NOTE
1
― Il primo verso, privo di
allitterazione ed estraneo alla
struttura metrica del carme – che impiega il verso lungo germanico formato da
due emistichi o semiversi – costituisce un verso
breve a sé stante.
Tutta la prima parte è
densa di sassonismi e mostra una
chiara fonetica basso-tedesca (ik
in luogo della forma alto-tedesca
ih; ðat contro daz,
seggen contro sagen),
mentre le forme grammaticali sono
invece alto-tedesche. Si
concentrano qui anche le grafie che
impiegano lettere anglosassoni come
ð e æ, che il resto
del testo abbandona. 
2-11
― (2)
Il termine urhetton è un
hápax legómenon. Se è da intendere come
sostantivo significherebbe
«combattimento»; sembra però lo si
debba intendere come verbo retto da
muotin «potere, dovere», e
in questo caso troverebbe un
confronto con il gotico
us-haitan «chiamarsi fuori»,
nel senso di «sfidarsi a un
combattimento».
― (3)
Hiltibrant enti
Haðubrant «Hildebrand e Hadubrand»: il terzo semiverso ci presenta i personaggi e
l'allitterazione dei nomi, secondo
l'uso germanico, è preciso segnale
della parentela che li unisce, allo
stesso modo in cui
Hildebrand sarà
più tardi detto figlio di
Heribrand,
nome che presenta la medesima
allitterazione.
Heribrand →
Hildebrand →
Hadubrand
vengono a delinearsi come una
sequenza di eroi destinata a
chiudersi nel duello fatale di cui
tratta il carme.
― (5)
Il numerale tuem «due»
rivela una fonetica basso-tedesca,
senza la seconda mutazione
consonantica (cfr. alto tedesco
zweim); in tutto l'Hildebrandslied, infatti,
l'antica *t protogermanica è
rimasta invariata e non ricorrono
mai le consonanti mutate z e
tz.
― (6)
Sunufatarungo, qui tradotto
«il figlio contro il padre», è un
hápax non solo per il
tedesco ma per tutte le lingue
germaniche. Composto dalle voci
sunu «figlio» e fatar
«padre», è un costrutto
poetico.
― (8)
Guðhamun,
letteralmente «camicia da
battaglia» (composto su *gunthi-
«battaglia») è un altro hápax,
qui con fonetica sassone
(dunque basso-tedesca), mentre il
riflessivo sih, tipicamente
alto-tedesco, indica una struttura
sintattica meridionale. Il termine
è un costrutto poetico da intendersi come «armatura»
(Onesti 1995¹).
― (11)
Hiltiu ritun «cavalcarono alla
battaglia»: il verbo ritan
«cavalcare» (cfr. inglese to
ride) fa pensare che i due
protagonisti siano a cavallo; tuttavia si può anche
intendere in senso figurato e così
hanno inteso il passo alcuni
traduttori, non essendovi altre
indicazioni della situazione. La Francovich Onesti traduce «per lanciarsi in
battaglia»
(Onesti 1995¹).

12-24
― Il motivo dell'eroe che
chiede l'identità dell'avversario
prima del combattimento è un tema
tipico della poesia epica,
ampiamente attestato nella
letteratura eroica greca, celtica,
germanica, iranica, indiana, slava.
Questo topos non ha soltanto
la funzione narrativa di presentare
i due eroi che stanno per
scontrarsi, ma è anche utile al
cantore per creare un effetto di
attesa tra i suoi ascoltatori (non
dimentichiamo che si tratta di
poesia destinata alla recitazione).
Ma al motivo letterario doveva però
corrispondere una vera e propria
usanza delle antiche aristocrazie
guerriere. La rinomanza di un
guerriero dipendeva in buona misura
da quella dei nemici con i quali si era battuto,
cosicché poteva essere naturale
chiedere all'avversario chi fosse e
quale fosse la sua stirpe (e senza dimenticare che gli elmi calati sul
viso rendevano arduo il
riconoscimento immediato). Anche il
motivo dei due eroi che scendono a
scontrarsi in mezzo alle due
opposte schiere è un motivo tipico
del genere epico. Facile e
immediato il paragone con
l'episodio omerico di
Glaûkos
e Diomḗdēs,
nel quale quest'ultimo si fa avanti
fra i due eserciti contrapposti di
Achei e Troiani e chiede
all'altro guerriero chi egli sia,
prima di iniziare a combattere
(Iliade [VI]).
(Onesti 1995¹)
― (12) La formula produce un verso più
lungo del solito: un'irregolarità
metrica dovuta all'uso di
un'espressione solenne.
― (14)
Ferahes, qui malamente
tradotto con «maturo», è
un'espressione originata
dall'antica poesia pagana germanica
che riassume in sé i significati di
«mondo, anima, età, tempo, vita».
― (18-19)
Il brusco passaggio dal discorso
indiretto al discorso diretto (con
la sua strana consecutio
temporum per cui dal congiuntivo preterito si passa al congiuntivo
presente), nonché la mancanza di
allitterazione tra i due semiversi,
ha fatto pensare a una lacuna del
testo, ipotesi già avanzata dai
primi esegeti del poema ildebrandiano
(Lachmann 1833). Tuttavia,
ancorché possibile, l'ipotesi della
lacuna non è strettamente
necessaria, in quanto il brusco
passaggio dal discorso indiretto al
diretto fa parte degli stilemi
della poesia orale (ad esempio è
attestato nella
Vǫluspá), mentre la mancanza di allitterazione la ritroviamo
anche in altri luoghi dell'Hildebrandslied.
― (21-22)
Il testo presenta qui un'ambiguità di lettura, a seconda a
cui si riferiscano i termini
enan e odre («l'uno» e
«l'altro»). Si può dunque
intendere: «se tu sai dire l'uno
[il nome di tuo padre]
io conosco anche l'altra [la tua
stirpe]», oppure: «se tu sai dire
l'una [la tua stirpe]
io conosco anche l'altro [il nome
di tuo padre]» (o «gli altri», ché
odre può essere anche
plurale).
― (24)
Irmindeot, qui tradotto come
«glorioso popolo», testimonia un
uso poetico dell'arcaico termine
irmin- (forse da intendere come
«grande, universale, totale»), già
attestato da Tacito nel nome della
mitica tribù germanica degli
Herminones
(Germania
[2]), ma anche nel nome
della colonna Irminsūl (possibile
ipostasi dell'axis mundi)
venerata dai Sassoni convertiti da
Carlo Magno. 
24-44
― Nel racconto di
Hadubrand
a Hildebrand
si scorge un altro tema tipico
della narrativa tradizionale che
Nicoletta Francovich Onesti ha
definito, in un suo articolo, «tema
dell'epos dell'epos», cioè il
racconto dell'antefatto riferito a
voce proprio davanti a colui che di
quell'antefatto è il protagonista.
In altri poemi il tema viene
trattato in vario modo. Nel
Bēowulf,
ad esempio, un cantore compone
nella sala del banchetto, proprio
davanti a
Bēowulf, un racconto sulle
sue imprese passate, sul come egli
sia riuscito a uccidere il mostro
Grendel.
Nell'ottavo canto dell'Odissea,
che si svolge nella reggia dei
Feaci, l'aedo Dēmódokos canta dinanzi a
Odysseús
le sue gesta alla guerra di Troía,
ignaro di trovarsi in presenza
dell'eroe stesso, che si commuove.
Così, nell'Hildebrandslied, la
partenza dell'eroe per l'oriente al
seguito di Theotrihhe, viene narrata da
Hadubrand,
ignaro di parlare in presenza del
padre, che ne è profondamente
scosso. La Onesti nota ancora che
l'antefatto è riferito in forma di
dialogo nella prima metà del carme,
proprio come nella prima metà dell'Odissea
le peregrinazioni
dell'eroe sono da lui riferite a
voce dinanzi ai Phaíakes, in quello
che è in assoluto il primo
flashback della letteratura
occidentale.
(Onesti 1995¹ | Onesti 1995²)
― (32-35)
Il racconto di
Hadubrand
si muove già in piena leggenda:
Theotrihhe sarebbe stato esiliato
dall'Italia da Otachres e sarebbe
rimasto in esilio in oriente per trent'anni, presso gli Unni, prima
di ritornare alla riconquista della
patria (Meli
1991). È a questo punto che
Hildebrand
incontra il figlio che aveva
lasciato in Italia trent'anni
prima. Nella realtà storica,
tuttavia, Teodorico giunse
semplicemente in Italia per
strapparla a Odoacre.
― (38)
L'espressione prut in bure
«nella dimora della ragazza» (con prut
< *brut) è un costrutto
allitterante che costituisce
un'espressione poetica fissa,
presente in molti altri
componimenti germanici (la troviamo
attestata persino nella lirica
medio-inglese del XIV secolo: a
burde in a bour «una fanciulla
in una dimora»).
(Onesti 1995¹)
― (40)
Arbeo laosa «senza eredità»:
questa espressione è un hápax
in tedesco. Per quale ragione il ragazzo
sarebbe stato privato della sua
eredità? Si è ipotizzato che
Hadubrand
fosse un figlio naturale, o che
fosse rimasto senza beni data la
condizione di esiliato del padre,
cacciato da Otachres.
― (42)
Il manoscritto originale qui ha
deet, che non avendo senso
viene solitamente emendato in
des (genitivo del pronome
dimostrativo der «questo,
quello»), riferito al
fateres mines del v. 44
(nel senso di «proprio del
padre mio»).
― (45)
Anche friuntlaos «senza
amici» è un hápax in
tedesco, anche se il composto è
attestato sia in norreno che in
anglosassone. Indica la condizione
di chi si trova privo di fidi
compagni che lo appoggino e lo
sostengano. A prima vista sembra
che friuntlaos si riferisca
a Theotrihhe, nonostante al v.
35 si
fosse detto che questi avesse con
sé molti seguaci.
Può darsi invece si riferisca allo
stesso
Hildebrand.
― (49)
Il testo originale ha qui unti
che, essendo senza senso, viene
emendato con miti (miti
Deotrichhe «con Teodorico»). La
confusione di mi con un
è un comune errore visuale, dal
quale si deduce che il copista non
scriveva a memoria né sotto
dettatura, ma copiava da un altro
manoscritto. Doveva esistere dunque
un'altra stesura del poema ancora
più antica di quella che ci è
pervenuta. ― (54)
Il discorso di
Hadubrand
si chiude con un semiverso privo di
allitterazione. Non vi è tuttavia
bisogno di ipotizzare una lacuna
del testo: potrebbe trattarsi
invece di un'irregolarità metrica
per la quale si ha un verso breve
(formato da un solo emistichio) in
luogo di un verso lungo (di due
emistichi). Una medesima
irregolarità si produce
successivamente al v. 69. 
55-64
― (55)
Quad «disse» introduce una
particolare formula nel quale il
verbo precede il soggetto: si
tratta di un inciso sintattico che
ritroveremo altre due volte nel
corso del poema (vv. 88
e 106).
Il termine wettu può
essere interpretato in due modi: o
è il verbo wizzan «sapere»
combinato col pronome personale
suffisso di seconda persona
singolare (weist du >
wettu), quindi «tu sai», oppure
è la prima persona singolare del
verbo weizzen «chiamare a
testimone», quindi «io chiamo a
testimone». Il termine Irmingot
«eccelso Dio» può essere sia
nominativo che accusativo, e non
aiuta a sciogliere
l'ambiguità. Gli interpreti del
poema via via scelto l'una o
l'altra ipotesi. In questa
traduzione seguiamo la lezione di
Nicoletta Onesti che traduce:
«Invoco a testimone il grande Dio
del Cielo»
(Onesti 1995¹).
― (57)
Hevane «cielo» è una forma
basso-tedesca (cfr. alto tedesco
himil).
― (60-61)
Wuntane bauga «attorcigliata
armilla»: ci si riferisce
probabilmente ai tipici torques
d'oro e d'argento, attorcigliati su
sé stessi, di cui gli archeologi
hanno rinvenuto molti esemplari in
molti siti del dominio celtico e
germanico. In questo caso si
specifica che il bracciale di
Hildebrand
sia stato forgiato a partire da
monete d'oro coniate nell'impero
bizantino (cheisuringu
«moneta imperiale» è parola
composta su da keisur
«imperatore»), com'era uso presso i
signori barbarici, i quali donavano
ai capi e ai guerrieri del loro
seguito ornamenti e pezzi d'oro con
i quali venivano sanciti i patti di
fedeltà.
― (62)
Anche se non è citato
espressamente, è assai probabile
che il «re degli Unni» [Huneo
truhtin] qui citato altro non
sia che Attila, il quale è passato
nel mito germanico con connotazioni
positive. Anche se storicamente
Attila e Teodorico non furono
contemporanei, la leggenda
germanica vuole che Teodorico abbia
trascorso parte del suo esilio
presso il re Unno. Alla base vi è
probabilmente il ricordo del
periodo in cui gli Ostrogoti furono
alleati degli Unni, ai tempi del
padre di Teodorico. 
65-81
― (67-68)
«Con le lance devono gli uomini
accettare i doni» [mit geru scal man geba infahan]:
la frase pronunciata da
Hadubrand
suona come un detto proverbiale, sul tipo di quelli che compongono l'Hávamál
veteroeddico. Sembra alluda a una
consuetudine effettivamente
attestata nell'Alto Medioevo,
presso Longobardi, Franchi e
Scandinavi: l'uso di scambiarsi
doni sulla punta di una spada o di
una lancia.
(Onesti 1995¹)
― (69)
Come al v. 54,
abbiamo anche qui un semiverso
privo di allitterazione. Non c'è
bisogno di ipotizzare una lacuna
del testo: potrebbe trattarsi
invece di un'irregolarità metrica
per la quale vi è un verso breve
(formato da un solo emistichio)
invece di un verso lungo (di due
emistichi).
― (70-71)
La desinenza -er degli
aggettivi forti alter
«vecchio» e spaher «saggio,
scaltro» è chiaramente
alto-tedesca
(Onesti 1995¹). L'appellativo «unno»
[hun], rivolto qui da un
campione dell'esercito di Otachres a
un vecchio guerriero ostrogoto
alleato degli Unni, suona ironico
se non apertamente dispregiativo. ― (77)
Il composto poetico
sęolidante
«naviganti del mare» è un hápax
in alto tedesco e raro in basso
tedesco e anglosassone. ― (78)
Wentilsęo
«Mare dei Vandali» è il nome
germanico del Mediterraneo,
attestato anche in anglosassone.
Probabilmente il termine dovrebbe
essersi formato presso i Goti, nel
periodo in cui i Vandali insediati
in Africa avevano il controllo
sulle isole del Tirreno, tra il V e
l'inizio del VI secolo. Non è
chiaro tuttavia se il testo si
riferisca al Tirreno o
all'Adriatico, a seconda che
westar indichi lo stato in
luogo («in occidente») o il moto da
luogo («da occidente»), se cioè
siano stati i naviganti del Tirreno
a portare ad Hadubrand la notizia
della morte del padre, o se gliela
abbiano recata provenendo
dall'Adriatico
(Onesti 1995¹). 
82-116
― (88)
Reccheo «esule» (< protogermanico
*wrakjo-) mostra una
fonetica decisamente alto-tedesca.
L'allitterazione di reccheo
con il riche del semiverso
precedente, mostra che questo verso
non può essere molto antico, in
quanto la caduta di [w]
iniziale davanti a [r]
si è verificata in alto tedesco
soltanto nel corso dell'VIII
secolo.
(Onesti 1995¹)
― (90)
Il composto wewurt (da we
«dolore» e wurt «destino») è
un hápax, che allittera con
l'interiezione welaga «ahi!»
presente nel semiverso precedente.
― (91-92)
«Estati e inverni, sessanta» [sumaro enti wintro sehstic],
cioè trent'anni. Il calcolo del
tempo non viene fatto secondo gli
anni solari, ma secondo i
misseri, le due stagioni
semestrali che dividevano l'anno
nell'antico calendario germanico.
Ci si riferisce qui alla tradizione
leggendaria dell'esilio trentennale
di Theotrihhe dall'Italia
(Meli 1991).
― (94)
Sceotantero «lanciatori»
pare indichi qui un tipo di
guerrieri presenti nelle file
avanzate dell'esercito: arcieri o,
più probabilmente, lancieri.
― (96)
Bana «delitto, uccisione,
assassinio» è termine assai raro in
tedesco, ma diffuso in
norreno, sia nell'epica eroica dove
lo troviamo in composti tipo
Hundigsbani «uccisore di
Hundingr» (epiteto dell'eroe
Helgi),
sia nel linguaggio giuridico (dove
si distingueva ad esempio tra il
mandante e il sicario, detto l'uno
ráðbani «assassino [tramite] un
piano» e l'altro handbani
«assassino [tramite] la mano»).
― (99)
Breton «infrangere» e
billiu «lama» sono due voci
poetiche molto rare in tedesco, che
hanno confronti soltanto nella
poesia anglosassone.
― (105-106)
Enic reht habes «se mai ne
hai il diritto» allude, a un primo
livello di lettura, al diritto del
vincitore a impossessarsi
dell'armatura del vinto. Questo è
probabilmente l'unico senso che
Hadubrand
può dare alle parole di
Hildebrand.
Ma la frase è molto più sottile, in
quanto allude più al
diritto di
Hadubrand di ereditare
legalmente l'armatura del padre,
diritto che perderebbe qualora si
macchiasse di parricidio.
― (107)
Argosto, qui tradotto «il
più infame», è superlativo assoluto
dell'oltraggioso aggettivo arg,
lesivo per la dignità maschile
presso tutti i popoli germanici. È attestato
presso i Longobardi dove arga
era una voce espressamente
contemplata come ingiuriosa
nell'Editto di Rotari: «Si qui
alium per fororem arga clamaverit,
et negare non potuerit, et dixerit
quod per fororem dixisset, tunc
iuratus dicat quod eum arga non
cognovisset»
(Edictum
Rothari [381]). Paolo
Diacono narra la storia del
valoroso sculdascio Argait che così
viene insultato: «E come potresti
comportarti valorosamente, con un
nome come Argait, che deriva da
arga?» [Quando tu aliquid
fortiter facere poteras, qui Argait
ab arga nomen deductum habes?]
(Historia Langobardorum [VI:
24]). In anglosassone earg vuol
dire «ignavo», da cui l'inglese
arch «furbo, malizioso». La
voce è parimenti attestata nel
norreno argr dove alla
nozione di vigliaccheria si associa
un difetto di virilità, donde il
significato di «effemminato». Costretto a
vestirsi da donna, il dio del tuono
Þórr
commenta: «tutti gli
Æsir mi chiameranno argr»
[mik muno æsir argan kalla]
(Þrymskviða [17]). Vi erano
anche dei proverbi: «lo schiavo si
vendica, ma non l'argr» [þrællin
hefnir en argr aldri]
(Grettis saga [92]), «è
veramente un argr chi non
difende sé stesso» [argr er sá
sem engu verst]. Per estensione, il termine viene ad assumere anche il
significato di «vile, codardo» (Cleasby & Vigfússon 1874).
Su questa
linea si muovono le traduzioni
italiane: «vile»
(Prampolini
1949) «spregevole»
(Onesti 1995¹). ― (108)
Ostarliuto, probabilmente
gli Ostrogoti (da austro >
ostro «oriente»), forse la coalizione tra
Ostrogoti e Unni. Prudentemente la
Onesti traduce con «popolo
d'oriente»
(Onesti 1995¹).
― (111)
Gudea (< *gunthi-)
«duello, tenzone, battaglia» è
termine rarissimo fuor di composto
(cfr. guðhamun al v.
5),
qui attestato come il relitto di
un arcaico linguaggio poetico
(Onesti 1995¹).
― (112)
Niuse de motti presenta
un'ambiguità di traduzione.
Infatti, se niuse è la terza
persona singolare del congiuntivo
presente di niusen
«riuscire, decidere», de motti
può essere inteso in due modi: o
«il duello» (con de articolo
seguito dal sostantivo
motti «duello», cfr. muotin
al v. 3),
o «chi può» (con de pronome
relativo e motti inteso come
del verbo muozan «potere»,
cfr. muotti al v.
114).
Il senso del verso oscilla dunque
tra o «decida il duello» e
«riesca chi può»
(Onesti 1995¹).
― (114)
Seguiamo qui la lezione della
Onesti, che emenda in
rumen la forma del
manoscritto, che ha hrumen,
ipotizzando che l'h-
iniziale sia stata inserita dal
copista per ipercorrezione, anche
se non è pertinente (come accade ad
esempio in gihweit per
gihwet al v.
32,
o in birahanen per
bihrahanen al v.
105);
rumen significa «lasciare,
privarsi»; se invece era giusta la
grafia originale, il verbo sarebbe
hruomen «vantarsi,
gloriarsi».
(Onesti 1995¹)

117-127
― (119)
Il significato letterale di
scarpen scurim è «pioggia
sferzante». L'associazione tra la
violenza della tempesta e quella
della battaglia è un'immagine
consueta nella poesia germanica.
― (121)
Stoptun, probabilmente da un proto-germanico *stopjan/*stopen
«avanzare, discendere»: questo
verbo sembra confermare l'ipotesi
che i due eroi fossero a cavallo
(come già suggerito dal ritun
al v. 11),
deduzione che altri autori
(Onesti 1995¹)
non ritengono necessaria.
― (121)
Staim bort chludun
«spaccarono i ripari decorati» è un
verso assai problematico, anche se
il significato sembra chiaro. La
seconda parola, bort, è un
hápax in tedesco, ma è
attestata in anglosassone dove è
uno dei termini per «scudo».
Staim è termine più incerto:
potrebbe significare
«combattimento» (cfr. medio tedesco
steim), oppure potrebbe
essere una variazione di stein
«pietra», forse indicando le
pietruzze o le lamelle colorate
usate come ornamento negli scudi
dei personaggi di rilievo. Quest'ultima
è l'interpretazione della Onesti
(Onesti 1995¹),
di cui seguiamo la lezione, anche
se è ragionevole presumere che tali
scudi decorati venissero usati più
per le parate che sul campo di
battaglia. In quanto a chludun
si tratta forse di una variazione
ortografica per hludun che
può essere l'aggettivo «risonanti»
o il verbo «risuonare» (soggetto
«gli scudi decorati»). Secondo la
proposta di correzione avanzata
un secolo fa da Friedrich
Kluge, chludun andrebbe
emendato in chlubum,
preterito di klioban
«spaccare» (e in questo caso «gli
scudi decorati» sarebbero da
intendere come complemento oggetto)
(Kluge 1919). Si tratta in
ogni caso di espressioni formulari
della poesia eroica germanica.
― (124)
Huittę scilti:
i «bianchi scudi» vanno intesi in
come «splendenti, levigati,
chiari» (cfr. latino albus,
nel quale si confondono le nozioni
di «bianco» e «luminoso»). Si
tratta di un tópos comune in
tutta la poesia eroica germanica,
nella quale le armi, gli scudi e le
armature sono detti
«bianchi» (e così
era detto anche l'elmo di
Bēowulf).
― (127)
Wabnum «armi» ha una grafia
problematica. La parola deriva dal
protogermanico *wēpna «arma»
(cfr. inglese weapon), e
avrebbe dovuto passare per una
forma *wapnum prima di
arrivare, attraverso la seconda
mutazione consonantica, all'alto
tedesco waffan. Ci si
aspetterebbe di trovare qui un «wapnum»,
ma l'ortografia con -b- è
davvero inusitata. È assai
probabile che, arrivato alle ultime
righe del testo, il copista abbia
lasciato degli errori di scrittura.

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