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UGROFINNI
Finlandesi

MITI UGROFINNI
Domenico Ciàmpoli
KALEVALA
PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE DI IGINO COCCHI - 1909
PREFAZIONE 1909
Bibliografia
Domenico Ciàmpoli
KALEVALA
PREFAZIONE ALLA TRADUZIONE DI IGINO COCCHI. 1909
 
Igino Cocchi, uno scienziato acuto e profondo, nella sua verde vecchiezza, ha compiuto un'opera che avrebbe disperato il più audace: ha tradotto in italiano le cinquanta rune del Kalevala, il celeberrimo poema nazionale de' Finni. Io, che aveva fatto alcuni tentativi di versione, parte pubblicati e parte inediti, e che era rimasto turbato dalle enormi difficoltà d'ogni sorta da vincere; ora son lieto di poter premettere al lavoro, felicemente terminato dal mio venerando amico, le parole augurali, le quali devono accompagnare ogni bella opera, che dalle altre contrade del mondo venga a viver la vita della terra nostra.
Però che a me sembra questo essere stato l'intendimento del traduttore: rendere italiano il poema finnico, sì che grave fatica o fastidio non desse un esotismo troppo lontano dal nostro gusto e quasi repugnante all'indole raffinata della tradizione letteraria nostra. Pensiero nobilissimo e impresa ardua nell'un tempo, la cui riescita suppone una vigile attività mentale con un'agilità di linguaggio e di spirito superiori, senza contar la preparazione linguistica, letteraria, etnografica, mitica, la quale vuole istinto del difficile, volontà tenace.
E il nostro Cocchi visitò la Finlandia; ne apprese l'idioma; ne studiò il paese, la storia, la fauna; vagò per acque e foreste; indagò sulla stirpe, sulla storia, su' costumi, sul canto, sulla musica; penetrò nelle scuole, nelle università, nelle accademie, come nelle capanne, nelle stalle, nelle fattorie; conobbe arti e scienze; bene augurò dell'avvenire; divenne, per dir così, ospite prima, cittadino finlandese poi; e con tenerezza filiale scrisse infine il magnifico libro sulla Finlandia, che volle dedicare al nostro e al popolo finno, unendoli nello stesso affetto. Ivi son le prime tracce della fatica ora compiuta, dopo altri sei anni di assiduo lavoro. Ivi si trovan di fatto cinque capitoli dedicati alla disamina e alla divulgazione del Kalevala con un'appendice, ove son tre fra le rune principali tradotte.
In tal guisa egli potette comprendere l'anima del popolo, e lo spirito vivificatore del poema, nato di popolo nelle più remote lontananze del tempo. E n'ebbe la visione che già il poeta Runeberg rivelava. — Strano paese la Finlandia! Fra le sue coste e l'interno è una immensa differenza: là sfilano villaggi dietro villaggi, fattorie dietro fattorie; qua si può camminare molte e molte miglia senza incontrare una capanna, la quale di solito siede sul pendio d'una landa sterminata, o giace seminascosta in un padule. Ivi il mare, così potente com'è, porta di rado l'impronta della divinità: solo nella profondissima calma vi si sente l'infinito: sconvolto dall'uragano, il dio colà si trasforma in un gigante, e l'uomo non prega più, ma si prepara alla lotta. Quell'uomo è però lo specchio di ciò che lo circonda e riflette nell'anima tutte le impressioni; onde il suo cuore vergine e audace ama il lido del mare; e di niente più s'impaura che del fitto buio d'una selva. Si gira là come sull'abisso del mare medesimo, in una calma monotona, perenne: sul capo non s'ode che il turbinar del borea sugli abeti o sulle cime d'altri alberi che toccano le nuvole; tratto tratto s'incontra, come discesa in un mondo sotterraneo, un lago di selva, sulle cui sponde ispide e boscose non soffia ala di vento e il cui specchio non s'increspa che pei bizzarri salti de' castori a torme o pel nuoto d'un mergo solitario, e riflette a' nostri piedi profondissimo il cielo sereno. Ci sentiamo come circondati da spiriti. Altre volte udiamo mormorare un ruscello, che par vicino ed è invece perduto in una sabbiosa landa irta d'erbacce o di piante in fila; diventa stagno, d'onde sorgono migliaia di betule, e il cielo, traverso una inestricabile rete di rami e fronde, compare a frappe larghe quanto una mano. Dopo lungo errare nella selve, si riesce nella landa; ed allora, come per incantamento, si stendono davanti all'occhio in parvenze mutevoli sempre paludi e paduli con isole e cime verdeggianti, strisce d'acqua, campi e poggetti. Meravigliosi gli scherzi cangianti di luce e di tenebre, che s'abbraccian d'uno sguardo solo da' prossimi abeti neri d'una vallata stagnante sino alla foresta di pini che emerge lontana e di betule che coronano i fianchi all'altura dominatrice d'ogni cosa; e lo spettacolo diventa sublime se il sole d'un giorno estiva squarciando le nuvole, inonda il panorama con le mille gradazioni di colori. Teodoro Mügge scrive: «La Finlandia è la figlia perduta del mare. Tutti i canti la chiamano un'isola: e fu un tempo che le onde dell'oceano la tenevano sommersa: l'intero paese è di granito, che dove non è rupe nuda, si copre di selve; dove non è lago, è palude». Un mare di nebbia talora l'avvolge, donde sbucano con livido pallore di spettri, vette d'alberi o punte rocciose; poi, dileguata la nebbia, appaiono pianure verdi smaltate di fiori, laghi azzurri con vele lontane. E si pensa melanconicamente alle fatiche sempre nuove, amare e quasi inutili di ch i chiede a quelle selve, a quegli stagni il pane quotidiano. Vedi capanne d'informi tronchi di pino, nere pel continuo fumo che vi gravita dentro ed esce lento da' buchi pei quali penetra rada l'aria e più rado un raggio di sole o di stella. Famiglie intere stentan là dentro pacificamente confuse con le bestie, lavorando o dormendo, nella più squallida miseria o ne escono per lottare contro le intemperie e i geli. Ogni finno è cacciatore e pescatore: con l'agile barchetta scende persino il pendio delle cascate; co' pattini aguzzi sale le guglie di ghiaccio. È calzolaio, muratore, fabbro; dee far tutto da sé. Lento, calmo, paziente, parla a monosillabi: raccoglie nel silenzio una forza d'animo meravigliosa, che è sovente coraggio, ostinatezza, bontà. Ama la sua antica miseria, le sue terre desolate; lontano da loro, anche fra le agiatezze sontuose e gli splendidi soli, egli morirebbe, tanto è l'affetto che lo lega a quella vita.
E furono e sono tutti poeti, anonimi, senza distinzione di classi, di mestieri, di luoghi; non aedi, non scaldi, non cantori naturali, laulajat, runojat, come usignoli o cuculi, che perpetuan fra' loro ne' secoli i canti che originarono le raccolte del Kalevala per l'epico-lirica e del Kanteletar, per la lirica ed altre rivelazioni demografiche. E se è vero che il leggere questi due libri val quanto fare un viaggio in Finlandia, il viaggiare in Finlandia è ascoltare il contenuto di que' libri e forse cose anche migliori, che i dotti si affrettano a fissare nello scritto. Io stesso, nelle brevi escursioni estive presso il Ladoga, ho potuto fare modestissime note. E moltissime si son fatte e si possono fare in Estonia, in Germania, in Lituania, fra i Setukesi, che accrescon tesori di novelle rivelazioni agli elementi già conosciuti.
Ma, del Kalevala, ormai sarebbe ozioso far lungo discorso dopo l'opera sovrana del Comparetti, che ha superato tutto quanto la scienza finlandese ed europea ha pensato e scritto sull'argomento di quell'epopea e sulle origini delle grandi epopee nazionali. La luce che il dottissimo uomo ha fatto intorno a questo strano fenomeno è così fulgida, che passeranno ancora moltissimi anni prima che fatti nuovi e ricerche fortunate e geniali interpretazioni giungano ad accrescerla. Le più profonde discussioni e investigazioni della critica non han potuto neppure intaccare i capisaldi di quell'opera insigne. È solo a deplorare che essa, chiusa negli splendidi ipogei degli Atti de' Lincei, non abbia, come in Germania, la diffusione desideratissima in Italia., dove i canti finnici han trovato simpatia, per opera di viaggiatori e letterati, che ne han dato, sia pure a lunghi intervalli e in frammenti, notizie e saggi, come l'Acerbi, il Cattaneo, il Cantù, il Pizzi, il Teza, il De Gubernatis, il Fogazzaro, il Cannizzaro, il Boner, il Pavolini, che prepara l'intera traduzione in versi, il De Silvestri-Falconieri, che ha già dato all'editore tutta la sua traduzione in prosa, e, ultimo fra tanti egregi, io stesso. E avevo divisato di premettere a questa traduzione un fedele sunto dell'opera del Comparetti; ma la relativa lunghezza ne ha dissuaso, se ben meglio non si potesse fare. parliamo invece della traduzione.
Il Cocchi si è trovato di fronte a un poema vivente, unico al mondo, il quale, cantato tuttora dal Baltico al Mar Bianco, dal Ladoga alla Dvina, in rune sempre tradizionali antiche e pur sempre rinnovantisi nel linguaggio popolare, fu contesto con verginale candore e profonda dottrina da Elias Lönnrot, che dal 1828 al 1849 consacrò la vita e l'ingegno, andando non senza pericoli e disagi, raccogliendone gli elementi per le foreste e le brughiere, per le sponde de' mille laghi e per litorali nevosi. Un poema, quale egli, pur morendo nel 1884, lasciò nella definitiva sua edizione del '49, composto di ventiduemila ed ottocento versi, superiore di settemila all'Iliade. Un poema, così per dire; ché si risolve invece in un séguito di canti, di episodi legati fra loro con fili sottilissimi, e talora senza logica e coerenza. Ivi, dice il grande maestro fiorentino, «l'amore, la gioia, il lutto; la magia, il mito, il meraviglioso, ogni sentimento o pensiero o ricordo può essere espresso da uno che è però la voce di tutti, perché in tutti è comune la stessa lingua, la stessa poesia, con varianti infinite, poesia che nell'insieme appare come materia fluttuante in istato perenne di trasformazione, di scomposizione e di ricomposizione, conforme alla vera poesia popolare». Il Lönnrot colse l'aspetto più fedele di tal poesia e la fermò nelle cinquanta rune, dandole il nome di Kalevala, «Terra degli eroi», da Kaleva, progenitore mitico de' Finlandesi; ma così diversa di contenuto e di epoche, risalendo dalla più remota antichità fino alla introduzione del Cristianesimo, non poté lasciarle che la unità esteriore del verso ottonario allitterato e la unità interiore molto incerta e confusa, risultante dal frequente ricomparir de' tre eroi principali, Väinämöinen, Ilmarinen, Lemminkäinen. Non si può dare il sunto del poema, se non seguendolo col sommario d'ogni runa. In breve, esso canta la formazione del cielo e della terra, la nascita di Väinämöinen, l'eterno cantore; gl'incantamenti, le formule magiche con le quali lo sciamano doma gli elementi, trionfa su' nemici, guarisce gli infermi, stagna il sangue, o dà precedetti su' doveri agli sposi; tristi idilli, avventure tragiche e infine le lotte degli eroi, che combattono più con mezzi magici che con le armi in pugno. Ma qual fatto celebrino que' cicli di rune quasi indipendenti, non è dato determinare, perché anch'essi slegati. Tuttavia il Cart crede distinguervi due parti. La prima ha per soggetto la conquista della bella fanciulla del Pohjola (il nord, la Lapponia), «gloria della terra, ornamento delle acque, risplendente nelle candide vesti», tentata da due o tre del paese di Kaleva (la Finlandia?). Questi eroi sono: il vecchio Väinämöinen, il divino cantore, che personifica la poesia finnica; Ilmarinen, l'abile fabbro del Sampo, specie di palladio ambito da tutti, e Lemminkäinen, il giocondo seduttore, al quale non resistono donne e fanciulle. Ilmarinen, mercè l'aiuto magico della vergine di Pohjola, la vince su' rivali; si celebrano le nozze magnifiche, ove Väinämöinen canta per la prima volta l'origine della birra, «venuta al mondo col concorso dell'acqua e della fiamma ardente». La seconda parte è consacrata alla ricerca del Sampo, rimasta al Pohjola dopo le nozze d'Ilmarinen. I tre antichi rivali si uniscono per questa spedizione. Dopo molte lotte, d'onde esce vincitore Väinämöinen, con la potenza magica e l'incantamento de' carmi, ch'egli dice accompagnandosi sul melodioso kantele, gli eroi del Kalevala s'impadroniscono del Sampo e fuggono sul mare; ma la «madre di famiglia» del Pohjola, cangiata in aquila marina, li raggiunge. Il Sampo si spezza, mentr'ella vuole impadronirsene e non può portarne via che un frammento al Pohjola; onde la povertà del suo paese. Ma anche questa divisione è arbitraria, che non regge di fronte all'esame delle rune, ribelli in verità a un organismo epico, nel quale gli eroi non agiscano bizzarramente ciascuno per proprio conto, che paion princìpî di azioni eroiche che poi non han séguito o svolgimento e che fan pensare a molte rune perdute nel tempo.
E non solo questa immensa fioritura poetica boreale il Cocchi aveva davanti; ma per poterne gustare il profumo, goderne la bellezza e rivelarne con la propria lingua l'essenza meravigliosa, bisognava penetrare le irte macchie della erudizione critica, sia come guida alle interpretazioni più certe, sia per conoscere la letteratura del proprio soggetto, sia per evitare gli errori dei traduttori che lo avevan preceduto o averne lume. Questo era viaggio ben più arduo di quello che gl'ispirò La Finlandia. Bisognava studiar l'Ahlqvist, l'Acenius, l'Atlmann, l'Appelgren, l'Aspelin, il Beauvois, il Borenius, il Calamnius, il Carrière, il Castrén, il Chydenius, il Collan, il Cyneus, il Delâtre, il Donner, l'Eisen, l'Europeus, il Falander, il Friis, il Fählmann, il Ganander, il Geffroy, il Genetz, il Gottlund, il Grimm, l'Heitel, l'Herrig, l'Herzberg, l'Israel, il Kajaani, il Kellagren, i Krohn, il Lamonius, il Lancqvist, il Lénström, il Léouzon Le Duc, il Lindfors, il Lönnrot, il Mannhardth, il Mone, il Müller, il Neus, il Perander, il Polevoi, il Porthan, il Rein, il Retzius, il Sehalin, lo Schiefner, lo Schott, il Setälä, lo Steinthal, il Tettau, il Tengström, il Topelius, il Tuder, Af Ursin, il Weske, il Wiedemann, e su tutti, il Comparetti nostro, da ciascuno de' quali poteva tratte materia di studio sulla magia, la lingua, la metrica, l'etnografia, gli usi, i costumi, una vera enciclopedia finnica, senza la quale il poema offre buie plaghe inestricabili. Né l'esempio delle versioni altrui era da trascurarsi; e sebbene non tutte di valore eguale, notevole ognuna per pregi singolari, come la svedese del Collan, la tedesca del paul, la inglese del Crawford, la francese del Léouzon Le Duc, la ungherese, perfetta, del Barna.
Con questa solida preparazione, coll'aver cioè visitato il paese, coll'averne appresa la lingua, con la conoscenza del poema e della critica relativa, il Cocchi, toscano per giunta, aveva molte delle qualità necessarie a tradurre un poema come il Kalevala, tanto differente dagli altri. Ma qual forma adoperare? La prosa? Il verso? E qual verso?
Il traduttore dunque, conscio delle svariatissime e armoniose consonante ritmiche delle rune e anche del runoseppi, runon mitta, runon rakennus, o dottrina e struttura metrica finna, si è provato con ingegnosi tentativi ad imitarle, ad avvicinarsi possibilmente all'andamento se non del verso, almeno del periodo metrico. E qui si scorge l'amorevole lavorio di piegare la lingua nostra, eminentemente classica, al bizzarro e pur naturale gorgheggio, trillo, arpeggio del finno, le cui modulazioni infinite di perenni allitterazioni e rime e assonanze e ripetizioni formano un concerto inimitabile negli altri idiomi, o almeno imitabile solo coll'ungherese. Il Cocchi tentò da prima il decasillabo, ritmo dattilo-anapestico, sostenibile solo per poco e scelto forse perché trattavi della runo aloitteleikse, di quella ch'egli intitola «prologo» e ch'è la parte essenziale della Prima Runa, prologo che nel testo si riduce a' primi 102 versetti. Or la tripodia dattilica con anacrasi bisillabica gli offriva bensì tre schemi, ma l'accento sulla terza, sesta e nona, obbligavalo ad una sonorità così molesta che egli fu obbligato a temperarla con l'uso degli sdruccioli e de' tronchi. L'italiano, men denso del finno talora, e tal'altra più sintetico, costringevano a concessioni sulla fedeltà, che non potevan sembrar accettabili a chi volesse essere severo trascrittore; e però i 102 ottonari finni diventaron 97 decasillabi, con rime al mezzo qua e là, e rime finali occasionali, e allitterazioni relativamente spurie.
Scelse poi fra i ritmi giambici il tetradecasillabo, quasi l'alessandrino francese, con rime baciate, e volle negli emistichi la varia ricchezza degli otto schemi: ora la tripodia giambica col tronco, ora la tripodia doppio-ipercatalettica con lo sdrucciolo, ora solo ipercatalettica col piano, e lasciando sempre fisso l'accento sulla sesta sillaba e variandolo nelle precedenti, procurò di farci risentir le grazie primitive di fra Bonvesin da Riva, di fra Giacomino da Verona, di Uguccione da Lodi e di Cielo d'Alcamo. Ma neppur questo dovette appagarlo: era ritmo troppo concitato, troppo eroico talora, e talora troppo andante e familiare, massime nella runo della cosmogonia, e con la tirannia della rima che obbligavano a costruzioni per le quali il senso abbuaiavasi, com'è avventuo per gli ultimi quattro versi del primo canto, versi del resto tradotti male in tutte le lingue.
Ma il Cocchi non era uomo da darsi per vinto, e provò l'ottonario, il ritmo trocaico dell'originale, che, a parer mio, gli doveva sembrare il più semplice e il più adatto. Nelle due dipodie trocaiche, con le attenuazioni agli accenti ritmici e la iperesi ne' primi piedi, egli poteva in qualche modo seguir la correntia del testo, massime se, variando l'acento fisso sulla terza, e seguendo i saggi che s'incontran nella nostra letteratura del secolo XIII e nel XV, avesse resa ancor men sensibile la monotonia del quaternario accoppiato, sia adoperando opportunamente sdruccioli e tronchi, sia non determinando l'accento in alcun verso. Io ho letto le cinque rune del Kullervo, tradotte in ottonari, e coscienziosamente parlando, le preferisco alla versione in endecasillabi, della quale parlerò appresso. Ma la monotonia delle continue dipodie spaventò il Cocchi: egli pensò che un italiano, costretto a leggere cinquanta canti in ottonari, avrebbe potuto commettere eccessi da folle e contro il traduttore e contro il poema; pensò anche che non tutti conoscono il testo e che solo i pochi conoscitori avrebber gradito le lunghe litanie ottonarie, e che pertanto la sua opera di divulgamento sarebbe rimasta lettera morta. La prova ben riuscita del Kullervo, ch'io prediligo, non valse a perduaderlo: lo persuasero invece la tradizione nostra letteraria, la duttilità di un verso più agevole e più lungo, la volontà d'essere almeno sopportabile a' lettori e infine lo stesso magistero ch'egli sentiva di possedere, e scelse l'endecasillabo sciolto, come quello fra i metri narrativi, che più del sirventese, della terza, sesta, ottava e nona rima, rispondeva al suo disegno di «far leggere» senza stento il mirabile poema. E non aveva per sé il Trissino, il Caro, il Cesarotti, il Monti, il Maffei? Vero è che questi grandi artefici di sciolti trattavan ben altro genere narrativo; ma il Cocchi riportavasi anche all'endecasillabo popolare, che si approssima pur tanto al trimetro giambico. V'è di più; l'endecasillabo co' suoi quarantotto schemi presentava una sconfinata varietà d'accenti, di cesure, di dieresi, di arsi, di tesi, e conteneva l'ottonario, del quale buon saggio aveva dato versificando la Leggenda di Aino. Ma l'endecasillabo sciolto non gli conciliava facilità e libertà: gli dava obblighi esatti e precisi, soprattutto vincolandolo con l'armonia di tutti i versi isolati ch'esso contiene, e vietandogli la tentazione di rasentar la prosa. Così, la scelta del ritmo e del metro fu definitiva. Non io assentii di buon grado, anche perché i vari esperimenti con l'ottonario trocaico, tentato pur da me nella versione della prima e decima runo, davan vaghezza, novità e nobiltà a ciascun canto, e avevan quell'aura esotica e remota che respirasi leggendo il testo. Un Kalevala in endecasillabi è, in senso inverso, un'Iliade in ottonari. Ma con ciò non intendo riprovar l'opera per la scelta del ritmo; intendo notar la immane fatica d sostener tal genere di verso per decine di migliaia, giungendo alla meta di non assonnare il lettore. E veramente il Cocchi ha in molti punti toccata la eccellenza dell'arte narrativa, senza grave discapito del senso letterale.
Solo, la «runa» è diventata «canto», come partizione di poema nostrale, il che non è per me la stessa cosa, ma è pel Cocchi, che non ha voluto far opera di filologo e di «virtuoso», sedotto un po' da' liberi esempi del Firenzuola, dell'Anguillara, del Caro, del Baccelli, che però avevan da fare con Apuleio, con Ovidio, con Vergilio e con Omero. Qui è entrata la letteratura, che nelle virginee forme finniche non è, essendo essa poesia d'illetterati, colletiva, naturale. E però il Kalevala del Cocchi è poesia d'arte ben diversa dall'arte incosciente del runoia. La runa, sempre forma elementare, è come un tutto a sé, una entificazione epico-lirica, che vive e può vivere isolata, indipendentemente dal ciclo, dal poema, dalle stesse altre rune. Il canto invece nella sua odierna forma par abbia voluto sollevarla a dignità teorica, a organismo che fa parte d'un organismo maggiore e complesso.
Vero: il runoia accumula talora lunga serie di versi, anche di rune, se vuolsi, e lo stesso Lönnrot, forse più che comporre un vero poema, volle imitarlo, quasi laulaja, che canti per giorni e giorni interi senza mai stancarsi; ma questo tentativo di complicar la forma elementare, pur degno di studio, lascia sempre intatta l'origine frammentaria, che nella versione dilegua; e a ragione, perché il traduttore così ha voluto, tanto da evitare i molti parallelismi e le ripetizioni continue, e una non breve sequenza di versetti intraducibili e che nel testo dan vaghezza, varietà, rilievo ritmico e musicale. Chi legge il testo, non volendo, rifà l'opera del critico, e a ogni lieve illogicità, a ogni connessura, per dir così, evidente, a ogni cambiamento di tono, di valore, d'ispirazione, ripensa all'immenso materiale stesso e con l'altro posteriore. Nella versione invece la interpretazione finisce coll'amalgamar le incoerenze, col cementar gli sbalzi e i crepacci, coll'incivilire la rozzezza pur così ricca e smagliante. Era difficile far altrimenti, dato il sistema prescelto. Non di meno, in fondo in fondo, la formale unità, che il Cocchi ha tentato di ottenere, induce a riflettere che una latente (per me solo apparente) unità era pur nelle svariatissime rune, se il Lönnrot ha potuto più che comporre, ricomporre l'epopea dispersa nella incoscienza de' cantori. Ma nell'opera del Cocchi serbasi l'impronta individuale: la collettività si fa remota, come un ricordo. Qui tutto, la stessa forma del verso, ci scopre il proposito di non serbar l'indole schiettamente popolaresca e frammentaria di quella serie di rune, le quali con le varianti e le novelle collezioni potrebbero dar campo ad altre elaborazioni epiche o poemi che dir si voglia. Insomma, qui il traduttore si è fatto un poco autore, riescendo gradevole per quel sano sapore d'italianità nativa che ha versato ne' canti; il che non guasta per la moltitudine de' lettori; guasta per noi pedanti, che siam sempre pronti a dissertare sul valore d'ogni parola, e scriveremmo una dozzina di fitte pagine, come per esempio, su' quattro ultimi versi della prima runa, importantissimi per la nascita di Väinämöinen. Pur con ciò non intendo dire come l'amico Cocchi avrebbe dovuto fare; tanto più ch'io, «provando e riprovando», ,massime con un saggio che inviai anni or sono al nostro grande Comparetti, ho finito col darmi per vinto. Intendo dire quel che credo il vero, confessando che potre sbagliare. A volte il Cocchi va del pari col testo, a volte lo segue, a volte se ne allontana, e ciò potrei provare in raffronti, se invece di una prefazione facessi una recensione. La qual diseguaglianza io credo derivi sempre dal timore di diventar uggioso e illegibile. Questo non vuol significare che il traduttore abbia evitato le difficoltà, e abbia tolto di rincorsa, con balzi e salti, cose al poema essenziali; ha sol girato certi mai passi, che avrebbero formato la delizia, per esempio, del Pavolini e del Teza, insuperabili ricercatori di finezze nelle lingue più difficili e sagacissimi ritrovatori di equivalenti idiomatici, sì che le loro versioni risenton della lotta co' testi, alle quali dan gran parte della vita agile e potente dell'originale. Ma il Kalevala offriva ed offre tal densa boscaglia di prunaie e di rovi, tal fragranza inebriante di fiori e di frutti silvestri, tal misteriosa magia d'incantamenti e di prodigi, che il nostro primo dissodatore e interprete va lodato, senza riserve, pel coraggio, il buon gusto, la perseveranza ond'è giunto alla fine con giovanile letizia.
Già gli stessi Suomeni gli rendono reverente omaggio. Nella grande rivista finnica Valvoia, che dedica uno splendido volume al Kalevala, «Valvojan Kalevalavihko», fra i benemeriti italiani che si occuparono con amore della Finlandia e della sua letteratura, è messo tra i primi il Cocchi, che ora acquisterà da quella simpatica nazione titoli a gratitudine maggiore.
Questa sua traduzione, dopo i primi saggi, attendevasi con viva aspettazione; ed era naturale. Dopo il critico, era giusto che l'Italia desse il traduttore. Or chi conosce la squisita sensibilità del popolo di Suomi, e il fervore onde accoglie dagli altri popoli le prove di benevolenza e di affetto, comprenderà facilmente la gioia con la quale sarà accolta questa nuova versione. L'Italia, «la terra del sole e dell'azzurro, la terra de' sogni e di Dante, la gloriosa madre di civiltà», com'è detta la patria nostra da' poeti finnici, l'Italia dunque raccoglie quella nobile corona di canti e li fa suoi con intelletto d'amore? E davvero il Kalevala non sarà fra noi un esule solitario: esso avrà fra noi l'ospitalità larga e costante che hanno avuto finora tutte le fulgide creazioni del genio straniero.
Ora gl'Italiani posson leggere nella loro lingua, come le altre contrade d'Europa, intero il magnifico poema di que' Finni la cui vita nazionale è tanto ingiustamente, dolorosamente insidiata, e possono accrescere simpatia ed affetto per quel popolo, che ora soffre come essi soffersero; popolo buono e mite, laborioso e colto, il quale non aspira che a viver libero nella sognante vetusta tradizione e a ricantarla sino a' più tardi nepoti, sempre poeti, se pur industri e mercanti, pescatori, coloni o sapienti.
Al Cocchi la gratitudine dell'una e dell'altra nazione.

Domenico Ciàmpoli
Roma, maggio 1909

 

BIBLIOGRAFIA

  • AGRATI Gabriella & MAGINI Maria Letizia [introduzione]: Kalévala: Miti incantesimi eroi. Mondadori, Milano 1988.
  • CASTRÉN M.A. [Traduzione svedese e note]: (Gamla) Kalevala. 1835.
  • COMPARETTI Domenico: Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni. Accademia dei Lincei, Roma 1891.
  • COCCHI Igino [traduzione italiana e note]: Kalevala: Poema finnico. Società Tipografica Editrice Cooperativa, Firenze 1909.
  • LÖNNROT Elias: (Vanha) Kalevala. Helsinki 1835.
  • LÖNNROT Elias: (Uusi) Kalevala. Helsinki, 1849, 1887.
  • PAVOLINI Paolo Emilio [traduzione italiana e note]: Kalevala: Poema nazionale finnico. Remo Sandron, Palermo 1910.
  • PAVOLINI Paolo Emilio [traduzione italiana e note]: Kalevala: Poema nazionale finnico (ed. ridotta). Sansoni, Milano 1935.
  • SCHIEFNER Anton [traduzione tedesca e note]: Kalewala: Das Nationalepos der Finnen. 1852.
Biblioteca - Guglielmo da Baskerville.
Area Finnica - Vaka Vanha Väinö.
Prefazione di Domenico Ciàmpoli alla traduzione del Kalevala di Igino Cocchi (1909).
Pagina originale: 21.03.2008
Ultima modifica: 28.02.2017
 
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