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Lumír e Píseň |
Scultura di Josef Václav Myslbek (1848-1922) |
Lumír è il cantore della mitologia cèca. Píseň
«canzone», la bambina che accompagna Lumír e sfiora la sua arpa, è una allegoria
del canto e della musica. |
LUMÍR E PÍSEŇ
arà per sempre il cantore Lumír, suonando la sua arpa, a ricordare alle genti
cèche la storia dei loro padri e dei loro antenati, di come giunsero nella terra
cèca e la abitarono.
Gli Slavi presero origine nelle vaste pianure boscose oltre i monti Tatra. Là,
in tempi antichissimi, ebbero origine comune le numerose stirpi di questo grande
ceppo, affini per lingua e costumi, ma divise da lotte intestine tra le varie
tribù.
Fu così che due fratelli di una potente famiglia, entrambi insigniti della
dignità di vojvoda, decisero di abbandonare la terra natia, dilaniata da
tante contese.
― Andremo alla ricerca di una nuova terra, ove i nostri figli possano vivere
nella concordia e nella pace.
Convocate le loro tribù, sacrificarono agli dèi, presero le immagini degli
antenati, i dedki, e, salutata la terra dei padri, si misero in cammino.
Li guidavano i due fratelli Čech e Lech.
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L'ARRIVO DI ČECH IN BOEMIA
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L'arrivo dei Cèchi in Boemia |
Disegno di Mikoláš Aleš (1852-1913) |
e tribù slave attraversarono l'Oder e l'Elba, e giunsero nella valle della
Moldava. Qui, gli uomini cominciarono a protestare, esclamando che quel viaggio
non aveva mai fine, e pretesero di fermarsi. Così Čech indicò un alto monte
azzurro proponendo di arrivare fin laggiù. Era il monte Říp. Alle prime luci
dell'alba, Čech salì sul monte, ancora immerso nella semioscurità, e sotto vide
l'immensa foresta boema. Gli esploratori riferirono che le acque erano pescose e
il suolo fecondo e ospitale. Non vi abitavano uomini, ma solo gli esseri
soprannaturali della natura selvaggia. Allora Čech si rallegrò. Riunì il suo
popolo e disse:
― Ora sono finite le nostre tribolazioni. Ecco la terra che cercavamo e che gli
dèi hanno preparato per noi: qui affonderemo le nostre radici. A questa terra
manca solo un nome: pensateci e sceglietelo.
E il popolo gridò: ― Il tuo! Che questa terra porti il tuo nome!
Čech si chinò e baciò la terra, e quando l'ebbe baciata si alzò in piedi e la
benedisse. Quindi posò al suolo le immagini dei dedki che avevano portato
con sé lungo il viaggio, le svolse dal lino, e accese un grande falò. Vennero
fatti sacrifici agli dèi: a Perun che abbatte la folgore, a Veles che governa i
morti, a Vesna dea della primavera, Kupalo dio dell'estate, Morana dea
dell'inverno.
E fu così che quella terra prese il nome di Cechìa, e Cèchi si chiamarono i suoi
abitanti.
I Cèchi si stabilirono nell'ampia regione presso il monte Říp, abbatterono gli
alberi e dissodarono i campi. E là costruirono le loro case.
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L'arrivo dei Cèchi sul monte Říp |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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PARTENZA DI LECH
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Padre Čech |
Disegno di autore sconosciuto |
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opo un po' di tempo, Lech, fratello minore di Čech, decise di proseguire il
viaggio per proprio conto alla ricerca di nuove terre. Preso atto del suo
desiderio, Čech e il popolo tutto gli dissero addio, sia pure a malincuore, con
la raccomandazione di non allontanarsi troppo, in modo che i due fratelli e la
loro gente potessero recarsi vicendevole soccorso nell'eventualità di
un'improvvisa aggressione.
Così disse Lech: ― Non dimenticherò mai di essere sangue del vostro sangue,
fratelli, né intendo allontanarmi tanto ch'io non sappia nulla di voi. Vi farò
sapere dove prenderò dimora. Il terzo giorno, dopo la nostra partenza, salite
sul monte Říp prima che spunti l'alba; io farò accendere un gran fuoco, e dove
scorgerete il fumo, quella sarà la nostra nuova sede.
Il giorno convenuto, prima del sorger del sole, i Cèchi salirono sul monte Říp e
si guardarono intorno da tutti i lati, finché videro in lontananza una colonna
di fumo. Laggiù si era stabilito Lech. Da lui prese nome la Polonia, e Polacchi
si chiamarono coloro che erano andati con lui.
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STORIA DI KROK
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La vecchiaia di Čech |
Disegno di autore sconosciuto |
cudiero di Čech era il giovane Krok, pieno di ardore e di coraggio, sano e
robusto. A lui erano stati affidati i cavalli del suo signore. Li portava al
pascolo ogni giorno in un luogo ameno ai piedi di una bella quercia e lì
trascorreva le sue giornate.
Ora, quella quercia era la dimora di una lesní panny, la ninfa
dell'albero, la quale ogni giorno spiava tra le fronde il giovane uomo. Quando
Krok dormiva in un giaciglio ai piedi della quercia, la ninfa gli mandava sogni
piacevoli, rivelandogli talvolta ciò che sarebbe successo l'indomani, o magari
dicendogli dove ritrovare un cavallo smarrito nella nebbia.
Intanto, il popolo di Čech continuava a tagliare alberi per creare pascoli e
procurarsi legna, e la ninfa temette che ben presto sarebbero arrivati alla sua
quercia. Così, una notte d'estate, mentre Krok si era attardato nei pascoli,
ella gli comparve sulla riva di un laghetto. Dinanzi a quella pallida
apparizione, Krok ne fu stupito e forse un po' impaurito. Ma la ninfa gli disse:
― Non temere, giovane uomo, io sono lo spirito dell'albero sotto i cui rami
fronduti tu trovi riposo. Ti cullai in dolci sogni, aiutandoti con visioni del
futuro. Contraccambia i miei favori con quanto ti chiedo: sii il difensore di
quest'albero che ti ha protetto sovente dal sole e dalla pioggia, e non
permettere alla scure dei tuoi fratelli di infierire contro il suo venerabile
tronco. Vedi, la mia vita è legata a quest'albero. Se esso fosse abbattuto, la
mia vita finirebbe.
― Signora, ― rispose Krok, ― chiedimi ciò che vuoi ed io adoprerò tutte le mie
forze per aiutarti.
Per adempiere al suo voto, Krok si dimise dal ruolo di scudiero e si stabilì
all'ombra dell'albero che si era incaricato di difendere. Costruì una casa
accanto alla quercia e la difese ogni volta che qualcuno si avvicinava per
tagliarla.
Dopo qualche tempo, la ninfa ricomparve e lo ringraziò di quanto aveva fatto.
Ella strappò una canna dalla palude, la ruppe in tre parti e ne piantò i pezzi
al suolo. ― Scegli una di queste tre verghe. La prima racchiude onore e gloria,
la seconda la ricchezza, la terza la felicità in amore.
Krok scosse il capo. ― Non desidero nessuna di queste tre cose. Il mio cuore
mira a qualcosa di più grande. Esaudisci il mio desiderio di riposare all'ombra
della tua quercia per trovarvi ristoro e permettimi di ascoltare dalle tue dolci
labbra quei saggi insegnamenti che mi permettano di decifrare i segreti del
futuro.
La ninfa annuì. ― Quanto desideri è molto, ma cada dunque la benda dai tuoi
occhi umani: il saggio è un essere superiore perché assapora il nettare
dell'amore senza avvelenarlo con labbra impure.
E così, tutte le notti, la ninfa visitava Krok e i due s'incamminavano
nell'intimità della sera. Ella gli mostrava i segreti della natura, gli rivelava
l'origine e l'essenza delle cose, gli spiegava le loro proprietà naturali e
magiche. Fu così che tra la ninfa offrì a Krok tutta sé stessa e divenne la sua
sposa.
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Morte di Čech |
Disegno di autore non identificato |
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NASCITA DI LIBUŠE E DELLE SUE SORELLE
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Krok sceglie un luogo per fondare il Vyšehrad |
Disegno di autore sconosciuto |
Krok, noto nelle leggende polacche col nome di
Krak, è anche considerato il fondatore della città di Cracovia [Kraków] |
al matrimonio segreto tra Krok e la ninfa, nacquero tre figlie: Kazi, Tetka e
Libuše, belle e sagge come la loro madre. Kazi era maestra nella scienza delle
erbe, di cui conosceva tutti i segreti. Tetka era in grado di controllare il
sereno e la pioggia. Libuše aveva il dono della profezia e vedeva nel futuro.
Passarono gli anni, e Krok viveva isolato nella foresta, e la gente lo guardava
con un po' di perplessità, anche se ammirava le sue doti di saggio e di
veggente. Se qualcuno cercava del bestiame disperso, si rivolgeva a Krok, che
indicava dove cercarlo. Se vi era stato un furto o un omicidio, Krok convocava
gli abitanti del villaggio e indicava immancabilmente il colpevole. Addirittura
era in grado di guarire dalle malattie uomini e animali. Così la sua fama crebbe
e con la fama crebbe la sua ricchezza.
Un giorno, dopo diversi anni, la quercia finì col seccarsi, divorata dagli
insetti, e la ninfa morì. Così Krok costruì un castello sulla riva destra della
Moldava. La fortezza di Vyšehrad era di legno, circondata tutt'intorno da solide
mura, e si ergeva su una roccia lambita alla base dalle onde inquiete del fiume.
Krok prese con sé le tre figlie e là si stabilì.
Trent'anni dopo l'arrivo dei Cèchi in quella terra, Čech morì. Allora Krok fu
eletto sovrano al suo posto, e il suo regno fu lungo e giusto.
Fu così che Krok, grazie alla sua accortezza, ebbe tutti e tre i doni della
ninfa: onore e gloria, ricchezza, e felicità in amore.
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Il vecchio Krok e le sue tre figlie: Libuše, Kazi,
Tetka |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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PŘEMYSL
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Libuše, profetessa dei Cèchi |
Disegno di Mikoláš Aleš (1852-1913) |
'era, tra le genti arrivate con Čech, un vecchio cavaliere di nome Mnat', che si
era stabilito in una zona boscosa nei pressi del villaggio di Stadice, l'aveva
bonificata e ne aveva ricavato un podere, dove adesso viveva del ricavato dei
campi. Un giorno un vicino s'impadronì di quel podere e cacciò il cavaliere.
Questi aveva un figlio: un giovane forte e robusto di nome Přemysl. Il ragazzo
avrebbe voluto opporsi all'ingiusta prepotenza, ma il padre, che temeva di
perderlo in una faida, gli disse:
― Figlio mio, va' dal saggio Krok o dalle sue figlie dotate di acume e
intelligenza, e chiedi se gli dèi sono favorevoli alla tua impresa. In caso
affermativo, cìngiti di spada, prendi la lancia e combatti. In caso negativo,
resta qui finché non mi avrai chiuso gli occhi, poi farai ciò che vuoi.
Il giovane partì ma giunto che fu al Vyšehrad, scoprì che Krok era assente: si
era recato dalle genti di Lech per ricomporre un dissidio.
Così Přemysl decise di rivolgersi alle sue figlie e si portò a Kazín, dove
abitava Kazi. Kazi era una donna bella e sprezzante, che sapeva ben usare la
magia e adorava il potere che le dava. Poiché Přemysl non aveva di che pagare,
venne messo alla porta.
Přemysl andò allora alla casa di Tetka. Tetka era forse meno arrogante della
sorella, ma era comunque capricciosa e lunatica, e pretendeva di essere ammirata
e corteggiata. Anche qui, non avendo di che pagare, Přemysl fu nuovamente
cacciato.
Přemysl riprese la strada del ritorno, ben sicuro che la terza sorella non gli
avrebbe dato accoglienza migliore. Ma mentre camminava lungo il fiume udì uno
scalpitare di cavalli. Apparve un cervo in fuga nella macchia inseguito da una
bellissima cacciatrice e dalle sue damigelle. La fanciulla scoccò un dardo senza
però cogliere l'animale. Allora Přemysl trasse l'arco dalla spalla e vibrò a sua
volta una freccia: il cervo crollò al suolo.
La ragazza si fermò, incuriosita. Riconoscendo Libuše, Přemysl si mostrò. Libuše
lo guardò dall'alto del suo cavallo e domando: ― Dimmi, straniero, chi sei e
quale coincidenza ti conduce qui?
Přemysl si presentò e con discrezione espose a Libuše il suo problema, senza
nasconderle di essere stato cacciato dalla casa delle sue sorelle, cosa che lo
aveva profondamente avvilito. Ella annuì e gli disse:
― Seguimi nella mia dimora, a Libusín. Interrogherò per te il libro del destino,
e domani ti darò il responso.
Il giovane ubbidì di buon grado e l'ospitalità di Libuše fu davvero molto
generosa. La padrona di casa, poi, era incantevole e affascinante. Quando fu
l'ora, ella si ritirò nelle sue stanze e si addormentò, poiché il dono della
profezia la visitava nei sogni.
Ma quella notte, in sogno, non faceva che comparire il viso di Přemysl.
Così Libuše gli chiese di fermarsi un'altra notte, e poi un'altra, e un'altra
ancora.
Il quarto giorno, Libuše chiamò Přemysl e gli disse: ― Gli dèi non vogliono che
tu competa con un uomo troppo potente. Soffrire e sopportare è destino dei più
deboli. Torna da tuo padre, sii la consolazione della sua vecchiaia e provvedi a
lui col lavoro dei campi. Prendi in regalo due tori bianchi dalla mia mandria e
questo bastone per guidarli. Un giorno questo bastone fiorirà e darà frutti, e
lo spirito della divinazione si poserà su di te.
Il giovane, un po' deluso, accettò i doni di Libuše. I tori erano splendidi e
bianchi, e col bastone in pugno, il giovane salutò la fanciulla e tornò da suo
padre.
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Libuše, profetessa dei Cèchi |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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IL FORTE BIVOJ
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Bivoj |
Disegno di autore sconosciuto |
na
sera, Libuše e sua sorella Kazi erano dirette al Vyšehrad, con un seguito di
donne e una buona scorta, quando scorgero lungo la strada un uomo che ben
conoscevano, che abitava in un villaggio poco distante. L'uomo si chiamava Bivoj
ed era giovane e piacente, oltreché forte e dal cuore coraggioso.
Verso sera le sorelle arrivarono al castello e scesero da cavallo che sul
terreno già si spandevano le lunghe ombre della sera. Salirono sugli spalti
dietro le mura e guardarono giù verso la Moldava, e poi oltre il fiume, dove i
boscosi pendii di Petřín esalavano un forte profumo muschioso.
In quel mentre dall'altra estremità del cortile si levò un brusio eccitato.
Libuše e Kazi si volsero a guardare e videro avvicinarsi una folla di uomini. In
mezzo al loro si trovava il forte Bivoj, il quale reggeva un enorme cinghiale
che egli aveva sopraffatto a mani nude nel bosco paludoso. Lo teneva per le
orecchie e lo portava con il dorso setoloso premuto contro la propria schiena.
La folla gridava il nome del giovane, grata per quel gesto straordinario, ché il
gigantesco cinghiale già da molte settimane causava danni ai contadini nei campi
e nessuno era mai riuscito a ucciderlo. Bivoj portò il suo fardello dinanzi alle
due sorelle. Lo sguardo di Libuše brillò d'orgoglio all'idea che tra i Cèchi
potesse esserci un uomo così valoroso, ma lo sguardo di Kazi brillò di passione
e dolcezza.
Bivoj scaricò a terra il cinghiale e, non appena l'animale si scagliò contro di
lui, senza nemmeno muoversi d'un passo, sollevò la lancia e lo trafisse. Il
cortile del castello si riempì di mormorii di ammirazione.
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UNO SPOSO PER LIBUŠE
rascorsero
molti anni. Il vecchio Krok morì e gli fecero una bara con il legno della
quercia che per tanto tempo aveva amorevolmente protetto. L'intero popolo lo
pianse. Quando fu il momento di pensare al futuro, i capotribù dei Cèchi si
riunirono in consiglio per decidere chi sarebbe stato il nuovo sovrano. Tuttavia
non v'era nel paese nessuno che sembrasse all'altezza di Čech e di Krok, e si
levarono accanite discussioni. Alcuni proposero di scegliere tra le tre figlie
di Krok, e in tal caso la preferita era Libuše, che di tutte era la più amata e
assennata. Ma altri protestarono, perché non intendevano essere governati da una
donna.
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Přemysl |
Stampa ottocentesca tratta dalla Libussa di Johann
Musäus |
Il contadino Přemysl sta mangiando sul suo aratro
quando viene avvicinato dal cavallo di Libuše. La leggenda di Přemysl che ara il
campo ricorda quella del mitico contadino russo Mikula Seljaninovič, il cui
aratro era così grande che solo lui era in grado di spostarlo. |
Chiamarono dunque Libuše e, ben sapendo che lei era una profetessa, le proposero
di scegliersi un marito: lui sarebbe stato il nuovo sovrano. Due signori avevano
già chiesto la mano di Libuše: il nobile Vladomir e il cavaliere Mizysl. Essi
sarebbero stati ben lieti di sposare la duchessa, ma Libuše non amava né l'uno
né l'altro, ché li giudicava vanesi e violenti.
Sembrava che Libuše non considerasse nessuno degno di lei e i capotribù le
chiesero irritati da quale paese avrebbero dovuto prendere il loro nuovo
signore. Libuše replicò che non avrebbe mai accettato un principe straniero. I
capotribù allora le diedero tre giorni per scegliersi uno sposo.
La mattina del terzo giorno, Libuše giunse al cospetto dell'assemblea e disse: ―
Nobili capotribù della terra dei Cèchi: scegliete tra di voi dodici
rappresentanti pronti a partire alla ricerca del mio sposo. Li guiderà il mio
bianco destriero. Libero e senza cavaliere, esso galopperà dinanzi a voi, finché
giungerà a un uomo che mangerà su un tavolo di ferro, all'ombra di un albero
solitario. Gli renderete omaggio e lo rivestirete come si addice a un principe.
Il cavallo lo prenderà su di sé e lo condurrà qui, dove egli sarà mio sposo e
vostro sovrano.
Con ciò Libuše sciolse l'assemblea. Non pochi rimasero stupiti da questo
discorso, tuttavia fecero come lei aveva detto. Bardarono sfarzosamente il
cavallo e lo lasciarono libero di andare dove volesse. I dodici rappresentanti
seguirono il cavallo per molte miglia, finché, dopo aver lungo girovagato,
giunsero al villaggio di Stadice. Dopo aver attraversato un campo arato di
fresco, il cavallo si fermò all'ombra di un pero. Lì sedeva un contadino,
intento a mangiare pane nero. Il vomere di ferro dell'aratro gli serviva da
tavolo. I messi compresero che lui era il predestinato, gli si avvicinarono e
dissero:
― Libuše figlia di Krok ti manda questo messaggio: è volere degli dèi che tu
abbandoni l'aratro e la frusta per prendere possesso del regno. Ti sceglie come
suo sposo: con lei regnerai sul popolo cèco.
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Přemysl, l'aratore |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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Přemysl, perché era proprio lui il contadino, pensò dapprincipio che gli
stessero tirando uno scherzo, ma poi si ricordò della sua visita a Libuše. Erano
passati molti anni, ma forse, pensò, Libuše aveva già visto tutto questo nei
suoi sogni. Allora Přemysl afferrò il bastone che lei gli aveva donato e lo
conficcò al suolo. D'incanto il bastone germogliò e mise rami con foglie e
fiori. Due rami appassirono, il terzo crebbe robusto e i suoi frutti maturarono.
Allora lo spirito profetico scese su di lui e Přemysl disse:
― Eccomi, l'uomo che guida l'aratro è destinato a prendere in mano le redini del
regno. Ahimé, se l'aratro avesse scavato i suoi solchi fino alla pietra di
confine, la Cechìa sarebbe rimasta per sempre un regno indipendente! Troppo
presto mi avete distolto dal mio lavoro, per cui i confini del regno non saranno
mai sicuri e il paese sarà un giorno governato dallo straniero. I tre rami verdi
predicono alla vostra sovrana tre figli; due germogli immaturi appassiranno, ma
il terzo darà frutti e la sua discendenza renderà il nostro regno glorioso nel
mondo.
Allora Přemysl sganciò i buoi dall'aratro e quelli svanirono dolcemente
nell'aria. Si tolse gli zoccoli da contadino, si lavò nel ruscello, e i messi lo
vestirono suntuosamente. Quindi Přemysl balzò a cavallo e insieme tornarono alla
fortezza di Vyšehrad, dove lo attendeva Libuše.
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Libuše invita Přemysl |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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LIBUŠE E PŘEMYSL
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Libuše e Přemysl |
Scultura di Josef Václav Myslbek (1848-1922) |
l popolo accolse l'uomo destinato ad essere duca con curiosità e perplessità.
Přemysl era un uomo giovane e piacente, e il suo volto era saggio e modesto a un
tempo. Libuše, che stava cogliendo prugne nel giardino del palazzo, si recò da
lui così come si trovava, fresca e bella. Intanto vennero avanti Vladomir e
Mizysl, i quali con invidia chiesero ad alta voce che cosa potesse mai avere un
contadino che non avevano loro.
Irritata, Libuše depose il cestino di prugne davanti a tutti, e disse: ―
Valorosi compagni, a ciascuno di voi ho pensato di dare una parte delle prugne
che vi è in questo cestino. Il primo ne riceverà la metà più una. Il secondo la
metà delle rimanenti più una. Il terzo la metà delle rimanenti più tre. Sapete
dirmi quante sono in tutto le prugne?
L'impulsivo Mizysl misurò ad occhio il cesto e rispose: ― Vi saranno cinque
dozzine di prugne.
Vladomir osservò a lungo il cestino e disse: ― Secondo me ce ne sono
quarantacinque.
Přemysl scosse il capo: ― No, invece. Nel cesto vi sono trenta prugne, non una
di più e non una di meno.
Libuše annuì. Tirò fuori quindici prugne dal cesto più una e le mise nel
cappello di Vladomir. Delle quattordici che rimanevano, ne tolse sette più una e
le mise nel cappello di Mizysl. Ce n'erano ancora sei nel cestino: ne diede a
Přemysl tre più altre tre. Fu così che Přemysl ebbe l'amore di Libuše e ai due
pretendenti andò il cestino vuoto.
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Matrimonio di Libuše e Přemysl |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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FONDAZIONE DI PRAGA
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La profezia di Libuše |
Disegno di autore sconosciuto |
ibuša e Přemysl si sposarono e fu così i Cèchi ebbero il loro sovrano, anche se
poi il governo continuava ad essere in mano alla donna. Přemysl non fu solo un
valente guerriero, ma anche fu un modello esemplare di consorte, che mai contese
alla sua sovrana né il comando della casa né quello del paese. D'altronde le sue
idee erano sempre del tutto concordi a quelle della sua sposa. Essi sedevano su
un trono di pietra nella fortezza di Vyšehrad, e da quel luogo stabilivano per
il paese leggi eque e giuste.
Il paese dei Cèchi si arricchì in gloria e ricchezza. Molti uomini giunsero
dalle terre circostanti, attirate da quel paese prospero e ridente, e la
popolazione crebbe. I fitti boschi lasciarono il posto ai campi, e tra i campi
mani laboriose costruivano villaggi e fortezze e castelli. E quante più fortezze
c'erano nel paese, tanto meglio gli abitanti si difendevano dagli attacchi dei
nemici. Gli abitanti si ritiravano dietro le mura e i terrapieni, vi
accumulavano provviste, vi ammassavano il bestiame, e da dietro le mura
difendevano le proprie vite e quelle delle loro famiglie.
La stirpe dei Cèchi si andava rafforzando ed era necessario trovare
continuamente nuove dimore. Alla domanda dove più conveniente costruire un nuovo
villaggio, Libuše rispondeva così: ― Stabilitevi lì dove troverete quattro
elementi in armonia tra loro. Un terreno fertile dispensatore di vita, acqua
pura, aria salubre e sufficiente alimento per il fuoco, lì dove gli alberi
offrono legno ed ombra. Se tra questi elementi regnerà l'armonia, non ci
troveremo in difficoltà.
Molte famiglie si stabilirono nella regione seguendo il consiglio di Libuše e
i loro campi diedero ricchi raccolti e le loro greggi si moltiplicarono. Dai
focolari delle nuove abitazioni il fumo saliva verso il cielo.
Un giorno Přemysl e Libuše camminavano insieme al loro seguito sugli spalti
del vecchio palazzo di Libusín. Era sera: il sole si stava abbassando sui boschi
lontani, che tutto intorno avevano lasciato il posto ai campi coltivati e ai
villaggi, e l'ombra del castello cadeva alle spalle del fiume. Libuše si volse
verso le ombre azzurre e tiepide della notte che avanzava e all'improvviso un
gran silenzio s'impossessò di tutte le cose della terra e dell'aria. Nessuno del
loro seguito aprì bocca: il vento trattene il fiato e gli uccelli che avevano
cantato fino a quel momento, ammutolirono nelle chiome degli alberi. Libuše levò
un braccio, e come toccando qualcosa in lontananza, mosse delicatamente le dita
e disse:
Vedo una città
che sarà illustre nel mondo
e la cui gloria raggiunge le stelle.
Questo luogo è celato nelle profondità dei boschi,
a nord lo protegge la valle del Brusnice,
a sud una grande montagna rocciosa.
La Moldava si apre la strada sotto le sue pendici.
Costruite questa città, ve l'ordino,
là dove io vi indicherò.
Sulla Moldava, sotto Petřín,
un falegname fabbrichi con il figlio una soglia;
e per questa soglia chiamate la città Praga.
I popoli, seppur forti come leoni,
curveranno la testa davanti a questa soglia
per averla salva.
Così la mia città
avrà lode e gloria.
Přemysl e i suoi uomini guardarono in quella direzione, ma videro solo la
notte che avanzava. Poi lo spirito divinatorio abbandonò Libuše e il bagliore
negli occhi si spense. E quando fu mattino, Libuše chiamò i capotribù dei vari
distretti e li mandò nella direzione indicata con la raccomandazione di fermarsi
dove avrebbero trovato un uomo che faceva buon uso dei denti.
I messi giunsero in un luogo chiamato Petřín, a nord del Vyšehrad, sulla
Moldava, e qui trovarono un contadino e suo figlio che tagliavano un albero con
una sega. Essi giudicarono che il contadino stesse appunto facendo buon uso dei
denti della sega. In quel luogo sorse una grande fortezza, e un villaggio sotto
la fortezza, che poi si sarebbe allargato fino a diventare la capitale del
popolo cèco, e, giacché con l'albero che stava tagliando il contadino intendeva
fare una soglia [prah], la città che vi sorse si chiamò Praga [Praha].
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Libuše profetizza la gloria di Praga |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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LA CULLA D'ORO
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Moldava |
Dal Vyšehrad, Libuše gettò la sua corona nella
Moldava. Le antiche mura romaniche sulla scogliera sono tuttora chiamate «Bagno
di Libuše». Alla Moldava [Vltava] è dedicato il secondo celeberrimo
movimento del poema sinfonico La mia Patria,
di Bedřích Smetana. Fotografia di Dario Giansanti. |
e Libuše sapeva come scrutare nel futuro, ella anche vedeva le cose nascoste
nelle profondità della terra. Disse al suo popolo quali monti nascondevano l'oro
e quali l'argento, e infatti, come ella aveva detto, a Jílové trovarono l'oro e
a Katná Hora l'argento, e in alcuni punti il prezioso metallo scaturiva dalla
terra come una verga e non si aveva che da spezzarlo. Si narra che un uomo
trovasse un giorno una pepita d'oro tanto grande che pesava più di quanto
pesassero il duca e la duchessa. L'uomo inviò quel mirabile e pesantissimo pezzo
d'oro a Přemysl, il quale incaricò uno scultore di creare con quell'oro una
statua raffigurante un uomo seduto sul trono. L'idolo venne chiamato Zelů, fu
posto in una capanna di legno e lì i Cèchi gli offrivano dei sacrifici in segno
di riconoscenza per i doni che la terra fertile e ricca offriva loro.
Come Přemysl aveva profetizzato, Libuše e Přemysl ebbero tre figli dei quali
sopravvisse soltanto l'ultimo, che aveva nome Nezamysl. D'oro era la culla che
aveva accolto i suoi primi sogni. Ma gli anni passavano, e poiché erano anni
felici, passarono in fretta. Nezamysl già cercava di tendere l'arco e di
sollevare la spada del padre, e Přemysl era orgoglioso di lui. Libuše, un po'
triste al pensiero che il tempo correva, ordinò alle sue donne di prendere la
culla d'oro di Nezamysl e di seguirla. Giunta ai piedi del Vyšehrad la duchessa
si fermò in un punto dove l'acqua era profonda, tanto che la superficie appariva
buia e cupa.
― Gettate la culla nell'acqua ― ordinò Libuše alle donne.
Elle obbedirono e la culla sprofondò nel fiume e sparì. Solo Libuše seguì il
suo lungo sprofondare nelle acque che frattanto diventavano secoli. Vide una
luce fendere le profondità dei tempi, che ora era lo splendore del sole, ora il
fuoco di un incendio, e udì suoni che ora erano canti e ora grida e lacrime. La
culla s'inabissava sempre di più.
― Nasconditi, nasconditi! ― gridò la duchessa. ― E un giorno, purificata dalle
lacrime di quelli che vivono sulla terra, uscirai dalle onde e mani buone ti
afferreranno e deporanno dentro di te un bimbo che porterà la salvezza al suo
popolo e alla sua terra.
E in silenzio la duchessa fece ritorno al Vyšehrad.
Si narra che alla fine della sua vita, Libuše si portò sulla rocca del
Vyšehrad e gettò la sua corona nella Moldava stabilendo che chi l'avrebbe
trovata, avrebbe potuto portarla per sempre.
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Libuše mostra a Přemysl i tesori |
Disegno di autore non identificato |
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VLASTA
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Vlasta |
Disegno di Mikoláš Aleš (1852-1913) |
uando Libuše morì, le donne vestirono il suo corpo con meravigliosi abiti,
mettendo un borsellino con cinque monete d'oro nella sua mano destra per pagare
il guardiano degli inferi affinché la facesse passare e misero due monete
d'argento nella sua mano sinistra in modo che pagasse il traghettatore del fiume
dei morti.
Durante la vita di Libuše, le donne cèche avevano goduto di una posizione
privilegiata, ma dopo la sua morte la loro potenza declinò. Rendendosi conto del
pericolo, Vlasta, la più influente tra loro, chiamò le altre donne per discutere
della cosa, e Stratka, la sua migliore amica, consigliò di mandare una
delegazione presso il duca Přemysl, ormai vedovo, e il suo consigliere Hynchvoj,
con una proposta un matrimonio: Vlasta avrebbe sposato Přemysl e Stratka avrebbe
sposato Hynchvoj.
Ma quando Stratka fece la proposta, i due scoppiarono a ridere. Hynchvoj le
rispose:
― Finché Libuše era viva, noi uomini dovevamo baciarvi i piedi. Ma ora che lei
non c'è più, voi donne ritornerete ad essere le stupide pecore che siete.
Vlasta rimase offesa e umililata dalla battuta e rispose: ― A questa beffa
seguirà la mia ira. La mia e quella di tutte le donne. ― Riunì tutte le donne
del palazzo, riferì la risposta, e tutte insieme decisero di lasciare il
Vyšehrad.
Seicento donne condussero i cavalli fuori dalle stalle. Seicento ragazze
varcarono la Moldava, si stabilirono sulla sponda opposta, e lì, proprio davanti
al Vyšehrad, eressero una fortezza che venne chiamata Dívčíhrad, «castello delle
fanciulle». Esse cominciarono a darsi delle leggi da sole, e non ubbidivano a
nessun'altra autorità tranne che a quella di Vlasta. Tutte quante cominciarono a
usare le armi ed a procurarsi il cibo e cavalcavano fieramente attraverso le
terre circostanti, tanto che i suoni dei loro corni erano udibili fin dal
Vyšehrad. Donne e ragazze si unirono a loro da tutti i villaggi circostanti, e
pian piano il loro numero si accrebbe.
Dal Vyšehrad gli uomini osservavano quel gran via vai di donne sulla sponda
opposta del fiume, e ridevano di fronte a quelle figure di amazzoni a cavallo
che cacciavano e si esercitavano nelle armi, e non mancavano di schernirle
gridando loro parole offensive e irriverenti.
Přemysl li sentì parlare così, e profetizzò:
― Vedo una fanciulla dai lunghi capelli che le escono dall'elmo. Tiene in mano
una spada e nell'altra una frusta. Uomini morti giacciono nella polvere ai suoi
piedi. La ragazza calpesta i cadaveri e frusta coloro che erano ancora vivi, e
il sangue scorre sulla terra. Sembra una belva feroce. Signori, ascoltate la
voce degli dèi e ricordate: siete stati avvertiti!
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La rivolta delle donne |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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LA RIVOLTA DELLE DONNE
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Fanciulla guerriera |
Disegno di Mikoláš Aleš (1852-1913) |
ll'inizio
gli uomini non presero sul serio la rivolta delle donne, e si limitarono a
catturare le ragazze che sorprendevano da sole nella foresta per violentarle.
Così la fortezza di Dívčíhrad si riempì di donne incinte. Questa tattica fece
infuriare Vlasta, che cominciò a prendere le necessarie contromisure. Divise le
sue donne in tre parti. Tra le più sagge e le più forti scelse quelle che
avrebbero fatto da consigliere e quelle che avrebbero difeso il castello, alle
più belle si mise a insegnare come sedurre gli uomini e adescarli, alla stessa
maniera in cui i cacciatori attirano la selvaggina con l'esca.
I luoghi circostanti smisero di essere sicuri per gli uomini: i boschi
rigurgitavano di trappole e imboscate tese dalle donne: le più carine venivano
usate come esca, e quando gli uomini si avvicinavano per violentarle, le altre
piombavano dal folto dei boschi e gli davano addosso. Molti uomini cominciarono
a cadere prigionieri o a finire uccisi.
Né gli riuscirono a sopraffare le donne con le arti dell'inganno, che nessuna
donna né tradì mai un'altra, anzi, questa tattica si rivolse spesso contro gli
stessi uomini. Capitava che qualche ragazza mandasse un messaggio al proprio
fidanzato chiedendogli di aiutarla a scappare dal Dívčíhrad, ma quando lo
sventurato andava all'appuntamento, decine di donne si gettavano su di lui e lo
catturavano. Si udivano le grida degli uomini crudelmente battuti provenire
dall'interno della fortezza delle donne: e molti accettarono di diventare
schiavi in cambio della vita. Così, i giovani guerrieri cèchi venivano eliminati
uno ad uno.
Feriti nell'amor proprio, gli uomini si riunirono e attraversarono la Moldava,
ben decisi a ricondurre tutte quelle femmine ribelli all'ordine costituito.
Erano armati, ma nessuno credeva di dover usare l'arma. ― Non appena quelle
femmine ci vedranno arrivare in forze si metteranno paura e ci apriranno le
porte ― dicevano tra loro. Stupidamente continuavano a non prendere sul serio la
faccenda, e salivano verso il castello delle fanciulle baldanzosi e pieni di
buon umore. Non un rumore veniva dalla fortezza di Dívčíhrad e gli uomini si
diedero gomitate gli uni con gli altri, ridacchiando e dicendo: ― Si vede che
non appena ci hanno visto sono tutte corse a nascondersi!
In quel momento, all'interno delle mura, Vlasta aveva raccolto a sé le sue donne
e stava dicendo: ― Se gli uomini vincono, saremo di nuovo le loro schiave.
Meglio morire in battaglia che avere la loro pietà. E quindi, battetevi come
meglio sapete, e non abbiate misericordia, anche se vi trovaste di fronte vostro
fratello e vostro padre!
E dette queste parole, balzò a cavallo e uscì al galoppo dalla fortezza. Dietro
di lei, le sue scudiere: Mlada, Svatava, Hodka, Radka e Častava. Tutte le altre
guerriere le seguivano al galoppo: ed erano centinaia.
Gli uomini rimasero sbigottiti nel vederle arrivare armate fino ai denti. Vlasta
trafisse con la sua lancia sette tra i migliori guerrieri, i quali non fecero
nemmeno in tempo ad alzare la spada. Le arciere rovesciarono una pioggia di
frecce su di loro. In un attimo l'esercito maschile si disperse. Vlasta non
diede loro tempo di ricomporsi: le donne assalirono gli uomini in groppa ai loro
cavalli e cominciarono a mulinare le spade. La battaglia non fu lunga: trecento
uomini caddero, duecento furono catturati e portati prigionieri al Dívčíhrad,
gli altri dovettero darsi alla fuga nella foresta.
Quella notte, dal Dívčíhrad si udirono musica e canti di gioia di donne che
celebravano la loro vittoria, uniti alle grida degli uomini che venivano
battuti.
La notizia della sconfitta degli uomini fece il giro di tutta la regione e le
donne cèche alzarono orgogliose la testa. Il pensiero di Vlasta dava loro forza
e coraggio. Molte donne e ragazze lasciarono le loro case e raggiunsero il
Dívčíhrad. Naturalmente vi furono anche quelle che rimasero accanto ai loro
mariti. Ma in molti casi, furono proprio i mariti a fuggire da casa: temevano
che le loro mogli, a cui l'orgoglio aveva infuso nuova luce negli occhi,
finissero per togliere loro la vita nel sonno.
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ŠÁRKA E CTIRAD
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Ctirad scopre Šárka legata |
Disegno di autore sconosciuto |
'era il valente cavaliere Ctirad, che con i suoi uomini tendeva imboscate alle
donne e ne aveva uccise un gran numero. Vlasta sapeva che le donne non sarebbero
mai state davvero al sicuro finché Ctirad continuava a girare per la zona, e
cercava un modo per eliminarlo.
Un giorno d'estate, Ctirad andava per la foresta con il suo seguito. Non vi
udiva un solo rumore: tutto era silenzio. D'un tratto Ctirad udì delle
invocazioni di aiuto. Ctirad corse nella direzione delle grida e si ritrovò
davanti alla vista di una splendida fanciulla legata a una grossa quercia. Le
corde erano così strette che le tagliavano la pelle. La ragazza era esausta per
il troppo piangere e gridare. Aveva lunghi capelli che le scendevano sulla vita
e un corno ancora allacciato alla cintura.
Davanti a lei si trovava un otre pieno di idromele profumato. Ctirad stesso
tagliò le corde che legavano la fanciulla, e lei gli cadde ai piedi
riconoscente. Ctirad commosso la alzò da terra e le chiese chi fosse e chi
l'avesse legata.
― Signor mio, ― disse la fanciulla, ― il mio nome è Šárka, mio padre ed io siamo
usciti da Okorín a caccia. Nell'inseguire una cerva mi sono staccata dagli altri
e mi sono persa. Finalmente sono uscita dal bosco per questo sentiero, che ho
preso con gioia perché ho sentito davanti a me il nitrire dei cavalli. Credevo
fossero i cavalli di mio padre, invece, ahimé, ho incrociato una banda di
fanciulle del castello di Dívčíhrad. Quelle donne senza cuore mi hanno legata, e
ridevano di me perché sono rimasta accanto a mio padre invece di seguire Vlasta.
Si sono messe a bere quell'idromele, e forse il caldo ha dato loro alla testa.
Non appena hanno sentito un rumore di cavalli, hanno temuto che mio padre
tornasse per liberarmi. Così mi hanno lasciata qui legata e sono corse via al
galoppo. Guardate, nella fretta hanno persino dimenticato la brocca d'idromele.
― Vediamo un po' che sapore ha l'idromele delle donne ― rise Ctirad. E usando il
suo corno, Šárka attinse l'idromele dall'otre e lo diede a lui e ai suoi uomini.
Gli uomini bevvero grati quel dolce idromele. Non era un idromele qualsiasi.
Vlasta vi aveva fatto sopra un incantesimo: chi lo beveva una volta
s'indeboliva, chi due volte, non ce la faceva più a tenere la spada, e chi ne
beveva tre volte, cadeva sopraffatto dal sonno. Gli uomini bevvero e ben presto
tutti cominciarono ad addormentarsi. Ctirad e Šárka si distesero sotto l'albero,
e mentre lei gli giaceva tra le braccia, chiamandolo salvatore e promettendogli
delizie senza fine, lui beveva l'idromele a grandi sorsi. E quando il cavaliere
fu ubriaco, Šárka prese il corno e mormorò: ― Signore, sono troppo indebolita a
causa della mia disavventura. Ma forse tu potresti suonare il corno e richiamare
mio padre, che verrà subito da me.
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Šárka e Ctirad |
Scultura di Josef Václav Myslbek (1848-1922) |
Ctirad non vide nulla di male ad accontentarla e con le sue ultime forze suonò
nel corno. Richiamate dal segnale le donne nascoste nella foresta si gettarono
sul gruppetto. Gli uomini di Ctirad passarono dal sonno alla morte e giacquero
nella polvere, mentre Ctirad fu catturato. Il giovane protestò e minacciò, ma le
ragazze risero di lui e gli ricordarono di quante loro compagne avesse ucciso.
Lo bastonarono crudelmente. Poi Šárka prese una fune, ne fissò un'estremità al
suo cavallo e l'altra estremità la legò alla virilità dell'uomo, che così fu
rudemente trascinato al Dívčíhrad.
Dopo aver sottoposto Ctirad ad atroci torture, Vlasta ordinò a Šárka di
castrarlo col suo stesso coltello. Non soddisfatta, Šárka lo accecò, gli strappò
i denti e gli otturò le orecchie con la resina. Le grida del poveretto si
udivano fin dal Vyšehrad. Più morto che vivo, lo sventurato giovane fu gettato
in una fossa nel cortile della fortezza e per quattordici giorni venne usato
come latrina da tutte le donne. Infine fu decapitato e la testa gettata dinanzi
al Vyšehrad, come monito per gli uomini di non osare più attraversare il fiume
per giungere nel territorio governato dalle donne.
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Šárka e Ctirad |
Dipinto di Josef Mathauser (1846-1917). |
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CONCLUSIONE DELLA RIVOLTA DELLE DONNE
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Šárka e Ctirad |
Disegno di Mikoláš Aleš (1852-1913) |
'orribile sorte di Ctirad ebbe però l'effetto opposto, accedendo gli animi degli
uomini. Furono approntate le armi, preparato un esercito.
Non appena la notizia arrivò alle orecchie di Vlasta, questa fu presa dalla
furia di un'orsa che ha perso i propri piccoli. Mise insieme le sue donne e
ordinò loro di marciare verso il Vyšehrad e di metterlo a ferro a fuoco.
L'esercito delle donne uscì dal Dívčíhrad, e, attraversato il fiume, marciò sul
palazzo di Přemysl. Gli uomini le videro arrivare dalle mura e corsero loro
incontro. Questa volta nessuno tra loro compì più il madornale errore di
sottovalutare le schiere femminili e la battaglia fu aspra e tremenda. Contro il
padre combatteva la figlia, contro il fratello la sorella, contro il marito la
moglie. La lotta non conosceva compassione e chi esitava per un attimo, pagava
l'esitazione con la morte. La combattente più furiosa era Vlasta. Si precipitava
in avanti sul suo cavallo, come se volesse conquistare da sola il Vyšehrad, e le
sue fanciulle non riuscivano a starle dietro. Troppo tardi Vlasta si accorse di
essersi allontanata dalle sue truppe. Venne tagliata fuori, sette giovani la
circondarono e la gettarono dal cavallo, sette pugnali misero fine alla sua
vita.
La morte di Vlasta rovesciò le sorti della battaglia. Duecento ragazze
caddero sul campo. Quelle che fuggirono nella foresta furono inseguite, stanate
e uccise. Quelle che si rifugiarono nella fortezza, vennero catturate e gettate
giù dalle mura. La fortezza di Dívčíhrad venne data alle fiamme e bruciò per
tutta la notte. Il suo incendio era ben visibile per tutta la regione.
Il corpo di Vlasta venne fatto a pezzi e i pezzi vennero gettati in pasto ai
cani. In quanto a Šárka alcuni dicono che la uccise il figlio di Ctirad, ma
secondo un'altra storia, un varco si aprì spontaneamente tra le rocce ai suoi
piedi e lei vi scomparve per sempre.
Ma narrano le leggende che, un giorno, quando le donne saranno nuovamente
maltrattate dagli uomini, la roccia si aprirà ancora, e Šárka verrà fuori armata
di tutto punto, insieme al suo seguito di guerriere, e le donne avranno la loro
vittoria finale.
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SECOLI...
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I semi di Libuše |
Disegno di Mikoláš Aleš (1852-1913) |
re preziosi semi Libuše e Přemysl avevano gettato, affinché un giorno
germogliassero portando pace e speranza al popolo cèco.
Il primo seme, il più prezioso, era la generazione più giovane. Alla morte di
Přemysl, il figlio Nezamysl gli succedette sul trono e fu il progenitore della
stirpe dei Přemyslidi. I suoi discendenti regnarono sulla terra cèca per molti
secoli.
Il secondo seme era l'oro e l'argento custodito nelle profondità del
Vyšehrad, che un giorno avrebbe procurato il pane agli affamati nel momento in
cui il paese ne avrebbe avuto il maggior bisogno.
Il terzo la culla d'oro che Libuše aveva gettato nel profondo della Moldava.
E allorquando, secoli dopo, la regina Eliska, sposa di Giovanni di Lussemburgo,
diede alla luce il figlio Václav, le acque della Moldava si schiusero come i
petali di un fiore e restituirono la culla d'oro deponendola ai piedi della
roccia del Vyšehrad. In quella culla, la regina depose il piccolo Václav. Quel
bimbo sarebbe diventato il più grande sovrano del popolo cèco, che la storia
avrebbe conosciuto col nome di Carlo IV.
Si narra ancora che, nel momento in cui Carlo IV trasse l'ultimo respiro, il
letto d'oro che durante la vita dell'imperatore era sempre stato al castello di
Karlštejn, scomparve. Si tramutò in una culla e la culla ritornò nelle
profondità della Moldava. A volte dalla culla si sprigiona un raggio dorato che
sale dalle profondità e sfiora la superficie irrequieta del fiume. Forse scruta
se mai sia giunto il momento.
Si dice che un giorno o l'altro la culla dorata lascerà di nuovo la Moldava e
una madre deporrà nella culla un bimbo appena nato, che porterà quiete, pace e
felicità alla sua terra. Ma chissà? Forse la culla è già da qualche parte, in
Boemia, e forse non è una soltanto.
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Libuše la profetessa |
Dipinto (1893) del pittore simbolista cèco Vitezlav Karel
Mašek (1865-1927). Musée d'Orsay, Parigi. |
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NOTE
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Praga,
la città d'oro |
Una delle città più ricche d'atmosfera,
suggestioni, leggende e tradizioni del mondo. Non solo da visitare, ma da
esplorare. Fotografia di David Everyman. |
Passeggiare per Praga vuol dire trovarsi di fronte a numerose
rappresentazioni della leggenda della fondazione della città. Il volto radioso
di Libuše ci sorride dai manifesti, dai monumenti, dagli affreschi art-déco
sulle pareti dei palazzi. Basta comprare una guida da quattro soldi perché si
possa imparare qualcosa su Libuše e Přemysl, anche se non è affatto facile
trovare racconti dettagliati. A tramandare le gesta e le profezie della grande
duchessa e fondatrice del popolo cèco, sono soprattutto fonti medievali in
latino. La
Chronica Bohemorum, composta all'inizio del
XII sec. dal monaco Cosma di Praga, decano del capitolo della capitale boema,
abbraccia tutta la storia cèca dalle mitiche origini all'avvento sul trono di
Sobeslav I. Anche la Cronaca di Dalimil,
opera storica in versi del XIV secolo, chiamata così dal canonico della chiesa
di Boleslav a cui fu per lungo tempo attribuita, sembra fosse molto apprezzata
ai suoi tempi. Vi è poi il
De Bohemorum origine ac gestis historia
dell'erudito Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), che sarebbe asceso al soglio
pontificio col nome di Pio II. E infine la cinquecentesca
Storia Bohemica di Johannes Dubravius († 1553). Lo scrittore Johannes
Musäus, tra le fiabe tedesche [sic] raccolte nel suo
Volksmärchen der Deutschen (1782-1786), riferisce anche una versione
simbolista della storia di Libuše.
C'è una forte presenza femminile nelle leggende slave, affini, in questo, a
quelle celtiche. Si tratta di donne forti, decise e risolute, spesso in
posizione di governo, non di rado guerriere feroci e determinate. C'è la figura
(storica) della principessa Ol'ga di Kiev, di cui la
Cronaca
degli anni passati narra la terribile vendetta contro gli
uccisori del marito, il gran principe Svjatoslav. Vi sono Libuše in Cechìa e
Wanda in Polonia, che due tradizioni sorelle vogliono figlie dello stesso padre
(Krok/Krak), entrambe guide politiche e spirituali dei rispettivi paesi. Tra le
guerriere troviamo Vlasta e Šárka in Cechìa, Bojana e Todorka in Bulgaria,
Salygorka in Russia. Non a caso, molti studiosi, primo tra tutti Evel Gasperini,
ma in seguito anche Bruno Meriggi e Francis Conte, hanno ipotizzato un'antica
forma di matriarcato presso i popoli slavi, che in seguito sarebbe stato
assorbito da un successivo strato patriarcale, lasciando ampie testimonianze nei
riti e nelle leggende. Non mi sembra il caso di riferire in dettaglio le teorie
di questi studiosi e personalmente sono sempre un po' diffidente quando si
pretende di trovare radici storiche nel mito. La leggenda greca delle Amazzoni
può perfettamente essere integrata nell'ottica del «mondo capovolto», senza
andare a cercare prove di un reale governo femminile tra gli Sciti o i Sarmati.
È però indubbio che non tutte le civiltà antiche abbiano relegato le donne in
stato di sottomissione (come hanno fatto invece Greci e Romani), ma vi sono
anche stati popoli (Egizi, Cretesi, Etruschi, Celti) che non hanno mai esitato a
concedere all'altra metà del cielo i suoi diritti.
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Il gōlem di Praga |
Fotogramma dal film
Der Golem (1915) di Paul Wegener |
Alle suggestive atmosfere di Praga contribuisce un vivido substrato
leggendario. Salendo sulla rocca del Vyšehrad, è possibile vedere il promontorio
da dove Libuše lanciò la sua corona nella Moldava. Di fronte vi sono le rovine
della fortezza di Děvin, l'antica Dívčíhrad dove Vlasta creò la sua utopia
femminista. Il sito dove i compagni di Ctirad vennero uccisi si trova
nell'attuale cimitero della chiesa di San Matěj, e il luogo dove sarebbe stata
gettata la testa di Ctirad si trova su una piccola collina presso il Vyšehrad,
chiamata «Roccia bianca», anche se i vecchi continuano a riferirsi ad essa come
«lì da Ctirad».
Ma questa è solo una piccola parte delle leggende di cui la splendida Praga
si vanta. Questa è la città di San Venceslao e di Santa Ludmila. La città degli
alchimisti, dove Faust firmò il suo patto di Mefistofele. La città dove Rabbi
Löw creò il gōlem. E sul fondo della Moldava il vodník raccoglie
tuttora le anime degli annegati, imprigionandole sotto delle tazzine capovolte.
Elencare i personaggi, gli esseri soprannaturali, gli spiriti stravaganti e
bizzarri che affollano Praga, è impresa impossibile e disperata.
RICERCHE
Non è stato facile trovare fonti precise e coerenti su Libuše e la leggenda
della fondazione di Praga. Le cronache in latino non sono facilmente
rintracciabili, a parte sparse citazioni sulle pubblicazioni dei più insigni
slavisti, a cui ho avidamente attinto. Nelle guide turistiche si trovano solo
pochi dettagli, quel minimo che vasta a un turista distratto. A Praga incontravo
dovunque lo sguardo intenso di Libuše, ma era impossibile trovare un buon libro
che riferisse tutta la storia. Una gentile e bella libraia mi fornì l'indirizzo
di un centro culturale, ma quando il taxi mi lasciò dinanzi a quella porta e
suonai al campanello, una signora in vestaglia m'introdusse in una cucina, dove
il marito e due bambini sedevano a tavola davanti a uno stufato di broccoli. La
signora mi indirizzò a un museo di antichità boeme, dove però erano esposti
soltanto reperti celtici (prima dell'arrivo degli Slavi quella terra era abitata
dai galli Boi, da cui il nome Boemia). Per questo riassunto mi sono affidato a
sparse citazioni rinvenute in libri di letteratura o filologia slava che non sto
qui a riferire (Conte, Meriggi, Prampolini, Gasperini). Alcuni particolari li ho
tratti dalla favola che Johann Musäus ha tratto dalla leggenda, in
Libussa (Edizioni Studio Tesi 1987). La
storia di Čech è raccontata da Aloiš Jirášek nall'antologia
Racconti e leggende della Praga d'oro
(Mondadori 1989). Ho attinto un po' da tutte le fonti possibili, con un odioso
lavoro di collage. Al proposito, ringrazio l'impagabile Silvia Sangiorgio per
aver trascorso un'intera mattinata a faxarmi un libro da lei acquistato a Praga.
Una versione della leggenda tratta dalle fonti primarie sarà pubblicata
prossimamente su Bifröst.
PROPOSTA D'ASCOLTO
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Vyšehrad |
La rocca di Vyšehrad, con le due guglie della Chiesa
dei Santi Pietro e Paolo, a picco sulla Moldava. Secondo la tradizione, Krok ne
fu il fondatore. |
Il territorio boemo e le sue leggende sono state il soggetto della popolare
opera sinfonica
La mia Patria di Bedřích Smetana
(1824-1884), di cui qui riporto i primi tre movimenti. Nel primo di essi,
Vyšehrad, come scritto nel programma dello stesso Smetana, «l'arpa
dell'antico bardo Lumír echeggia nelle sale della rocca, superba dimora dei
principi e dei re di Boemia». Rispondono in orchestra due arpe marcando il tema
principale. Fagotti e corni riprendono poi il tema, a cui seguono delle
variazioni in stile marziale di corni e timpani; si ritorna infine agli archi
che, col rullo pianissimo del timpano, evocano «un eco delle canzoni dimenticate
di Lumír che risuonano ancora sul Vyšehrad».
La dissolvenza introduce il celeberrimo secondo brano, dedicato al fiume
Moldava. La musica descrive il gaio scintillare delle sorgenti sulle rocce,
per poi seguire il fiume per tutto il suo corso attraverso la terra di Boemia.
Si ode una caccia nella foresta, si indovina un quadretto di nozze
contadine, si avverte una delicata danza delle
rusalki nelle acque cristalline, ci si infrange attraverso le rapide di
San Giovanni. In coda al movimento, quando la Moldava giunge alle porte di
Praga, risponde il leit-motiv
del Vyšehrad, dalla cui rocca Libuše getta la sua corona nelle acque del fiume.
Il terzo movimento è dedicato alla leggenda di Šárka. Di nuovo il tema
del Vyšehrad, variato ma riconoscibile, accennato nell'incipit. La musica
concitata si perde in una melodia appassionata di violini, che mima l'amore
simulato di Šárka per Ctirad, attirato nella trappola mortale. Alla fine del
brano, quando si ode il corno, «le fanciulle, radunate dal richiamo di Šárka, si
precipitano all'assalto, trucidando gli uomini che dormono».
La mia Patria prosegue con altri tre
movimenti (Dai prati e dai boschi di Boemia, Tábor e
Blaník), che però qui non sono riportati in quanto ci limitiamo ai brani
di interesse mitologico.
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