SINTESI

SLAVI
Russi

MITOLOGIA SLAVA
I BOGATYRI
Possenti indomiti cavalieri alla corte di Kiev
  IL GRAN PRINCIPE DI KIEV E I SUOI CAVALIERI

anto tempo fa, o fratelli, prima che Mamaj arrivasse dall'oriente per portare pianto e afflizione sull'umida terra di Rus', la grande e splendente città di Kiev era la madre di tutte le città russe. Allora regnava sulla Santa Rus' il gran principe Vladimir, detto «Piccolo Sole». La Rus' era al sicuro, a quel tempo, e nulla potevano i peceneghi e i cumani e i tatari e tutti i feroci neri popoli della steppa, e nemmeno i giganti e le streghe e le creature pagane, perché il gran principe Vladimir si circondava di una schiera di valenti cavalieri, i bogatyri, i quali proteggevano validamente il territorio e le frontiere da tutti i nemici.

I nomi dei bogatyri sono ricordati nelle starine: Čurila Plenkovič, Djuk Stepanovič, Suchman, Mikhajl Potyk, Samson Kolyvanovič, Godenko Bludovič, Vasilij Kasimirovič, Dunaj Ivanovič, ma la fama di tutti è superata dai tre che furono i più grandi e famosi:

  • Il'ja Ivanovič della grande città di Murom.
  • Dobrynja Nikitič della grande città di Rjazan'.
  • Alëša Popovič della grande città di Rostov.

E questa è la loro storia.

Tre bogatyri
Dipinto di Viktor Vasnecov (1848-1926)
Si riconoscono: Dobrynja Nikitič (con la spada), Il'ja Muromec (con la mazza e la lancia), Alëša Popovič (con l'arco).
MUSEO: [Vasnecov]►
 
SVJATOGOR

Svjatogor ( 1985)
 Aleksandr Koškin (1950-), illustrazione (Warner 1985)
In russo Svjatogor vuol dire «Monte santo» con riferimento forse ai monti dove l'eroe dimorava, che potrebbero essere gli Svjatye Gory che si ergono non lontano da Pškov. Svjatogor è un eroe dai tratti arcaici, sopravvissuto in qualche modo nelle byliny del ciclo di Kiev.

aestoso titano di un tempo antico, ai tempi del gran principe Vladimir il vecchio Svjatogor si muoveva ancora per i confini della Santa Rus', nonostante la fede ortodossa fosse ormai giunta dalla Grecia e gli antichi dèi pagani non avessero più il potere di un tempo. Relitto di un tempo scomparso, Svjatogor guidava il suo cavallo per l'aperta ampia steppa. Così gigantesca era la sua corporatura che era costretto addirittura camminare sulle cime dei monti per evitare che la terra sprofondasse sotto il suo stesso peso.

Ma nonostante il suo tempo fosse ormai trascorso, Svjatogor ancora traboccava di orgoglio per la propria potenza, che sentiva diffondersi per le membra e i tendini come argento vivo. — Se la terra avesse un anello, — si vantava, — potrei rovesciarla su un fianco!

Mentre così andava per l'aperta ampia steppa, vide al suolo abbandonata la piccola bisaccia perduta da un pellegrino. La toccò con la punta della lancia ma non gli riuscì a spostarla. Allora si chinò dal cavallo per afferrarla, ma la bisaccia non si staccò da terra.

— Molti anni ho viaggiato per il mondo ma non ho mai trovato un simile portento — disse Svjatogor. — Una piccola bisaccia che non si muove dal posto dove si trova!

Allora Svjatogor scese maestosamente da cavallo, si chinò e afferrò la bisaccia con entrambe le mani e tirò con tutte le sue forze. La bisaccia si sollevò fino all'altezza dei suoi ginocchi... ma fino ai ginocchi era sprofondato Svjatogor nella nera terra. Sul pallido viso del gigante non scorsero lacrime, ma sangue. Lì Svjatogor s'incastrò, l'orgoglioso titano dei tempi andati, e, dicono alcuni, dovette restarvi finché giunse la sua morte.

Ma altri narrano in altro modo la storia della sua fine, come poi vedremo.

La fine di Svjatogor
Illustrazione di Ivan Vasil'evič Simakov
1917
 
GUARIGIONE E PRIME IMPRESE DI IL'JA MUROMEC

l giovane Il'ja era nato a Karačarovo, un piccolo villaggio presso la grande città di Murom. Il padre Ivan era un contadino che lavorava la terra dall'alba al tramonto, e avrebbe davvero avuto bisogno di un paio di braccia in più che l'aiutassero nel suo lavoro, ma purtroppo il povero Il'ja non poteva aiutarlo, essendo nato paralitico. Non sapeva camminare, né disporre delle mani. Ed era ben triste per i genitori assistere questo povero ragazzo che trascorreva tutta la sua fanciullezza su un giaciglio all'interno dell'izba, intristito per essere di peso alla sua famiglia, con il rimpianto di una intera vita di occasioni perdute.

Il'ja aveva trent'anni, l'estate in cui tre vecchi pellegrini bussarono alla sua porta e per tre volte gli chiesero:

— Àlzati, Il'ja, Il'ja Ivanovič. Dacci da bere, che abbiamo sete. Dacci da bere a sazietà!

Non vi era nessuno in casa, i genitori di Il'ja erano fuori a lavorare nei campi, e per tre volte rispose il giovane dal suo giaciglio: — Volentieri vi darei da bere, vi darei da bere fino a inebriarvi. Ma per trent'anni di lunga vita non seppi camminare sui miei piedi e non seppi disporre delle mani.

E dissero allora i pellegrini: — Àlzati, Il'ja, Il'ja Ivanovič. Con i tuoi piedi tu sai camminare, delle tue mani tu sai disporre!

E circonfuso di una strana forza, Il'ja si alzò prodigiosamente sulle bianche gambe e levò gli occhi verso l'icona. — Oh, gloria al Signore! Iddio mi ha concesso di camminare, ha infuso forza nelle mie mani, il Signore!

E corse nelle cantine e portò da bere ai pellegrini, i quali dissero: — E ora, o Il'ja, scendi di nuovo nelle cantine, porta su una coppa colma fino all'orlo e bevi anche tu alla tua salute!

Il'ja fece come gli era stato detto e bevve. E d'incanto sentì sorgere in sé una forza smisurata.

Il'ja Muromec
Illustrazione di V. Lukjanec
1969
Il'ja di Murom, il vecchio cosacco, è il prototipo dell'eroe leale e generoso. Rappresenta la classe contadina, legata alla terra e al lavoro dei campi.

— Che cosa senti dentro di te, Il'ja?
— Sento una grande forza in tutte le membra. Se sull'umida terra ci fosse un anellino, rovescerei la terra sul fianco!
— Allora, o Il'ja, scendi ancora una volta nelle cantine, porta su un'altra coppa colma fino all'orlo e bevi ancora!

Il'ja ubbidì e dopo ch'ebbe bevuto una seconda volta, constatò: — Ora la forza in me è calata fino alla metà.

Allora i vecchietti lo benedissero e lo salutarono con queste parole: — Vivi, Il'ja, per essere guerriero! In terra morte non t'è destinata, in lotta morte non t'è destinata!

E subito Il'ja corse nei campi dai genitori, i quali si stupirono molto nel vederlo arrivare sulle sue gambe e lodarono Dio per il miracolo che aveva compiuto. E Il'ja dimostrò loro la sua forza sradicando una quercia smisurata e gettandola di traverso sul fiume Nepra. In questo modo Il'ja fece un ponte per passare dall'altra parte del fiume e comprese che l'aprire strade sarebbe stato sempre e dovunque il suo destino.

— Tu adesso padre, e anche tu madre, datemi la vostra benedizione. Io intendo partire per la grande città di Kiev, dal principe Vladimir, il piccolo sole, per mettere la mia forza al suo servizio.

— O figlio diletto — risposero i genitori. — Parti dunque per la grande città di Kiev. Grande forza ti ha dato Dio, ma tu vivi in grande umiltà e tieni a freno il tuo fervido cuore.

E allora Il'ja condusse fuori di primo mattino il suo cavallo grigio. — Ora, mio Sivko, bianca criniera, ruzzola un po' nella rugiada del mattino, affinché il pelo si ricambi. Da oggi galopperai nelle aperte ampie steppe e servirai il prode Il'ja, Il'ja Ivanovič di Murom!

IL BRIGANTE SOLOVEJ

Il'ja Muromec e Solovej
  Illustrazione di Ivan Bilibin (1876-1942)
In russo, Solovej Ražbojnik vuol dire «Usignolo Brigante». La scena di Solovej che fischia dall'alto degli alberi ricorda un passo del Canto della Schiera di Igor', dov'è citato Divŭ, un essere demoniaco che ulula dai rami degli alberi, lanciando sui russi presagi di sventura.

 Il'ja Muromec partì dal suo villaggio, diretto alla grande città di Kiev. Indossava un abito semplice e pratico, e aveva con sé una spada, una lancia, un arco e una clava pesante novanta pud. Salutò i genitori e promise loro che durante il viaggio non avrebbe sparso sangue: solo una volta giunto alla meta avrebbe sguainato la spada e mostrato il suo valore.

Ben deciso a giungere a Kiev nel volgere di un giorno, Il'ja partì al galoppo per le aperte ampie steppe. Ma giunto nei pressi della grande città di Černigov, si avvide che era assediata da un'orda di tatari ben decisi a massacrare tutti gli abitanti e a radere al suolo le chiese. Pregando Dio di liberarlo dal voto, Il'ja spronò il cavallo e calò sulle schiere pagane, sbaragliandole. Infilzò con la lancia, scagliò dardi, tirò frecce, tagliò con l'aspra spada e tutti calpestò i tatari pagani. Allora si aprirono le porte di Černigov e gli abitanti della città uscirono a fargli festa e gli proposero di divenire loro voevod. Il'ja rifiutò, e si limitò a chiedere la strada per giungere a Kiev.

Rispose la gente di Černigov:

— Da trent'anni nessuno transita più per la strada per Kiev, ormai bloccata da cespugli ed erbacce, poiché nei boschi di Brjansk, presso il fiume Smorodina, su sette querce ha fatto il suo nido il brigante Solovej. Appena trilla Solovej come un usignolo, tutte le erbe dei prati s'intrecciano, gli alberi si sradicano e quanti sono nei pressi cadono morti a terra!

Bisognava prendere un'altra strada, più lunga e tortuosa, ma Il'ja si era ripromesso di arrivare a Kiev in giornata. Così imboccò per i boschi di Brjansk, facendosi strada attraverso l'intricata vegetazione. Arrivato al fiume Smorodinka, il brigante Solovej si sporse dall'alto della sua quercia e gli lanciò un fischio lacerante, tanto che il bravo cavallo Sivko si paralizzò dal terrore.

Subito Il'ja trasse l'arco. — Parti fischiando, dardo rovente, come lama affilata di coltello, colpisci Solovej e fallo cadere dall'albero! — E scoccò la freccia. Colpì Solovej in un occhio e il brigante piombò giù dall'albero. Allora Il'ja lo afferrò, lo legò al pomo della sella di cuoio circasso e riprese la via per Kiev.

Ma non si avvide, Il'ja, di passare accanto al nido di Solovej, nel quale vivevano le tre figlie del brigante con i loro mariti. Non appena le figlie videro il padre legato alla sella di Il'ja, chiamarono i mariti perché intervenissero. Questi si affacciarono dal nido e chiamarono Il'ja:

— Vieni, robusto bravo giovane, sii nostro ospite nel nido. Ti offriremo cibi prelibati e dolci bevande, e ti doneremo doni preziosi.

Ma Il'ja Muromec non si fece ingannare. Non appena fu entrato nel nido, trasse la spada e fece tutti quanti a pezzi. Poi, sempre col brigante legato alla sella, riprese il viaggio. Giunto che fu alle porte d'oro della grande città di Kiev, Il'ja entrò nel palazzo del gran principe e s'inchinò di fronte a tutti i nobili e i boiari e, ancora di più, di fronte al gran principe Vladimir.

Vladimir lo accolse con garbo: — Da dove vieni, robusto bravo giovane? Chi è tuo padre, chi è tua madre, qual è la tua stirpe?

— O gran principe, piccolo sole, io provengo dal villaggio di Karačarovo, presso la grande città di Murom. Sono Il'ja Ivanovič e sono giunto alla grande città di Kiev attraverso i boschi di Brjansk, per servirti in fede e verità, proteggere la Santa Rus' e difendere la chiesa ortodossa.

— Ti vuoi prendere gioco di me! — esclamò Vladimir. — Da trent'anni nessuno transita più per i boschi di Brjansk,. Presso il fiume Smorodinka ha il suo nido il terribile brigante Solovej!

— O gran principe, piccolo sole, Solovej il brigante è adesso nel tuo cortile, legato alla sella di cuoio circasso del mio cavallo.

Allora Vladimir e tutti i suoi boiari, increduli e perplessi, si recarono in cortile, e qui trovarono il brigante Solovej legato alla sella di Sivko. Subito cominciarono a ridere ed a prenderlo in giro:

— Trilla, adesso, Solovej, come un usignolo! Trilla, Solovej!

Ma Solovej dichiarò, con la bocca incrostata di sangue, che avrebbe obbedito solamente a colui che l'aveva catturato. Allora Il'ja gli diede da bere un secchio di vodka e gli ordinò di fischiare, ma solo a mezza forza, per non far danni.

Solovej pensò però che non aveva più niente da perdere e fischiò con quanto fiato aveva in gola. Esplosero le finestre di cristallo del palazzo, i cavalli scapparono, si sradicarono gli alberi e molte persone caddero morte a terra. Il gran principe Vladimir si salvò per miracolo.

Allora Il'ja afferrò Solovej per i capelli e lo condusse nella steppa, dove gli mozzò il capo. Metà del corpo lo diede in pasto ai lupi grigi, metà ai corvi neri, e questa fu la fine del brigante.

Il'ja Muromec e Solovej
Arte popolare russa.
IL'JA MUROMEC INCONTRA SVJATOGOR

Svjatogor
Illustrazione di Sergej Petrovič Panasenko
1990
La storia di Il'ja che si nasconde nel suo guanto ricorda la leggenda scandinava di Þórr che si nascose nel guanto del gigante Skrýmir.

ivenuto bogatyr' alla corte di Kiev, Il'ja di Murom si trovò a riflettere sulla predizione dei santi pellegrini che l'avevano guarito.

— Vivi, Il'ja, per essere guerriero! — gli avevano detto. — In terra morte non t'è destinata, in lotta morte non t'è destinata!

— Che specie di guerriero son io? — si domandava Il'ja. — In terra morte non m'è destinata, in lotta morte non m'è destinata! Cavalcherò dunque verso i monti e cercherò il più possente e più antico dei bogatyri, il grande Svjatogor. Lui mi consentirà di mettere alla prova la mia forza con la sua e da lui saprò che cosa significa essere un vero bogatyr'.

Così Il'ja lasciò Kiev e partì per i Monti Santi. E mentre vagava per quelle terre deserte, ecco che vide avanzare un cavallo gigantesco, in groppa al quale si trovava un cavaliere che col pennacchio dell'elmo sfiorava le nuvole. Era Svjatogor. Allora Il'ja spronò il bravo Sivko e prese la rincorsa. Balzò fino alla testa del gigante e gli vibrò un enorme colpo della sua mazza ferrata. Ma Svjatogor nemmeno se ne accorse.

— Cos'è successo alla mia forza prodigiosa? — si domandò Il'ja, perplesso. — Fino a qualche giorno fa abbattevo interi eserciti, e adesso...

Provò a vibrare un colpo ad una quercia e quella andò in pezzi. Dunque aveva ancora la sua forza. Il'ja tornò all'attacco e picchiò un altra possente mazzata al capo di Svjatogor. Ma nemmeno stavolta il gigante parve molto turbato.

Il'ja tentò una terza volta e, facendo appello a tutte le sue forze, colpì Svjatogor sul petto. Questa volta il gigante oscillò leggermente, poi, muovendo la mano come se dovesse schiacciare una zanzara, afferrò Il'ja per i capelli e se lo ficcò distrattamente in una tasca.

Dopo non molta strada il cavallo di Svjatogor cominciò ad incespicare.

Lo redarguì Svjatogor: — Che ti succede, possente destriero? Ti si piegano le zampette e inciampi?

E il cavallo: — Mi si piegano, sì, le zampette e inciampo! Due bogatyri in groppa su di me, bravo cavallo, sono un pesante fardello!

Allora il gigante trasse di tasca Il'ja e lo esaminò, e finalmente si avvide che era un cavaliere. — Ah, dunque fosti tu che osasti colpirmi per tre volte! Chi sei, buon valoroso prode?

— Sono Il'ja Ivanovič della grande città di Murom — si presentò Il'ja. — Volevo far conoscenza con te e con te misurare la mia forza, o famoso Svjatogor.

Svjatogor rise. — I tuoi colpi mi son parsi punture di zanzara. Buon per te che non ti ho colpito, altrimenti ti avrei polverizzato gli ossicini. Ebbene, prode Il'ja Muromec, sii il mio fratello minore. Io sarò per te il maggiore.

Il'ja accettò e i due bogatyri andarono insieme per molti e valli, scambiandosi i racconti delle loro imprese.

Sarebbe molto lungo narrare le avventure che vissero insieme Svjatogor e Il'ja Muromec. Dell'amata fanciulla che Svjatogor custodiva in una teca di cristallo e di come Il'ja la sedusse, del fabbro che batteva sull'incudine i destini del mondo, del possente padre di Svjatogor e di come strinse tra le mani una clava arroventata credendo che fosse la mano di Il'ja.

Un giorno, mentre i due compagni vagavano sul monte Eleon, s'imbatterono in un immenso sarcofago di pietra. Il'ja provò ad entrarvi, ma il sarcofago era troppo lungo e troppo largo per lui.

— Non è per te il sarcofago, è chiaro — disse Svjatogor. — Piuttosto sembra della mia misura. Fammi entrare e prova a chiudere il coperchio.

Il'ja tentò di dissuaderlo ma il gigante non gli diede ascolto. Si distese nel sarcofago e Il'ja gli mise sopra il coperchio.

Poi Svjatogor chiese di uscire. Il'ja fece per smuovere il coperchio, ma quello si era saldato al sarcofago. Inutilmente Il'ja tentò di infrangerlo con la mazza: il coperchio resisteva ai suoi colpi più possenti.

— Prendi la mia spada — gli consigliò Svjatogor dal sarcofago. — Con quella riuscirai a infrangere questo sarcofago!
— Inutile — disse Il'ja. — Non riesco nemmeno a sollevarla da terra.
— Allora avvicìnati a questa fessura — disse Svjatogor. — Ti aliterò la mia forza, così potrai sollevare la mia spada.

Il'ja avvicinò il volto alla fessura e dall'interno Svjatogor gli alitò tutta la sua forza. Il'ja sentì allora il suo vigore moltiplicarsi e sollevò la spada del gigante con uno sforzo minimo. Ma ad ogni colpo che menava contro il sarcofago, magicamente apparivano cerchioni di ferro ancora più robusti.

Svjatogor si rese conto alla fine che non poteva sfuggire al suo destino. — Desisti, Il'ja, compagno mio. Qui finisce la vita di Svjatogor. Prendi il mio buon cavallo e legalo qui accanto, perché perisca accanto al suo padrone e nessun altro lo possieda.

Il'ja fece come gli era stato chiesto e tristemente se ne andò. E questa fu la fine di Svjatogor.

DOBRYNJA NIKITIČ

Dobrynja Nikitič
Illustrazione di V. Lukjanec
1969
Dobrynja Nikitič, il secondo dei grandi cavalieri russi, rappresenta i nobili e in generale la classe elevata.

iveva un tempo, nella grande città di Rjazan', il nobile Nikita Romanovič.

Morendo, il nobile Nikita, lasciò una giovane vedova, Mamelfa, e a lei, quale unico diletto, lasciò un bambino, Dobrynja.

A cinque anni, il piccolo Dobrynja giocava con i suoi coetanei e già manifestava una forza prodigiosa: se a uno prendeva la mano destra, gli staccava la mano destra; se a uno prendeva il piede sinistro, gli staccava il piede sinistro. E quando Dobrynja divenne grande, la fama della sua forza superò le mura della città e si sparse intorno per la nera umida terra di Rus'.

E venne un giorno a Rjazan' il prode bogatyr' Il'ja Muromec, che aveva avuto notizia delle prodezze del piccolo Dobrynja ed era ben deciso a sperimentarne la forza. Non entrò dalle porte della città ma balzò direttamente oltre il muro di cinta. Poi vide alcuni bambini giocare e chiese loro dove abitasse il piccolo Dobrynja.

Lo udì la madre di Dobrynja e si affacciò alla finestra. — Non è in casa l'amato mio figlio. È andato a cavalcare per l'aperta ampia steppa per quiete imprese di primavera: per cacciare oche e bianchi cigni, e pennute anatrelle grige.

— Tu menti, Mamelfa! — gridò Il'ja.
— Ahimé, Il'ja Muromec! Tu troverai il figlio mio amato e lo ucciderai! Non farlo, abbi pietà! Non rovinare la casa di una povera vedova!

Non mise tempo in mezzo, Il'ja Muromec, ma galoppò subito per l'aperta ampia steppa. E vide da lungi il giovane Dobrynja cavalcare a sua volta gridando: — Non esiste un rivale che possa stare alla pari con me!

Tanta vanagloria non piacque affatto al vecchio cosacco, che subito attaccò il giovane Dobrynja. Si scontrarono nella steppa i due bogatyri, si colpirono con la clava, ma senza che uno dei due riuscisse ad abbattere l'altro. E allora si colpirono con le spade affilate, ma senza che uno dei due riuscisse a prevalere sull'altro. E allora smontarono da cavallo e si afferrarono, provando ciascuno la sua forza contro quella dell'altro. E urlarono, e sprofondarono in terra fino alle ginocchia. Ma d'un tratto cedette a Il'ja il piede sinistro, cedette a Il'ja la mano destra, e il vecchio cosacco si rovesciò sull'umida terra.

Dobrynja lo schiacciò sotto di sé e gli chiese: — Ehi, tu, bravo robusto cavaliere! Qual è la tua città, quale il paese? Di quale padre, di quale madre?

— Se stessi io sopra il tuo bianco petto, non chiederei la famiglia e la razza. Invece il bianco petto ti aprirei e guarderei nel tuo focoso cuore! — rispose fieramente Il'ja. — Io sono della città di Murom, sono il forte cosacco Il'ja Ivanovič Muromec.

Allora Dobrynja si rialzò e aiutò Il'ja a rialzarsi a sua volta. — Perdonami, Ilejuška, di averti atterrato. Se avessi saputo chi eri, non ti avrei mai colpito.

I due divennero fratelli-di-croce e Il'ja condusse Dobrynja alla corte di Kiev, dove il gran principe Vladimir chiese chi mai fosse quel bravo giovane.

Rispose Il'ja Muromec: — Il suo nome è Dobrynja Nikitič!

Bogatyr' al galoppo
  Dipinto di Viktor Vasnecov (1848-1926)
MUSEO: [Vasnecov]►
 
DOBRYNJA NIKITIČ INCONTRA DUNAJ IVANOVIČ

n giorno il valoroso bogatyr' Dobrynja Nikitič, mentre vagava per le steppe della Sacra Rus', trovò una tenda di nera tela, chiusa sul davanti da un lucchetto, sul quale stava scritto:

CHI NELLA TENDA ENTRERÀ MAI PIÙ VIVO NE USCIRÀ

Avvampò il cuore nel petto del guerriero e Dobrynja spezzò il lucchetto con un pugno. All'interno della tenda vi erano lunghe tavole imbandite. Còlto dall'ira, Dobrynja non pensò neppure a mangiare quel ben di Dio. Gettò tutto a terra, spaccò i piatti e pestò le vivande. Infine, preso dal sonno, cadde addormentato.

La tenda apparteneva al bogatyr' Dunaj Ivanovič, il quale trovò Dobrynja addormentato in mezzo alle tavole rovesciate e alle stoviglie distrutte. Dunaj infiammò di rabbia a quella vista, protese la lancia e per un attimo fu sul punto di trafiggere il giovane Dobrynja. Ma poi pensò che non era leale uccidere un avversario indifeso, quindi balzò sul cavallo di Dobrynja e svegliò l'eroe con l'asta della lancia.

Dunaj Ivanovič scopre Dobrynja Nikitič
Illustrazione di V. Lukjanec
1969

Vestito solo di una bianca camicia e senza calzari, Dobrynja balzò in piedi, afferrò la clava e cominciò a parare i colpi dell'avversario. Dunaj a cavallo e Dobrynja a piedi, combatterono per tre giorni e tre notti, mentre il frastuono del combattimento si udiva come un temporale sulle steppe e la madre umida terra tremava sotto i loro piedi.

Avvertì quel fracasso il vecchio cosacco Il'ja Muromec, che sellò il suo cavallo e corse sulla vetta della montagna, dove trovò i due guerrieri che si battevano. Allora Il'ja afferrò Dobrynja col braccio destro e Dunaj col sinistro, dividendoli. — Oh, voi, possenti guerrieri! Perché mai vi battete e combattete?

Dunaj rispose: — Come posso non battermi e combattere? Avevo nella tenda tavole imbandite e cibi in bella mostra. E questo Dobrynja Nikitič ha versato a terra tutto e tutto con i piedi ha calpestato!

Dobrynja rispose: — Come posso non battermi e combattere? È lui, cane e brigante, che mise la falsa scritta: «Chi nella tenda entrerà, mai più vivo ne uscirà». Ed io uscire voglio e vivo uscire!

Allora Il'ja Muromec li esortò a domare il loro focoso cuore di guerrieri e diventare fratelli-di-croce. E così li placò e li calmò, ed essi cessarono di battersi e di combattere.

I tre eroi si recarono poi a Kiev, dove Dunaj Ivanovič entrò al servizio del gran principe Vladimir, piccolo sole.

Dunaj Ivanovič contro Dobrynja Nikitič
Illustrazione di V. Lukjanec
1969
DUNAJ IVANOVIČ PRONUBO PER CONTO DEL GRAN PRINCIPE VLADIMIR

ualche tempo dopo si tenne un banchetto alla corte di Kiev, presso il gran principe Vladimir, piccolo sole.

Disse Vladimir: — Voi tutti, principi e boiari, tutti possenti bogatyri, mercanti e gente di campagna! Tutti al banchetto siete ammogliati, solo io non ho una sposa. Conoscete per me una principessa che sia di alta statura, rotondetta di corpo e leggiadra di viso, d'andatura veloce e di voce soave, con cui io potessi vivere, scambiare pensieri e trascorrere lunghi anni?

Tutti al banchetto ammutolirono, neppure uno rispose. Soltanto un prode bravo giovane, Dunaj Ivanovič, uscì fuori dalla tavola di quercia e, battendosi la fronte, fece un inchino e disse:

— Vladimir, gran principe di Kiev! Io conosco una principessa che vi possa essere consorte. Il re della prode Lituania ha due figlie non maritate. La figlia maggiore ha nome Nastas'ja, compie prodi imprese in campo, guerriera sempre in cerca di avventure. La minore vive in casa e ha nome Apraksija, alta di statura, rotondetta di corpo e leggiadra di viso, d'andatura veloce e di voce soave. Con lei, gran principe di Kiev, potreste vivere, scambiare pensieri e trascorrere lunghi anni.

Furono gradite queste parole al gran principe, e disse Vladimir: — Tu, Dunaj Ivanovič! Prendi da me quarantamila uomini e di tesoro diecimila grivne, parti per quel paese, per la prode Lituania, e con buone parole combina il mio matrimonio con la principesse Apraksija. E se non la dànno volentieri, prendila con la forza!

— Non mi occorrono né uomini né ricchezze — rispose Dunaj. — Dammi solo un compagno, il prode compagno Dobrynja Nikitič!

E Dunaj partì alla volta della Lituania, accompagnato da Dobrynja Nikitič. I due bogatyri si recarono al palazzo reale e Dunaj disse a Dobrynja di aspettare nel cortile: l'avrebbe chiamato in caso di necessità. Dopodiché Dunaj si recò nella sala del trono e s'inchinò dinanzi al re come convenuto.

Il re di Lituania ben conosceva Dunaj, che era stato molti anni al suo servizio. Gli diede da mangiare e da bere e lo interrogò: — Dimmi, dimmi, valoroso Dunaj, non mi celare, che cosa sei venuto a fare qui nella prode Lituania?

— O batjuška, re della prode Lituania, sono venuto per una buona impresa, per fidanzare tua figlia Apraksija col gran principe di Kiev, Vladimir, piccolo sole.

Il re balzò in piedi. — Che cosa? Vuoi fidanzare la minore e trascurare la maggiore? — Chiamò le guardie tatare. — Soldati! Prendete Dunaj per le bianche mani e conducetelo nel sotterraneo! Chiudete con grate di ferro e serrate con sbarre di quercia!

Allora Dunaj si levò, afferrò la tavola su cui stava mangiando e la rovesciò contro i soldati, sbaragliandoli. Invano il re chiamò altri uomini: giunsero i servi dal cortile gridando:

— Sire, c'è nel cortile un giovanotto con una gran mazza saracena: ha ucciso tutti i soldati tatari fino all'ultimo e non ne ha lasciati neppure per la razza!

Allora il re non poté fare a meno di cedere. — Sta bene, Dunaj Ivanovič! Prendi pure la mia figlia principessa e conducila dal tuo gran principe Vladimir.

E Dunaj e Dobrynja partirono così alla volta della grande città di Kiev, e con loro era la principessa Apraksija. Cavalcavano per le aperte ampie steppe, quando si accorsero che qualcuno li inseguiva di gran carriera. Era un cavaliere tataro, con lancia e scudo. Affidata Apraksija a Dobrinja, Dunaj tornò indietro e affrontò l'inseguitore.

— Férmati, tataro, nell'aperta ampia steppa! E dimmi, non mi celare, chi sei, qual è il tuo nome, quale la tua razza?

Per tutta risposta il tataro colpì Dunaj con tanta forza da rovesciarlo al suolo. Ma subito il bogatyr' colpì l'avversario di piatto con una lancia, disarcionandolo a sua volta, gli saltò addosso e gli strappò di dosso l'armatura, deciso ad affondargli la spada nel cuore. Ma tosto trattenne il suo colpo, accorgendosi che il petto del suo avversario era un soffice seno di donna.

— Dunaj, non mi riconosci? — lo redarguì la ragazza. — Tre anni interi vivesti da noi nella prode Lituania. E non cavalcammo per gli stessi sentieri, non sedemmo sullo stesso sgabello, non mangiammo dallo stesso piatto?

— Tu sei la principessa Nastas'ja! — fece Dunaj. E ammirato dal coraggio della fanciulla, l'aiutò a rialzarsi e la condusse con sé a Kiev. Così, qualche giorno dopo, mentre il gran principe Vladimir sposava Apraksija, Dunaj sposava Nastas'ja.

La festa di nozze durò tre giorni. I guerrieri mangiarono e bevvero e, quando furono ubriachi, cominciarono a vantarsi delle proprie prodezze.

— In tutta la grande città di Kiev non c'è un giovane che sia elegante e ardito come me! — disse Dunaj. — E non uno che mi batta nel tiro con l'arco!

— Tu, Dunaj, mio caro marito! — rise Nastas'ja. — Non ti stai vantando invano? Non è da molto che sono stata in città, ma ho visto parecchie cose. Per eleganza ti sopravanza Dobrynja Nikitič, per ardimento ti sopravanza Il'ja Muromec, e per l'abilità di tirare l'arco, ebbene, per quella ti sopravanzo io. Sono capace di tirare una freccia contro la lama affilata di un coltello e tagliare la freccia in due metà esatte.

Irritato per essere state ripreso davanti a tutti, e in realtà piuttosto brillo, Dunaj afferrò Nastas'ja per un braccio e la portò nell'aperta ampia steppa per dimostrare se quel che aveva detto rispondeva a verità. Le diede un arco e una freccia e pose lontano un coltello affilato. Nastas'ja tirò e, come aveva detto, la freccia colpì diritta il coltello e si spaccò in due esatte metà.

Allora tirò Dunaj. Scoccò una freccia: troppo lontano. Ne scoccò un'altra: troppo vicino. Ne scoccò una terza: fallì il bersaglio. Furibondo Dunaj girò l'arco e puntò il dardo contro il petto di Nastas'ja.

— No, Dunaj, caro marito! — gridò lei. — Piuttosto, battimi nuda con una frusta, trascinami pure col cavallo per l'aperta ampia steppa, mettimi fino al petto nell'umida terra e picchiami con pungoli di quercia, ma prima lascia che dia alla luce il bambino che ho nel ventre. Fino ai ginocchi ha gambe d'argento, fino ai gomiti ha braccia d'oro, ha i riccioli cosparsi di stelle e il sole gli brilla in fronte!

Ma Dunaj non la ascoltò. Scoccò la freccia e Nastas'ja cadde morta.

Svaniti i fumi dell'ebbrezza, Dunaj si accorse di quale misfatto avesse compiuto. Si avvicinò al corpo della moglie, le squarciò il ventre con la spada e scoprì che ella non aveva mentito. Il bambino era davvero come l'aveva descritto: fino ai ginocchi aveva gambe d'argento, fino ai gomiti aveva braccia d'oro, aveva i riccioli cosparsi di stelle e il sole gli brillava in fronte.

In preda al rimorso, Dunaj si gettò sulla sua spada, morendo accanto alla moglie.

Si dice che due fiumi nacquero dal luogo in cui marito e moglie erano caduti: uno fu il grande fiume Dunaj [il Don], e l'altro il suo affluente Nastas'ja.

Dunaj e Nastas'ja ( 1985)
 Aleksandr Koškin (1950-), illustrazione (Warner 1985)
ALËŠA POPOVIČ

Alëša Popovič corteggia una ragazza
Illustrazione di Konstantin Alekseevič Vasil'ev (1942-1976)
Alëša Popovič, terzo dei grandi cavalieri russi, rappresenta invece (e con molta ironia) il clero ortodosso. Dei tre cavalieri, è proprio Alëša il più dissoluto e infido..

alla grande città di Rostov partirono un giorno, come due splendenti falchi, partirono due possenti bogatyri e cavalcarono per l'aperta ampia steppa. Il primo aveva nome Alëša, ma poiché era il figlio del vecchio pope Leontij della cattedrale della città, tutti lo chiamavano Alëša Popovič. L'altro era il suo giovane amico Ekim Ivanovič.

Cavalcavano i bogatyri spalla a spalla, staffa contro staffa. Cavalcarono per l'aperta ampia steppa finché giunsero in un luogo dove tre ampie strade si diramavano e, tra quelle strade, si levava una grossa pietra iscritta.

— Ehi, tu, fratello Ekim Ivanovič, tu che sei esperto di lettere! — disse Alëša. — Guarda l'iscrizione sulla pietra, guarda e dimmi quel che vi sta scritto.

E balzò Ekim giù dal bravo cavallo e studiò l'iscrizione sulla pietra. — Dice solo che la prima strada conduce a Murom, la seconda a Černigov, la terza alla grande città di Kiev, dove risiede il gran principe Vladimir, piccolo sole.

— Meglio sarà per noi, allora, andare nella grande città di Kiev, dove risiede il gran principe Vladimir, piccolo sole — concluse il giovane Alëša.

Si accamparono lunga la strada, nei pressi del fiume Safat, e là rizzarono le tende. Il mattino successivo si destò Alëša assai presto, di buon mattino, si rivolse verso oriente e pregò Iddio. Mentre sellavano i bravi cavalli, pronti per partire, a loro si appressò un pellegrino.

— Ehi, voi prodi e bravi giovani! — chiamò. — Vengo or ora dall'aperta ampia steppa, dove ho appena incontrato Tugarin, il figlio del serpente! È alto più di un uomo, ha spalle larghe e poderose, il suo cavallo è come una belva feroce e dalla sua bocca divampano fiamme!
— Presto, viandante! — esclamò Alëša. — Dammi i tuoi abiti, e scambiali con i miei!

E Alëša si rivestì così degli abiti del viandante. Si mise il suo ricco mantello, il berretto greco sul capo, prese il suo bastone da viaggio, solido e pesante. Quindi si pose di traverso sul fiume Safat, in attesa che Tugarin si mostrasse.

Tugarin comparve presto nell'aperta ampia steppa. La sua cintola aveva il diametro di una quercia, gli occhi gli distavano l'uno dall'altro un tiro di freccia, le orecchie erano lunghe due buoni palmi. Non appena vide da lontano Alëša, Tugarin emise un grido così forte che l'intero querceto ne tremò.

— Ehi tu, viandante! Hai visto per caso dei bogatyri russi, qua intorno? Con la lancia li infilzerò, li infilzerò con la lancia e nel fuoco li brucerò!

Rispose allora Alëša: — Ehi, Tugarin Zmeevič, figlio del serpente! Non sento quello che dici, fatti più vicino!

E s'appressò Tugarin Zmeevič e Alëša lo colpì col bastone da viaggio, con tanta forza che gli sfondò il cranio. Piombò Tugarin sull'umida terra. Gli balzò Alëša sul nero petto e trasse il coltello.

— Ehi tu, viandante pellegrino! Ti riconosco adesso, sei il valente Alëša Popovič della grande città di Rostov! — esclamò Tugarin. — Non uccidermi, ti supplico. Anzi, affratelliamoci, io e te!

Alëša non prestò fede al nemico e gli mozzò il capo impetuoso.

E restituiti gli abiti al viandante e indossati di nuovo i propri, Alëša Popovič ripartì per la grande città di Kiev, seguito dal fedele Ekim Ivanovič.

E giunti alla grande città di Kiev, legarono nel cortile i bravi destrieri ed entrarono nel salone del gran principe. S'inchinarono alle immagini sacre, alle quattro direzioni, e quindi al gran principe Vladimir e alla principessa Apraksija.

— O voi, robusti bravi giovani! — disse il gran principe. — Dite con quale nome vi chiamano. Secondo il nome vi sarà dato un posto, secondo i vostri padri vi si darà il benvenuto!
— Io sono chiamato Alëša Popovič. Sono il figlio del vecchio pope della cattedrale della grande città di Rostov.
— Benvenuto, allora, giovane Alëša! Per via di tuo padre, siedi nel posto migliore, nella panca di quercia davanti a me.

Ma Alëša preferì sedere in cima alla stufa, posto riservato ai mendicanti, da dove era possibile vedere tutto il salone senza doversi piegare all'etichetta.

Durante la cena si spalancarono le porte e la sagoma di un gigante irruppe nella sala. Alëša fu assai stupito nel riconoscere Tugarin Zmeevič, il figlio del serpente, a cui lui stesso, non era trascorso nemmeno un giorno, aveva mozzato il capo impetuoso.

Tugarin sedette tra il gran principe Vladimir e la principessa Apraksija, e subito gli accorti cuochi gli portarono cibi prelibati e dolci bevande. Ma Tugarin non era certo raffinato: divorava pagnotte intere con un boccone e si versava in gola coppe intere di birra. Nel frattempo, non trascurava di allungare le mani sulla principessa, di stringerla a sé e di baciarla sulle dolci labbra.

— O tu, grazioso gran principe Vladimir! — esclamò Alëša dall'alto della stufa. — Che razza di maleducato è entrato qui? Rozzamente siede alla tavola principesca. Alla principessa, il cane, mette le mani addosso, la bacia sulle dolci labbra. Di te, gran principe, si fa beffe!

Tugarin si impadronì di un arrosto, inghiottendolo intero, e Alëša non poté fare a meno di commentare: — Mio padre, il pope Leontij, aveva un cane che è morto soffocato da un osso. Spero che a Tugarin capiti lo stesso! — Poi, quando Tugarin bevve un intero secchio di birra: — Mio padre, il pope Leontij, aveva una vacca che è scoppiata per aver trangugiato un tino di birra. Spero che a Tugarin capiti lo stesso!

Voltandosi di scatto, Tugarin lanciò contro Alëša un coltello affilato. Mancò il bersaglio ed Ekim s'impadronì del coltello. — Glielo vuoi rilanciare tu, Alëša, o lo farò io?

— Nessuno dei due, caro Ekim. Domani me la vedrò con Tugarin. Un'altra volta, domani, nell'aperta ampia steppa mi batterò con lui per una grande posta. Non per cento grivne, non per mille, ma per il mio capo impetuoso!

Tugarin si alzò e uscì. Il suo cavallo aveva grandi ali artificiali, fatte di carta, e quando Tugarin montò in sella, quello si levò in volo sotto il cielo.

Poi Alëša ed Ekim balzarono in groppa ai loro cavalli e cavalcarono nell'aperta ampia steppa. Quella sera, mentre riposavano nelle bianche tende, non dormì Alëša, ma pregava Dio dicendo: — Ti prego, o Signore, crea una tremenda nube, una nube con rovesci di pioggia!

Il giorno dopo, recatosi al luogo convenuto, vide Tugarin arrivare volando sotto il cielo, in groppa al suo cavallo. Le grandi ali di carta erano spiegate. Ma in quel momento, Dio mandò l'acquazzone per il quale Alëša aveva pregato tutta la notte. Con le ali inzuppate e incapace di volare, il cavallo di Tugarin dovette scendere a terra.

Allora Alëša sguainò la spada e partì al galoppo.

Nel vederlo arrivare, si fece nero, Tugarin, come notte d'autunno. — O tu, giovane Alëša Popovič! Vuoi forse che ti bruci col fuoco? Col cavallo vuoi che ti calpesti? Oppure vuoi che t'infilzi con la lancia?

E gridò Alëša: — O tu, Tugarin Zmeevič, figlio del serpente! Non hai più una grande forza, ora, contro di me, non è vero?

Vomitando fiamme, Tugarin incitò il cavallo al fine di schiacciare l'avversario. Ma quando i due destrieri furono vicini, Alëša si gettò sul fianco dell'animale e la sciabola del mostruoso predone non trovò la sua testa là dove si era avventata. Alëša non perse la sua occasione. Balzò di nuovo in sella, mosse la sua sciabola d'acciaio ed a Tugarin mozzò il capo impetuoso. E crollò, la testa di Tugarin, sull'umida terra, come pentola di birra.

Questa volta Alëša fu più accorto. Non lasciò la testa lì dov'era caduta. La raccolse, e giunto nella grande città di Kiev, la gettò nel bel mezzo del cortile. Il gran principe Vladimir, piccolo sole, fece entrare Alëša nel salone e lo mise a sedere sulle tavole imbandite.

— O tu, Alëša Popovič il giovane! Mi hai procurato un'ora luminosa! Ti sia grato vivere alla grande città di Kiev, servendo me, il principe Vladimir. E io ti darò tutti i doni che vuoi!

E da quel giorno Alëša Popovič entrò nel numero dei bogatyri del gran principe di Kiev.

Alëša Popovič contro Tugarin ( 1985)

 Aleksandr Koškin (1950-), illustrazione (Warner 1985)

Dobrynja e il drago
Dipinto di Viktor Vasnetsov (1848-1926)
DOBRYNJA NIKITIČ E IL DRAGO

l valoroso bogatyr' Dobrynja Nikitič si recò un giorno nell'aperta ampia steppa, quando da sotto il cavallo comparvero molti feroci serpenti, piccoli e grandi, e lui tutti li uccise e li schiacciò. Quando tornò nel suo palazzo e raccontò quel che gli era accaduto alla madre Mamelfa, la donna fu presa da grande timore:

— Se tu hai ucciso serpenti feroci, piccoli e grandi, allora, o mio amato Dobrynja, sta' alla larga dai famosi monti di Soročinsk, dove vi sono serpenti ancora più grandi che vorranno vendicarli, e soprattutto non ti bagnare nel fiume Pučaj, che quel fiume crudele ha due correnti: la prima è veloce, la seconda è di fuoco!

Ma il giovane Dobrynja non ascoltò i consigli della cara madre e gli venne voglia di andare proprio là dove gli era stato sconsigliato di recarsi. Così partì per l'aperta ampia steppa e dopo molti giorni di viaggio giunse ai monti di Soročinsk. Giunto che fu al fiume Pučaj, Dobrynja si spogliò nudo e si tuffò in acqua.

Le ragazze che si trovavano lì a lavare i panni lo presero in giro, perché i bravi ragazzi non si bagnano nudi, ma con fini camicie di tela. Dobrynja rispose loro con spirito malizioso. A un certo punto si udì un rombo di tuono e un'ombra immane si stese sull'allegro gruppetto. Le ragazze fuggirono. Dobrynja volse in su il capo e vide calare del cielo un mostruoso e gigantesco serpente con tre teste e dodici code.

Era la draghessa dei monti Soročinsk, la quale aveva nome Gorynyšče, ed era la madre dei piccoli serpenti che Dobrynja aveva ucciso. Furibonda, rapiva fanciulle e cavalieri e li portava tra le sue montagne. La draghessa s'avventò contro il giovane Dobrynja sibilando: — Dobrynja, adesso sei nelle mie mani, nelle mie mani e in mio potere! Quello che voglio con te posso fare, se mi va, il giovane Dobrynja prenderò prigioniero, se mi va, l'arderò con il fuoco, se mi va, lo divorerò!

Dobrynja nuotò sott'acqua ed emerse sulla riva opposta del fiume, ma Gorynyšče gli alitò una ventata di fuoco e faville che gli bruciò il petto. Non avendo né il suo cavallo né la sua lancia, niente avendo per opporsi al drago, Dobrynja si sentì perduto. Per fortuna trovò sulla riva un colbacco della terra greca. Dato che propria dalla Grecia era giunta in Russia la fede ortodossa, e poiché la draghessa era una creatura pagana, il bogatyr' poté usare il colbacco come un'arma e con quello colpì la draghessa con quanta forza aveva nel petto. Gorynyšče stramazzò al suolo e Dobrynja le saltò sul petto pronto a tagliarle le teste impetuose.

— O giovane Dobrynja! — implorò allora la draghessa: — Non uccidermi, povero zmej, per il bianco mondo lasciami volare. Tra te e me voglio fare un patto, un grande patto, non un patto piccolo: mai e poi mai scontrarci nelle aperte ampie steppe, non fare lotta e zuffa, né spargimento di sangue, tra te e me, mai!

Dobrynja si levò dal petto della draghessa e giurarono essi di osservare il loro patto.

Così la draghessa volò via e Dobrynja, rivestitosi, saltò in groppa al suo cavallo e riprese la strada per la grande città di Kiev.

Tornato che fu a Kiev, Dobrynja scoprì che, durante la sua assenza, Gorynyšče era piombata sulla città ed aveva rapito la leggiadra Zabava Putjatična, la nipote favorita di Vladimir, piccolo sole. Il gran principe era disperato, i suoi bogatyri non sapevano che fare, nessuno aveva il coraggio di salire sui monti di Soročinsk per riprendersi la principessa. E quando Dobrynja entrò nella sala, Alëša Popovič lo indicò dicendo: — Che ci vada lui, sui monti di Soročinsk, che vada a riprendersi la leggiadra Zabavuška! Corre voce che sia amico della draghessa, corre voce che questa lo chiami fratello!

Il gran principe Vladimir, furibondo, si rivolse allora a Dobrynja. — Allora va' tu nell'aperta ampia steppa, va' tu verso quei gloriosi monti di Soročinsk, va' tu in quelle tane di drago! Cerca mia nipote, la leggiadra Zabavuška, e riconducila alla grande città di Kiev! Altrimenti ti farò mozzare il capo impetuoso!

Dobrynja e il drago
Illustrazione di Konstantin Alekseevič Vasil'ev (1942-1976)
1974

Il giovane Dobrynja si rattristò per l'arduo compito che gli era stato affidato e tornò mesto a casa dalla propria madre. Mamelfa gli chiese il perché della sua afflizione e Dobrynja le riferì l'ordine di Vladimir. La madre lo consolò e lo mandò a dormire. Il mattino seguente lo svegliò: — Va', adesso, Dobrynja, adempi questo gran servigio che t'è stato ordinato.

Dobrynja si levò dal letto, per bene si lavò e si vestì a puntino, quindi uscì dal palazzo, prese il destriero dalla scuderia e partì al galoppo, via, per l'aperta ampia steppa. A questo punto Mamelfa scoppiò in un pianto disperato: — Ahimé, ho messo al mondo un figlio sfortunato! Come entrerà lui nelle tane dei draghi? Dilanieranno il suo corpo e si berranno il suo sangue!

Giunto tra le aspre scarpate dei monti di Soročinsk, Dobrynja venne aggredito dai figli della draghessa, orribili serpenti che dovette abbattere uno dopo l'altro. Per un giorno intero il cavallo schiacciò serpenti sotto gli zoccoli ed a sera tremava dalla fatica. Dobrynja allora cominciò a batterlo con la sferza, tra le orecchie e tra le zampe, spietatamente, finché l'animale riprese forza e vigore.

E giunse Dobrynja alle tane dei draghi, che erano chiuse da chiavistelli di rame e puntelli di ferro. Allora il bogatyr' cominciò a forzare una ad una quelle porte, uccideva i serpenti che ne sortivano e quando penetrava nelle tane, vi trovava molti prigionieri russi: vi erano principi e boiari , vi erano possenti bogatyri, vi erano fanciulle da marito. Una gran quantità di prigionieri liberò così, Dobrynja.

E infine giunse alla tana della draghessa Gorynyšče e, quando ne ebbe forzato le porte, vi trovò prigioniera la leggiadra principessa Zabava.

— Esci, Zabavuška, corri! — ke gridò Dobrynja. — Da lontano ho attraversato le aperte ampie steppe e sono giunto nelle tane dei draghi per cercarti! Presto, vieni fuori! Dobbiamo tornare alla grande città di Kiev, dal gran principe Vladimir, piccolo sole!

Ma d'improvviso comparve la draghessa Gorynyšče e si levò alta sopra Dobrynja, spuntando fiamme ardenti. — Dobrynja, ragazzo! Non ricordi il patto che noi due abbiamo stretto? Non più far lotta tra noi, questo abbiamo promesso! Eppure tu sei giunto sui monti di Soročinsk, tutti i dragoncelli hai calpestato, tutti i prigionieri hai liberato! Ora pretendi anche la leggiadra Zabavuška? A te non la darò, ricorda!

E gridò Dobrynja: — Tu, draghessa maledetta! Perché volasti, tu, sulla grande città di Kiev? Perché rapisti la leggiadra principessa Zabava e la prendesti prigioniera?

Allora la draghessa attaccò Dobrynja e i due combatterono strenuamente per tre giorni e tre notti, senza mai fermarsi. La draghessa lanciando fiamme ardenti, Dobrynja difendendosi con scudo e mazza. Trascorsi quei tre giorni, il bogatyr' era distrutto dalla fatica e disperava ormai di poter vincere. Ma in quel momento una voce proveniente dal cielo lo esortò: — Giovane Dobrynja, combatti per altre tre ore! — Dobrynja fece appello a tutte le sue forze e riuscì a reggere per il tempo convenuto. Alla fine la draghessa giaceva morta ai suoi piedi.

Dobrynja salva Zabava
  Illustrazione di Ivan Bilibin (1876-1942)

Ma i pericoli non erano finiti, ché la terra si rifiutava di accogliere il sangue del mostro e il bogatyr' si ritrovò al centro di un lago cruento e letale. Di nuovo Dobrynja disperò di cavarsela e di nuovo la voce dal cielo gli diede un buon consiglio: — Colpisci l'umida madre terra con la lancia e parlale.

Dobrynja colpì il terreno con la punta della lancia: — Apriti, umida madre terra! Apriti, e accogli il sangue del drago. — Subito, si aprì un crepaccio in cui il lago di sangue rifluì lasciando emergere la terra asciutta e riarsa..

Dobrynja finalmente scese da cavallo, prese Zabava per le bianche mani e via la condusse dalla tana del drago. Tutti gli altri prigionieri lo seguirono finché non furono nell'aperta ampia steppa e quindi ciascuno prese la via per il proprio paese. Dobrynja issò Zabava sulla sella del destriero e lui stesso montò dietro di lei.

E così riportò la fanciulla nella grande città di Kiev restituendola al gran principe Vladimir.

IL MATRIMONIO DI ALËŠA POPOVIČ CON LA MOGLIE DI DOBRYNJA NIKITIČ

Dobrynja e Nastas'ja
Illustrazione di V. Lukjanec
1969

n giorno Dobrynja Nikitič dovette partire per andare a combattere in un paese lontano e sua madre pianse nel salutarlo. Poi Dobrynja andò nel palazzo a cercare la sua cara sposa, la giovane Nastas'ja, la quale si accomiatò da lui con grande tristezza:

— Quando tornerai a casa, caro Dobrynja? Quanto dovrò aspettarti dalle aperte ampie steppe?

— O mia cara Nastas'juška, giacché me l'hai domandato, io ti risponderò. Per tre anni aspetta Dobrynja, se non ritorno aspettane altri tre. Se trascorsi questi sei anni non sarò ancora tornato, allora potrai ritenere morto Dobrynja. A quel punto il tuo volere sarà libero, Nastas'ja, vivi da vedova o riprendi marito, prenditi un principe, oppure un bojaro o anche un possente bogatyr' russo. Unico, non sposare Alëša Popovič.

E così prese ad attendere lo sposo, la giovane Nastas'ja. Giorno dopo giorno, come pioggia cade. Settimana dopo settimana, come erba cresce. Anno dopo anno, come fiume scorre. Trascorsero tre anni e non tornò Dobrynja dall'aperta ampia steppa. E per altri tre anni prese ad attendere lo sposo, la giovane Nastas'ja. Giorno dopo giorno, come pioggia cade. Settimana dopo settimana, come erba cresce. Anno dopo anno, come fiume scorre. Erano ormai passati sei anni e Dobrynja non era tornato dall'aperta ampia steppa.

Allora Alëša Popovič giunse nella grande città di Kiev e portò una notizia non lieta. Disse che non viveva più Dobrynja Nikitič, ma giaceva morto nel campo, il capo impetuoso fracassato, le spalle possenti trafitte.

Per il gran dolore, la madre Mamelfa pianse lacrime di sangue. E Nastas'ja annunciò che prima di riprender marito avrebbe atteso altri sei anni. Allora il gran principe Vladimir si recò dalla giovane vedova: — Come puoi vivere, Nastas'juška, così trascorrere la tua giovane età? Prendi un marito, un principe, un bojaro o un possente bogatyr' russo, oppure l'ardito Alëša Popovič.

Non andò sposa a un principe, Nastas'ja, né a un bojaro, né a un possente bogatyr' russo, ma andò in sposa proprio ad Alëša Popovič. Il banchetto di nozze durò tre giorni e il terzo giorno si recarono alla chiesa di Dio per celebrare il matrimonio.

Ma Dobrynja Nikitič non era morto! Aveva combattuto terribili battaglie, il valente bogatyr', e ora tornava da Costantinopoli. D'un tratto il cavallo prese a inciampare.

— Ehi tu, cibo da lupi, pasto per orsi! — proruppe Dobrynja. — Perché oggi stai inciampando?

E rispose il bravo cavallo: — O tu, padrone mio amato, del guaio che t'incombe tu non sai. Sono trascorsi i sei anni e la tua giovane Nastas'ja Nikulična è andata in sposa all'ardito Alëša Popovič. Da tre giorni stanno banchettando e si recano adesso nella chiesa di Dio per celebrare il matrimonio.

Dobrynja suona la gusli alle nozze di Alëša
Illustrazione di V. Lukjanec
1969

S'adirò allora Dobrynja Nikitič. Il bravo cavallo frustò e quello cominciò a compiere balzi da monte a monte, da colle a colle, a oltrepassare fiumi e laghi, a lasciarsi sotto le zampe vaste pianure e tratti di steppa. Giunto alla grande città di Kiev, Dobrynja andò per prima cosa dalla madre Mamelfa, superò i servi e s'inchinò di fronte a lei. La donna stentò a riconoscerlo, in quanto Alëša Popovič aveva diffuso la notizia della sua morte. Felicissima di ritrovare il figlio vivo, lo abbracciò e gli baciò gli occhi e la bocca.

Dobrynja ordinò alla madre di andargli a prendere la gusli di platano, quindi, vestito da giullare, si recò impetuosamente nella reggia del gran principe Vladimir, dove si teneva il banchetto di nozze. Alëša Popovič sedeva vicino a Nastas'ja e non perdeva occasione di baciarla e accarezzarla. Facendo finta di nulla, Dobrynja salutò il gran principe, si sedette sulla stufa smaltata e cominciò a pizzicare le corde della gusli e a cantare una dolce melodia.

E cantò tanto bene, che il gran principe lo invitò a tavola con loro e gli chiese che cosa desiderasse in cambio di un così bel canto. Dobrynja rispose subito che avrebbe voluto versare una coppa di vino alla sposa. Avuta la coppa, vi lasciò cadere dentro l'anello d'oro e porse il tutto a Nastas'ja, dicendole:

— Giovane Nastas'ja! Prendi questa coppa con una sola mano e bevi la coppa di un solo fiato: se berrai fino alla fine, un bene vedrai, se non berrai fino alla fine, un bene non vedrai.

Lei bevve la coppa di un fiato e trovò l'anello. Poi si rivolse a Vladimir e annunciò:

— Vladimir, piccolo sole di Kiev! Non è mio marito chi siede accanto a me, mio marito è chi sta davanti a me! — Si gettò ai piedi di Dobrynja. — Perdonami, Dobrynjuška! Perdona la mia colpa, la mia stoltezza, ché il tuo ordine non ho seguito, l'ardito Alëša ho preso per marito!

— Non mi stupisce il senno femminile, ché le donne lunghe hanno le chiome ma la mente corta. Dove le portano, là esse vanno; dove le guidano, là esse vengono. — Dobrynja scrollò il capo. — Ma mi stupisce il gran principe Vladimir, piccolo sole, che ha sposato la vedova di un uomo ancora vivo!

Subito tutti riconobbero Dobrynja Nikitič e ne ebbero grande stupore. A quel punto Alëša Popovič si gettò ai piedi di Dobrynja: — Perdonami, tu che sei mio fratello-di-croce, se mi sono messo con la tua amata sposa, con la giovane Nastas'ja.

— Di questa colpa, fratello, ti perdoni Dio, se ti sei messo con la mia amata sposa, con la giovane Nastas'ja — disse Dobrynja. — Ma dell'altra colpa, fratello, non ti perdono, poiché sei venuto dall'aperta ampia steppa dopo sei anni e hai portato una notizia non lieta, che non viveva più Dobrynja Nikitič, ma giaceva morto nel campo, il capo impetuoso fracassato, le spalle possenti trafitte. Per il gran dolore, la mia cara madre ha pianto lacrime di sangue. Di questa colpa io non ti perdono.

E prese Alëša per i biondi riccioli, diede di piglio alla frusta e gliene diede di santa ragione.

Dobrynja Nikitič ed Alëša Popovič
Illustrazione di V. Lukjanec
1969
 
IL'JA MUROMEC E SALYGORKA

n giorno si presentò alle porte della grande città Kiev una donna dei neri pagani, una polenica, strega e guerriera al tempo stesso. Il suo nome era Salygorka, era gigantesca e cavalcava un cavallo ancora più grande. Urlando così forte da farsi sentire fin nella reggia del gran principe Vladimir, disse che, se qualcuno non fosse venuto a misurare la forza con la sua, avrebbe sfondato le porte d'oro di Kiev e sarebbe entrata in città per distruggere e uccidere:

— Se Vladimir, gran principe di Kiev, non mi darà un campione da sfidare e un avversario che contro me lotti, sarà Vladimir in persona che abbatterò con la mia spada, lo abbatterò con la mia spada, gli spiccherò il capo, mozzerò la testa a tutti i suoi servi e scioglierò in fumo le chiese di Dio!

Vladimir, spaventato, si rivolse ai suoi bogatyri. — Se qualcuno di voi, valenti bravi giovani, non scende a misurarsi con lei, con la terribile Salygorka, ella sfonderà le porte d'oro ed entrerà in città per distruggere e uccidere.

Per primo uscì dalle mura il giovane Alëša Popovič. Ma non appena la terribile polenica gli si mosse incontro, sogghignando da un orecchio all'altro, fu preso da grande timore, Alëša Popovič, e tornò di corsa nella grande città di Kiev con i capelli dritti in capo.

Dopo di lui andò alla carica Dobrynja Nikitič, ma bastò uno sguardo della terribile donna per abbatterlo al suolo più morto che vivo.

Per ultimo uscì Il'ja Muromec. Il vecchio cosacco fronteggiò Salygorka. — Eccoti qui, nera cagna dell'aperta ampia steppa! Fammi vedere, Salygorka, che cosa sei capace di fare.

Salygorka rise e lanciò in alto la sua pesantissima clava, facendola arrivare fin quasi alle nuvole, e quando la clava ricadde fischiando paurosamente, l'afferrò con due sole dita.

Ma Il'ja non si lasciò intimorire. Sguainò la spada e mosse verso la terribile avversaria.

Si affrontarono in uno scontro furibondo, Salygorka e Il'ja, il vecchio cosacco. E poi Il'ja riuscì ad abbattere quel mostruoso cavallo e Salygorka cadde a terra. Allora Il'ja l'afferrò per i riccioli biondi, la sollevò più in alto della tua testa e la scagliò al suolo, schiacciandola col suo stivale dalla suola di legno.

— Non sono pane per i tuoi denti, non tocca a te mangiarmi, non tocca a te uccidere Il'ja Muromec!
— Non uccidermi, Il'ja Muromec, vecchio cosacco — implorò Salygorka. — Risparmiami la vita ed io ti darò oro e argento a profusione.
— Non ho bisogno dell'oro né dell'argento, Salygorka, cagna pagana! — la irrise Il'ja Muromec.
— Allora, se non hai bisogno dell'oro né dell'argento, ti darò il calore delle mie bianche cosce. Un figlio ti darò, che sia uguale al padre.

Allora Il'ja tolse il piede dal petto della polenica e l'aiutò a rialzarsi. Poi Salygorka prese la via dell'aperta ampia steppa e Il'ja la seguì. Solo molto tempo dopo il vecchio cosacco ritornò nella grande città di Kiev.

 
L'ARRIVO DEL GIOVANE EROE

Il bogatyr'
Dipinto di Michajl Vrubel' (1856-1910)
1898
MUSEO: [Vrubel']►

n giorno, sugli alti monti, posero i bogatyri una bianca tenda. C'era dentro il vecchio cosacco Il'ja Muromec, e poi c'era Dobrynja Nikitič, e poi ancora il giovane Alëša Popovič. Stavano di scolta ai confini della Santa Rus' e vigilavano la bella città di Kiev, in difesa della fede ortodossa, delle chiese di Dio, degli onorati monasteri.

Quella mattina, di buon'ora, Il'ja Muromec guardava lontano nell'aperta ampia steppa ed ecco vide, il vecchio cosacco, nel campo cavalcare un bravo giovane, diretto alla grande città di Kiev. Egli scagliava contro il cielo una lancia aguzza: con una mano la scagliava con l'altra la riprendeva. Davanti a lui correvano due lupi e due falchi bianchi teneva sulle spalle.

Il vecchio cosacco rientrò nella tenda e svegliò i compagni. — O voi, prodi bravi giovani! Perché dormite? Sta arrivando un eroe dalla steppa e punta alla grande città di Kiev!

Dobrynja e Alëša si levarono dal sonno, si asciugarono con bianche tele e rivolsero le preghiere a Dio.

Alëša Popovič uscì dalla bianca tenda, bardò in tutta fretta il suo cavallo e si lanciò al galoppo per l'aperta ampia steppa, ma per quanto corresse veloce non riuscì a raggiungere il giovane eroe. Così tornò indietro dicendo: — Cavalca, il prode giovane, non gli sono pari, non gli tengo dietro.

Allora partì Dobrynja Nikitič e galoppò nell'aperta ampia steppa; correva il suo destriero che tremava la madre umida terra. E sfrecciò in un turbine di fumo, si appressò al giovane al galoppo, lo superò e fermandosi si tolse il berretto e fece un inchino. — Salute a te, prode bravo giovane! Qual è la tua città, quale il paese, chi è tuo padre, chi è tua madre? Dove cavalchi, dove sei diretto?

Si fermò il giovane e rispose: — Vado diretto alla grande città di Kiev, espugnerò la capitale russa, catturerò vivo il gran principe Vladimir e sua moglie Apraksija prenderò per moglie.

Dobrynja tornò rapido alla tenda e così parlò al vecchio cosacco Il'ja Muromec:

— Non ha detto, il giovane bogatyr', la sua stirpe, la sua razza, né di chi fosse figlio, il prode giovane. ha detto invece dove è diretto. È diretto alla grande città di Kiev, vuole espugnare la capitale russa, catturare vivo il gran principe Vladimir e sua moglie Apraksija prendere per moglie.

Si accese al vecchio cosacco il cuore focoso, ribollì in lui il sangue ardente, tremarono d'ira le possenti spalle. Fischiò al cavallo, lo bardò velocemente e si lanciò al galoppo nell'aperta ampia steppa, così veloce che gli altri videro solo un turbine di polvere. Raggiunse il giovane, si affiancò a lui e gli lanciò un urlo di sfida.

Il giovane, fermando il cavallo, disse ai due lupi, disse ai due falchi: — Voi due, lupi grigi, fuggite negli oscuri boschi: è arrivato il mio antagonista! E voi due, falchi bianchi, volate negli oscuri boschi, di voi più non mi importa!

Non furono due monti che si urtarono, non due nubi che si avvinghiarono. Si scontrarono il vecchio cosacco e il giovane guerriero. Si picchiarono con le mazze e le impugnature si piegarono; si colpirono con le spade e le lame si intaccarono; si scagliarono le lance e le aste si piegarono. Allora i due saltarono giù da cavallo e si batterono corpo a corpo. Gridava il giovane straniero e tremava la madre terra; urlava il vecchio cosacco e si frantumavano i boschi. E arrise dapprima la fortuna al giovane straniero: s'intorpidì il braccio destro a Il'ja Muromec, gli scivolò la gamba sinistra, il vecchio cosacco cadde sull'umida terra. Il giovane gli si buttò sul petto e senza chiedergli chi fosse e di quale padre e di quale madre, gli aprì la corazza di ferro e trasse il pugnale dalla guaina, ben deciso a strappargli dal petto il cuore impetuoso.

Chiese allora pietà il vecchio cosacco: — Salvami o Vergine madre di Dio! Stetti per anni ed anni in difesa della fede ortodossa, salvami adesso!

E subito del vecchio cosacco si raddoppiò la forza. Sbalzò il giovane dal bianco petto e lo gettò al suolo, schiacciandolo sotto di lui. E trasse il pugnale dalla guaina, ma invece di strappargli dal petto il cuore impetuoso, gli chiese: — O tu, robusto bravo giovane! Di quale città sei, di quale paese? Chi è tuo padre, chi è tua madre? Con quale nome vieni chiamato?

— Quando ero su di te, — gli rispose sprezzante l'altro, — non t'ho chiesto la stirpe, la razza; ti avrei tagliato il bianco petto, ti avrei guardato il focoso cuore!

E ripeté Il'ja di nuovo la domanda. — O tu, robusto bravo giovane! Di quale città sei, di quale paese? Chi è tuo padre, chi è tua madre? Con quale nome vieni chiamato?

E lo straniero rispose: — Dal mare vengo, dall'azzurro mare, dalla casa della vecchia Salygorka; io ho cavalcato, prode bravo giovane; sono suo figlio, Sokol'nik, per tutto il mondo vado cavalcando.

Allora si alzò Il'ja sulle agili gambe, abbracciò il giovane e lo baciò sulle labbra. Il vecchio cosacco si pacificò con suo figlio. Lo condusse quindi nella bianca tenda e lo trattò con tutti gli onori.

Ma quella notte, mentre tutti dormivano, Sokol'nik si svegliò con fastidio. — Mi sono umiliato col vecchio cosacco — disse tra sé e sé. — Il vecchio cosacco con la lancia trafiggerò.

E si alzò, diede piglio alla lancia e l'abbassò contro il petto di Il'ja. Ma la punta della lancia colpì la croce che Il'ja teneva sul petto. Il vecchio cosacco si destò, afferrò Sokol'nik tra le bianche mani, lo scaraventò più in alto del bosco. Ricadde Sokol'nik sull'umida terra, ricadde e si ruppe in briciole.

Fu così che Il'ja Muromec trovò suo figlio e dovette ucciderlo.

Battaglia tra Slavi e Sciti
Dipinto di Viktor Vasnecov (1848-1926)
MUSEO: [Vasnecov]►
L'ULTIMO VIAGGIO DI IL'JA MUROMEC

opo molti anni di battaglie in difesa della Santa Rus' e della fede ortodossa, ormai vecchio, Il'ja decise di partire per il suo ultimo viaggio. Dopo un lungo cammino giunse a un crocicchio da cui si dipartivano tre strade. L'ardente pietra di Latyr' era infissa al centro del crocicchio e sulla pietra stavano incise queste parole:

 AD ANDARE PER LA PRIMA STRADA SI VIENE UCCISI
AD ANDARE PER LA SECONDA CI SI SPOSA
AD ANDARE PER LA TERZA SI DIVIENE RICCHI

Si arrestò il vecchio Il'ja e si meravigliò, poi scosse la testa e disse:

— Per quanti anni ho viaggiato per l'aperta ampia steppa, mai vidi un simile portento. Ma perché andare per quella strada si diventa ricchi? Non ho una giovane moglie, qualcuno per cui tenere tesori, per cui tenere abiti variopinti. E perché andare per quella nella quale ci si sposa? Ormai è passata la mia giovinezza. Prenderne una giovane, le andrebbe dietro un altro; prenderne una vecchia, se ne starebbe sulla stufa. Dovrò dunque andare per la strada in cui si viene uccisi? Certo che io ho vissuto su questo mondo per tanto tempo...

Bogatyr' al crocicchio
  Dipinto di Viktor Vasnecov (1848-1926)
MUSEO: [Vasnecov]►
Il motivo dei crocicchi provvisti di pietre con strane indicazioni che segnalano il destino a cui andrà incontro viaggiatore, è comune nelle ballate e nelle favole russe.

Ebbene, cavalcò Il'ja per la strada in cui si viene uccisi e percorse lunghe verste di territori desolati e brulli. Poi d'un tratto lo scorsero i briganti e il loro atamano ordinò l'attacco. Erano in quarantamila, i briganti, ma Il'ja vedendoli non indietreggiò. — Ehi voi, quarantamila! Che idea, saltare addosso a un vecchio! Non ha, il vecchio, un tesoro! Non ha, il vecchio, abiti variopinti! Non ha, il vecchio, pietre preziose! Soltanto ha, il vecchio, un bravo cavallo da bogatyr', perché possa cavalcare e fare guerra! E sulla testa ha, il vecchio, un colbacco di ferro del peso di quaranta pud, perché possa avanzare tra le schiere e battersi!

E difatti, roteando il suo colbacco di ferro, colpì i briganti da un lato e dall'altro, e di quarantamila che erano li massacrò tutti, non lasciandone nemmeno per la razza. Quindi ritornò al crocicchio e scrisse sulla pietra:

È RIPULITA QUESTA STRADA DRITTA

Prese poi la strada che conduceva al matrimonio e giunse in un palazzo bianco, dove una bellissima fanciulla lo invitò a entrare. Il'ja s'inchinò, ed ella lo prese per le bianche mani lo fece sedere al tavolo di quercia e gli chiese: — Dimmi, chi sei, di quale paese, di quale orda? Chi è tuo padre, chi è tua madre?

Il'ja Muromec libera i prigionieri
Dipinto di Konstantin Alekseevič Vasil'ev (1942-1976)
1974

— Perché mi domandi questo, o fanciulla. Adesso io sono stanco, sono stanco e voglio riposare.

Allora la ragazza lo condusse in camera da letto e gl'indicò un bel giaciglio ornato dove stendere le sue bianche membra.

— Va' prima tu sul letto, o fanciulla! — disse Il'ja. Prese la ragazza per le ascelle e la lanciò sopra il giaciglio. Si aprì il trabocchetto e la ragazza cadde nel profondo sotterraneo. Il'ja fece uscire tutti i bogatyri che ella aveva preso prigionieri. Solo la ragazza lasciò nel profondo sotterraneo.

Il vecchio Il'ja tornò dunque indietro e scrisse sulla pietra:

È RIPULITA QUESTA STRADA DRITTA

Infine il bogatyr' prese la terza strada, quella per cui si diviene ricchi. E nell'aperta ampia steppa trovò scrigni colmi di oro e di argento e di pietre preziose. Il'ja spartì l'oro e l'argento ai mendicanti, l'oro e l'argento agli orfani e alle vedove. E quindi tornò indietro e poté scrivere sulla pietra:

È RIPULITA QUESTA STRADA DRITTA

 
IL BANCHETTO DI IL'JA MUROMEC

Un giorno, il gran principe Vladimir indisse a Kiev un lauto banchetto. Invitò i principi che reggevano le grandi città russe e i nobili del suo seguito, invitò i boiari e i ricchi mercanti, i popi e i protopopi. E invitò i forti e possenti bogatyri, i guerrieri della Santa Rus'.

Gli ospiti sedettero vicini, intorno al gran principe, e mangiarono e bevvero, tra grandi risate, e presero a lodarsi gli uni con gli altri. I boiari si vantarono di possedere ingenti ricchezze, e i mercanti risposero vantando dovizie ancora maggiori.

A questo punto si levò il gran principe Vladimir, dicendo: — Smettetela tutti quanti di vantarvi! Vi darò io, piuttosto, un premio. Darò a taluni argento puro, ad altri oro prezioso, ad altri ancora donerò perle rotonde.

E chi già era ricco, Vladimir le rese ancor più ricco. A tutti elargì munifici doni. Solo, dimenticò a un canto, il vecchio cosacco Il'ja Muromec. E quando la principessa Apraksija gli ricordò che ad Il'ja non era stato fatto alcun dono, Vladimir sbuffò e rispose:

— Tu, principessa, sei davvero irragionevole! Premierò l'audacia del vecchio cosacco con i doni che mi sono stati mandati dai tatari e dai besurmani. Ecco, gli donerò questa pelliccia di zibellino.

Si rabbuiò il cuore al vecchio cosacco, Il'ja Muromec fu preso da grande sdegno. Ed egli si levò in piedi, furibondo, con la forza del bogatyr' che gli ribolliva nelle bianche membra.

Intimorito, Vladimir cercò di correre ai ripari. — O Il'ja Ivanovič, prode bravo giovane. Non sta bene adirarti col tuo principe. Piuttosto, bevi e mangia con noi, e assumi la carica di voevod.

— Io non voglio bere e mangiare con voi — rispose fieramente il vecchio cosacco. — E non voglio essere voevod per voi.

Di fronte a quell'orgoglioso rifiuto, il gran principe si rabbuiò come una notte oscura. Chiamò i suoi uomini e ordinò loro di afferrare Il'ja e cacciarlo via dal grande salone. Ma il vecchio cosacco stese al suolo chiunque provasse solo ad avvicinarsi e, dopo aver abbattuto tutte le guardie, volse le spalle al gran principe e uscì da solo dal grande palazzo.

Una volta che fu all'esterno, egli brandì il suo arco e trasse dalla faretra un mazzo di frecce. — Volate, frecce roventi verso il cielo, e colpite le cupole dorate! — gridò Il'ja, e prese a bersagliare le alte cupole del palazzo del gran principe. Dopodiché si volse verso le chiese e, con sapienti colpi di freccia, abbatté le alte croci dorate che si rizzavano sopra di esse, senza lasciarne più nemmeno una.

Il'ja in lite con Vladimir
Dipinto di Konstantin Alekseevič Vasil'ev (1942-1976)
1974 (?)

Poi, afferrate le croci sotto le braccia, Il'ja le portò in una vicina osteria. Le rovesciò ai piedi dell'oste e chiese, in cambio, del vino. Ma poiché l'oste non volle sottostare a quell'empio scambio, Il'ja lo tolse di mezzo con uno spintone, spaccò con un calcio la porta della cantina e portò fuori tre botti di verde vino: una sotto il braccio destro, un'altra sotto il sinistro, e una terza spingendola avanti con il petto.

E portatosi nella piazza principale, proprio di fronte al palazzo del gran principe, chiamò a raccolta gli abitanti della grande città di Kiev. — Paesani e mužiki, straccioni e mendicanti! Accorrete al banchetto di Il'ja Ivanovič! Bevete e non abbiate timori! Oggi io sarò per voi il gran principe di Kiev, e voi sarete i miei boiari !

E tutti, uomini e donne, andarono al banchetto di Il'ja Muromec, e subito vi fu una gran baldoria.

Il banchetto di Il'ja Muromec
Dipinto di Konstantin Alekseevič Vasil'ev (1942-1976)
1974

I boiari corsero dal gran principe Vladimir. — O piccolo sole! Il'ja Muromec ha imbandito un banchetto davanti al tuo palazzo, ti sfida apertamente! Ha detto che vuole divenire lui stesso gran principe e mettere il popolo al posto dei nobili e dei boiari !

Allora gridò, Vladimir gran principe di Kiev, con la sua voce sonora: — Prendete Il'ja Muromec, il vecchio cosacco, afferratelo per le bianche braccia e gettatelo in una fossa profonda. Chiudete con grate di ferro e serrate con sbarre di quercia! E non dategli da bere e da mangiare per quaranta giorni. Che quel cane muoia di fame!

L'ordine venne puntualmente eseguito. Il'ja fu gettato in una profonda fossa, e questo venne chiusa con una grata di ferro e serrata con sbarre di quercia. Sopra di essa venne posta una pesantissima pietra, a sua volta ricoperta di sabbia.

Ma sdegnati dal comportamento del gran principe, tutti gli altri bogatyr' abbandonarono la grande città di Kiev e svanirono al galoppo nell'aperta ampia steppa, per non farvi mai più ritorno.

Bogatyri in marcia
Dipinto di Viktor Vasnecov (1848-1926)
MUSEO: [Vasnecov]►
 
L'ARRIVO DI KALIN CAR'

Trascorsero vent'anni. E poi accadde che un'ombra nera si stese sulla grande città di Kiev. Una nera nuvola si levò all'orizzonte, comprendo il bel sole, e un lezzo profondo si posò sulla città, rendendo difficile persino il respirare.

Corsero le sentinelle dal gran principe, dicendo: — Vladimir, piccolo sole! Hai visto quale portento si manifesta sulla grande città di Kiev? Non è la polvere che si solleva dal campo, né la tempesta che si solleva dal mare! E non è il fulmine del temporale, quello che balena all'orizzonte! È giunto il nero esercito dei pagani, è arrivato Kalin Car'! Lo accompagnano quaranta re e ognuno di essi ha quarantamila guerrieri al suo seguito.

A quelle parole, Vladimir e tutti i boiari furono presi da grande paura e agitazione. Ma non vi era nulla che potessero fare. Vent'anni prima, i bogatyri avevano abbandonato la grande città di Kiev, e non vi era più nessuno che potesse difenderla.

Giunto nei pressi della grande città di Kiev, l'imponente esercito tataro si accampò a sette verste di distanza, nei pressi del rapido Dnepr. Kalin rizzò una tenda, sulla quale sventolava una nappa dorata. A quel punto, un messaggero cavalcò verso la città e penetrò indisturbato attraverso le sue porte d'oro. Lasciò il cavallo, senza legarlo, nel cortile del palazzo principesco, e con un calcio sfondò le porte. Non s'inchinò, il cane, dinanzi al gran principe, né alla principessa, tantomeno si prostrò di fronte ai boiari e agli altri dignitari. Gettò sul tavolo di quercia una lettera scritta in lingua russa e si allontanò senza dire una parola.

Vladimir chiese che la lettera venisse letta.

«Cedimi immantinente, gran principe Vladimir, la grande città di Kiev, senza combattere e senza spargere inutilmente il sangue» ordinava Kalin Car'. «Se non adempierai alla mia richiesta, io raderò al suolo la grande città di Kiev. Scioglierò in fumo le chiese o le userò come stalle per i miei bravi cavalli. Le icone le getterò nel fango e i monasteri li raderò al suolo. Degli abitanti di Kiev, non ne lascerò nessuno in vita, ma tutti li passerò a fil di spada, compresi i vecchi e i bambini. In quanto a te, gran principe Vladimir, sarai piallato vivo, e la principessa Apraksija la prenderò come moglie. Questo accadrà, se non ti arrenderai».

E il principe Vladimir fu preso da gran paura. Le sue vivace gambi si piegarono, la forza abbandonò le sue bianche mai, la testa turbolenta gli rotolò giù dalle spalle. Versò giù dagli occhi lacrime cocenti.

— Non c'è nulla da fare. La grande città di Kiev dovrà arrendersi senza combattere, visto che nessuno dei bogatyri è qui a difenderla — si lamentò. — A causa del banchetto, del banchetto d'onore, Il'ja Muromec fu giustiziato e tutti gli altri bogatyri ci abbandonarono allontanandosi in campo aperto. O moglie, mia adorata, principessa Apraksija! È giunto il momento di consegnare la gloriosa capitale, al cane senza Dio, a Kalin Car'.

Ma Apraksija, la principessa, rizzò le spalle. — Vladimir, piccolo sole. Non è morto, Il'ja Muromec, ma è tra i vivi. Quando tu ordinasti di gettarlo in una fossa e lasciarlo morire di fame, io stessa feci segretamente scavare un passaggio e, da allora, con le mie bianche mani lo rifornii di cibo e di acqua, di coperte e di cuscini.

Una luce di speranza accese accese lo sguardo del gran principe e chiese ad Apraksija di fargli strada nel profondo sotterraneo. Questo era profondo quaranta saženy e una lunghissima scala conduceva al luogo dove era stato rinchiuso il vecchio cosacco. Apraksija chiamò Il'ja attraverso il pertugio da cui gli porgeva il cibo e fu lo stesso bogatyr' ad aprirsi la via, sbattendo da parte l'inferriata, spaccando il macigno, rovesciando via la sabbia, svellendo i tronchi di quercia e le sbarre di ferro. Invecchiato, apparve dunque, Il'ja Muromec. I lunghi bianchi capelli lo avvolgevano come un mantello, ma nelle sue membra scorreva ancora la forza di un bogatyr'.

E Vladimir si gettò ai suoi piedi e gli rivelò del pericolo in cui versava la grande città di Kiev. Ma il vecchio cosacco rimase immobile, gli occhi fissi a terra, e a nulla valsero a smuoverlo le parole del gran principe, né i ricchi doni che gli promise in cambio del suo aiuto.

— Ti prego, Iljušenka, difendi la grande città di Kiev , difendi la chiesa della santa madre di Dio e i suoi monastri. Difendi il gran principe Vladimir e la principessa Apraksija! — lo pregava Vladimir.

Ma Il'ja Muromec si ostinava a fissare il suolo, senza parlare.

— No, non farlo, Iljušenka, per il principe Vladimir — intervenne d'un tratto Apraksija. — Né per me, la principessa Apraksija. Non per la grande città di Kiev, non per le chiese e i monasteri. Ma fallo per la terra russa, per la fede ortodossa. Fallo per le vedove, gli orfani e i poveri.

Si scosse allora il vecchio cosacco. — Sì. Io andrò a combattere per la fede ortodossa, e per la terra russa, e per le vedove, gli orfani e i poveri. Andrò anche per te, onesta principessa Apraksija. Ma sappi che per quel cane di Vladimir, non uscirei nemmeno dalla fossa.

Emerso dopo vent'anni alla luce del sole, Il'ja scrutò lontano nel campo aperto e, per la prima volta, sentì la paura nel cuore. L'esercito di Kalin Car' si stendeva sterminato dinanzi alla grande città di Kiev, e non si riusciva neppure a stimare il numero dei soldati. Il vecchio cosacco comprese che difficilmente, da solo, avrebbe potuto farcela, e decise di prendere tempo. Mandò un ambasciatore da Kalin Car', chiedendogli di concedere tre giorni alla grande città di Kiev, affinché tutti i suoi abitanti si preparassero a morire cristianamente. Quindi si rivolse a Vladimir:

— Hai tre giorni di tempo, gran principe. Chiudi le porte, saldamente, e fissale con sabbia gialla e pietre. Io uscirò nel campo aperto, alla ricerca dei valenti bogatyri.

E montò in groppa al bravo cavallo e partì per l'aperta ampia steppa. Cavalcò dal mattino alla sera, per uno, due, tre giorni, scrutando nel campo aperto, galoppando di collina in collina, salendo fin sulla cima delle montagne, ma non gli riuscì di vedere da nessuna parte le bianche tende dei bogatyri. Solo al tramonto del terzo giorno, sulla riva del fiume Pučaj, scorse l'accampamento.

E giunse Il'ja alla tenda più grande, in cima alla quale brillava una nappa dorata. Si trovava, all'interno, Samson Kolyvanovič, il più anziano dei bogatyri. Ricevette Il'ja con gioia ma, quando questi gli narrò del pericolo che correva la grande città di Kiev, Samson scosse il capo.

— Figlioccio, vecchio cosacco Il'ja Muromec! Certo ne hai di coraggio, a venire a chiedere aiuto per conto del gran principe Vladimir, dopo tutto quello che lui ha fatto a te e a noi. Il gran principe ascolta solo i suoi boiari e ci ha tenuto lontani da Kiev per vent'anni. Perciò noi non selleremo i nostri buoni cavalli e non cavalcheremo in campo aperto. Noi non difenderemo la grande città di Kiev, né la chiesa della madre di Dio. Non difenderemo la principessa Apraksija, né il gran principe Vladimir.

Fallita l'impresa di convincere i suoi vecchi compagni a difendere Kiev, Il'ja torna solo alla grande città. I tre giorni erano ormai scaduti e lo sterminato esercito di Kalin Car' già marciava verso le mura di Kiev. Si appannarono gli occhi chiari del vecchio cosacco, s'infiammò il suo vecchio cuore e Il'ja non vide più la luce del giorno. Si allargarono le sue possenti spalle, si agitarono le sue bianche mani e si rizzò in sella al suo bravo cavallo come una quercia centenaria. E spronato il destriero, si lanciò da solo contro nemici.

Bogatyr' in azione
Illustrazione di V. Lukjanec
1969

No, non era un falco che si gettava sulle oche e sulle anatrelle, ma era il bogatyr' della Santa Rus', Il'ja Muromec, che cavalcava verso l'immenso esercito tataro. Pugnò, il vecchio cosacco, dal mattino fino a sera, e quindi combatté tutta la notte fino all'alba, senza bere o mangiare, e senza dar riposo a sé, né al bravo cavallo.

Falciati come il grano nei campi, i tatari decisero di tendere a Il'ja un tranello e scavarono una fossa profonda, nascondendola con arbusti e foglie. Presagendo un pericolo, il destriero del bogatyr' si rifiutò di proseguire, ma Il'ja lo spronò, vincendo a frustate la sua riluttanza, finché il cavallo si slancià in avanti e cadde dritto nella fossa, insieme al suo cavaliere. Subito, i tatari si gettarono su Il'ja e, fattolo prigioniero, lo condussero in catene nella tenda di Kalin Car'.

Ma ecco, inaspettatamente, il nero zar dei tatari accogliere Il'ja Muromec con onore e rispetto. Ordinò che gli si togliessero le catene e gli offrì un posto alla sua tavola, proprio accanto a lui. — Sarai uno dei miei migliori condottieri, se lo desideri, o valoroso Il'ja Ivanovič — lo blandì. — Avrai il mio tesoro a tua disposizione e non vi saranno onori e ricchezze che non dividerò con te.

Si oscurò il cuore del vecchio cosacco, constatando che Kalin gli offriva tutto ciò che egli non aveva mai avuto da Vladimir. Ma ciononostante, nessun dubbio scalfì il suo animo russo. Spezzò le catene e, afferrato il primo uomo che gli capitò davanti – l'ambasciatore che i tatari avevano inviato a Kiev – lo utilizzò come clava, sbaragliando tutti gli uomini di Kalin Car'.

— Venite in mio soccorso, possenti bogatyri! — gridò. — Venite, fratelli conosciuti per nome!
E agguantato un arco, scagliò una freccia verso il cielo.

Il dardo rovente si alzò sotto le nubi e ricadde nella tenda di Samson Kolyvanovič. Si destò il vecchio campione e, compreso all'istante osa stesse accadendo, chiamò a raccolta tutti i bogatyri. Sellati i bravi cavalli, i valenti campioni russi piombarono sulle schiere di Kalin Car'. Il'ja già combatteva in mezzo ai nemici. Samson si schierò a destra, Dobrynja Nikitič e Alëša Popovič si schierarono a sinistra. Godenko Bludovič era con loro, e vi era poi Vasilij Kasimirovič, e con lui Vasilij Buslaevič e Ivan Kupecič. Tutti insieme, si lanciarono contro i neri pagani. Colpi di lancia, di clava e di scure. I bogatyri non ne squartarono quanti i cavalli ne calpestarono. Durò la battaglia tre ore e tre minuti, poi la schiera pagana venne fatta a brandelli.

Il'ja staccò la testa di Kalin e la issò sulla picca, mentre gli altri bogatyri finivano di eliminare i tatari, senza lasciarne vivo nemmeno uno.

Il'ja Muromec contro Kalin Car'
Arte popolare russa.
 
I BOGATYRI SCOMPAIONO DALLA SANTA RUS'

onclusa la feroce battaglia, cavalcarono nel rosso tramonto del sole, i valenti bogatyri. E mentre tornavano alle loro tende, presero a vantarsi tra loro: — Le nostre gagliarde spalle non si son mosse abbastanza, non abbastanza han corso i nostri bei cavalli, le nostre spade d'acciaio non han perduto il taglio!

E sopra a tutti, Alëša Popovič gridò: — Venga pure una forza che non sia di questo mondo, venga, e noi la vinceremo, noialtri valenti bogatyri!

E quando sorse al mattino il sole rosso, Il'ja di Murom si levò prima degli altri e uscì sul fiume Safat per lavarsi. E qui vide con orrore, il vecchio cosacco, che i pagani che avevano sterminato la sera prima erano tornati in vita, e gridavano con voce risonante: — Lottate con noi, lottate, bogatyri!

E urlò Il'ja, il vecchio cosacco: Dove siete, possenti bogatyri, fratelli conosciuti per nome?

A quel richiamo, tutti i bogatyri uscirono dalle tende e, non appena videro la spettrale armata, tutti si fermarono, increduli, sulle sponde del fiume Safat. E i guerrieri morti non cessavano di gridare: — Lottate con noi, lottate, bogatyri!

Alëša Popovič si sdegnò a quelle parole, spinse avanti il focoso cavallo, volò verso i primi due e, con due colpi di spada, li tagliò in due dalle spalle in giù.

Essi divennero quattro, tutti vivi. — Lottate con noi, lottate, bogatyri!
Dobrynja volò su di loro e li tagliò tutti quanti in due.

Essi divennero otto, tutti vivi. — Lottate con noi, lottate, bogatyri!
Il'ja Muromec volò su di loro e li tagliò ancora una volta in due.

Essi aumentarono di numero ed erano sempre vivi. — Lottate con noi, lottate...

Tutti i bogatyri si lanciarono su quella forza, per spaccarla e massacrarla, ma la forza crebbe, crebbe sempre, e sopravanzò i bogatyri, per forza e per numero, e crebbe ancora. Chi veniva tagliato in due, da questi ne nascevano due. E da chi veniva tagliato in tre, nascevano tre uomini. L'esercito nemico non faceva che aumentare.

I bogatyri si batterono per tre giorni, tre ore e tre minuti. Le loro gagliarde spalle si mossero abbastanza, abbastanza corsero i loro bei cavalli, le loro spade d'acciaio persero il taglio! E la forza nemica cresceva, cresceva sempre, e sovrastava i guerrieri della Sacra Rus'.

 Allora Il'ja comprese che la battaglia non poteva essere vinta. — Non possiamo più batterci, fratelli! Si battono i vivi contro i morti!

Allora i bogatyri ebbero paura, corsero nella montagna di pietra, corsero nelle oscure caverne: ma appena un paladino giungeva alla montagna, si trasformava in ardente pietra. Per primo Godenko Bludovič, secondo Vasilij Kasimirovič, e con lui Vasilij Buslaevič, divenne pietra poi Ivan Kupecič, si pietrificò quindi il giovane Alëša Popovič, e dopo di lui Dobrynja Nikitič il prode, e per ultimo il vecchio cosacco Il'ja Muromec.

E così, i possenti bogatyri scomparvero dalla Santa Rus'.

Dopo la battaglia
Dipinto di Viktor Vasnecov (1848-1926)
MUSEO: [Vasnecov]►
 

NOTE

Il'ja Muromec
Disegno di Dario Giansanti
1994

Se le avventure di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda sono universalmente conosciute, se quelle dei paladini di Carlo Magno lo sono un po' di meno, pochissimo si sa sui cavalieri russi, a meno di non essere specializzati in filologia slava o di non essere incappati in qualche fortunato libro per ragazzi. Il materiale artigianale russo giunto in Europa occidentale dopo la caduta dei regimi comunisti (uova, matrëški e scatolette laccate) presenta infinite immagini tratte dalle leggende cavalleresche, ma raramente l'acquirente sa riconoscerle.

Eppure il ciclo dei cavalieri russi, o bogatyri, è estremamente affascinante, ancorato com'è a una logica più vicina alla fiaba che all'epica. I racconti sono stati tramandati oralmente per secoli nei villaggi rurali della Russia, e cantati in forme di particolari ballate popolari chiamate byliny (da una parola russa che significa «passato» e quindi «canti del tempo che fu»). I folkloristi cominciarono a raccogliere le byliny solo all'inizio del XIX secolo allorché il gusto romantico faceva sentire fortemente il revival per le tradizioni del passato. Il primo folklorista interessato alle byliny fu, alla fine del Settecento, P.V. Kireevskij, che indusse parecchi suoi contemporanei, tra cui gli stessi Puškin e Gogol', a fare altrettanto. Troviamo vicende byliniche tra le fiabe della raccolta di Afanas'ev, ma anche nei libri di lettura che Lev Tolstoj scrisse per la sua scuola di Jasnaja Poljana. Ma il primo folklorista che usò criteri scientifici fu lo slavista A.F. Gil'ferding, il cui immenso materiale fu pubblicato postumo nel 1873. Tutti gli studiosi successivi utilizzarono i suoi stessi criteri e la massa di materiale bylinico raccolta è cresciuta col tempo. La quantità di materiale, per quanto enorme, non è sempre eccelsa e ogni storia compare in numerose varianti, di cui le antologie non specializzate riportano soltanto quelle più significative.

Un'analisi dell'epica bylinica è purtroppo destinata a rimanere infruttuosa per quanto riguarda le radici storiche. A parte qualche somiglianza nei nomi e qualche concomitanza di eventi, le byliny sono state trasmesse oralmente per troppo tempo e con troppa libertà perché si possa radicare i suoi racconti a eventi reali. Vladimir krasnoe solniško, «bel solicello», che è nelle byliny il gran principe di Kiev, potrebbe corrispondere a Vladimir il Santo (970-1015), che convertì ufficialmente la Russia al Cristianesimo, ma forse e con maggior verosimiglianza al suo successore Vladimir Monomach (1113-1125). Si può rintracciare la figura di Dobrynja Nikitič in un Dobrynja, zio di Vladimir il santo, che divenne signore di Novgorod nel 980; Alëša Popovič è forse il ricordo di un Aleksandr Popovič che fu ucciso dai Mongoli nella battaglia sul Kalka nel 1124; e si può forse scorgere Tugarin nel capo cumano Tugor Xān che s'insediò nella corte principesca russa ai tempi di Svjatopolk II Izjaslavič (1093-1113), ma a parte la somiglianza di nomi raramente i personaggi storici ci illuminano sugli eroi bylinici o viceversa.

Tuttavia, le byliny sono colme di motivi mitici, più o meno evidenti, le loro trame seguono gli sviluppi tipici della fiaba, come Vladimir Jakovlevič Propp non ha trascurato di far notare, e questo è probabilmente uno dei motivi della loro grande popolarità.

Il'ja Muromec è forse il più noto e popolare dei bogatyri kievani. Egli incarna il prototipo dell'eroe forte e generoso, e per questo così caro al popolo russo. Il ciclo che lo riguarda presenta affinità con l'epica scandinava, finnica, bizantina, persiana e caucasica. La storia in cui Il'ja Muromec uccide il figlio Sokol'nik non può non ricordare l'analogo episodio dell'epica iranica in cui Rustem uccide il figlio Sohrāb. Nell'ambito europeo la vicenda può essere avvicinata a quella germanica di Hildebrand che uccide il figlio Adubrand nell'Hildebrandslied, nonché a quella irlandese di Cú Chulainn che uccide il figlio Conlaí. Da ciò se ne deduce l'antichità dei motivi che sono concorsi a formare il mito di Il'ja.

Dobrynja Nikitič è invece il prototipo del signore nobile e di buona famiglia. La dote che lo contraddistingue dagli altri guerrieri kievani, non è tanto la forza quanto l'astuzia: egli è un buon oratore e un fine diplomatico e, per di più, al contrario degli altri, è di famiglia principesca: suo padre è un nobile (forse un governatore) della città di Rjazan'.

Alëša Popovič è, dei tre bogatyri, quello dai caratteri più sfuggenti. Figlio di un religioso, Alëša è un forte e astuto guerriero, vincitore di terribili mostri e di iniqui tatari. Ma, ciò nonostante, Alëša Popovič rimane un personaggio dal carattere ambivalente. Non è difficile vedere Alëša Popovič mentire, bere, agire per pura invidia, calato nella veste del dongiovanni pronto a insidiare le mogli o le fidanzate degli altri e finendo immancabilmente col ricevere la giusta punizione per i suoi misfatti. In alcune versioni in prosa finisce addirittura per essere fucilato!

Dunque Il'ja, Dobrynja e Alëša sono un microcosmo che rappresenta in qualche modo l'intero popolo russo: il contadino onesto e generoso, il nobile valoroso e leale, e il religioso con ironici tratti di dongiovanni. Sarà un caso, ma non posso fare a meno di pensare che i tre bogatyri corrispondano punto per punto ai tre moschettieri di Dumas le père: Il'ja Muromec è Porthos, l'eroe di origini plebee, semplice e dalla forza erculea; Dobrynja Nikitič è Athos, il gentiluomo dai nobili natali che mostra in ogni tratto la sua innata signorilità; Alëša Popovič è ovviamente Aramis, eternamente in bilico tra vocazione religiosa e avventure sentimentali.

Sezione: Rielaborazioni - Chat de Carabas
Rubrica: Sintesi - Šāhrazād
Area: Slava - Koščej Vessmertij
Ricerche e riscrittura di Dario Giansanti.
Angolodidario: 01.05.2001
Creazione pagina: 22.07.2016
 
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