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PROEMIO
i colui che
vide tutto io voglio narrare al mondo.
Di colui che conobbe ogni cosa, tutto io voglio raccontare.
Egli andò alla ricerca dei Paesi più lontani e raggiunse la completa saggezza.
Egli vide cose segrete, scoprì cose nascoste,
riferì delle storie dei tempi prima del Diluvio.
Egli percorse vie lontane, finché stanco e abbattuto si fermò.
E fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra. |
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GILGAMEŠ, RE DI URUK
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Gilgameš, re di Uruk |
© 1999 Thom Capheim |
uando gli dèi crearono Gilgameš, gli diedero un corpo perfetto. Gli donarono la
bellezza, il coraggio e lo resero terribile come un toro selvaggio. Per due
terzi lo fecero dio e per un terzo uomo.
Gilgameš regnava sulla potente città di Uruk, che sorgeva sul fiume Eufrate,
nella nobile terra di Sumer. Gilgameš fu il quinto sovrano di questa città dopo
il Diluvio. Fu lui a far innalzare le mura della città. E fu lui a porre le
fondamenta dell'Eanna, la Casa del Cielo, il tempio dedicato ad An, il dio del
cielo, e ad Inanna, la dea dell'amore.
Gilgameš era avvenente, risoluto, impetuoso. Non dava requie alla popolazione:
suonava il segnale d'allarme per divertimento, giorno e notte, e la sua lussuria
non lasciava intatta una sola fanciulla della città. Gli abitanti di Uruk,
stanchi di queste continue vessazioni, si lamentarono nelle loro case:
― Gilgameš è il pastore della nostra città, eppure è arrogante
e prepotente. Non lascia la vergine all'amante, la figlia al guerriero, la
moglie al nobile! |
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CREAZIONE DI ENKIDU
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Creazione di Enkidu |
© 1999 Thom Capheim |
n, il dio del cielo, che era anche il patrono della città di Uruk, udì i lamenti
dei suoi abitanti. Si recò all'assemblea divina e disse: ― Una dea ha fatto
Gilgameš forte come un toro selvaggio, nessuno può resistere alle sue armi.
Eppure tratta il suo popolo con arroganza, suona l'allarme giorno e notte, non
lascia intatta una sola fanciulla della città.
Allora gli dèi si rivolsero ad Aruru, la signora della creazione, e le dissero:
― Fosti tu, Aruru, a plasmare Gilgameš. Adesso crea un eroe che gli stia alla
pari, simile a lui quanto il suo riflesso, un altro lui, cuore tempestoso per
cuore tempestoso. Che essi lottino tra loro e lascino Uruk in pace!
Così la dea immerse le mani nell'acqua e con l'argilla plasmò il nobile Enkidu.
Libero e selvaggio, ignaro del mondo degli uomini, Enkidu scorrazzava sulle
colline insieme alle gazzelle, si appostava presso le pozze d'acqua con le
bestie selvatiche, vagava in compagnia dei branchi di animali, si divertiva a
divellere le trappole dei cacciatori ed a riempire le loro fosse, facendo
fuggire gli animali. Un giorno un cacciatore lo scorse nella boscaglia, più
simile a un animale che a un uomo, coperto di peli e con lunghi capelli, e
rimase per tre giorni raggelato dal terrore. |
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La cortigiana |
© 1999 Thom Capheim |
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Seduzione di Enkidu |
© 1999 Thom Capheim |
SEDUZIONE DI ENKIDU
l cacciatore
andò ad Uruk e raccontò a Gilgameš dello strano essere che vagava sulle colline.
Gilgameš mandò a chiamare Šamhat, sacerdotessa del tempio di Inanna, e
disse al cacciatore di farla appostare presso la pozza d'acqua alla quale Enkidu
andava a dissetarsi. Il cacciatore condusse la donna sulle colline e quando
Enkidu la scorse nuda presso la pozza d'acqua, fu preso da grande passione e la
amò intensamente per sei giorni e sette notti. E quando, soddisfatto, tornò
dalle bestie selvatiche, queste scapparono via a grandi balzi. Enkidu tentò di
inseguirle ma si scoprì incapace di farlo: il suo corpo era legato come da una
corda e quando cominciò a correre le ginocchia gli cedettero. Enkidu era
diventato debole perché l'amore per la donna lo aveva reso uomo.
Desolato, Enkidu tornò da Šamhat. La donna gli disse: ― Enkidu, sei un
uomo, adesso. Perché vorresti scorrazzare sulle colline insieme alle bestie?
Vieni con me. Ti condurrò a Uruk dalle alte mura, al sacro tempio di Inanna ed
An. Là vive Gilgameš, colui che è fortissimo e spadroneggia sugli uomini come un
toro selvaggio.
Enkidu accettò, covando in cuor suo il desiderio di un compagno che intendesse
il suo cuore. Šamhat vestì il selvaggio con metà delle sue vesti e lo
condusse da alcuni pastori, che gli insegnarono a mangiare il pane ed a bere il
vino. Per un po' Enkidu rimase con loro, aiutandoli a difendere il gregge dagli
animali selvatici. E non c'era mandriano più forte e bravo di lui. |
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GILGAMEŠ ED ENKIDU
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Lotta di Gilgameš ed Enkidu |
© 1999 Thom Capheim |
ilgameš si levò dal suo giaciglio, sul far del mattino, e andò da sua madre
Ninsun, che era sacerdotessa al tempio di Utu, e le raccontò del sogno che aveva
fatto.
― Madre, la notte scorsa sognai che esultavo di gioia e camminavo sotto le
stelle del firmamento. D'un tratto, una di esse cadde dal cielo sulla mia
schiena e mi schiacciò al suolo. Io cercai di sollevarla, ma era troppo pesante.
Eppure per quella meteora io provavo un'attrazione profonda, come per una donna.
Il popolo mi aiutò a toglierla di dosso. Allora la portai a te e tu dicesti che
era mio fratello.
E Ninsun disse a Gilgameš: ― Quella stella del cielo sarà il tuo compagno, colui
che ti recherà aiuto nel momento del bisogno. È il più forte tra le creature
selvatiche fatto della sostanza di An. È nato nelle praterie e lo hanno allevato
le alture selvagge. Quando lo vedrai sarai lieto, lo amerai come una donna e lui
non ti abbandonerà. Ecco il significato del tuo sogno.
Vennero così le feste di capodanno. Gilgameš uscì dal palazzo reale e si recò al
tempio di Inanna, dove il grande letto nuziale era stato approntato e la
sacerdotessa attendeva il re per le nozze sacre. Ma quando Gilgameš giunse alle
porte della città, un uomo venne fuori dalla folla e gli sbarrò la strada. Era
Enkidu.
Gilgameš si fece avanti. I due eroi si avvinghiarono, sbuffando come tori,
provando ciascuno il suo vigore sull'altro. Ruppero gli stipiti delle porte, i
muri tremarono. Gilgameš piegò il ginocchio, il piede piantato al suolo, e con
un colpo rovesciò a terra Enkidu. Allora si placò la loro furia.
E disse Enkidu: ― Al mondo non c'è un altro come te, Gilgameš. Ninsun fu la
madre che ti generò e tu sei innalzato sopra tutti gli uomini. Il dio Enlil ti
ha dato la sovranità perché la tua forza supera la forza di tutti.
Gilgameš ed Enkidu si abbracciarono e la loro amicizia fu suggellata. |
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GILGAMEŠ NELLA FORESTA DI CEDRI
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Gilgameš contro Humbaba |
© 1999 Thom Capheim |
na notte Enkidu fu turbato da un sogno nel quale vide di essere trasportato nel
regno dei morti, l'Arali, donde non vi era ritorno e dove le anime, simili a
uccelli, si nutrivano di polvere e cenere, senza mai vedere il sole. Enkidu si
svegliò triste e turbato: un'ombra gli oscurava il volto.
Gilgameš, nel vedere il suo compagno depresso, gli propose di partire per una
nuova impresa: sarebbero andati nel Paese delle Montagne, dove si trovava la
Foresta di Cedri, e lì avrebbero raccolto legname per le costruzioni. Allora
Enkidu fu preso dal terrore. Era stato già alla Foresta di Cedri, conosceva
colui che ne stava a guardia, il terribile Humbaba, e ne aveva terrore.
Cercò di dissuadere Gilgameš dal suo progetto: ― O mio re, poiché tu che non hai
visto quel mostro non hai paura di lui. Ma io che l'ho visto sono pieno di
terrore. I denti del mostro sono denti di drago; gli occhi del mostro sono occhi
di leone; il petto del mostro è un diluvio travolgente. Nessuno sfugge alla sua
ira. O mio re, tu naviga verso il Paese delle Montagne, io navigherò verso la
città. A tua madre racconterò della tua gloria, così ella gioirà, e poi le
racconterò della tua morte, così ella piangerà. Se lì regna il terrore, torniamo
indietro. Se lì regna la paura, torniamo indietro.
Ma Gilgameš lo apostrofò: ― Soltanto gli dèi vivono per sempre. Invece noi
uomini abbiamo i giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento. Se
cado, lascerò ai posteri un nome duraturo. Di me gli uomini diranno: Gilgameš è
caduto nella lotta contro il feroce Humbaba.
Allora Enkidu consigliò all'amico di sacrificare preventivamente al dio del sole
Utu, poiché le leggi del Paese delle Montagne appartenevano a lui. Gilgameš si
recò nell'Egalmah, il tempio di Utu, e sacrificò al dio del sole con
queste parole:
O Utu, io ti voglio parlare, presta ascolto alle
mie parole.
Io mi voglio rivolgere a te, dammi il tuo consiglio.
Nella mia città si muore, il cuore è oppresso;
i miei cittadini muoiono, il cuore è prostrato.
Io son salito sulle mura della mia città
e ho visto i cadaveri trasportati dalle acque del fiume.
Ed io pure io sarò così un giorno?
L'uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo.
L'uomo, per quanto grasso egli sia, non può coprire il Paese.
Io voglio andare verso il Paese delle Montagne, voglio porre colà il mio nome;
nel luogo dove ci sono già i nomi, voglio porre il mio nome;
nel luogo dove non ci sono nomi, voglio porre il nome degli dèi.
Gilgameš ed Enkidu impiegarono tre giorni per coprire una distanza che avrebbe
richiesto una marcia di sei settimane. Giunsero a un'immensa foresta, a cui si
accedeva tramite un portone altrettanto possente. Dopo aver sbirciato
all'interno dallo spiraglio, Enkidu disse a Gilgameš che questo era il momento
giusto di entrare, perché così avrebbero colto Humbaba di sorpresa.
Infatti, quando usciva per ispezionare il suo dominio, il mostro si avvolgeva il
corpo di sette «terrori». Ma adesso Humbaba stava riposando e ne aveva
uno solo. Ma, mentre Enkidu stava ancora parlando, la grande porta girò sui
cardini e gli schiacciò la mano.
Per dodici giorni Enkidu giacque gemendo dal dolore e implorando il compagno di
recedere dalla sua impresa, ma Gilgameš rifiutò di prestare ascolto alle sue
parole. Attesero che Enkidu guarisse, e poi entrarono nella foresta e
raggiunsero il monte dei cedri, quel monte alto e maestoso sulla cui vetta gli
dèi si riuniscono a concilio. Al momento di coricarsi, fecero un nuovo
sacrificio a Utu perché mandasse dei sogni ai due eroi. Infatti gli strani sogni
che ebbe Gilgameš durante la notte furono interpretati da Enkidu come auspici
favorevoli per la buona riuscita della spedizione. Ma quando, dopo un altro
giorno di cammino, si coricarono di nuovo, Enkidu ebbe tre sogni, di cui
l'ultimo si palesava particolarmente funesto.
Giunti alla base del monte, Gilgameš abbatté il primo cedro. Allora un sonno
incomprensibile lo prese, e mentre il mondo si oscurava Gilgameš cadde a terra
addormentato. Enkidu lo richiamò più volte, finché egli si svegliò. Allora
supplicò Gilgameš di evitare la battaglia, ma Gilgameš rispose:
― Non ancora sarà desolato il mio popolo, né verrà accesa la pira nella mia
casa, né verrà bruciata la mia dimora. Dammi oggi il tuo aiuto e avrai il mio.
Che cosa potrà andarci male? Tutti gli esseri nati da donna siederanno alla fine
sulla barca dell'ovest e quando la barca affonderà, saranno scomparsi. Noi
andremo avanti e poseremo gli occhi su Humbaba. Se il tuo cuore ha paura,
getta via la paura. Se in esso vi è il terrore, getta via il terrore. Prendi in
mano la scure e agisci!
Quando Humbaba udì da lontano il rumore degli alberi che venivano
abbattuti, uscì infuriato dalla sua tana e corse verso di loro. Gilgameš aveva
già tagliato sette cedri, quando gli alberi si aprirono e il volto di Humbaba
si levò si di lui. Il mostro rivolse su Gilgameš l'occhio della morte. Ma subito
il dio Utu gli lanciò contro otto venti potentissimi, simili a fuoco ardente,
che si abbatterono nell'occhio di Humbaba, accecandolo e paralizzandolo.
Allora Gilgameš rovesciò il mostro e gli legò i gomiti assieme. A Humbaba
salirono le lacrime agli occhi: ― Gilgameš, fammi parlare. Io non ho mai
conosciuta una madre e nemmeno un padre che mi allevasse. Nacqui dalla Montagna,
fu essa ad allevarmi, ed Enlil mi fece custode di questa foresta. Lasciami
andare libero, Gilgameš, e io sarò il tuo servo, tu sarai il mio signore e tutti
gli alberi della foresta che io curavo saranno tuoi.
Gilgameš fu mosso a compassione e disse: ― O Enkidu, l'uccello intrappolato non
dovrà far ritorno al nido, il prigioniero ritornare tra le braccia della madre?
― Signore, se tu permetterai a questo mostro di andare via libero, non farai mai
ritorno alla città dove attende la madre che ti ha fatto nascere ― rispose
Enkidu. ― Egli ti sbarrerà la via della montagna e renderà inaccessibili i suoi
sentieri.
― O Enkidu, ciò che hai detto è male! ― gridò Humbaba. ― Tu, un servo,
che dipendi da Gilgameš per il tuo proprio pane! Per invidia e timore di un
rivale hai pronunciato parole malvagie! Solo nel tuo spirito possono albergare
pensieri ostili. Il mercenario ha il cuore pieno di livore perché è costretto ad
andare sempre dietro. È questa la tua condizione. Tu non riuscirai mai a
rassomigliare a Gilgameš!
Allora Enkidu colpì Humbaba con la spada, una, due, tre volte. Al terzo
colpo il mostro crollò al suolo. In tutta la foresta vi fu gran subbuglio perché
il guardiano era morto.
Gilgameš, conscio dell'enormità dell'atto compiuto da Enkidu, donò la testa di
Humbaba ad Enlil, il dio del vento. Ma Enlil non gradì affatto quel dono:
quando vide la testa mozzata di Humbaba si infuriò e maledì i due eroi. |
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IL TORO DEL CIELO
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Inanna suscita il Toro del Cielo |
© 1999 Thom Capheim |
opo la vittoria, Gilgameš tornò ad Uruk. Si lavò la lunga chioma e pulì le armi,
gettò via gli abiti impolverati dal lungo viaggio e li sostituì con le vesti
regali. Quando ebbe indossato la corona, la dea Inanna abbassò gli occhi su di
lui e fu presa da passione. Gli comparve gloriosa sulla mura della città
dicendo: ― Vieni a me, Gilgameš, sii il mio sposo e fa' che io sia la tua sposa.
Quando, nel profumo del legno di cedro, entrerai nella nostra casa, soglia e
trono ti baceranno i piedi. Re e principi si inchineranno davanti a te, ti
recheranno tributi dalla montagna e dalla collina.
Ma Gilgameš sdegnosamente rispose alla dea:
― Che cosa ti dovrei dare in cambio dopo averti posseduta? Io potrei darti olio
per il corpo e vestiti, potrei darti cibo e sostentamento. Ma come potrei
procurarti cibo adatto per gli dèi? Come potrei procurarti bevande adatte per i
re? E poi, mia dea, a quale dei tuoi amanti sei rimasta sempre fedele? Quale dei
tuoi superbi fidanzati è salito al cielo? Tutti li hai lasciati vivere in mezzo
alla difficoltà, abbandonandoli dopo averli usati. E per quanto mi concerne, sì,
tu mi amerai, ma poi mi riserverai lo stesso trattamento!
Inanna, al rifiuto di Gilgameš, cadde in preda a un'ira amara. Salì nell'alto
dei cieli e le sue lacrime scorsero al cospetto di An. ― Padre mio, Gilgameš mi
ha coperta di insulti. Dammi Gugulanna, il Toro del Cielo, affinché io possa
distruggerlo. Dammelo! Se rifiuterai la mia richiesta, io sfonderò le porte
degli inferi e condurrò su i morti a banchettare insieme ai viventi!
Era una richiesta terribile. Il Toro del Cielo avrebbe portato sulla città
siccità e carestia per sette anni, ma se An non avesse acconsentito alla
richiesta di Inanna, la dea avrebbe confuso l'ordine stesso della vita e della
morte. Il dio del cielo dovette acconsentire.
E così Gugulanna, il Toro del Cielo, entrò furente in Uruk. Le sue narici
emettevano fuoco e fiamme. I suoi zoccoli scalpitanti aprivano fenditure tali
che la gente vi precipitava dentro. Subito Gilgameš ed Enkidu corsero ad
affrontare la fiera. Enkidu balzò addosso al toro e lo afferrò per le corna. Il
Toro del Cielo schiumava dalla bocca, cercando di liberarsi dalla morsa
dell'eroe. Enkidu gridò a Gilgameš: ― Amico mio, ci siamo vantati che avremmo
lasciato ai posteri un nome duraturo: ora conficca la tua spada fra la nuca e le
corna!
Gilgameš seguì il toro, lo afferrò per la coda e gli infilò la spada tra la nuca
e le corna. Il Toro crollò al suolo senza vita. Allora i due eroi gli
strapparono il cuore e lo offrirono a Utu.
Ma Inanna si levò e salì sulla grande muraglia di Uruk, proferendo maledizioni
alla volta dei due eroi: ― Guai a voi! Avete osato uccidere il Toro del Cielo e
pagherete il vostro affronto!
Allora Enkidu strappò via la coscia destra del toro e la scagliò sul volto della
dea. ― Se potessi metterti le mani addosso, ecco cosa ti farei!
Gilgameš poi prese le corna del toro, le fece ricoprire di lapislazzuli e le
offrì al suo divino padre Lugalbanda, appendendole nel suo palazzo.
All'uccisione del Toro del Cielo seguirono festosi festeggiamenti in cui
Gilgameš fu cantato come il più glorioso tra gli eroi, il più eminente tra gli
uomini. |
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MORTE DI ENKIDU
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Gilgameš piange la morte di Enkidu |
© 1999 Thom Capheim |
uella notte Enkidu vide in sogno gli dèi riunirsi a consiglio e decretare che
l'uccisione di Humbaba e del Toro del Cielo non doveva passare impunita:
perciò uno dei due eroi sarebbe morto. Risvegliatosi, Enkidu s'inchinò davanti a
Gilgameš e piangendo così raccontava il suo terribile sogno:
― Ascolta mio signore, ecco cosa ho sognato la notte scorsa. Ruggivano i cieli e
la terra tremava; tra gli uni e l'altra, io ero di fronte alla Morte alata; ella
si gettò su di me, i suoi artigli erano nei miei capelli, mi avvinghiava e io
soffocavo. E poi mi trascinò via, nella casa di polvere, da cui nessuno ha mai
fatto ritorno. Gli abitanti di quella casa siedono nelle tenebre: polvere è il
loro cibo, argilla la loro carne. Entrai e vidi i re della terra, le loro corone
messe da parte per sempre. Là sedeva Ereškigal, la regina della polvere e delle
tenebre, e ai suoi piedi lo scriba dei morti sollevava il capo dalla sua
tavoletta e diceva: «Chi ha portato qui costui?» Al che, mio signore, mi sono
svegliato madido di sudore e con il cuore che mi batteva forte.
E rispose Gilgameš: ― Pregherò i grandi dèi perché il mio amico ha fatto un
sogno funesto.
Pochi giorni dopo, Enkidu si ammalò. Giacque in agonia per molti giorni, durante
i quali maledì il cacciatore che l'aveva trovato e la sacerdotessa che l'aveva
condotto nel mondo degli uomini, ma il dio del sole Utu gli comparve in sogno e
gli ricordò che coloro che malediva gli avevano dato come compagno il glorioso
Gilgameš, il quale lo aveva fatto sedere su un divano alla sua sinistra,
colmandolo di doni e di onori. Allora Enkidu si pentì delle sue parole.
Per dodici giorni Enkidu giacque sul letto di morte. Poi chiamò Gilgameš: ―
Amico mio, la grande dea mi ha maledetto e io non morirò in battaglia. Temevo la
morte in battaglia, invece è felice l'uomo che cade in battaglia, mentre io
dovrò morire nella vergogna.
E girato il capo, morì.
Gilgameš toccò il corpo di Enkidu, tentando di risvegliarlo, ma il cuore
dell'amico non batteva. Allora il re stese un velo sul suo corpo e, travolto
dalla disperazione, prese a infuriare come una leonessa derubata dei cuccioli.
Aventi e indietro, misurò i passi attorno al letto, si strappò i capelli e le
splendide vesti. Poi corse ramingo per le lande desertiche gridando tutta la sua
amarezza:
- Uditemi, grandi di Uruk,
- Enkidu piango, l'amico mio,
- gemendo come donna in lutto piango
mio fratello.
- O Enkidu, fratello mio,
- tu fosti la scure al mio fianco, la
forza della mia mano,
- la spada nella mia cintura, lo scudo
davanti a me,
- una veste gloriosa, il mio più
leggiadro ornamento;
- un destino malvagio mi ha derubato.
- L'onagro e la gazzella che padre e
madre ti furono,
- tutte le creature dalla lunga coda
che ti nutrirono ti piangono,
- tutti gli esseri selvatici della
piana e dei pascoli;
- i sentieri che amavi nella foresta
di cedri notte e giorno mormorano.
- Che i grandi di Uruk dalle forti
mura ti piangano;
- che il dito di benedizione sia teso
in lutto.
- Enkidu, giovane fratello. Ascolta,
- per tutto il paese c'è un'eco come
di madre in lutto.
- Piangano tutti i sentieri che
insieme abbiamo percorso,
- e le bestie che abbiamo cacciato,
orso e iena,
- tigre e pantera, leopardo e leone,
- cervo e stambecco, toro e daina.
- Il fiume lungo le cui rive
camminavamo ti piange.
- I guerrieri di Uruk dalle forti mura
ti piangono.
- Cosa è mai questo sonno che ora ti
avvince?
- Sei perso nelle tenebre e non puoi
sentirmi...
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ALLA RICERCA DELLA VITA
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Gilgameš e i leoni |
© 1999 Thom Capheim |
er sette giorni e sette notti Gilgameš pianse l'amico. Poi, quando il lutto fu
finito, Gilgameš si accorse di essere rimasto solo. Dopo aver conosciuto le
gioie di un'amicizia perfetta, sentiva adesso, opprimente, la consapevolezza
dell'inevitabilità della morte.
― Come posso riposare, come posso aver pace? La disperazione è nel mio cuore.
Ciò che è mio fratello ora, lo sarò anch'io quando sarò morto!
A quanto dicevano i sapienti, c'era un solo uomo a cui non era stata data in
sorte la morte. Era Utnapištim, colui che gli dèi avevano salvato dal Diluvio e
lo avevano posto a vivere nella terra felice di Dilmun. Lui solo tra gli uomini
aveva ricevuto l'immortalità. Fu così che Gilgameš decise che lo avrebbe trovato
e da lui avrebbe ricevuto il segreto della Vita.
Gilgameš partì da Uruk verso il deserto, e dopo molti giorni di cammino giunse
ai passi di una montagna. Pregò Nanna, il dio della luna, e si pose a dormire.
Quando si destò nella notte, vide attorno a sé dei leoni raggianti di vita.
Allora afferrò la scure, trasse la spada dalla cintura e si gettò su di loro,
abbattendoli e disperdendoli.
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LE PORTE DEL SOLE
opo
lunghe settimane di viaggio, Gilgameš giunse al monte Mašu, i cui picchi gemelli
erano alti quanto il muro del cielo e i cui poggi scendevano giù sino agli
inferi. Tra i due picchi si trovavano le porte da cui il sole usciva ogni giorno
per attraversare il cielo. A guardia del monte vi erano i due uomini-scorpione:
la loro gloria spazzava le montagne e il loro sguardo colpiva gli uomini a
morte. Gilgameš si coprì il volto con le mani, si fece coraggio e avanzò.
― Guarda ― disse l'uomo-scorpione alla sua compagna: ― Colui che viene è della
carne degli dèi.
― Soltanto per due terzi è dio ― rispose la sua compagna. ― Per un terzo è uomo.
L'uomo-scorpione si rivolse allora a Gilgameš: ― Perché hai affrontato un
viaggio così lungo, perché ti sei recato così lontano? Dimmi il motivo della tua
venuta.
Rispose Gilgameš: ― Per Enkidu, molto lo amavo. A causa sua sono venuto, poiché
il destino comune dell'uomo si è impadronito di lui. Da quando se ne è andato,
la mia vita non è più nulla. Per questo sono giunto qui alla ricerca di
Utnapištim: gli uomini dicono che egli abbia trovato la vita eterna. Desidero
interrogarlo sulla vita e sulla morte.
L'uomo-scorpione disse: ― Nessun essere nato da donna è mai andato nella
montagna. La sua lunghezza è dodici ore-doppie di tenebra. In essa non vi è luce
alcuna dal sorgere del sole fino al tramonto.
Rispose Gilgameš: ― Quando anche debba andare afflitto dal dolore, io debbo
andare comunque. Apri la porta della montagna.
E l'uomo-scorpione: ― Va', Gilgameš. Ti permetto di attraversare il monte Mašu.
Possano i piedi riportarti a casa sano e salvo. La porta della montagna è
aperta.
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Il giardino di Utu |
© 1999 Thom Capheim |
Gilgameš attraversò la montagna seguendo il cammino del sole verso levante. Dopo
un'ora-doppia l'oscurità si fece fitta intorno a lui. Gilgameš proseguì a
tentoni, nel buio. Il percorso fu angosciante, perché non vi erano che tenebre e
tenebre e tenebre. Ma dopo la nona ora-doppia, Gilgameš sentì il vento del nord
sul viso e all'undicesima ora-doppia vide finalmente la luce dell'alba.
Trascorse che furono dodici ore-doppie, irruppe la luce del sole.
Uscito dalla montagna, Gilgameš si trovò nel giardino degli dèi: intorno a lui
stavano cespugli carichi di gemme, frutti di corniola e foglie di lapislazzuli;
invece dei rovi vi erano ematiti e agata e perle del mare. Mentre l'eroe
camminava per questo giardino meraviglioso, venne a lui Utu, il dio del sole, e
vide che Gilgameš era vestito di pelli di animali. Ne fu turbato e disse: ―
Nessun mortale è mai passato di qui e non passerà mai finché i venti
incalzeranno sul mare. Torna indietro, Gilgameš. Non troverai mai la Vita che
stai cercando.
Rispose Gilgameš: ― Ora che ho faticato e tanto vagato per le lande deserte,
dovrò forse dormire e lasciare che la terra copra per sempre il mio capo? Benché
io ormai non valga più di un uomo morto, che io contempli ugualmente la luce del
sole! |
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SIDURI
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Siduri |
© 1999 Thom Capheim |
asseggiando per quel giardino incantato, Gilgameš giunse sulla riva del mare,
dove trovò la casa di Siduri, la donna della vigna, colei che faceva il vino. La
donna sedeva nel giardino con la coppa d'oro e i tini d'oro che gli dèi le
avevano donato. Non appena vide Gilgameš, si spaventò, perché egli era sporco e
coperto di pelli, e corse a nascondersi in casa. Ma Gilgameš infilò rapido il
piede tra lo stipite e la porta: ― Fanciulla che fai il vino, perché spranghi
l'uscio? Abbatterò il tuo uscio e sfonderò la tua porta, io sono il re di Uruk,
quel Gilgameš che ha ucciso
Humbaba e il Toro del Cielo.
Fece Siduri: ― Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso Humbaba e il Toro
del Cielo, perché sono emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo cuore?
― E perché non dovrebbero essere emaciate le mie guance e non dovrebbe esservi
disperazione nel mio cuore? Il mio amico che mi era molto caro, Enkidu, il
fratello che amavo, la fine di tutti i mortali l'ha raggiunto. A cagione di mio
fratello ho paura della morte. A cagione di mio fratello vado ramingo e non
trovo riposo. Ma ora, fanciulla che fai il vino, ora che ho visto il tuo volto,
fa' che io non veda il volto della morte da me tanto temuta.
Siduri rispose: ― Gilgameš, non troverai mai la Vita che cerchi. Quando gli dèi
crearono l'uomo, gli diedero in fato la Morte, ma tennero la Vita per loro.
Quanto a te, Gilgameš, riempi il tuo ventre di cose buone; giorno e notte danza
e sii lieto, banchetta e rallègrati. Rendi felice tua moglie e abbi caro il
fanciullo che ti tiene per mano. Perché questo, questo, è il fato dell'uomo.
Ma Gilgameš disse: ― Come posso tacere, come posso riposare quando Enkidu che
amavo ora è polvere e anch'io morirò e verrò disteso nella terra? Tu vivi
accanto alla riva del mare e guardi nel suo cuore. Fanciulla, dimmi, qual è la
via per Utnapištim?
Colei che fa il vino, Siduri, rispose: ― L'isola felice di Dilmun si trova al di
là dell'Oceano e nessun mortale ha mai attraversato l'Oceano, se non Utu, il dio
del sole. Al centro dell'Oceano scorrono le acque delle morte, e come potrai tu
valicarle? Tuttavia, Gilgameš, giù nel bosco troverai il barcaiolo Uršanabi. Lui
conosce la strada, e forse potrà aiutarti. Se è possibile, valicherai le acque.
Ma se non è possibile, Gilgameš, dovrai fare ritorno. |
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SULLE ACQUE DELLA MORTE
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Sulle acque della morte |
© 1999 Thom Capheim |
ilgameš trovò Uršanabi, ma poiché il battelliere lavorava alla prua del battello
e non gli dava retta, Gilgameš fu colto dall'ira, afferrò un oggetto di pietra
che si trovava lì accanto e lo fracassò al suolo. A questo punto Uršanabi si
voltò verso di lui. ― Chi sei tu, straniero? Io sono Uršanabi, il battelliere di
Utnapištim.
― E io sono Gilgameš, il re di Uruk, colui che ucciso Humbaba e il Toro del
Cielo.
― Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso Humbaba e il Toro del Cielo, perché sono
emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo cuore?
― E perché non dovrebbero essere emaciate le mie guance e non dovrebbe esservi
disperazione nel mio cuore? Il mio amico che mi era molto caro, Enkidu, il
fratello che amavo, la fine di tutti i mortali l'ha raggiunto. A cagione di mio
fratello ho paura della morte. A cagione di mio fratello vado ramingo e non
trovo riposo. Sto cercando Utnapištim per conoscere il segreto della Vita. Ti
prego, allora, Uršanabi, conducimi da Utnapištim, a Dilmun. Io vorrei varcare le
Acque delle Morte.
Uršanabi gli disse: ― Gilgameš, le tue stesse mani ti hanno impedito di varcare
le Acque delle Morte. Quell'oggetto di pietra che hai infranto mi dava la
facoltà di trasportarmi oltre l'Oceano, senza che le Acque della Morte mi
toccassero. Ora non ti resta che andare nella foresta, Gilgameš. Con la tua
scure taglia centoventi pertiche di sessanta cubiti di altezza, spalmale di pece
e bitume e poi portale alla barca.
Gilgameš acconsentì alla richiesta e, terminato il lavoro, Uršanabi spinse il
battello nell'Oceano. Dopo tre giorni di viaggio il battello entrò nelle Acque
della Morte. Allora Uršanabi disse a Gilgameš: ― Avanti, prendi una pertica e
spingi la barca, ma che le tue mani non si bagnino in queste acque o sarà la tua
fine.
Gilgameš fece come Uršanabi gli aveva detto, ma dopo aver spinto la barca
dovette lasciare la pertica perché le acque della morte l'avevano corrosa.
Allora prese la seconda pertica e diede una nuova spinta, e così via. Dopo
centoventi spinte, Gilgameš aveva adoperato l'ultima pertica. Allora Gilgameš si
spogliò e usò le sue braccia come alberi e le sue vesti come vela.
Così, il battelliere Uršanabi condusse Gilgameš da Utnapištim, a Dilmun, nel
luogo del transito del sole. |
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UTNAPIŠTIM
tnapištim si
trovava nella sua isola felice, a Dilmun, e vide avvicinarsi la nave di
Uršanabi. Notò la figura di Gilgameš e si chiese chi fosse quello straniero.
Quando la barca approdò, Utnapištim avvicinò Gilgameš e gli chiese: ― Qual è
il tuo nome, o tu che vieni qui vestito di pelli di animale?
― Io sono Gilgameš, il re di Uruk, colui che ucciso Humbaba e il Toro
del Cielo.
― Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso Humbaba e il Toro del Cielo,
perché sono emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo cuore?
― E perché non dovrebbero essere emaciate le mie guance e non dovrebbe
esservi disperazione nel mio cuore? Il mio amico che mi era molto caro, Enkidu,
il fratello che amavo, la fine di tutti i mortali l'ha raggiunto. A cagione di
mio fratello ho paura della morte. A cagione di mio fratello vado ramingo e non
trovo riposo. E sono venuto qui per conoscere te, padre Utnapištim, tu che sei
entrato nel consesso degli dèi. Voglio interrogarti sui vivi e sui morti. Voglio
sapere, come potrò trovare la Vita che sto cercando?
Utnapištim rispose: ― Nulla permane. Costruiamo forse una casa che duri per
sempre? Stipuliamo forse contratti che valgano per ogni tempo a venire? Solo la
ninfa della libellula si spoglia della propria larva e vede il sole nella sua
gloria. Fin dai tempi antichi, nulla permane. Dormienti e morti, quanto sono
simili: sono come morte dipinta! Gli Anunnaki, i giudici divini, assegnano a
ogni uomo una nascita e una morte.
― Eppure, Utnapištim, io guardo te e non vedo nulla di strano nel tuo
sembiante. T'immaginavo come un eroe, invece te ne stai in quest'isola
meravigliosa in panciolle. Dimmi la verità, come facesti ad entrare nella
schiera degli dèi ed a possedere la vita eterna?
― Sta bene ― disse Utnapištim. ― Ti rivelerò un mistero divino.
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LA STORIA DEL DILUVIO
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Il sacrificio di Utnapištim |
© 1999 Thom Capheim |
anto tempo prima, narrò Utnapištim, l'umanità era così numerosa che sollevava un
tale baccano da disturbare il sonno degli dèi. Così Enlil, il signore del vento,
riunì il consesso divino e disse: ― Lo strepito dell'umanità è intollerabile!
Scatenerò il Diluvio e distruggerò il genere umano!
Grande costernazione ci fu allora tra le divinità, le quali dipendevano dagli
uomini per i sacrifici, e tutte quante presero ad invocare il dio del cielo An.
Inanna piangeva e si disperava. Ma il saggio Enki, il signore dell'abisso, che
da sempre era l'amico degli uomini, scese nella città di Šuruppak e comparve in
sogno ad Utnapištim, che era suo sacerdote, e gli disse:
― Utnapištim, ascolta! Abbatti la tua casa e costruisci una nave. Abbandona i
tuoi averi e cerca la vita. Sprezza i beni mondani e tieni in vita la tua anima.
Abbatti la tua casa, ti dico, e costruisci una nave. Ecco le misure del
battello: che abbia la lunghezza pari alla larghezza, che il suo ponte abbia un
tetto come la volta che copre l'abisso. Entraci assieme ai suoi consanguinei e
familiari e, dopo avervi portato dentro da mangiare e da bere, fa' entrare tutti
gli animali, volatili e quadrupedi. Se qualcuno ti chiederà qualcosa,
rispondigli che ti rechi dagli dèi per pregare per la buona sorte degli uomini!
Utnapištim aveva dunque costruito la nave e l'aveva fatta lunga cinque stadi
e alta due. Vi condusse la sua famiglia e il seme di tutte le creature viventi.
Alle prime luci dell'alba venne dall'orizzonte una nube nera, mostruosa. Là
dentro viaggiava Addu, il cavaliere della tempesta. Poi sorsero gli dèi
dell'abisso: Nergal divelse le dighe delle acque sotterranee, Ninurta abbatté
gli argini e i sette giudici degli inferi, gli Anunnaki, innalzarono le torce a
illuminare la terra di vivida fiamma. Sgomento e disperazione si levarono fino
al cielo quando Enlil trasformò la luce del giorno in tenebra e infranse la
terra come un coccio. Fu tale il cataclisma che gli dèi stessi, terrorizzati,
fuggirono nel più alto del cielo, il firmamento di An, e si rannicchiarono
contro le mura stringendosi l'un con l'altro per farsi coraggio.
Per sei giorni e sei notti il paese di Sumer venne travolto dalla furia delle
acque.
Quando venne l'alba del settimo giorno, la tempesta diminuì, divenne calmo il
mare, la piena si acquietò. Utnapištim si affacciò dall'arca e guardò la faccia
del mondo. Silenzio. Dovunque si stendeva il mare. E tutta l'umanità era stata
trasformata in argilla. Allora Utnapištim s'inchinò e pianse.
A lungo l'arca cercò la terra, finché comparve una montagna, e lì l'arca
s'incagliò e non si mosse.
Allora Utnapištim aveva mandò fuori alcuni uccelli, i quali, non trovando
nulla da mangiare né luogo dove posarsi, tornarono sulla nave. Alcuni giorni
dopo ripeté l'operazione, e gli uccelli tornarono con le zampe infangate. Quando
mandò fuori per la terza volta gli uccelli, questi non tornarono e Utnapištim
comprese che la terra era di nuovo emersa. Allora Utnapištim aprì le porte della
nave e tutte le creature uscirono fuori. Quindi fece dei sacrifici agli dèi. Gli
dèi, sentendo il profumo dei sacrifici, accorsero numerosi, tranne Enlil che
rimase sgomento all'idea che qualcuno si fosse salvato.
Allora Enki disse ad Enlil: ― Saggio tra gli dèi, Enlil, come hai potuto così
stoltamente far scendere il Diluvio? Imponi sul peccatore il suo peccato,
puniscilo quando ha colpa, ma non incalzarlo, altrimenti muore. Magari un leone
avesse dilaniato l'umanità invece del Diluvio. Magari la carestia avesse
devastato l'umanità invece del Diluvio. Magari la pestilenza avesse decimato
l'umanità invece del Diluvio!
Allora Enlil prese per mano Utnapištim e sua moglie, li benedisse e dichiarò:
― D'ora innanzi, Utnapištim non sarà più un uomo mortale, ma un dio, e vivrà
nella lontananza, a Dilmun.
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LA PIANTA E IL SERPENTE
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Gilgameš e il serpente |
© 1999 Thom Capheim |
lla fine del racconto, Utnapištim disse a Gilgameš: ― Quanto a te, Gilgameš, chi
riunirà a consiglio gli dèi per darti quella Vita che cerchi? Ma se vuoi, vieni
e tenta la prova: non hai che da vincere il sonno per sei giorni e sei notti.
E mentre Gilgameš stava lì accosciato, una nebbia di sonno fluttuò su di lui.
Allora Utnapištim disse alla moglie di fare ogni giorno un pane e di porlo
accanto al corpo di Gilgameš. Così ella fece. Al settimo giorno, Gilgameš si
svegliò e disse a Utnapištim: ― Mi ero appena addormentato che subito mi hai
svegliato.
Ma il vecchio gli indicò i pani posati accanto a lui, di cui il primo era duro,
il secondo come cuoio, il terzo fradicio, il quarto andato a male, il quinto
gommoso, il sesto fresco e il settimo ancora sulla brace.
― Conta questi pani e saprai quanti giorni hai dormito. Come pretendi di vincere
la morte se non sei in grado di vincere il sonno?
Gilgameš sospirò. ― Che cosa farò, Utnapištim, dove andrò? Già il ladro nella
notte ha ghermito le mie membra, la morte abita nella mia camera. Ovunque andrò
la morte mi troverà.
Utnapištim prese con sé Gilgameš e lo condusse ai lavatoi perché si togliesse di
dosso la sporcizia del suo lungo cammino e gli diede nuove vesti. Quando
Gilgameš, rivestito e rifocillato, tornò alla barca di Uršanabi, Utnapištim gli
disse: ― Gilgameš, ti rivelerò una cosa segreta. C'è una pianta che cresce sotto
l'acqua, la Pianta dell'Irrequietezza, detta Vecchio-torna-giovane. Ha spine
come il rovo. Ferirà le tue mani, ma se riuscirai a prenderla sarà la tua
salvezza, perché ha la virtù di ridare agli uomini la gioventù perduta. Non è
proprio la Vita che cerchi, ma può aiutarti a tenere lontana la vecchiaia e la
morte.
Gilgameš ripartì con Uršanabi. Arrivato nel punto indicatogli, si legò ai piedi
pietre pesanti e si tuffò dalla barca. Trascinato dalle pietre sul fondo del
mare, Gilgameš vide la pianta che cercava. La afferrò e le spine gli ferirono le
mani, ma l'eroe, incurante del dolore, riuscì a strapparla. Tagliò le funi che
lo ancoravano alle pietre e tornò in superficie. Mostrò la pianta a Uršanabi e
disse:
― Porterò questa pianta a Uruk dalle forti mura, la darò da mangiare ai vecchi,
i quali torneranno giovani e forti. Infine ne mangerò io stesso e riavrò tutta
la perduta gioventù.
Dopo un lungo viaggio, si fermarono per la notte, presso un pozzo di acqua
fresca. Mentre Gilgameš si bagnava nel pozzo, un serpente sentì la dolcezza
della pianta poggiata sulla riva, si avvicinò e la mangiò. Subito, l'animale
perse la pelle, tornando giovane, e fuggì via. Quando Gilgameš si accorse del
fatto, pianse a lungo, sconsolato.
― O Uršanabi, è per questo che ho faticato con le mie mani, è per questo che ho
spremuto il sangue del mio cuore? Per me non ho guadagnato niente! Non io, ma
questa bestia della terra ne gioisce!
E così fu che Gilgameš non ebbe l'immortalità.
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RITORNO A URUK
lla fine di un
lunghissimo viaggio, Gilgameš ritornò finalmente a Uruk. Uršanabi l'aveva
accompagnato. Qui giunti, Gilgameš ordinò ad Uršanabi di salire sulle mura e gli
mostrò la città.
- Anche questa fu opera di Gilgameš,
- del re che conosceva i paesi del
mondo;
- vide misteri e conobbe cose segrete;
- un racconto ci portò dei giorni
prima del diluvio.
- Fece un lungo viaggio, fu esausto,
consunto dalla fatica;
- quando ritornò su una pietra
- l'intera storia incise.
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MORTE DI GILGAMEŠ
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In trionfo |
© 1999 Thom Capheim |
na notte il dio Enlil comparve in sogno a Gilgameš e gli disse:
― O Gilgameš, tu sei stato destinato alla Regalità: alla Vita non sei stato
destinato. A causa della mancanza della Vita il tuo cuore non sia triste. Non ti
abbattere, non essere depresso. È stato dato a te il potere di giudicare chi tra
gli uomini ha commesso il male, è stato dato a te il potere di stabilire la luce
e le tenebre del genere umano, è stato dato a te il potere di primeggiare
sull'umanità, è stato dato a te il potere di non avere avversari, è stato dato a
te il potere di vincere le guerre da cui nessuno torna vivo, è stato dato a te
il potere di condurre assalti da cui nessuno può sfuggire. Ma la Vita, la Vita,
non ti è stata data.
Risvegliatosi, Gilgameš chiese lumi ai sapienti sul significato del tuo sogno
e questi gli risposero:
― Gli eroi e i saggi, come la luna, hanno il loro crescere e calare. Diranno
gli uomini: chi mai ha regnato con potenza e potere simili ai tuoi? Come nel
mese oscuro, nel mese delle ombre, così non vi è luce senza di te. O Gilgameš,
questo era il significato del tuo sogno. Ti è stata data la sovranità, questo è
il tuo destino. Una vita che duri in eterno non è il tuo destino.
E dopo centoventisei anni di regno, Gilgameš, il re di Uruk, ebbe la sorte
comune dell'umanità. L'uomo che aveva combattuto contro esseri divini e aveva
viaggiato ai confini del mondo, giacque un giorno sul suo letto, senza vita.
Colui che ha distrutto il male, giace, non si
alza.
Colui che ha stabilito la pace nel Paese, giace, non si alza.
Colui che ha reso tutto perfetto, giace, non si alza.
Colui che ha i muscoli saldi, giace, non si alza.
Colui che è signore di Kullab, giace, non si alza.
Colui che ha forme perfette, giace, non si alza.
Colui che ha lo sguardo acuto, giace, non si alza.
Colui che ha scalato le montagne, giace, non si alza.
Nel letto del destino egli giace, non si alza.
Nel letto variopinto egli giace, non si alza.
Chi gli sta intorno non tace; chi gli siede accanto non tace; essi innalzano un
lamento.
Chi mangia cibo non tace; chi beve acqua non tace; essi innalzano un lamento.
A Gilgameš succedette il figlio Urlugal, che regnò trent'anni. A Urlugal
succedettero altri sei sovrani. Poi la città di Uruk venne sconfitta e la
regalità passò alla città di Ur.
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