mani. [Aggiunse] che non era certo una novità che
gli uomini obbedissero alle donne, che le Amazzoni avevano reso tributaria a sé
l'Asia, avevano combattuto a Troia e non avevano tenuto in conto le armi di
Theseús ed Hēraklês. Se le donne avevano volontà e coraggio, ciascuna avrebbe avuto
la forza di dieci: i Boemi non avrebbero potuto anteporre alla sua determinazione quella
di qualcun altro. |
|
g |
Vbi perſuaſam multitudinem animaduertit, palãtes hostes, & nil tale uerentes,
aggreditur. Fit trepidatio totis castris. Mox fœda oritur fuga, instant uirgines,
uiros paßim trucidant. Ne aliter pugnatum est, quam muliebres uiri animo,
uiriles fœminæ induißent. Pauci ex ea pugna euaſerunt: quos uelocitas equorũ, nõ
ſua uirtus, a morte redemit. Singularis audaciæ in hoc prælio ſeptem puellas
fuie memorant. Maladam, Nodeam, Suataciã, Vorastam, Radgam, Zastanam, Tristanam.
Reginam ſua manu ſeptem uiros interemiße. |
Appena si rese conto di aver convinto la moltitudine delle fanciulle,
[Vlasta] assalì i nemici dispersi, che non se lo aspettavano. Ci
fu scompiglio in
tutti gli accampamenti, che si concluse con una fuga miseranda, mentre le
vergini incalzavano gli uomini e li massacravano da ogni parte. Né si combatté
diversamente da come [...]. Pochi scamparono da quella battaglia e se si
salvarono
dalla morte fu per la velocità dei cavalli, non certo per il loro valore. Si ricorda che in
questo scontro sette fanciulle esibirono una singolare audacia:
Mlada, Hodka,
Svatava,
Vracka, Radka,
Častava, Třstava, e che la regina uccise di sua mano sette
uomini. |
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g |
Spolia ingentia capta, præmia pro
meritis reddita, ſeptem quæ uirtute præstiterant torquibus aureis at armillis
donatas, Valaſcam ueluti deam habitam: ne post id prælium Bohemis aduerſus
puellas audaciam fuie. Illæ populare agros, abducere prædas, rapere, occidere,
uillas incendere, potentiam indies augere, fingere interdum ſe uirorum amore
teneri, amatorias epistolas nobilibus adoleſcentibus mittere, detestari fastum
at inſolentiam Valaſcæ, mulare fugam, rogare in ſyluam potenti manu uenirent,
ac ſe raperent. |
[Si racconta pure che], preso un ingente bottino, distribuiti premi per i meriti
sul campo, alle sette che si erano distinte per valore furono donate collane e
bracciali d'oro, che Vlasta fu considerata come una dea e che i Boemi, dopo
quell'assalto, non ebbero più ardire contro le fanciulle. Quelle saccheggiavano
i campi, portavano via le prede, rubavano, uccidevano, incendiavano le fattorie, accrescendo ogni giorno di più il loro potere. Frattanto fingevano di
essere prese da passione per gli uomini, inviavano lettere amorose a giovani
nobili, e, simulando di detestare il fasto e l'insolenza di
Vlasta, e di
voler fuggir via, li pregavano di venire in forze nella selva e di rapirle. |
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g |
Iuuenes puellarum facinora magis admirarentur quam odiẽt, ui荒i blandicijs,
capti non nullarum ecie, erant enim pleræ pulcherrimæ, imperata faceunt.
Sed ingreßi ſyluas, indijs circumuenti, trucidantur. Alij noua fraude in arcẽ
uocantur, Valaſcam uelut per traditionem cõprehenſuri. Qui mox intromißi, ad
unum necãtur. Vbi iam nulla fides uirginibus est, commentum inauditum excogitant. |
I giovani, portati più ad ammirare i crimini delle fanciulle che a detestarli,
vinti dalle dolcezze e catturati dall'aspetto di molte – la maggior parte erano
infatti bellissime – obbedirono premurosamente a quelle suppliche. Ma entrati
nei boschi, intrappolati, vennero trucidati. Ad altri fu permesso di penetrare nella rocca con un nuovo inganno:
[gli avevano detto] che avrebbero preso
Vlasta, da esse
consegnata. Ma appena entrati, vennero uno ad uno. E quando ormai le
fanciulle non ebbero più alcun credito, escogitarono trovate inaudite. |
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De puella Sarca, quo doloſe nobilem Striradum deceperit, morti tradiderit |
La fanciulla Šárka: in qual modo abbia
ingannato fraudolentemente il nobile Ctirad e consegnato a morte |
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h |
Sarca erat inter puellas admodum honesta facie, ſed animo impuro, & ad omne ſcelus
parato. Hãc in altißimo nemore stri荒is pedibus ac manibus arbori alligant,
tubam uenatoriam, ac uaſculum medone plenum iuxta ponunt: Ipſæ in indijs
haud procul deliteſcũt. Solebat hac iter ſæpe facere Stiradus nobilis eques
inter Bohemos opibus & autoritate potens: & qui puellarum tyrannidem præ cæteris
abhorreret at perſequeretur. Is ergo cum ſyluam pro ſuo more uenaturus
intraßet, puellam uin荒am conicatus eßet: miſerandus quid bi ea res uellet
percontatur. |
Tra le fanciulle vi era Šárka, all'apparenza
assai onesta, ma di animo impuro e pronto a ogni misfatto. La legarono in una
profonda foresta, mani e piedi stretti a un albero, e vi posero vicino un
corno da caccia ed un vasetto pieno di idromele, nascondendosi in agguato, poco lontano. Era solito fare spesso quel cammino un certo
Ctirad, nobile cavaliere,
potente tra i Boemi per ricchezza e autorità, il quale oltretutto aborriva
e cercava di abbattere la tirannide femminile. Ed egli, essendo entrato nel bosco,
secondo la sua abitudine, per cacciare, vista la ragazza legata, le chiese,
impietosito, il perché di quella situazione. |
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h |
Cui Sarca: Noſci, inquit, quot ſcelera his in regionibus Valaſca
perpetrarit, dum bi potentiam regnum uendicat. Ego quo pariter in furorem
a荒a, inſaniam eiuſdem alĩdiu ſecuta ſum. Peccaui fateor, penituit me tamen tot
ineptiarum deni, cogitaui quo nam modo ſcelestam relinquere uitam poem: statim
ab iniqua diſcedere domina. Sed dum comitem fugæ quæro prodita capta huc
deducor: hic de me statuerat ſupplicium ſanguinaria carnifex. Interea dum ligor
dum mihi ultima uerba dicuntur, ut auditus est tuorum canum latratus at
hinnitus equorum, illæ meæ latinæ ſalutem pedibus quæere. At ego te uir
clarißime, quem unum perfida turba metuit, per nobilitatem tuam oro miſerere
infelicis fœminæ. Solue me obſecro, at abducito: aut hoc non placet, iugula me potius quam hic uiuam
deſeras. Nam ubi abieris, mox aderit iniqua
uirginum cohors, me diris lacerabunt modis: Iuuat tua manu perire. |
A lui Šárka rispose:
«Hai saputo quanti
delitti in queste regioni Vlasta ha perpetrato, mentre rivendicava a sé il
potere e il regno. Anch'io, talvolta, portata ugualmente alla follia, ho seguito
la sua insania. Confesso di aver peccato, ma alla fine mi sono pentita
di tante pazzie e infatti ho pensato in qual modo potessi lasciare una vita
scellerata: fuggire immediatamente da una persona così malvagia. Ma mentre
cercavo una compagna per la fuga, tradita e catturata, sono stata portata qui dove la
carnefice sanguinaria aveva disposto un supplizio per me. Frattanto, proprio
mentre mi legavano e mi dicevano le ultime parole, non appena hanno udito il latrato dei
tuoi cani e il nitrito dei cavalli, quelle [***] hanno cercato la salvezza a
piedi. Ma io, o uomo illustrissimo, il solo che la perfida turba ha temuto, ti
imploro, in nome della tua nobiltà, di aver compassione di una ragazza infelice.
Scioglimi, ti scongiuro, e portami via. O se non lo vuoi, uccidimi, piuttosto
che lasciarmi qui viva. Infatti, appena te ne sarai andato, subito arriverà il
malvagio gruppo delle fanciulle e mi strazieranno in modi crudeli. È meglio morire
per tua mano». |
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h |
Stiradus lacrymis motus muliebribus, puellæ forma captus, equo deliens
uincula ſoluit: rogat medonis uaſculum, ſunul tuba appota quid bi uelint.
Tum Sarca medomem, inquit, optimum carnifices attulerunt, quo inter cruciandum
uter: hunc iam leta ſecura bibam &, hausto ſumpto, quod reliquum fuit Stirado
propinauit: qui pariter bibit. Erat autẽ potus ſuauißimus, quem Bohemi ex albo
melle conficiunt: ſed ̃ muliebris ſalubre, herbis et carminibus adhibitis, tam
uiro pestilens: qui mentem Stiradi prorſus alienauit. |
Ctirad, sensibile alle lacrime femminili e preso dalla bellezza della fanciulla,
sceso da cavallo, sciolse i lacci e chiese che cosa significassero il vasetto di
idromele e insieme il corno lì accanto. Allora Šárka:
«Questo ottimo idromele l'hanno portato le carnefici affinché, durante la tortura,
lo bevessi ormai lieta e sicura». Poi, ingoiato un sorso, il rimanente lo
propinò a Ctirad che, a sua volta, ne bevve. Era questa una bevanda dolcissima
che i Boemi ricavano da un miele bianco; ma quanto per la donna è salutare, con
l'aggiunta di erbe e formule magiche, tanto è pestifero per l'uomo, e infatti
alienò subito la mente di Ctirad. |
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h |
Exinde, tuba hæc, inquit, mea fuit dum uenarer, quam mihi mortuæ ad collum ſuendere
statuerant peßimæ, qua uenatricis gnum. Inflabo ut intelligant me uiuentem:
ſuis manibus ereptam eße. Mox tuba cecinit. |
Poi aggiunse: «Quel corno è stato mio finché sono andata a caccia, ma quelle
pessime avevano stabilito di appendermelo al collo, una volta morta, a indicare
che ero stata una cacciatrice. Ora lo suonerò affinché capiscano che, essendo viva, sono
stata sottratta alle loro mani». E subito il corno suonò. |
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h |
Valasca ubi ſonitum audiuit, ex
compoto cum armatis puellis adest.
Stiradum incautum capit: comites eius obtruncat. Ferunt dum hæc agerentur,
auditum tota sylua ingentem ueluti ridentium strepitum, ubi diẽ eet hominum
ſolitudo, creditum dæmones de puellarum facinore ac fallacia cachinnatos: illas
uero instru荒o exercitu Stiradum cathenis uin荒um, in cone荒u arcis
Vißegrandens deduxie, ibi proe荒ante Bohemorum principe nobilem uirum rotæ
supplicio, qđ est inter germanos atrocißimum ac miſerrimum, peremiße. |
Vlasta, udito il richiamo, secondo l'accordo, si presentò con le fanciulle armate.
Catturò l'incauto Ctirad, dopo di che il suo seguito lo massacrò. Dicono che, mentre
avvenivano queste cose, si udì in tutta la selva un immenso fragore di risate,
laddove da lungo tempo c'era stata assenza di uomini. E si credette che dei dèmoni
avessero riso sgangheratamente sui misfatti e le falsità delle donne, e che in
realtà quelle, organizzato un esercito, avevano portato Ctirad in catene alla
rocca di Vyšehrad e lì, di fronte al kníže dei Boemi, uccisero il nobile uomo
col supplizio della ruota, che tra i Germani è il più atroce e miserevole. |
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h |
Post hæc iam plane regionis d ominas uiros bi aſuuiße ex quorum conplexu nouis
fetibus rempublicam ſustentarent, ſanxitum lege, ut natæ fœminæ diligenter
aßeruarentur: maſculis dextri oculi eruerentur, amputarentur pollices, ne uiri
fa荒i arcus tẽdere aut armis uti ualerent. Id aliquamdiu fa荒itatum. |
Dopo di ciò, [dicono che,] ormai pienamente padrone del territorio, [le donne] accettarono
mariti per poter sostenere la loro società con nuovi nati, e fu sancito per
legge che le nate femmine fossero protette con molta cura, mentre ai maschi
fosse strappato l'occhio destro e fossero amputati i pollici, affinché, divenuti
adulti, non fossero in grado di tendere l'arco o di usare le armi. Ciò fu
praticato comunemente per molto tempo. |
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h |
Septẽ annis
ea pestis Bohemiam afflixit: tributaria magna ex parte prouincia uirginibus fuit.
Qui detre荒auere imperium intra mœnia clau, nuſquam exire audentes, magnis
incommodis a荒i ſunt. Deni cum neceßaria deeßent, eo perdu荒a res uideretur, ut
coa荒os fame deditionem facere oporteret, tumultuarie principem adeunt, dirum
puellarum bellum deplorant, ignauiam ducis accuſant, malle ſe fœminis obedire
quam perire inedia dicunt: aut populum tueatur, aut meliori cedat: probris &
contumelijs minas adijciunt. |
Tale calamità afflisse la Boemia per sette anni e gran parte della provincia fu
tributaria nei confronti delle fanciulle. I detrattori di questo potere, chiusi
entro le mura [del Vyšehrad], non osando evadere in nessun luogo, dovettero
affrontare enormi difficoltà.
Alla fine, mancando il necessario e sembrando che la situazione fosse arrivata
al punto che, costretti dalla fame, fosse opportuno arrendersi, in gran fretta
si presentarono al kníže, deplorarono la spietata guerra delle giovani donne,
accusarono il capo di ignavia, affermarono di preferire l'obbedienza alle donne che
la morte per inedia: o si prendesse cura del popolo o cedesse a chi era migliore;
quindi, alle offese vergognose aggiunsero le minacce. |
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h |
Primislaus tot angustijs circunuentus, cum non tam armis, quam ſortibus ualeret,
plebem paucos adhuc dies expe荒are hortatur: id faciant, puellarum excidium
imminere. Paret moltitudo. Ipſe medio tempore scribit Valaſcæ, iniußu ſuo
optimates prouinciæ arma in eam ſumpße: placere bi eos ſubie pœnas. |
Přemysl, circondato da tante angustie, dal momento che non si intendeva tanto di
armi quanto di divinazioni, esorta la plebe ad aspettare ancora pochi giorni,
ché se faranno così sarà imminente l'eccidio delle fanciulle. La folla
accondiscende. Egli stesso, nel frattempo, scrive a Vlasta dicendo che senza suo
ordine gli ottimati della provincia avevano preso le armi contro di lei, e
perciò gli piaceva che quelli ne subissero le conseguenze. |
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h |
Se illam filiæ loco amare: ne inuidere principatum, quæ coniugis ſuæ Libuæ
diſcipula extitißet: imperiũ uirtutæ ſuæ deberi, quæ Bohemiam uirili audacia
bello attriuißet: ſenium ſuum regno ineptum, ne filio impuberi gubernationem
credẽdam, monere ut arcem Vißegradenſem ex manibus ſuis accipiat, c Bohemiam
totam in potestatem eius uenturam: filio ̃ uelit partẽ faciat. Sibi priuato restat
quod ætatis, uiuere libeat: at in agrũ reuerti, quẽ reliquiet inuitus. Potestatem
quam bi fœmina tradidiet, iure optimo ſe fœminæ restituere. |
Egli l'amava come una figlia e non le invidiava il principato, in quanto era
riuscita come allieva di sua moglie Libuše: il potere si doveva al suo valore,
lei che si era attribuita la Boemia in guerra con audacia virile; il potere di
lui, invece, quello dei vecchi, era inadeguato per un principato e non si doveva
affidare il governo al figlio adolescente. Le raccomandò di prendere dalle sue
mani la rocca di Vyšehrad, così tutta quanta la Boemia sarebbe venuta in suo
potere, e che riservasse al figlio la parte che ella voleva. A lui, da privato,
sarebbe rimasto quanto l'età gli consentiva di vivere, e di ritornare alla campagna che
aveva lasciato malvolentieri. Disse che quel potere che una donna si era
conquistata, lui, a buon diritto, lo restituiva a una donna. |
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h |
Capitur Valasca ſuis artibus, mia puellarum cohorte, tradi bi arcem postulat.
Intromiæ uirgines: apud principem opipare epulantur. Interea prolientes ex
indijs iuuenes armati, puellas omnes trucidant, nec morati castellum Dieuizũ
cum exercitu petunt. |
Vlasta venne sedotta da quel raggiro e, inviata una schiera di
ragazze, gli fece
chiedere di consegnare la fortezza. Fatte entrare le fanciulle, esse banchettarono
lautamente con il kníže. Intanto, balzando fuori dai loro nascondigli, dei
giovani armati trucidarono tutte le ragazze e senza indugio raggiunsero con un
esercito il castello di Děvín. |
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h |
Valasca re cognita, furore amens, cum paucis obuiam egreditur: cõſerto prælio
prius̃ comites aßint, dum strenue pugnat, inter conſertißimas hostium turmas
occiditur. Subſecutæ uirgines, ubi dominam cecidie cognoſcunt, non tam e ui荒oriæ,
quam ultionis ardore certamen instaurant. Pugnatum est alĩdiu, nunc huc, nunc
illuc ui荒oria inclinante: ad extremũ infeliciter præliantes fœminæ, cæs ̃
pluribus: fugæ ſe commiſerunt. |
Saputo ciò, Vlasta, delirante di furore, uscì con poche
ragazze incontro a
loro e, stretta nella mischia, prima di unirsi alle compagne, mentre combatteva
accanitamente, venne uccisa tra le pressanti torme nemiche. Le fanciulle,
arrivate subito dopo, appena vennero a sapere che la loro signora era caduta, ripresero
lo scontro, non tanto con la speranza della vittoria, quanto con l'ardore della
vendetta. Si combatté a lungo, mentre la vittoria pendeva ora da una
parte, ora dall'altra. Alla fine le donne, che combattevano disperatamente,
essendone state uccise la maggior parte, si dettero alla fuga. |
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h |
Subſecuti hostes, uno agmine, ui荒ores cum ui荒is castellũ irrupere: potiti arcæ,
quicquid fœminei ſexus inuentum est, ferro extinxere: at hoc pa荒o magnanimi
iuuenes dominatu fœmineo Bohemiam liberarunt. Valaſca inter fœminas clarißimas
numeranda plus auſa ̃ ſexui ſuo congrueret, inſepulto cadauere iacens, feris ac
uolucribus eſca fuit. |
I nemici che giunsero di lì a poco, in una sola schiera, i vincitori con i
vinti, irruppero nella fortezza e, impadronitisi della roccaforte, distrussero
con la spada ciò che fu trovato appartenente alle donne: in questo modo, dei
giovani magnanimi liberarono la Boemia dal dominio femminile.
Vlasta, da
annoverare tra le donne più famose, avendo osato più di quanto fosse consono al
suo sesso, giacendo senza sepoltura, divenne preda di uccelli e di fiere. |
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De Nimislao quarto, ac Mnata quinto, Vorcio ſexto, necnon Vinslao ſeptimo
Bohemorũ ducibus |
Nezamysl quarto, Mnatha quinto, Vojen sesto Vnislav settimo kníže
dei Boemi |
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i |
Primeslao ex Libua tres filij nati, duo immaturo rapti funere, tertius
morienti ſeni hæres di荒us, Nimislaus nomine, quod nihil excogitans interpretatur.
Fuit enim stupidi ingenij, & prorſus iners: inter ſcorta & concubinas ocio
marcens. |
Přemysl ebbe da Libuše tre figli, di cui due morirono di morte
prematura; il
terzo, proclamato erede, dal vecchio sul letto di morte, si chiamava
Nezamysl,
dal momento che non capiva nulla del pensiero. Fu infatti di scarsa intelligenza
e totalmente infingardo, crogiolandosi nell'ozio tra meretrici e concubine. |
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i |
Molliciem eius fortuna confouit: quæ pacem illi perpetuam dedit, nullo uicinorum
arma mouente, nec ſeditionibus studente populo: quem diutina uirginũ bella
prorſus extenuauerãt. |
La sua mollezza fu temperata dalla fortuna che gli concesse una pace duratura,
dal momento che nessuno dei popoli vicini mosse armi contro di lui, né il popolo
fu disposto a insurrezioni, estenuato certamente dalle lunghe guerre delle fanciulle. |
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i |
Huic Mnata filius ſubſecutus est. Mnatã Vorcius: cui duo fuerunt filij, Vinslaus
& Vratislaus. Inter quos moriens partitus est terram. Vinslao Praga & ducatus
Bohemiæ ceit, Vratislao Lucens pricipatus: qui postea Zacens di荒us est. |
A costui succedette il figlio Mnata. A
Mnata, Vojen, il quale ebbe due figli,
Vnislav e Vratislav
e, morendo, spartì il territorio tra loro. A Vnislav toccò Praha, ducato boemo,
a Vratislav il principato dei Lučané che in seguito furono
detti Žatecký. |
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De Grezomislao, qui & Neclam di荒us est, o荒auo Bohemorum duce.
Et graui bello quod geßit cum patruo ſuo Vratislao |
Křesomysl, detto Neklan, ottavo kníže dei Boemi. L'aspra guerra che combatté contro lo zio paterno Vratislav |
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j |
Ex Vinslao natus est Grezomislaus, qui & Neclam di荒us est, unicum timoris & pacis
exemplũ. Cuius ignauiam in animo uoluens patruus, optimum instrumentum ad
ſubigendum bi Bohemiam ratus, arma mouens plura aduerſus eũ bella feliciter,
geßit. Quibus magnificatus & au荒us, urbem condidit inter duos montes Mechiam &
Pubecham, quam de ſuo nomine Vratislauiam noncupauit. Neque contentus prioribus
ui荒orijs, nouum nepoti bellum indicit: capitalem pœnã interminans, qui gladij
longitudinem æquantes in prælio deeßent. Iubet quo purpuratos ſuos falcones at
accipitres ſecum afferrant, quos humana carne paſcere uelit: non ad pugnam, ſed
ad cædem iturus. Postremo ſe nulli ætati parſurum dicit, ipſos ͂ la荒enes pueros
ab ubere matrũ rapi at confodi mandat, mãmas͂ mulierum pullis equorum ſugendas
tradi. |
Da Vnislav nacque
Křesomysl, che fu chiamato anche
Neklan, unico esempio di timore
e di inerzia. Lo zio paterno [Vratislav], meditando sulla sua ignavia e pensando che fosse un ottimo strumento per sottomettere la Boemia, prendendo le armi, portò a
termine con successo molte guerre contro di lui. Da queste esaltato e
accresciuto in potere, [Vratislav]fondò una città tra i monti Mechia e Pubeca, che dal suo
nome chiamò Vratislav. Poi, non contento delle precedenti vittorie, dichiarò
al nipote una nuova guerra, minacciando la pena capitale per coloro che, alti
quanto una spada, non avessero preso parte alla battaglia. Ordinò pure ai suoi
dignitari di portare con sé falconi e sparvieri affinché si nutrissero di carne
umana, come se stesse andando non a una battaglia, ma a un massacro. Da ultimo
affermò di non voler risparmiare alcuna età e ordinò che gli stessi lattanti
fossero strappati dal seno materno e venissero uccisi e che le mammelle delle donne
fossero porte per essere succhiate dai piccoli puledri. |
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j |
Inſolens ſane ac ſuperbißimus, & fortae crudelior quam uicißet. Parte alia,
Neclam uir muliere corruptior, trepidare atque pauere, nihil conlij, nihil ei habere, ultimam uitæ ſuæ diem adueniße putare, non gladium intueri, non
milites affari poße, alieno tamen du荒us conlio ſe pugnæ interfuturum dicit. Et
accerto clam Sclercio nobili equite, figura corporis bi quam permili,
animi uero fortitudine & corporis robore dißimillimo. Fuit enim manu
promptißimus, & audaci animo, atque in primis rei bellicæ peritißimus. Hunc fuis
armis indutum ac ingnibus principalibus honestatum, quã paucißimis rem entibus, dare ducis munia iubet. |
Certamente [Vratislav era] tracotante, molto superbo e forse più crudele di quanto sarebbe stato
se avesse vinto. D'altra parte, Neklan, uomo
assai più vizioso di una donna, trepidava e aveva paura, senza più senno né speranza, ritenendo che fosse giunto
l'ultimo giorno della sua vita, di non potersi affidare alla spada, né di poter
chiamare a raccolta i soldati; poi, però, spinto da decisioni altrui, disse che
avrebbe partecipato allo scontro. Convocò in segreto un certo
Tyr
Čestmír, nobile
cavaliere, a lui somigliantissimo nel fisico, in realtà molto diverso per forza
d'animo e vigore virile. Questi era, infatti, molto rapido nell'azione, di animo
audace e soprattutto espertissimo in ambito militare. Quindi [Neklan] affida a
costui, rivestito delle sue armi e decorato delle sue insegne (cosa di cui porta
a conoscenza pochissimi), le funzioni di comandante. |
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j |
Multa interim uatum præsagia, fœminarum quo iritu, ut aiunt, phitonico
imbutarum uaticinia exquiriuntur. Ex quibus una placandos deos hostia reondit: c enim ui荒oriam repromitti. Cui Neclam, plus religioni quam armis fidens, cæſo
quem ſortes degnauere iuuene, morem geßit. In alia parte mulierem fuiße
tradunt, quæ priuigno bellum petituro, Vratislaum in pugna caſurum, maiorem ͂
populi partem cum eo interituram præ dixerit: poe tamen euadere iuuenem, bi crederetur. Adoleſcenti ſe credere, at imperata fa荒urum reondenti,
iußie ut pergeret, quando remanere domi capitale eet, primum qui obuius
fieret occidere, at utras͂ aures cadenti amputare, & in pera recondere. Ex in
gladio inter priores equipedes gnum crucis in terram facere: qua deoſculata,
equum aſcendentem fugã maturare. |
Nel frattempo, s'interpretano i presagi dei vati e anche i vaticini di donne
imbevute, come si dice, di spirito pitonico. Di queste una risponde che bisogna
placare gli dèi con una vittima: così, infatti, si sarebbe ottenuta la vittoria.
E Neklan, confidando più nelle superstizioni che nelle armi, assecondò la
volontà di costei uccidendo il giovane che le sorti avevano indicato. Secondo
una diversa versione, una donna aveva predetto al figliastro che si avviava alla
guerra, che Vratislav sarebbe stato ucciso in battaglia e con lui sarebbe
sarebbe caduta una gran parte del popolo; ma che, tuttavia, lui avrebbe potuto
salvarsi se le avesse prestato fede. E al ragazzo, che rispondeva di credere e
che avrebbe eseguito gli ordini, si dice abbia comandato di muoversi, dal
momento che rimanere in casa era pericolosissimo, e di uccidere il primo che gli
si fosse trovato di fronte, di mozzargli entrambe le orecchie e di nasconderle
dentro una sacca. Quindi con la spada di tracciare per terra una croce, tra le
zampe anteriori del cavallo; e fatto ciò, di montare in arcioni e affrettarsi
alla fuga. |
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j |
Pugna in campo cui Thuſco nomen est committitur, concurrunt acies, magnis utrin
uiribus ac clamoribus certatur. Stat belli fortuna diu anceps, multi hinc at
inde uulnurantur, prosternuntur, occiduntur. Ad ultimum Bohemi qui non pro
gloria, aut ampliando imperio, ſed pro uita, pro ſocis, pro arcis, pro uxoribus
ac liberis in aciem uenißent, deeratione in uirtutem uerſa, audacibus animis
inui荒o robore prælientes, ui荒oria potiũtur, non ne Sclercij magna laude et
ſumma gloria: cuius in hoc bello, tũ ars, tũ uirtus, plurimũ ualuit. |
Iniziò la battaglia nel campo chiamato Tursko; accorsero schiere, si combatté da
ogni parte con violenza e alti clamori. L'esito dello scontro a lungo rimase
incerto: molti da una parte e dall'altra vennero feriti, abbattuti, uccisi. Alla
fine i Boemi, che erano scesi in battaglia non per la gloria o per ampliare i
loro domini, ma per la vita, per i loro alleati, per i loro beni, per le mogli e
i figli, trasformata la disperazione in valore, combattendo con animo audace e
invincibile forza, ottennero la vittoria, con grande lode e somma gloria di
Štyr. Di costui, in questa guerra, ebbero soprattutto successo la perizia e
il valore. |
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j |
Occiditur tamẽ inter præliãdũ, & ut iuerat, in eo cãpo ſepultus est, ubi præliũ
gestũ, ſua morte, uitã ducis, & patriæ liberationẽ obtinuit. |
Durante il combattimento, tuttavia, [Štyr] fu ucciso e, come aveva disposto,
venne sepolto in quel campo dove si era svolta la battaglia. Con la sua morte
ottenne la vita del kníže e la liberazione della patria. |
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j |
Parta aũt alia, duce prostrato, ͂ paucißimi euaſerũt. Aiũt adoleſcentem, qui
nouercæ iußioni paruerat, domum redeuntem, uxorem ſuam quam unix amauit,
interemptam reiße, ambabus carentem auribus, pe荒us͂ confoam: et qua hosti
amputauerat aures, coniugis ſuæ fuie, stupemem tristem͂ cognouie. Tantum præstigia
pount, aut ueneficarum carmina mulierum. |
Diviso ciò che rimaneva, morto il capo, scamparono in pochissimi. Dicono che il
giovane, il quale aveva obbedito agli ordini della matrigna, ritornato a casa,
avesse trovato la moglie, l'unica donna amata, uccisa, colpita al petto e priva
di entrambe le orecchie, e che avesse capito, pieno di smarrimento e di
tristezza, che le orecchie mozzate al nemico erano quelle di sua moglie. Tanto
possono i presagi e gli incantesimi delle donne. |
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De infidelitate Duringi, qui Vratislai filium bi commium
interfecit, pœnam͂ condignam dedit |
L'infedeltà di Duryňk, che uccise il figlio di Vratislav e fu degnamente punito |
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k |
Bohemi parta ui荒oria, occiſo Vratislao, terram eius ferro at igne deuastant:
inuentum͂ Vratislai filium impuberem, principi tradunt. Qui miſertus ætatis,
patruelem educandum Duringo, ad Egram fluuium imperium poßidenti, Vratislao
gratißimo quondam comiti tradidit. Qui cæca cupidine captus, tan͂ initurus
principis gratiam, puero qui ſuper Egram, qui tũ glacie constri荒us erat, perfra荒o
gelu piſces quærenti, gladio caput abstulit: ſecum Pragam deferens, ubi ad Neclam
introdu荒us est proferens cruentum caput, foliũ, inquit, tuum hodie firmaui, aut
perire hoc, aut te oportuit. Securius in utramuis aurẽ post hac dormies: emulo
regni ſublato. |
Ottenuta la vittoria e ucciso Vratislav, i Boemi
misero il suo territorio a
ferro e a fuoco, quindi, trovato il figlio di Vratislav, ancora fanciullo, lo
consegnarono al kníže. Questi, avendo compassione della sua età, affidò il
cugino, affinché venisse educato, a Duryňk, un tempo carissimo amico di
Vratislav,
il quale aveva la sua giurisdizione vicino al fiume Ohře. Ma poi, preso da cieca
cupidigia, ma anche per entrare nelle grazie del principe, [condusse] il bambino
sull'Ohře, allora gelato, e dopo aver spezzato il ghiaccio come per cercare
pesci, gli mozzò la testa con la spada per poi portarla a Praga. Fu introdotto
presso Neklan, e mostrando il capo insanguinato, disse:
«Oggi ho consolidato il
tuo trono; era necessario che morisse costui, o tu stesso. Ora, dormirai più
sicuro con entrambe le orecchie, essendo stato tolto di mezzo il rivale del
regno». |
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k |
Motus haud aliter ͂ erat princeps tam diro e荒aculo: perfidiam, ait, nulla
beneficia uincunt. Vt aleres puerum, non ut occideres, dredidi. Te ne meum
imperium, ne amici memoria, ne innocentis pupilli miſeratio retraxit ab
ſcelere. At mihi quietem parare uoluisti. Tui ergo meriti hæc ſumito præmia. Ex
tribus mortibus, quam malueris optionem habeto: aut gladio te ipsum confodito,
aut laqueo perstringito guttur, aut ex Vißegradens rupe preceps ruito. |
Non altrimenti si commesse il kníže per tanto crudele spettacolo, e disse:
«Nessun beneficio può meritare la perfidia. Ti ho affidato il ragazzo perché tu
lo facessi crescere, non per ucciderlo. Non ti hanno trattenuto da questo
misfatto né il tuo potere, né il ricordo dell'amico, ne la pietà per un
fanciullo innocente. Ma hai voluto badare alla mia tranquillità. Perciò prenditi
questi premi per i tuoi meriti. Di tre tipi di morte avrai la scelta, come
preferisci: o trafiggerai te stesso con la spada, o ti serrerai la gola con un
nodo scorsoio, o rovinerai precipitando dalla rupe di Vyšehrad». |
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k |
Duringus accepta ſententia, in alni arbore, quæ propinqua fuit ſeſe ſuẽndit:
alnus postea quamdiu remant, arbor Duringa di荒a est. |
Duryňk, udita la sentenza, si appese a un ontano che si trovava nei pressi. In
seguito l'ontano, per tutto il tempo che rimase là, fu detto l'albero di
Duryňk. |
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De Nostirico none, et Boruoio decimo Bohemorum ducibus. Qui &
ultimus Paganorum, ducum fuit, & tandem cum uxore ſua fidẽ Christi ſuſcipiẽs
baptizatus estst |
Hostivít e Bořivoj, nono e decimo knížata dei Boemi. Bořivoj fu l'ultimo kníže
pagano. Finalmente, poi, accettando la fede in Cristo, con sua moglie fu
battezzato |
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l |
Neclam ultro moriens, Nostiricum maiorem natu filium hæredem instituit, Dipoldo
prouinciã Surimenſem testamento dimit. Nostirico Boruoius filius ſucceßit,
ultimus Paganorũ ducum: qui tamen et ipſe imperante Arnulfo Cæſare, a beato
Methodio Morauorum archiepiſcopo, cum Ludmilla coniuge ad baptiſmi gratiã percu荒us
est: Nongentemo nonagemo quinto anno post Christi ſaluatoris nostri ortum.
Ludmilla ſan荒a mulier habita, etiam miraculis cluruie fertur. |
Neklan, morendo in modo naturale, nominò erede
Hostivít, il figlio maggiore, e
lasciò la provincia di Kouřim a [suo fratello] Děpolt. A
Hostivít succedette il figlio Bořivoj,
ultimo dei knížata pagani. Egli, tuttavia, sotto il governo dell'imperatore
Arnulf, fu condotto alla grazia del battesimo dal beato Methódios, arcivescovo
dei Moravané, insieme alla moglie Ludmila: novecentonovantacinque anni dopo la
nascita di Cristo nostro Salvatore. Si tramanda che Ludmila, considerata santa,
ebbe fama anche per i suoi miracoli. |
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