NOTE
1
― L'inizio del poema è
mutilo. L'incipit si trovava
probabilmente nella rilegatura
anteriore ed è
andato perduto insieme ad essa.
|
Morte di un avaro |
Hieronymus Bosch (1450-1516) |
Dipinto ispirato al
motivo dell'ars moriendi. Il demonio tenta di
allettare il morente mostrandogli un sacco pieno di
denaro, in un ultimo tentativo di sviare la sua
attenzione verso i beni terreni, mentre l'angelo gli
indica il Crocifisso; intanto già la Morte fa capolino nella stanza. |
10
― Il motivo dell'angelo e del diavolo che si contendono le anime dei morti ha
forse le sue basi nella Lettera di Giuda, dove
l'arcangelo Mîḵāʾēl e il diavolo si affrontano contendendosi le spoglie
mortali di
Mōšẹh.
Invece, l'arcangelo Mîḵāʾēl, quando
contendeva con il diavolo
disputando per il corpo di
Mōšẹh,
non osò pronunziare contro di lui
un giudizio ingiurioso, ma disse:
«Ti sgridi il Signore!» |
Epistolḗ Ioúda [9] |
Nell'apocalisse di Paulus (✍ III sec.), un testo ben noto in tutto il
Medioevo, si mette a confronto la morte di un malvagio con la
morte di un giusto. Nel momento del trapasso di quest'ultimo,
l'anima si trova di fronte a un assembramento di demoni pronti
a ghermirla, ma a questo punto intervengono gli angeli a
salvarla e si accende uno scontro...
C'è una tenzone fra gli angeli
buoni e quelli cattivi. [...]. E i
principati e gli spiriti di
malvagità, venuti a prendere
[l'anima], nulla trovando,
digrignano i loro denti. L'angelo
custode ordina loro di
allontanarsi:
«Voi
avete tentato quest'anima ed essa
non vi ha prestato ascolto»... |
Apokálypsis Paúlou |
La scena era ancora nota alla tradizione medievale. Nel quinto
canto del
Purgatorio,
Bonconte da
Montefeltro, ucciso nella battaglia
di Campaldino, racconta a Dante di
come la sua anima, alla morte,
fosse stata contesa da un angelo e un diavolo. Il primo aveva
vinto, e il demonio, infuriato, aveva oltraggiato il cadavere
gettandolo in un fiume:
Io dirò vero, e tu 'l ridì tra'
vivi:
l'angel di Dio mi prese, e quel
d'inferno
gridava:
«O
tu del ciel, perché mi privi? |
Tu te ne porti di costui l'etterno
per una lagrimetta che 'l mi
toglie;
ma io farò de l'altro altro
governo!» |
Commedia
>
Purgatorio
[V: 103-108] |
Questo motivo entrò di prepotenza
nelle concezioni dell'ars moriendi che, a partire dal
XV secolo, si svilupparono nella letteratura e, soprattutto,
nell'arte. Si immaginava che il diavolo e l'angelo comparissero al capezzale del
morente nell'ultimo tentativo di accaparrarsi la sua anima. La disputa per la divisione delle anime, d'altra parte, sembra
non esclusa dal mondo pagano. Sappiamo che
Óðinn,
Þórr e
Freyja si appropriavano
delle loro porzioni di anime, anche se non risulta tra loro vi
fossero scontri violenti.
72-97
― Nella battaglia del profeta Elias (ebr.
liyyāhû, it. Elia) contro l'Antichristo si è voluta vedere l'elaborazione di un precedente
canto pagano, e si è pensato alla scena dello scontro tra
Þórr e il serpente
Jǫrmungandr,
che è una delle grandi battaglie escatologiche del mito norreno del Ragnarǫk.
Þá kømr enn mæri
mǫgr Hlǫðvinjar
gengr Óðins sonr
ormi mæta.
Drepr af móði
Miðgarðs véurr;
munu halir allir
heimstǫð ryðja;
gengr fet níu
Fjǫrgynjar burr
neppr frá naðri,
níðs ókvíðinn.
|
Ecco viene il famoso
figlio di
Hlóðyn,
s'avanza il figlio di
Óðinn
a contrastare il serpente.
Con ira lui colpisce
il difensore di
Miðgarðr.
Gli uomini tutti
sgombreranno il mondo.
Nove passi indietreggia
il figlio di
Fjǫrgyn,
muore lontano dal serpe
che disonore non teme. |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[56] |
Detto questo, però, non si può
negare al Mūspilli
un'intonazione profondamente
cristiana, le cui suggestioni attingono per la maggior parte
all'apocalisse giovannea e ad altri
passi delle Scritture. Anche il motivo del ritorno
futuro di liyyāhû nei tempi
dell'Anticristo, fa parte della tradizione apocalittica
cristiana, anche se l'autore del Mūspilli
sembra averla sviluppata in
maniera originale. Alla base
vi è un passo nell'undicesimo capitolo dell'apocalisse nel quale si parla di due «testimoni» [mártysín],
vestiti di sacco, che compariranno negli ultimi giorni del
mondo. Chiamati «olivi» e «lampade», essi sono investiti
di terrificanti poteri. Possono bruciare col fuoco della
loro bocca chiunque voglia far loro del male. Possono
inoltre impedire alla pioggia di cadere, cambiare l'acqua
in sangue e sferzare la terra con ogni tipo di flagello.
Poi, all'inizio dell'ultima settimana che precede la fine
del mondo, i due «testimoni» vengono uccisi dalla Bestia
che sale dall'Abisso, e i loro corpi vengono esposti al
dileggio dell'umanità corrotta. Ma dopo tre giorni e
mezzo, uno spirito divino resuscita i due testimoni, ed essi
salgono al cielo in una nube, mentre un terremoto devasta la
città che aveva negato loro la sepoltura.
Ma
farò in modo che i miei due
testimoni, vestiti di sacco,
compiano la loro missione di
profeti per milleduecentosessanta
giorni.
Questi sono i due olivi e le due
lampade che stanno davanti al
Signore della terra.
Se qualcuno pensasse di far loro
del male, uscirà dalla loro bocca
un fuoco che divorerà i loro
nemici. Così deve perire chiunque
pensi di far loro del male.
Essi hanno il potere di chiudere il
cielo, perché non cada pioggia nei
giorni del loro ministero
profetico. Essi hanno anche potere
di cambiar l'acqua in sangue e di
colpire la terra con ogni sorta di
flagelli tutte le volte che lo
vorranno. |
Quando poi avranno compiuto la loro
testimonianza, la Bestia che sale
dall'Abisso farà guerra contro di
loro, li vincerà e li ucciderà. I
loro cadaveri rimarranno esposti
sulla piazza della grande città,
che simbolicamente si chiama Sodoma
ed Egitto, dove appunto il loro
Signore fu crocifisso. Uomini di
ogni popolo, tribù, lingua e
nazione vedranno i loro cadaveri
per tre giorni e mezzo e non
permetteranno che i loro cadaveri
vengano deposti in un sepolcro. Gli
abitanti della terra faranno festa
su di loro, si rallegreranno e si
scambieranno doni, perché questi
due profeti erano il tormento degli
abitanti della terra. |
Ma dopo tre giorni e mezzo, un
soffio di vita procedente da Dio
entrò in essi e si alzarono in
piedi, con grande terrore di quelli
che stavano a guardarli. Allora
udirono un grido possente dal
cielo: «Salite quassù» e salirono
al cielo in una nube sotto gli
sguardi dei loro nemici. In quello
stesso momento ci fu un grande
terremoto che fece crollare un
decimo della città: perirono in
quel terremoto settemila persone; i
superstiti presi da terrore davano
gloria al Dio del cielo. |
Apokálypsis Iōánnou [11: 3-13] |
Fin dall'antichità gli esegeti si sono interrogati sull'identità dei due
«testimoni». Vengono presentati come i «due olivi» e le «due lampade», con
immagini che rimandano a Zəḵaryāh [4:
1-14]. Che siano in numero di due ha probabilmente la
sua ragione nel fatto che la legge mosaica chiedeva due testimoni
per la validità della testimonianza processuale. In quanto alla loro identità, si è voluto vedere in
essi delle manifestazioni simboliche (la Legge i Profeti, la
Legge Mosaica e il Vangelo di Cristo), oppure lo si è voluti
identificare con vari personaggi scritturali. Nella versione etiopica dell'Apokálypsis
Pétrou, uno degli apocrifi apocalittici
più antichi (la sua composizione è da porsi nel 133-135) e a
lungo accettato come scrittura canonica, è scritto che il patriarca
Ḥănôḵ e il profeta
liyyāhû ritorneranno sulla
Terra allorché l'Anticristo verrà a compiere la sua opera nefasta tra gli
uomini: «Saranno inviati Ḥănôḵ
ed liyyāhû a svelare che costui è
l'ingannatore che deve venire in questo mondo e manifestare
segni e prodigi per ingannare»
(Apokálypsis Pétrou). Anche se il passo non parla di
un'uccisione di Ḥănôḵ ed
liyyāhû per mano dell'Anticristo, la
loro identificazione con i «testimoni» dell'Apokálypsis
Iōannou venne accettata da molti esegeti successivi. La scelta del patriarca
Ḥănôḵ e del profeta
liyyāhû è d'altronde giustificata dal singolare
destino che accomuna i due personaggi: nelle Scritture non si parla della loro
morte, bensì della loro scomparsa dalla vista degli uomini (rispettivamente
nella Genesi, Bǝrēʾšîṯ [5:
24] e nel Secondo libro dei Re, Sēẹr Mǝlākîm Bêṯ
[2: 11]). Sembrava quindi logico ritenere che fossero
proprio Ḥănôḵ ed liyyāhû a ricomparire alla
fine del mondo per smascherare le menzogne dell'Anticristo. Tale identificazione
venne accettata, con una certa autorità, dallo pseudo-Hippolytus
(inizio del III secolo), nel quale si attribuisce
al martirio dei due «testimoni» una funzione rilevante nello scenario dei tempi finali
(mártys in greco vuol dire appunto «testimone»): «Così, dicendo una sola settimana,
[Giovanni]
indicò l'ultima, che verrà negli
ultimi tempi alla fine di tutto il
mondo, e di questa settimana i due
profeti Ḥănôḵ ed liyyāhû occuperanno
la metà. Predicheranno infatti milleduecentosessanta
giorni, rivestiti di sacco, predicando penitenza al popolo e
alle genti tutte»
(Beatissimi Hippolyti episcopi et martyris oratio de
consummatione mundi, ac de Antichristo, et secundo adventu Domini nostri Iesu
Christi [62: 2]).
Questa interpretazione non
impedirà l'affiorare di ipotesi alternative (liyyāhû e
Mōšẹh, liyyāhû
e Yirməyāhû (it. Geremia), gli apostoli
Pétros e
Paûlos, i fratelli Iōánnēs e
Iákōbos (i figli di Zebedaîos), o i protomartiri
Stéphanos e Iákōbos); ma rispetto a quella formata da
Ḥănôḵ ed liyyāhû, queste ultime coppie
godranno di minor fortuna nel panorama esegetico antico e
medievale
(Biguzzi
2004 | Potestà ~ Rizzi 2005). D'altronde,
di
un ritorno di
liyyāhû alla vigilia della fine del mondo già
avevano parlato i libri profetici, come in Malachia: «Ecco, io invierò il
profeta liyyāhû prima che giunga il
giorno grande e terribile del Signore» (Malʾāḵî
[4: 5]), di fatto giustificando la sua presenza nella
letteratura apocalittica. È per una di queste vie che liyyāhû
– ormai privato del suo compagno
– è finito per essere collocato nello scenario
escatologico tracciato dal Mūspilli.
Il panorama è però cambiato: liyyāhû non è più il martire
ucciso dall'Anticristo, ma è diventato il guerriero che lo abbatte
per assicurare la vita eterna all'umanità.
Difficile dire dietro quale autorità l'ignoto autore del Mūspilli
si sia sentito autorizzato a elaborare la figura di
liyyāhû, inserendolo in un
combattimento escatologico. Nel secondo libro degli
Oracula Sibyllina,
composto in ambienti cristiani intorno all'anno 150, si descrive tra l'altro il ritorno trionfante del profeta
liyyāhû (il «Tisbita»,
cioè della città di Tisbe) su un carro celeste, alla vigilia
della fine
del mondo:
Allora dal cielo discende il
Tisbita sopra la terra,
reggendo il carro celeste, e tre
segni porta agli uomini,
che sulla terra hanno dimora, i
segni della vita prossima a
svanire. |
Oracula Sibyllina
[II: 187-189] |
Gli Oracula Sibyllina furono assai ben conosciuti e
citati nel mondo tardo-antico e medievale, ed è evidente che
l'autore del Mūspilli
li aveva ben presenti nel corso della composizione del
poemetto. La scena dell'arrivo di
liyyāhû>Elias sul suo carro di fuoco non
sarebbe sembrata certamente incongrua a un poeta di cultura
germanica, abituato a
figurarsi il dio
Þórr in contesti non
dissimili. D'altronde liyyāhû e
Þórr sono personaggi
che si parlano a vicenda: il carro di fuoco sul quale
liyyāhû ascende al cielo può
benissimo essere stato associato al carro di
Þórr, le cui ruote
creano il rimbombo del tuono tra le nubi. Ricordiamo che nei paesi slavi, il
profeta era chiamato Il'ja Gromovnik, «Elia il folgoratore» e nelle icone lo si
rappresentava a volte assiso nel suo carro, nell'atto di
bersagliare i diavoli con i fulmini, e come tale era stato
identificato col dio-tuono
Perunŭ.
98-123
― Il motivo
dell'ecpirosi (distruzione del
mondo con il fuoco) è già
presente nel mito norreno.
La
Vǫluspá
descrive l'incendio finale proprio nella strofa successiva a quella in
cui aveva trattato dello scontro tra
Þórr e il serpente
Jǫrmungandr.
Sól tér sortna,
sigr fold í mar,
hverfa af himni
heiðar stjǫrnur;
geisar eimi
ok aldrnari;
leikr hár hiti
við himin sjalfan.
|
Il sole si oscura
la terra sprofonda nel mare,
scompaiono dal cielo
le stelle lucenti.
Sibila il vapore
con quel che alimenta la vita,
alta gioca la vampa
col cielo stesso. |
Ljóða Edda >
Vǫluspá
[57] |
Nella
Vǫluspá
non sembra tuttavia esservi un legame logico tra il
combattimento tra
Þórr e il serpente
e il successivo incendio del mondo, anche se un eventuale
collegamento poteva benissimo essere implicito e conosciuto ai
fruitori pagani del poema eddico. Comunque sia, Snorri scarta l'idea e asserisce che sia invece
il gigante Surtr ad
appiccare il fuoco che brucerà l'universo
(Gylfaginning [51]).
L'autore del Mūspilli,
al contrario, l'accetta assolutamente e suscita le fiamme
ecpirotiche dal sangue del profeta, anche se non è impensabile
che i due motivi siano stati collegati posteriormente con un
ragionamento post hoc propter hoc. Difficile dire, in
ogni caso, quale di
queste diverse tradizioni sia originaria o sia frutto di una
rielaborazione successiva. È anche possibile che il motivo
dello scontro tra
Þórr e il serpente
Jǫrmungandr,
presente nella tradizione norrena, e quindi dell'incendio
universale, siano giunte in Scandinavia attraverso la
tradizione cristiana. Il motivo della distruzione del
mondo per fuoco, infatti, fa parte del pensiero escatologico
classico-cristiano. Ha la sua origine più lontana in Īrān,
nella teologia zoroastriana, dove il mondo è destinato ad
ardere nel fuoco purificatore del frašōkǝrǝti. Il
motivo passò alla fisica stoica, dove il mondo
ciclicamente si consumava e risorgeva nel fuoco.
D'altronde, sembrava ragionevole ai pensatori apocalittici
cristiani ritenere che il mondo, in passato devastato da un
diluvio d'acqua, finisse in un diluvio di fuoco. Il motivo è
presente negli Oracula Sibyllina, in una scena che nel testo è
collocata subito dopo la comparsa di
Elia:
Allora una fiumana potente, di
ardente fiamma
fluirà dal cielo e annienterà la
creazione regale,
la terra asciutta e il mare e gli
azzurri flutti dell'oceano,
i laghi e i fiumi e le sorgenti, l'Ade
impietoso
e la volta celeste. La luna e il
fulgente sole
in uno si fondono, e tutto si fa
deserto e desolazione.
Dal cielo precipitano nell'oceano
le stelle.
Convocati, gli uomini ancora in
vita faranno stridore di denti,
ardendo nella corrente piena di
zolfo e di inestinguibile fuoco
nell'atroce pianura, e la cenere
copre ogni cosa. |
Oracula Sibyllina
[II: 196-205] |
Queste fonti e motivi influenzarono la letteratura germanica
altomedievale, il quale seppe fondere motivi pagani e sapienza
cristiana per produrre visioni apocalittiche
altrettanto suggestive. Il motivo dell'ecpirosi è presente in
diversi documenti germanici, di cui il Crīst di Cynewulf
fornisce un vivido esempio nella letteeratura anglosassone:
Dyneð deop gesceaft, ond fore dryhtne færeð
wælmfyra mæst ofer widne grund,
hlemmeð hata leg, heofonas berstað,
trume ond torhte, tungol ofhreosað.
|
Il vasto creato risuonerà, e
dinanzi al Creatore andrà
il più grande degli incendi
infurianti attraverso la spaziosa
terra,
l'ardente fiamme divamperà
strepitante; i cieli schianteranno:
le stelle fisse scintillanti
cadranno. |
Cynewulf:
Crīst [930-933] |
...Ðonne eall þreo on efen nimeð
won fyres wælm wide tosomne,
se swearta lig, sæs mid hyra fiscum,
eorþan mid hire beorgum, ond upheofon
torhtne mid his tunglum. Teonleg somod
þryþum bærneð þreo eal on an
grimme togædre.
|
...Allorché la fosca marea di
fuoco, la funesta fiamma,
per ogni dove travolgerà d'un
tratto
ciascuna di queste tre cose: i mari
coi loro pesci,
la terra coi suoi monti, e l'alto
cielo
risplendente, con le sue stelle. La
fiamma distruttrice
arderà selvaggiamente tutt'e tre
queste cose insieme,
con ferocia. |
Cynewulf:
Crīst [964-970] |
107
― Compare qui, a indicare la
terra, l'espressione mittilagart
«recinto di mezzo», che ha un
riscontro diretto nel termine
Miðgarðr, che la poesia
mitologica norrena usa per indicare
il mondo degli uomini, opposto a
quello dei giganti o degli dèi.
Usata probabilmente come costrutto
poetico, indica che l'autore del
Mūspilli
avesse una certa esperienza della
poesia pagana.
113
― La problematica parola mūspilli
è qui usata nell'evidente senso di
«incendio universale, deflagrazione
del mondo». Johann Andreas
Smeller la attribuì come titolo al poemetto nel 1832. In
quanto al significato e
all'etimologia, si veda in introduzione [supra]▲.
144
― Le trombe suonate dagli
angeli, destinate a risvegliare i
morti nel giorno del Giudizio, sono
qui sostituite, significativamente,
dal suono di un corno [horn].
Oltre a essere giustificata
dall'ambiente culturale nel quale
il poema venne composto (nella
Germania alto-medievale i corni
erano assai più comuni delle
trombe), la sostituzione rimanda
alla mitologia norrena, nella quale
Heimdallr, suonando il corno
Gjallarhorn, chiama i guerrieri
caduti alla battaglia finale, nel
giorno di
Ragnarǫk.
201-208
― L'apparizione della
Croce gloriosa nel cielo è uno dei segni che prelude tradizionalmente
alla Parusia, la seconda venuta di
Cristo nel giorno del supremo
giudizio. La base scritturale è nel Vangelo
secondo Matteo:
«Allora comparirà nel cielo il
Segno del Figlio dell'uomo e allora
si batteranno il petto tutte le
tribù della terra, e vedranno il
Figlio dell'uomo venire sopra le
nubi del cielo con grande potenza e
gloria» (Euaŋgélion katà Matthaîon [24: 30]). Il motivo, ben
presente nella
letteratura apocalittica, era
ovviamente ben noto nel medioevo
germanico. Nel
Crīst
anglosassone di Cynewulf
l'apparizione celeste della Croce
gloriosa è il «fulgido
segno»
[beorhta segn] che annuncia
l'avvento di Cristo, il quale dovrà
presiedere al Giudizio universale.
La scena è argomento di versi
ispiratissimi:
Ðonne sio byman stefen ond se beorhta segn,
ond þæt hate fyr ond seo hea duguð,
ond se engla þrym ond se egsan þrea,
ond se hearda dæg ond seo hea rod,
ryht aræred rices to beacne,
folcdryht wera biforan bonnað...
|
Allora la voce delle trombe, e il
fulgido segno,
e il fuoco ardente, e la sublime
schiera,
e la maestà degli anteli, e
l'angoscia del terrore,
e il giorno spaventoso, e l'alta
Croce
sollevata diritta quale segno di
sovranità,
chiameranno innanzi le moltitudini
degli uomini... |
Cynewulf:
Crīst
[1061-1066] |
Ne bið him to are þæt þær fore ellþeodum
usses dryhtnes rod ondweard stondeð,
beacna beorhtast, blode bistemed,
heofoncyninges hlutran dreore,
biseon mid swate þæt ofer side gesceaft
scire scineð. Sceadu beoð bidyrned
þær se leohta beam leodum byrhteð.
|
Non per grazia di loro [dei
malvagi] si ergerà là,
al cospetto di tutte le genti, la
Croce del nostro Signore,
il più luminoso dei segnacoli,
cosparsa del sangue
del Re del Cielo, del Suo puro
sangue,
bagnata del Suo cruento sudore,
cosicché essa rifulgerà
sopra il vasto creato. Le tenebre
saranno scacciate
laddove l'Albero fulgido darà luce
alle genti. |
Cynewulf:
Crīst
[1083-1089] |
...Þæs he eftlean wile
þurh eorneste ealles gemonian,
ðonne sio reade rod ofer ealle
swegle scineð on þære sunnan gyld.
|
...Di tutto questo, Egli
severamente esigerà il pagamento
allorché la sanguinosa Croce sopra
a tutti
brillerà nel cielo al posto del
sole. |
Cynewulf:
Crīst [1099-1102] |
208
― Il poema è mutilo della parte finale, che era probabilmente
compresa nella rilegatura del codice, poi perduta. La
conclusione del poema è ovviamente prevedibile
sulla base delle concezioni apocalittiche comuni di questo
tipo di letteratura, di cui il
Crīst di Cynewulf offre un modello sicuramente
non lontano: concluso il supremo Giudizio, i malvagi saranno
gettati per l'eternità nelle profondità infernali, mentre i
giusti saranno accolti nel cielo, nella comunione dei santi e
nella gloria dei beati.
|