PREFAZIONE
GLI DÈI ANTICHISSIMI
Cos'è il mito?
«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.»
Gian Battista Vico
All'inizio del 2010 mi venne in mente di scrivere alcune
favole mitologiche da pubblicare in occasione della festa del papà. L'idea base
del progetto era quella di dimostrare l'importanza della favola nel mondo
contemporaneo e il ruolo fondamentale dei padri nel raccontare ai propri figli
quanto di bello ci hanno tramandato i nostri antenati con lo strumento più
semplice, spontaneo ed immediato che essi erano riusciti ad inventare: il
racconto.
Accettai con entusiasmo il progetto e decisi di mettere
per iscritto cinque racconti mitologici, ciascuno dei quali aveva per me un
significato particolare, sotto il profilo dei miei ricordi e del mio vissuto.
Mia figlia Beatrice non aveva ancora compiuto cinque anni,
ragion per cui completai quella piccola fatica con la speranza che un giorno non
lontano avrei potuto leggere quelle fiabe anche a lei.
Invece, ancora una volta l'intelligenza e la profondità
dei bambini riuscì a stupirmi.
Complice una classica influenza invernale, mia moglie si
mise a sfogliare le pagine del mio libercolo e cominciò a leggere; gli occhi di
mia figlia cominciarono a brillare di un interesse che non mi sarei mai
aspettato alla sua età.
Quando seppe che a scrivere quelle storie era stato suo
padre, mi degnò di uno sguardo di totale adorazione che solo i figli sanno
donare. Poi mi fissò con il suo sguardo sornione ed intelligente e mi disse: —
Ma papà, tu mi devi raccontare la storia di quando non c'era ancora niente…
Ci bastò una breve occhiata d'intesa per capirci: mai
avrei pensato che qualcuno mi avrebbe chiesto di raccontare l'origine del cosmo
con tanto entusiasmo e men che meno una bambina in età prescolare.
Ma il seme era stato piantato, ormai, e non potevo
sottrarmi al mio dovere di storyteller; mi bastarono pochi minuti per
concepire l'idea di un altro libro che descrivesse l'origine del mondo secondo
la concezione dei popoli antichi .
Se, oltre al sorriso di mia figlia, si aggiungerà l'interesse e la
curiosità di altri lettori, potrò considerare senz'altro raggiunto lo scopo che
mi ero prefissato.
Daniele Bello
Agosto 2010
Il lettore non me ne vorrà se ho attinto a piene mani
dalle fonti citate senza troppa originalità: scopo del libro non è evidentemente
quello di scrivere qualcosa di nuovo, ma di ricordare favole che hanno ormai
migliaia di anni. |
I
LA TEOGONIA DI ESIODO
L'ORIGINE DEL MONDO SECONDO I
GRECI
Non si può non tornare indietro nel tempo mitologico
senza ripercorrere la creazione del mondo così come la
concepirono gli antichi Greci, regalando ai posteri una
delle versioni più affascinanti e poetiche del mondo antico.
Andare a rileggere la Teogonia di Esiodo consente
anche di familiarizzare con molti dei nomi che popolano il
mondo classico e che da secoli fanno compagnia a chiunque
ami viaggiare con la fantasia nel favoloso mondo concepito
dai nostri progenitori.
1
LE DIVINITÀ
PRIMIGENIE
n
principio era il Caos. —
Così avrebbe esordito qualsiasi precettore dell'antica
Grecia per raccontare ai propri discepoli l'origine
dell'universo.
Si narra, tuttavia, che a fronte di questo incipit,
uno studente particolarmente sfacciato esclamasse indignato:
— E che cosa c'era prima
del Caos? — Il maestro
non fu in grado di spiegarlo e consigliò al ragazzo di
chiederlo ai filosofi. (Diogene
Laerzio: Vite dei
filosofi [X: 1])
Da quel giorno, quel discepolo tanto curioso ma poco
rispettoso dell'autorità si dedicò unicamente allo studio
della filosofia e decise, con il tempo, di fondare egli
stesso una scuola di pensiero che divenne nota in tutto il
mondo antico e la cui fama è giunta sino ai giorni nostri:
quel giovane si chiamava Epicuro ed è un nome familiare a
molti studenti contemporanei; per quello che interessa al
vostro narratore, è sufficiente sapere che egli decise di
scomparire per sempre dalla nostra storia e che noi dovremo
accontentarci della spiegazione del vecchio precettore.
«Uniforme era
l'aspetto della natura; e lo chiamarono Caos»
[Unus erat toto naturae vultus in orbe, quem
dixere chaos],
così ci riferisce il poeta Ovidio
(Metamorfosi [I: 6-7]); non esisteva il
cielo, la terra o il sole, ma un abisso primitivo informe e
indeterminato in cui tutti gli elementi erano mischiati tra
di loro. Esiodo non si preoccupa neppure di definirlo,
limitandosi a dire che «per
primo fu Caos», il vuoto
spalancato dove nacquero tutte le cose.
(1)
Dal Caos venne generata la Madre Terra dall'ampio seno,
che gli antichi conobbero anche con il nome di Gea (o Gaia),
per sempre sede sicura per tutti i mortali e gli immortali.
Subito dopo nacque il Tartaro
«nebbioso»,
l'orrendo buio sotterraneo, privo di ogni luce, che si
annida nei recessi della Terra.
Dal Caos sorsero anche l'Erebo (il buio, privo di luce,
della profondità abissale) e la Notte, nei confronti dei
quali tutti gli altri dèi provavano un sacro timore; dalla
loro unione nacquero l'Etere e il Giorno, ma anche divinità
più sinistre come Thanatos, la terribile dea della morte, il
Sonno, la Fame, l'Oblio, il Lamento, il
Sarcasmo, la
Discordia e la Nemesi, la terribile vendetta degli dèi. Si
tratta, in realtà, nella maggior parte dei casi, di entità
che personificano gli aspetti più oscuri e odiosi della
vita, che gli uomini evitano con cura di menzionare a meno
di non essere costretti.
Figlie di Notte e di Erebo erano anche le Moire, terribili
creature dal potere arcano cui neppure gli dèi potevano
sottrarsi; ogni giorno esse filano, misurano e tagliano i
fili del destino di ciascuno degli esseri viventi,
decidendone le sorti: Cloto fila lo stame della vita;
Lachesi lo svolge sul fuso; mentre Atropo, con le cesoie, lo
recide inesorabilmente.
Il loro potere è talmente antico che persino Zeus, il
futuro sovrano del cielo, non ha il potere di mutare le loro
decisioni, ma deve limitarsi a prendere la sua bilancia
d'oro, per misurare su quale creatura il giorno stia per
tramontare per sempre.
TABELLA N. 1 |
|
Gli dèi primigeni |
Nacque infine il più potente tra tutti gli dèi: Eros,
«tra tutti i Celesti il
più bello», che scioglie
le membra e soggioga lo spirito di tutti gli dèi e di tutti
gli uomini, personificazione dell'Amore; quando Esiodo parla
dell'érōs, non dobbiamo tuttavia pensare al putto alato
armato di arco e frecce che viene spesso raffigurato nei
quadri e nelle incisioni antiche e moderne, ma ad un
principio ancestrale, alla energia creatrice da cui trasse
vita l'intero universo.
Possiamo tuttavia permetterci di trascurare queste
divinità così lontane da noi, tanto che persino in un poema
didascalico come la Teogonia vengono dedicati loro
solo pochi versi.
A noi interessa invece sapere che Gea, la dea della
Terra, generò da sé stessa Urano cosparso di stelle, il dio
del Cielo, e Ponto, il dio del Mare, ma stavolta «senza
gioia d'amore».
La dea della Terra si accoppiò con i suoi figli: da Gea e
Ponto nacque il saggio Nereo, divinità marina fonte di
giustizia e di miti consigli, che fu il padre di tutte le
ninfe del mare (note anche come Nereidi);
ma da quella unione così priva di affetto vennero generati
anche terribili creature, come il sinistro Forco, il
«vecchio del mare» e Ceto dal bel viso, il cui nome però
significava «mostro marino» (tanto è vero che viene spesso
descritta come una enorme balena); dall'unione di questi
ultimi proviene la razza di molti dei nemici che hanno
perseguitato l'umanità nei secoli e che verranno combattuti
e sconfitti dai protagonisti delle leggende eroiche della
mitologia greca.
È doveroso citare tra i figli di Forco e Ceto le
terribili Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa), dal corpo
ricoperto di scaglie come quelle dei rettili, con serpenti
vivi al posto dei capelli; esse avevano il terribile potere
di pietrificare chiunque avesse la sfortuna di incrociare il
loro sguardo. Per un'anomalia che solo i miti riescono a
creare, Steno ed Euriale avevano il dono dell'immortalità,
mentre la sola Medusa poteva essere uccisa; sarà uno degli
eroi più amati dai Greci, il valoroso Perseo, ad uccidere la Gorgone tagliandole la testa: dal collo reciso nacque il
famoso cavallo alato Pegaso, che ha ispirato artisti e poeti
dei tempi antichi e moderni. In groppa a quel magico
destriero vennero compiute alcune tra le più grandi imprese
narrate dai cantori di tutte le epoche.
Dalle sciagurate nozze tra le due divinità marine
nacquero anche le Graie (Enio, Deino e
Pefredo), il cui
aspetto era forse meno spaventoso di quello delle sorelle
Gorgoni ma che comunque dovevano costituire uno spettacolo
quanto meno anomalo per chi osasse andare a far loro visita,
ai confini del mondo: esse, infatti, nacquero già vecchie e
con i capelli bianchi; avevano inoltre un solo occhio e un
solo dente in comune, che si passavano tra di loro a turno…
TABELLA N. 2 |
|
La stirpe di Ponto |
Figlia di Forco e Ceto era anche la terribile
Echidna dal
cuore violento, metà fanciulla dagli occhi splendenti e metà
serpente; ella si unì al mostruoso Tifeo (o Tifone), figlio
del Tartaro e di Gea e partorì creature dal cuore violento:
la Chimera, uno spaventoso animale a tre teste: una di
leone, l'altra di capra e di serpente la terza, che venne
combattuta dal prode Bellerofonte; il Leone di Nemea, fiera
orribile e selvaggia, e l'Idra di Lerna, un feroce drago
dalle molte teste, entrambi sconfitti dal grande Eracle
(Ercole); il terribile cane a tre teste Cerbero, custode del
regno dei morti: «fiera crudele e diversa, con tre gole
carinamente latra sopra la gente che quivi è sommersa»
(Inferno [VI:
13-15]); la
Sfinge, essere per metà leone e metà donna, che perseguitava
i passanti ponendo loro degli indovinelli e divorando chi
non era in grado di rispondere.
(2)
2
LA CREAZIONE DEL MONDO
on
le nozze di Urano e Gea venne stabilito il primo ordine
universale, cui i Greci diedero il nome di Cosmo
(«Armonia»). Secondo l'antica tradizione, infatti, Urano fu
il primo sovrano assoluto; egli fecondò la Terra gettando su
di essa fertili gocce di pioggia e generò la prima stirpe
dei Titani (il nome proviene da Tite, uno degli altri nomi
con cui veniva invocata la Grande Madre).
Narra Esiodo che dalla dea Terra, con Urano giaciuta,
nacquero dodici figli: l'Oceano profondo, enorme fiume che
circonda tute le terre emerse; Mnemòsine (la Memoria),
Temi
(la divina Giustizia), Rea, Giapeto e Crio;
Iperione e Teia,
dalla cui unione nacquero Helios (il Sole), Selene (la Luna)
ed Eos dalle dita rosee (l'Aurora); l'amabile Teti, sposa di
Oceano, che generò la stirpe dei fiumi e le Oceanine, ninfe
del mare; Ceo e Febe dalla ghirlanda d'oro, che concepì
Leto
(la Notte Buia) e Asteria (la Notte Stellata). Dopo di
loro...
...il
fortissimo Crono venne alla luce,
di scaltro consiglio,
fra tutti i figliuoli il più tremendo;
e d'ira terribile ardea contro il padre.
Esiodo:
Teogonia
[137-138]
Gea ed Urano generarono anche i Ciclopi dal cuore superbo
(Stérope, Bronte ed Arge), dalle forze immani e dalla grande
scaltrezza nelle opere, che nelle cupe caverne dei vulcani
forgiarono la folgore e il tuono. Essi erano in tutto simili
agli altri dèi immortali, ma avevano un solo occhio, di
forma rotonda, in mezzo alla fronte.
Ed altri figliuoli nacquero alla Madre Terra e ad Urano:
Cotto, Gia, Briarèo, creature di somma arroganza. Cento mani
protendevano terribili dalle loro spalle e cinquanta teste
crescevano a ciascuno sopra le membra massicce; e forza
terribile si aggiungeva al loro orrido aspetto, per cui essi
furono detti Ecatonchiri (o Centimani), i giganti dalle cento
braccia.
Narrano gli antichi poeti che Urano prese in odio la sua
spaventosa stirpe, che sprofondò nei cupi abissi del
Tartaro; di ciò si dolse amaramente la sua sposa Gea, che
offrì ai suoi figli la possibilità di vendicarsi: ella
fabbricò una grande falce magica, per tendere un agguato
all'odiato marito.
Tra tutti i figli della Terra, il solo Crono si fece
avanti per sostenere le ragioni della madre; mentre Urano
giaceva con Gea («desideroso d'amore incombette e si stese
dovunque» (Teogonia [177-178])), il
titano afferrò con forza la falce dai denti
aguzzi e tagliò i genitali del padre; dal seme di Urano
mutilato nacquero altre strane creature: le Erinni potenti
(Aletto, Tisifone e Megera), esseri alati dalla pelle nera e
dai capelli tramutati in serpenti che perseguitano quanti si
macchiano di colpa e di assassinio; la stirpe dei Giganti,
splendidi nelle loro corazze di bronzo, con lunghe lance in
mano (i cui progenitori furono Alcione, Porfirio ed
Encelado).
TABELLA N. 3 |
|
I figli di Urano |
Secondo alcuni autori, dai genitali di Urano precipitati
in mare, presso l'isola di Citera, nacque anche Afrodite
(Venere), la bellissima dea dell'amore dalle bionde chiome,
da sempre amata e onorata dagli uomini e dagli immortali
perché da lei promana il desiderio e il sentimento, il dolce
piacere e l'affetto che governa il mondo.
Dopo aver vinto con l'inganno il padre, Crono prese in
moglie la sorella Rea (conosciuta nel continente asiatico
anche come Cibele e invocata dai Romani come Magna Mater) e
salì sul trono di un universo non ancora totalmente
plasmato: cominciò così il secondo Cosmo della mitologia
greca. Da quel giorno, tuttavia, il Cielo non si avvicina
più alla Terra per l'abbraccio notturno.
3
IL REGNO DI CRONO E LA TITANOMACHIA
ui
gladio ferit, gladio perit: «chi di spada ferisce di
spada perisce» (Matteo [26:
52]), dicevano i nostri antichi; e così il destino
delle Moire, potere arcano cui neppure gli dèi possono
sottrarsi, aveva decretato che quanto Crono aveva fatto al
padre un giorno egli stesso lo avrebbe subito a causa di un
figlio.
Si racconta che, forse proprio per evitare di essere
spodestato da un suo successore, il dio Crono (che i Romani
identificarono con Saturno) avesse l'abitudine di mangiare
tutti i figli che la moglie Rea metteva al mondo,
trangugiandoli uno dopo l'altro.
E così egli ingoiò di volta in volta Demetra (Cerere), la
dea dell'agricoltura, che gli artisti raffigurarono spesso
assieme al grano e alle messi della terra; Hera (Giunone),
la dea protettrice della famiglia, del matrimonio e del
parto; Hestia (Vesta), dea del focolare domestico, cui i
Romani tributarono un culto speciale per il quale erano
adibite sacerdotesse vergini (le Vestali, appunto); Ades (Plutone),
futuro signore dell'oltretomba; Poseidone (Nettuno),
destinato a diventare il padrone dei mari. Qualcuno sostiene
che, in realtà, fosse l'essenza stessa del dio ad imporre
questo comportamento, perché Crono (nome che fu messo in relazione con il
greco chrónos «tempo») era destinato comunque a creare e distruggere senza
posa le proprie creature.
Era naturale che a Rea Cibele dispiacesse veder divorare
così i propri figli, per cui quando ella ebbe concepito un
nuovo figlio chiese consiglio alla madre Gea e riparò sul
monte Ida, nell'isola di Creta, dove mise al mondo un altro
erede, cui diede il nome di Zeus (Giove).
Rea nascose il bambino e lo affidò alle cure di alcuni
sacerdoti che la tradizione chiama Cureti (o Coribanti), i
quali suonando e ballando tutto il giorno coprivano i vagiti
del piccolo Zeus, nutrito dal latte della capra Amaltea. Nel
frattempo la dea Cibele si recò dal marito e, in luogo del
figlio appena nato, gli consegnò una grossa pietra, che
Crono trangugiò senza avvedersi dell'inganno.
In breve tempo, Zeus crebbe sano e robusto e dichiarò guerra
al padre Crono. In primo luogo, lo costrinse a rigettare i
figli che aveva divorato, grazie anche ad un filtro magico
che gli era stato preparato da Temi, la dea della Giustizia
divina, che era sua zia.
Crono vomitò Poseidone, Ade, Hera, Hestia e Demetra, che
essendo immortali erano ovviamente ancora vivi; anche la
pietra che era stata mangiata al posto dell'infante Zeus
venne restituita ed essa venne posta all'interno di un
tempio dove poté essere ammirata e venerata per secoli e
secoli, nel luogo più sacro di tutta l'Ellade (antico nome
della Grecia): l'oracolo di Delfi.
Zeus liberò le creature che Urano aveva imprigionato nel
profondo Tartaro (i Ciclopi e i giganti dalle cento
braccia), promettendo loro vittoria e fama se si fossero
schierati al suo fianco nella guerra contro Crono: questi,
con entusiasmo, aderirono alla causa del giovane rampollo
del sovrano del cielo e gli portarono in dono il tuono, il
baleno e il fulmine fiammeggiante.
Per lungo tempo si combatterono tra di loro le due fazioni,
soffrendo grandi pene e affrontandosi gli uni contro gli
altri in tremende battaglie. Lo scontro avvenne tra i monti
della Tessaglia, una regione posta nel nord dell'Ellade: da
una parte Crono e i suoi Titani dall'alto del Monte Otri;
dall'altra Zeus e i suoi fratelli, i Ciclopi e gli
Ecatonchiri, dal Monte Olimpo (anche se gli antichi ci
tramandano che due titani, Giapeto e suo figlio Prometeo,
parteggiassero per Zeus).
Fu un'epica lotta, che durò per oltre dieci anni: i
combattenti si scagliavano tra loro macigni, rimbombavano le
valli e le montagne, le folgori di Zeus saettavano in cielo:
questa guerra venne chiamata Titanomachia ed ebbe fine solo
grazie al deciso intervento degli Ecatonchiri, che
scagliavano pietre contro i Titani e li ricoprivano di
dardi.
Alla fine la vittoria arrise a Zeus e ai suoi seguaci: i
Titani vennero sconfitti e rinchiusi nel Tartaro,
sorvegliati a vista dai giganti dalle cento braccia. Per
farci comprendere la profondità di questa regione Esiodo ci
spiega che il Tartaro oscuro è circondato da un bronzeo
recinto e che esso è...
...tanto
sotto la terra
quanto dalla terra il cielo è lontano; […]
ché per nove notti e giorni una bronzea
incudine
cadendo dal cielo al decimo verrebbe in
terra;
e ugualmente distante dalla Terra
è il Tartaro oscuro.
Esiodo:
Teogonia
[720-723]
Il fortissimo Atlante, figlio di Giapeto, venne invece
condannato a reggere per sempre la volta del cielo, presso
la catena montuosa che, in Africa, prende il suo nome.
Il dio Crono venne confinato in un'isola ai margini
dell'oceano (anche se ai Romani piacque narrare che il loro
Saturno avrebbe riparato in Italia, nel Lazio).
Da ultimo, Zeus dovette fronteggiare l'ultimo dei suoi
terribili nemici: Tifeo, un mostro spaventoso dalle braccia
forti e dagli occhi che splendevano di ardori di fuoco;
cento teste, gli nascevano dalle spalle e da esse
provenivano terribili suoni: a volte la sua voce era
comprensibile agli dèi, ma spesso era simile al muggito di
un toro, al ruggito di un leone, all'abbaiare di un cane o
ad un sibilo; la parte inferiore del suo corpo era simile a
due serpenti attorcigliati tra di loro.
(3)
Costui si era ribellato a Zeus e sarebbe diventato il
signore dei mortali e degli immortali se il nuovo padrone
del cielo non lo avesse sfidato scagliando le sue folgori
contro quell'ultimo avamposto del Caos.
Inizialmente, Tifeo sembrò avere la meglio; avviluppando il
suo avversario con le spire dei suoi serpenti, riuscì a
tagliargli i nervi e a rinchiuderlo in un antro oscuro della
Cilicia, in Asia Minore. Le divinità dei boschi accorsero
però in aiuto di Zeus: lo trassero dalla grotta in cui era
stato rinchiuso e riuscirono a curarlo.
Zeus montò sul suo carro trainato da cavalli alati e inseguì
il mostro; colpendolo ripetutamente con i suoi fulmini,
riuscì infine a seppellirlo sotto la montagna dell'Etna, da
dove ancora oggi Tifeo tenta di liberarsi provocando
eruzioni e terremoti.
Cominciò così la terza e definitiva fase del regno degli
dèi: quella della sovranità di Zeus.
4
ZEUS E I SUOI DISCENDENTI
na
volta sconfitti ed imprigionati tutti i suoi nemici, Zeus
stabilì la propria dimora sul monte Olimpo e convocò tutti
gli dèi affinché gli prestassero giuramento di eterna
fedeltà.
Egli conferì grandi onori a chi gli era stato fedele e fu
particolarmente generoso con chi lo aveva sostenuto
nonostante l'amicizia con i Titani; in particolare, Iris
(l'Arcobaleno) venne nominata messaggera degli dèi; il fiume
Stige, che per primo si era schierato a favore del nuovo
tiranno del cielo, era divenuto sacro per tutti gli dèi,
cosicché tutti i giuramenti pronunciati in suo nome, fosse
anche da parte degli immortali, non potevano mai essere
infranti.
Zeus convocò quindi i suoi fratelli Ades e Poseidone ed
assieme a loro la sovranità dell'universo venne equamente
divisa: Poseidone ebbe il domino dei mari, mentre Ades
divenne il signore degli inferi e dell'oltretomba; Zeus
mantenne per sé la tirannia del cielo e della terra.
TABELLA N. 4 |
|
I figli di Crono |
Zeus prese inizialmente in sposa Metis (la Prudenza), una
delle dee più sagge; quando, tuttavia, ella rimase incinta,
nel timore che potesse partorire un figlio in grado di
spodestarla, il sovrano del cielo la inghiottì nel suo
ventre. Alcuni giorni dopo, tuttavia, dalla testa dei Zeus
uscì intrepida la dea Pallade Atena (Minerva), già armata di
tutto punto con elmo, spada e scudo: per gli antichi
abitanti della Grecia ella simboleggia la sapienza e la
guerra eroica.
Per seconda il sovrano del cielo ebbe in sposa la dea Temi,
con la quale generò le Ore (le Stagioni) e, secondo alcuni
autori, anche le terribili Moire.
Zeus amò anche Mnemòsine, che gli partorì le dolci Muse
protettrici delle arti, e Leto, da cui ebbe due gemelli:
Apollo (Febo), protettore delle arti e delle doti
profetiche, e Artemide (Diana), la dea della caccia. I due
inseparabili fratelli vengono spesso raffigurati assieme e
associati al culto del Sole, il cui carro veniva condotto
ogni giorno dal dio Apollo, e della Luna (uno degli epiteti
della dea Artemide).
Da Eurinòme, Zeus ebbe le bellissime Cariti (le Grazie) dalle
belle guance (Talia, Eufrosine e Aglaia), ninfe amabili
simbolo della grazia e dell'amore; da Maia, figlia di
Atlante, ebbe il dio Hermes (Mercurio); messaggero degli dèi
e protettore delle arti mediche (ma anche degli audaci e dei
ladruncoli nonché compagno del padre nelle sue passeggiate
nella terra degli uomini), egli riusciva a muoversi
rapidissimo per le terre del mondo conosciuto grazie ai suoi
calzari alati.
La passione di Zeus per Demetra, invece, generò la dolce
Persefone, futura sposa di Ades; altri autori gli
attribuiscono anche la paternità di Afrodite, dea
dell'amore.
Numerose fonti fanno di Zeus anche il progenitore delle
ninfe; le Driadi e le Amadriadi, che abitano i boschi; le
Oreadi, che vivono nelle montagne; le Naiadi, divinità
tutelari dei fiumi e delle sorgenti.
Infine, Zeus prese in sposa Hera (Giunone), dalla quale ebbe
tre figli: Ares (Marte), lo spietato dio della guerra,
Ebe
(la Giovinezza) ed Ilizia, la dea protettrice del parto.
Pare, tuttavia, che questo terzo matrimonio fosse funestato
da numerose infedeltà, tanto che la gelosa e vendicativa
Hera, oltre a perseguitare le amanti di volta in volta
prescelte dal marito, per ripicca generò da sé stessa Efesto
(Vulcano), il fabbro degli dèi. Si racconta, inoltre, che
questo figlio fosse talmente brutto e deforme che venne
scaraventato dalla stessa madre giù dal monte Olimpo, per
cui Efesto rimase zoppo per l'eternità; successivamente,
Hera gli diede in sposa la bellissima Afrodite (di cui era
gelosa), per evitare che la dea dell'amore potesse circuire
altri dèi; anche questo matrimonio, ovviamente, venne
caratterizzato da molti tradimenti.
E gli uomini? Stranamente, la mitologia greca non dedica
alla creazione del genere umano la stessa considerazione ed
importanza che essa riveste, ad esempio, nella tradizione
ebraica.
Esistono numerose e diverse versioni sulla creazione
dell'umanità, anche se una delle leggende che ci piace
ricordare attribuisce questo atto d'amore al titano
Prometeo, il quale dopo aver plasmato dalla materia i primi
esseri umani chiese agli dèi di infondere loro il proprio
alito vitale.
Essi vissero a lungo in uno stato ferino (anche se felice,
secondo alcuni; tanto è vero che il cosmo di Crono/Saturno
venne considerato dai più una vera e propria età dell'oro);
successivamente fu lo stesso Prometeo ad insegnare loro i
primi rudimenti del vivere civile e a rubare dall'Olimpo il
segreto del fuoco per donarlo agli uomini intirizziti nelle
fredde notti invernali.
Le gesta dei mortali divennero note e care agli dèi solo in
seguito, quando essi cominciarono a scendere dal monte
Olimpo per trascorrere parte del loro tempo in sembianze
umane. Amori, collere, rivalità ed amicizie tra uomini ed
immortali sono stati all'origine di molte delle storie più
note dell'antichità.
Lo stesso Zeus non fu immune dal fascino delle donne
mortali, con le quali concepì eredi che divennero eroi o
grandi sovrani (due di essi, Dioniso ed Eracle, vennero
addirittura ammessi al cospetto degli dèi dell'Olimpo).
Forse il padre degli dèi era del tutto privo di senso
morale? O forse erano le antiche famiglie nobili dell'antica
Grecia ad avere un particolare interesse ad accampare
un'origine divina?
Raccontano comunque i poeti che il regno di Zeus fosse
destinato a durare per l'eternità e che nessuno riuscì mai a
spodestarlo dal suo trono. Si narra inoltre che vi era
un'unica divinità in grado di partorire un figlio in grado
di prendere il suo posto ma che il suo nome fosse noto al
solo Prometeo.
Il tiranno del cielo era tuttavia fortemente in collera con
il titano, colpevole di aver sottratto il rosso fuoco
dall'Olimpo con l'inganno; questi, infatti, aveva ubriacato Efesto offrendogli del vino drogato con del papavero mentre
gli altri dèi si stavano riposando.
Per questo Zeus aveva fatto incatenare Prometeo sui monti
del Caucaso, minacciandolo di terribili torture qualora non
avesse rivelato il nome della donna in grado di partorire il
suo successore.
Il titano indomabile si rifiutò di obbedire ai voleri di
Zeus, nonostante un'aquila mandata dal cielo gli divorasse
ogni giorno le viscere. Solamente l'intercessione di Gea, la
dea della Terra, fece riconciliare il sovrano del cielo con
Prometeo, che rivelò quindi il nome fatidico: era la
bellissima dea Tetide, una delle Nereidi.
Pur travolto da una forte passione amorosa nei confronti
della ninfa, Zeus procurò che Tetide venisse data in sposa
ad un uomo mortale, che fu Peleo.
Da Peleo e Tetide nacque il più forte di tutti gli uomini
mortali, vale a dire Achille, protagonista della guerra di
Troia; ma questa, come si dice, è un'altra storia…
* * *
Il lettore che abbia avuto la pazienza di leggere le pagine
che precedono non può non notare l'enorme quantità di nomi
di divinità che vengono citati da Esiodo, tanto che diventa
impresa assai ardua riuscire a ricostruire un albero
genealogico completo (nelle tabelle si è cercato di aiutare
al lettore a districarsi meglio; il curioso con velleità di
approfondire potrà leggere direttamente la Teogonia
di Esiodo).
Chi ha già una certa dimestichezza con i racconti
mitologici, invece, avrà osservato che le figure divine
della religione greca tendono a sovrapporsi, quando
addirittura non vi sono dèi con attributi pressoché identici
(come nel caso di Apollo e di Helios, entrambi assimilati al
culto del sole).
Ciò è dovuto in gran parte al fatto che la cultura greca
dei primordi si è formata a seguito della fusione – più o
meno pacifica, non esistono fonti certe al riguardo – tra la
popolazione mediterranea dei Pelasgi e alcuni popoli
indoeuropei provenienti da nord, tra i quali il gruppo
predominante fu quello degli Achei.
I Pelasgi erano prevalentemente sedentari ed agricoltori,
per cui essi collocavano la dimora delle loro divinità nella
terra, per loro fonte di sopravvivenza; le divinità maggiori
erano per lo più legate all'elemento femminile (come Hera e
Gea), in quanto artefice del miracolo della maternità e
della fecondità; le civiltà mediterranee ci hanno offerto
più di un esempio di manifestazioni artistiche e religiose
legate al culto della Potnia, l'antica Madre Terra
(come i templi megalitici di Malta).
Gli Achei ereditavano invece un passato da nomadi, per
cui i loro dèi «risiedevano» in cielo, unico elemento
stabile per i popoli senza fissa dimora. Normalmente, le
divinità principali erano connesse all'elemento maschile
(come Urano e Zeus).
Dalla fusione tra queste due religioni nacque il primo
pantheon greco, che sin dall'inizio si presentò
quindi piuttosto eterogeneo.
In questa fase, i Greci identificavano il sacro con le
forze naturali (pare che gli dèi più importanti fossero
Poseidone e Demetra), per cui la divinità veniva raffigurata
simbolicamente con un aspetto animale, ovvero metà uomo e
metà animale (in alcuni casi, addirittura, la divinità è
rappresentata come una orrida commistione tra animali
diversi): tale iconografia religiosa è nota anche come
«naturalismo».
Successivamente, tale concezione venne superata
identificando il sacro con elementi tipicamente umani e
anche gli dèi vennero raffigurati in forma umana, anche se
idealizzati («antropomorfismo»): i figli di Crono e i loro
discendenti erano raffigurati come degli umani «perfetti»,
in quanto erano immortali, ma con tutte le passioni e i vizi
degli uomini: dall'amore alla collera, dall'amicizia alla
gelosia.
Quando Esiodo si apprestò a scrivere la sua Teogonia,
aveva davanti a sé una pletora di dèi; la genialità del
grande scrittore greco fu quella di immaginare una
genealogia divina in cui trovavano spazio gli dèi della
prima generazione, più vicini al Caos che all'ordine
(raffigurati, come si è detto, come animali o mostri),
destinati tuttavia ad essere spodestati e superati dagli dèi
della seconda generazione (raffigurati, invece, in forma
umana).
L'amore di Esiodo per la Dike (la Giustizia) non gli
consentiva di concepire la storia come una guerra continua,
per cui egli ritenne che la stabilità potesse essere trovata
unicamente nel Cosmo e non in una eterna guerra tra
generazioni. La lotta di Zeus contro Tifeo è l'ultimo atto
di violenza prima della instaurazione di un nuovo ordine, in
cui c'è spazio anche per l'armonia tra vecchi e nuovi dèi; è
solo in questo contesto che si può comprendere veramente il
significato che ebbe, per gli antichi Greci, l'aspro
conflitto e la successiva, definitiva riconciliazione tra
Zeus e il titano Prometeo, che per amore dell'umanità aveva
rubato dall'Olimpo il segreto del rosso fuoco. Tale
costruzione poetica e religiosa trova la sua eco nella
cultura greca dei secoli successivi e permea tutte le opere
del grande tragediografo Eschilo.
|
II
I VATICINI DELLA VÖLVA, LA VEGGENTE
LE SAGHE DEI POPOLI DEL NORD
Dai vaticini della völva,
la «Veggente», e dalla
tradizione orale degli scaldi islandesi ci è giunta questa
antica leggenda sulle origini del mondo, che tenteremo di
trascrivere una volta ancora a beneficio del lettore di
oggi.
1
LA CREAZIONE DEL MONDO
n
principio, raccontano gli antichi, era il Ginnungagap, ovvero
il vasto abisso, il vuoto infinito, in cui non esistevano né
dimensioni, né limiti, né alcuno dei pensieri che la mente
umana è abituata a concepire; chiunque avesse potuto
contemplare l'immensità di quel nulla che sembrava eterno,
in cui non era possibile discernere la luce, le tenebre e
gli elementi, sarebbe forse impazzito.
Era l'inizio
dei tempi quando nulla esisteva, non c'era sabbia né mare né fresche onde; non c'era la terra né il cielo lassù, c'era il baratro degli abissi, ma non c'era l'erba.
(Völuspá
[3])
Trascorsero gli eoni, nell'immutabile inerzia, senza poter
essere misurati dal movimento o dal divenire; poi,
lentamente, il nulla cominciò a diventare qualcosa ed
apparvero due regioni tra loro contrastanti ed opposte: una
era detta Múspellsheimr, dove tutto era devastato dalla fiamma
ardente, dai lapilli e da un fumo malefico, solcato da fiumi
di lava incandescente; l'altra era invece detta Niflheimr ed
era ricoperta da ghiaccio, neve e brina e celata da una
nebbia perenne.
Nel Niflheimr si trovava la sorgente di
Hvergelmir. Da essa ebbero origine fiumi intrisi di un
veleno mortale, chiamati dagli antichi Élivágar.
Per millenni le due regioni poste agli estremi dell'universo
si fronteggiarono senza mai sfiorarsi, l'una eruttando
scintille e gas incandescente e l'altra prigioniera nel suo
silenzioso deserto di freddo.
Quando il Múspellsheimr e il Niflheimr giunsero una di fronte
all'altra, accadde ciò che neppure gli dèi riuscirono mai a
spiegare: il contatto tra l'acqua purissima e la scintilla
del fuoco provocò una terribile esplosione, da cui nacque il
miracolo della vita.
Il regno del ghiaccio e del fuoco si mescolarono tra loro e
plasmarono il corpo di un gigante; quanti discendono dalla
sua stirpe, lo chiamarono Aurgelmir, ma gli dèi lo conoscono
con il nome di Ymir.
Per lungo tempo, il gigante giacque addormentato in quel
miscuglio caotico che era ancora l'universo primordiale;
infine, il suo corpo si solidificò e cominciò a sudare; dai
suoi umori nacque la progenie dei mostri e dei giganti,
poiché essi erano impregnati del veleno degli Élivágar.
In quel tempo, inoltre, la solidificazione delle acque che
percorrevano il Niflheimr formò il corpo di una grande mucca,
che gli dèi e i giganti denominarono Auðhumla e che nella
lingua arcana dei nostri progenitori vuol dire la «Grande
Nutrice»; leccando il ghiaccio ella plasmò le fattezze di un
uomo grande e possente che gli dèi chiamarono Búri e che è
l'antenato di tutte le stirpi divine.
Buri ebbe un figlio cui diede il nome di Borr, che nel sacro
linguaggio delle rune vuol dire semplicemente il Nato; Borr
sposò la figlia di un gigante della stirpe di Ymir ed ebbe
tre figli che vennero chiamati Odino (che i Germani
invocarono con il nome di Wotan), Víli e Vé.
Tutti gli esseri che abitavano allora l'universo avevano
preso forma nel Ginnungagap, ma alcuni di essi erano
permeati del veleno di Élivágar e perciò inclini al male,
mentre altri ne erano immuni e quindi volti verso il bene.
Non trascorse quindi molto tempo prima che le forze del bene
e quelle del male venissero coinvolti in un conflitto
cosmico.
I figli di Borr vennero a battaglia con il possente Ymir e, a
seguito di un furioso e cruento combattimento, essi infine
lo uccisero. Quando il gigante ancestrale cadde esanime
sotto i mortali colpi dei suoi nemici, il suo sangue sgorgò
dalle molte ferite e sommerse completamente i suoi figli,
che perirono annegati; solo il più giovane di questi,
Bergelmir, riuscì a salvarsi con la sua compagna e riparò
nel Niflheimr: da loro derivò la razza dei terribili giganti
e degli orchi delle colline.
Odino, Víli e Vé trascinarono la carcassa del gigante nel
mezzo del Ginnungagap e con essa plasmarono la terra, i
monti, e le colline; con il suo sangue essi formarono il
mare, dalle sue ossa vennero ricavate le rupi e le rocce.
Dalla carne di Ymir fu
fatta la terra, dal suo sangue il mare, dalle ossa le montagne, gli alberi dalla chioma,
dal cranio il cielo.
(Vafþrúðnismál
[21])
Dai capelli di Ymir essi forgiarono i boschi e i cespugli,
mentre con la calotta cranica dell'essere primordiale Odino,
Víli e Vé formarono la volta del cielo: essi catturarono le
scintille ardenti del Múspellsheimr e le posero agli angoli
dell'universo, per fissare le costellazioni a scandire in
eterno l'ordine del tempo e dello spazio.
Infine, Odino e i suoi fratelli presero le ciglia del
gigante e cinsero una difesa di mura attorno alla terra per
proteggerla dai giganti, cui venne dato il nome di
Miðgarðr
(che significa «Recinto di mezzo»).
Fu quello il primo fatale scontro tra il Bene e il Male, che
si risolse con la vittoria schiacciante tra le forze non
contaminate dall'ancestrale veleno degli Élivágar; le profezie,
tuttavia, ci dicono che verrà un giorno in cui gli dèi
saranno chiamati nuovamente a fronteggiare i giganti che
verranno dalle regioni del ghiaccio e del fuoco a combattere
una guerra senza fine che si risolverà solo con la sconfitta
definitiva di uno dei contendenti.
In quel giorno, cui le sacre rune fanno sovente cenno e per
il quale gli indovini usano già il sinistro nome di
Ragnarök, ognuno di noi sarà chiamato a prendere parte per
l'una o per l'altra fazione e l'apporto che verrà dallo
spirito guerriero della razza umana sarà decisivo.
2
GLI ESSERI VIVENTI
n giorno i figli di Borr stavano passeggiando nel
Miðgarðr
che avevano appena creato e giunsero presso una spiaggia;
qui trovarono due alberi: li plasmarono e ne crearono gli
uomini. Odino diede loro spirito e vita, Vili saggezza e
movimento, mentre Ve diede loro la forma, la parola, l'udito
e la vista; le tre divinità offrirono in dono anche vesti e
nome. L'uomo venne chiamato Frassino e la donna
Olmo; da
loro fu generata l'umanità cui fu data dimora nel Miðgarðr.
Subito dopo i figli di Borr costruirono una fortezza nel
mezzo del mondo; essa è detta Ásgarðr e lì eleggeranno dimora
gli dèi e le loro famiglie (gli Æsir): da qui provengono
inoltre le decisioni e gli eventi che mutano il destino del
cielo e della terra; ivi si trova l'altro trono di roccia,
da cui Odino sta seduto e osserva tutto il mondo e le
creature viventi e comprende tutto ciò che vede.
I nani, invece, avevano preso vita nella carne di Ymir, come
dei vermi; ma per decisione degli dèi essi divennero
intelligenti come gli uomini e presero dimora nella terra
tra le pietre. Sconosciuta è invece l'origine degli elfi, i
cui mondi si trovano appena al di sotto di quelli degli dèi
e dei semidèi.
Nello Jötunheimr venne a stabilirsi la orribile stirpe dei
giganti scampata al massacro ordito dai figli di Borr; i
giganti del fuoco, invece, guidati da Surtr dalla spada
fiammeggiante, trovarono dimora nella regione di
Múspellsheimr.
Viveva nello Jötunheimr un gigante chiamato Nörfi; questi
aveva una figlia scura e bruna come la sua stirpe e venne
chiamata Notte; ella andò in sposa a Dellingr, della stirpe
degli dèi, bello e splendente (secondo alcuni, infatti,
Dellingr vuol dire appunto il «luminoso»): il loro figlio era
biondo e splendente come il padre e venne chiamato Giorno.
Allora Odino diede a Notte e a Giorno due pariglie di
destrieri e due carri e li pose in cielo, affinché
corressero attorno alla terra ogni ventiquattro ore; per
prima cavalca Notte con i suoi cavalli, che ogni mattina
fanno gocciolare sulla terra la bava che bagna il loro
morso; poi segue Giorno così che il cielo e la terra sono
illuminati dal suo splendore.
Per punire la superbia di un mortale, il quale aveva avuto
la presunzione di ritenere i propri due figli più belli
degli astri, gli dèi stessi rapirono i due fanciulli e li
condussero in cielo: la femmina, Sole, venne chiamata a
condurre uno dei cavalli che tirano il carro di Giorno,
mentre il maschio, Luna, fu posto in groppa al primo
destriero di Notte; poiché il tragitto di Luna è più
complesso, i due bambini Bil e Júki lo aiutano nel suo
percorso e calando un velo sopra il suo viso creano le fasi
lunari.
Essi tuttavia, dopo la fine dell'età dell'oro, proseguiranno
la loro corsa molto più rapidamente, per sfuggire da due
lupi della odiata stirpe di Loki, che inseguono senza scampo
i due carri.
Fra gli dèi, infatti, viene annoverato anche quello che
alcuni chiamano il signore degli inganni ovvero la rovina
degli Æsir; questi è Loki, della stirpe dei giganti:
intelligente, bello a vedersi, malvagio di animo, mutevole
nel comportamento, sempre pronto ad escogitare malizie di
ogni genere; anche se il suo sguardo poteva comunque
apparire sereno ad affascinante per chi lo osservava, gli
occhi ne rivelavano l'animo oscuro.
Loki si era invaghito di una strega della stirpe degli
orchi, chiamata Angrboða; poiché essa aveva un influsso
malefico su chiunque le fosse vicino, gli dèi la attirarono
con l'inganno presso la loro dimora nell'Asgard e la
bruciarono viva. Ma Loki frugò tra le sue ceneri e trovò
all'interno il cuore di Angrboða che ancora pulsava e
l'inghiottì; subito sentì il malefico influsso della strega
dentro di lui e fuggì nelle terre oscure, dove il signore
degli inganni si unì con l'essenza vitale di Angrboða e
diede alla luce tre figli.
Il primo mostruoso figlio di Loki fu il lupo Fenrir, il
capostipite della razza dei lupi.
Il secondo figlio fu un enorme serpente, dalle proporzioni
colossali, che in breve tempo circondò con le sue spire
l'intera terra degli uomini; Odino fece ricorso a tutti i
suoi poteri per scagliarlo in mare e lì egli giace tuttora,
avvolto attorno alla terra, con la coda imprigionata tra le
proprie fauci, cosa che gli impedisce di crescere
ulteriormente; alcuni marinai raccontano di avere scorto
alle volte le spire di Jörmungandr, il Serpente del Mondo,
e di essere fuggiti terrorizzati.
Il terzo figlio di Loki fu una donna dall'aspetto orribile a
vedersi: ella venne chiamata Hel, dallo sguardo severo e
feroce, per metà nera e per metà color carne; Hel venne
gettata nel mondo degli inferi affinché regnasse su quanti
finiscono tra le grinfie delle forze del male prima del
trapasso: Hel vive in una dimora dai muri
straordinariamente alti e dai cancelli robusti, guardata a
vista dal cane Garmr, che si ciba delle carni degli uomini
che muoiono.
Di Fenrir si invaghì una strega abitante del Bosco di
Ferro (Járnviðr) e con lui generò due lupi enormi e
terrificanti, che le forze del male scagliarono in cielo a
minacciare il percorso del Giorno e della Notte; uno di essi
ha nome Skoll, impaurisce ed insegue il cavallo del Sole,
mentre Hati non smette di dare la caccia alla Luna.
All'est sta una vecchia in
Járnviðr e là genera i figli di Fenrir; viene fuori da essi uno che distruggerà la luna ha l'aspetto di un gigante [...]. Si offuscherà lo splendore del sole di estati venture, tutto si fa spaventoso.
(Völuspá
[40])
3
YGGDRASILL
e un uomo potesse chiedere agli
dèi: — Qual è la più santa,
la più importante sede del divino? — essi risponderebbero: —
È presso il frassino Yggdrasill, dove gli dèi tengono ogni
giorno consiglio.
Il frassino denominato Yggdrasill è il più importante ed il
migliore di tutti gli alberi ed è anche chiamato l'Albero
del Mondo perché i suoi rami si estendono per tutti i nove
mondi e coprono il cielo. Esso deriva il suo nome da uno
degli appellativi di Odino, il nome più sacro agli uomini
del Nord.
Si narra, infatti, che Odino in persona, per impadronirsi
del segreto delle magiche rune, i simboli magici da cui è
nata la scrittura, abbia dovuto sottoporsi ad un grande
sacrificio, pendendo da un ramo del Frassino che sovrastava
l'abisso per nove giorni e nove notti, oscillando in quel
mondo di tenebre squassato da un vento che avrebbe fatto
impazzire qualsiasi essere mortale.
Tre radici ha Yggdrasill, che sorreggono l'intero universo;
una di esse arriva nell'Ásgarðr, la dimora degli dèi,
l'altra nella Terra dei Giganti e la terza nell'eterno Regno
del Ghiaccio; a nutrire le radici è l'acqua di tre pozzi.
La radice che ha dimora nell'Asgard è
curata da tre sorelle vestite di grigio,
le Norne, che mescolano l'acqua del pozzo
di Urðr con argilla e la spargono
poi sull'albero per preservarne le radici. Una parte
dell'acqua del pozzo cola sulla terra sottostante e viene
chiamata dagli uomini rugiada.
La seconda radice si trova, invece, all'interno dello
Jötunheimr, la Terra dei Giganti e alla sua estremità si
trova l'acqua del pozzo di Mímir. Questi era un dio
traboccante di sapere, ucciso mediante decapitazione da
parte di alcune divinità ostili a Odino; tuttora, grazie
alle arti magiche di Odino e all'acqua del pozzo, la testa
di Mímir è ancora in vita e in grado di parlare a patto che
a rivolgergli la parola sia il padre di tutti gli dèi.
Quando Odino giunge nella Terra dei Giganti, questi chiede
conforto a Mímir sul futuro del mondo e riceve il prezioso
dono della sua saggezza. Il giorno della fine del mondo,
Odino salterà in groppa al suo cavallo per chiedere
consiglio alla testa di Mímir, ma questa volta il suo capo
mozzato rimarrà muto: allora, il padre degli dèi comprenderà
che è giunto il giorno della sfida finale tra le forze del
Bene e quelle del Male.
La terza radice affonda sino al Niflheimr, il Regno del
Ghiaccio, dove affonda in una sorgente ribollente e
velenosa; nubi tossiche e vapori venefici si levano attorno
alle radici del Frassino.
Lì si aggira il terribile drago, Níðhöggr, che con le sue
terribili fauci si avventa contro Yggdrasill tentando di
lacerarne le radici; accanto al drago vivono molti serpenti
che soffiano mefitiche nubi di veleno.
Quattro cervi giganteschi si alzano sulle zampe per brucare
le foglie e staccare la corteccia di Yggdrasill, mettendone
sempre a repentaglio la vita.
In cima ai rami più alti sta appollaiata una vecchia aquila,
che si scambia continuamente ingiurie con Níðhöggr; uno
scoiattolo corre di continuo da una estremità all'altra
dell'albero a riferire gli insulti che si scambiano le due
creature.
Il giorno della fine del mondo, le radici di Yggdrasill
prenderanno a tremare, anche se non cadranno; esse saranno
scosse dalle torme dei giganti, che valicheranno i confini
delle loro terre assieme agli spiriti dei defunti malvagi,
confinati nell'oscuro reame di Hel; essi salperanno dalla
spiaggia dei cadaveri a bordo della nave Naglfar, costruita
con le unghie delle mani e dei piedi di coloro che sono
morti senza onore.
Gli zoccoli dei cavalli dei giganti del fuoco percorreranno
Bifröst, il ponte di arcobaleno che separa la dimora degli
dèi dalla terra di mezzo, e lo frantumeranno.
Le forze del male si raduneranno davanti ad una enorme
pianura, sulla quale saranno già schierate le forze del
bene: gli Æsir (gli dèi), gli elfi, i nani e gli spiriti
dei valorosi morti in battaglia che dimorano nel Valhalla.
In quel giorno verranno decise le sorti dell'universo intero
e solo Odino e forse la völva conoscono il destino
del mondo e l'esito della battaglia che avrà luogo nel
giorno decisivo: il giorno del Ragnarök.
4
IL RAGNARÖK
olte e terribili sono le leggende che riguardano il
Ragnarök, parola arcana che significa il tramonto degli
dèi, di tutti coloro che dagli dèi dipendono, la fine di
ogni cosa; esse ci sono state rese note grazie ai vaticini della
völva,
la Veggente.
Scelse per lei Odino
anelli e collane, ricchezza, sapienti carmi magici
e profezie ottenute tramite verghe; Ella (la sibilla) vede molto al di là
su ogni mondo.
(Völuspá
[29])
I primi a subire le terribili conseguenze del mutamento
dell'ordine naturale saranno gli dèi; il più bello e il più
luminoso tra di essi, Baldr il Buono, perirà a causa del
tradimento del signore degli inganni.
Successivamente, saranno gli uomini della Terra di Mezzo, i
discendenti di Frassino ed Olmo, a vivere grandi disastri.
I fratelli si combatteranno gli uni agli altri
e giungeranno ad uccidersi, i cugini spezzeranno
i legami di parentela; […] tempo d'asce e di spade, gli scudi sono rotti,
èra di tempeste, èra del lupo, prima che il mondo crolli; nessuno risparmierà l'altro.
(Völuspá
[45])
A queste guerre crudeli seguirà il terribile inverno
Fimbulvetr,
in cui tempeste di neve e di ghiaccio tormenteranno
l'umanità per tre anni consecutivi; nei cieli, uno dei figli
del lupo Fenrir inghiottirà il sole mentre l'altro divorerà
la luna. Un terremoto sconquasserà tutte le terre,
consentendo alle forze del male di liberarsi dalle prigioni
in cui erano state confinate dagli dèi.
Latra forte Garmr davanti ai cancelli di Hel, i lacci si spezzeranno
e libero correrà il lupo Fenrir. Il gigante Hrymr verrà da est con un scudo di tiglio davanti;
si contorce Jörmungandr con rabbia da gigante; il serpente flagella le onde.
(Völuspá
[49-50])
Dal regno dei morti salperà la nave Naglfar, con a bordo la
sua ciurma di cadaveri guidata da Loki, il signore degli
inganni. Il cielo si squarcerà e si riverseranno le orrende
truppe dei giganti del fuoco, guidati da Surtr dalla spada
fiammeggiante. Anche i giganti montani e quelli del ghiaccio
si uniranno alle forze del male nello scontro decisivo con
gli dèi.
Il mattino del Ragnarök il gallo Gullinkambi canterà per la
prima ed ultima volta e chiamerà tutti gli eroi ed i
valorosi ad unirsi agli dèi e ai loro alleati nello scontro
finale.
In testa alle schiere, Odino si avventerà sul più terribile
dei suoi nemici, il lupo Fenrir, che spalancherà le sue
fauci e lo inghiottirà per sempre.
Il figlio di Odino, il grande Thor, protettore della Terra
di Mezzo, sarà impegnato in una lotta sino allo stremo delle
forze contro Jörmungandr, il Serpente del Mondo. I fulmini
che sprigioneranno dalle armi di Thor saranno fatali per il
serpente e lo uccideranno. Ma dopo questa aspra lotta il
figlio di Odino percorrerà esattamente nove passi
barcollando prima di crollare al suolo, esanime, ucciso dal
veleno mefitico di Jörmungandr.
Anche gli altri dèi si batteranno valorosamente contro le
forze del caos e della distruzione, annientandosi a vicenda;
ma saranno infine i giganti del fuoco a prevalere. Surtr
appiccherà il fuoco alla terra e tutto l'universo brucerà
per tornare ad essere un caotico ed indifferenziato nulla.
Il sole si oscura, la terra sprofonda nel mare, scompaiono dal cielo le stelle splendenti; infuria il fuoco con il fuoco, gioca alta la fiamma con il cielo stesso.
(Völuspá
[57])
5
DOPO LA FINE DEL MONDO
n giorno i saggi si chiesero: — Che cosa avverrà dopo che il
fuoco avrà distrutto il cielo, la terra e tutto il mondo,
dopo che gli dèi e gli uomini saranno morti? Che cosa
succederà dopo che Surtr avrà avvolto tutto con le sue
fiamme?
Un grande iniziato riuscì ad udire le parole che Odino
sussurrò a Baldr il Buono prima che costui esalasse
l'ultimo respiro e ne lasciò traccia per i posteri affinché
tutti serbassero un messaggio di speranza per il futuro.
(4)
Stando alla profezia, dopo il disastro del Ragnarök i
giganti del fuoco domineranno il mondo per un breve periodo;
essi abiteranno una dimora con la porta rivolta a
settentrione fatta intessendo le pelli di tutti i serpenti
del mondo; le teste di quei serpenti saranno vive ed
emaneranno veleno; il drago Níðhöggr
tormenterà i cadaveri dei
morti con le sue fauci. Ma ben presto i giganti si
distruggeranno da soli con le proprie fiamme; anche Surtr
perirà miseramente nel rogo che lui stesso avrà provocato.
La terra risorgerà di nuovo a nuova vita e si scuoterà di
dosso le acque del mare, tornando verde e bella; allora
cresceranno messi non seminate. Le cascate torneranno a
scorrere dalle rupi e le aquile volteggeranno ancora nei
cieli.
Baldr il Buono tornerà dal regno dei morti e con lui i
nuovi dèi; essi abiteranno le dimore che erano state di
Odino, di Thor e degli altri protettori del genere umano,
dimentichi degli antichi mali di Fenrir, di Jörmungandr e
del signore degli inganni.
Anche Yggdrasill, il Frassino del Mondo, che durante
l'inizio del Ragnarök comincerà a tremare, resisterà al
disastro della fine del mondo. Alcuni esseri viventi si
nasconderanno tra le sue foglie ed i suoi rami e troveranno
riparo; una donna e un uomo, chiamati Vita e Desiderio di
Vita, si salveranno dalle fiamme e daranno vita ad una nuova
stirpe, che ripopolerà il nuovo mondo.
Líf [Vita] e
Leifþrasir [Desiderio di
Vita] devono nascondersi nel bosco di Hoddmímir; la rugiada del mattino
hanno come cibo e di lì rinasceranno le stirpi.
(Vafþrúðnismál
[45])
E prima di essere divorata dal lupo, Sole genererà una
figlia non meno luminosa di lei che percorrerà di nuovo gli
stessi sentieri della madre nei cieli.
Subito dopo aver udito la profezia, il grande iniziato udì
un grande tuono in tutte le direzioni. Allora si mise in
viaggio e raccontò tutto quanto aveva visto e udito; e dopo
di lui queste storie vennero tramandate di padre in figlio,
di generazione in generazione.
* * *
A differenza della mitologia greca, che concepisce
l'universo come Cosmo (sinonimo di ordine ed armonia), dove
ognuno di noi ha un posto assegnato che non può travalicare
senza commettere il peccato di hýbris (superbia), la
concezione del mondo secondo i popoli del nord è molto più
cupa. L'equilibrio tra Bene e Male è sempre precario e
spesso affidato alla forza e al coraggio di impavidi eroi e
divinità, senza i quali il Male potrebbe prendere il
sopravvento (il che spiega la disperazione con la quale
veniva pianta la morte dei grandi capi e dei guerrieri più
famosi). La tensione tra queste due forze opposte, inoltre,
è destinata a trovare una soluzione non in una
riconciliazione finale ma in una lotta decisiva tra i due
contendenti, al termine della quale il Male prevarrà sul
Bene (sia pure provvisoriamente), ma distruggerà sé stesso,
creando i presupposti per la ricostruzione di un nuovo, buon
mondo.
|
III
ENŪMA ELIŠ
I POEMI DELLA
MESOPOTAMIA
I popoli della Mesopotamia ci hanno lasciato una delle
versioni più affascinanti mai scritte sulla creazione del
mondo. Le prime testimonianze risalgono, ovviamente,
all'epoca dei Sumeri, chiamati spesso, nei testi più
antichi, «Teste Nere» per la carnagione più scura rispetto
alle altre popolazioni semitiche che abitavano quella
regione. Oscura è l'origine del popolo sumerico, così come è
estremamente difficile riuscire a risalire alla versione
originale dei loro miti, interpolati da stratificazioni e
aggiunte dei popoli che si succederanno nei millenni nella
regione della cosiddetta Mezzaluna Fertile.
1
I SUMERI
i
fu un tempo in cui i sacerdoti dell'antica Sumer adoravano
la triade divina composta da Anu, Enki ed
Enlil e per essi
avevano edificato molte Città Tempio le cui sommità
sembravano sfidare il cielo. A quell'epoca il popolo delle
Teste Nere dominava il mondo e donò all'umanità uno dei
tesori più preziosi: la scrittura.
Le prime leggende e i primi poemi dell'antichità giunti
sino a noi, nonostante il terribile sfacelo causato dalle
sanguinose guerre dei secoli successivi, risalgono proprio a
quest'epoca .
In una di queste storie, si narra di Gilgameš, re di
Uruk
(5),
il quale dopo la morte del suo amato e fedele compagno
Enkidu viaggiò per anni alla ricerca del segreto
dell'immortalità, che gli venne tuttavia negata per la sua
natura (per due terzi divina e per un terzo umana).
Perché io sono
quel
Gilgameš
che afferrò e uccise il Toro del Cielo;
ho ucciso il custode della foresta dei cedri,
ho sconfitto H̬umbaba che abitava nella foresta
e ho ucciso i leoni sui passi del monte.
(Epopea di
Gilgameš [X])
Nel corso del suo peregrinare, Gilgameš giunse sino al
regno dei morti, dove riuscì ad apprendere direttamente
dalla voce dei defunti la verità sulle antiche leggende del
passato.
Una di queste, forse la più nota per il lettore moderno,
racconta del Diluvio Universale, che gli dèi decretarono a
causa della malvagità degli uomini; nessuno sa se, in
realtà, il mondo sia stato in effetti ricoperto
completamente da un oceano d'acqua a causa di un disastro
naturale o se gli uomini abbiano semplicemente voluto
ricordare in questo modo una terribile inondazione di
portata immane.
Fatto sta che le tavolette di argilla più antiche
rinvenute nelle antiche biblioteche di Sumer ci raccontano
delle imprese di Utnapištim, il progenitore dell'umanità che
durante il Diluvio riuscì a mettere in salvo sé e la propria
famiglia, assieme a tutte le specie di animali che oggi
popolano il mondo.
Fu lo stesso Gilgameš, come si diceva, ad ascoltare
direttamente dalla bocca di Utnapištim le vicende del
diluvio, che il re di Uruk si preoccupò di mettere per
iscritto non appena tornato in patria.
Alle prime luci
dell'alba
Venne dall'orizzonte una nube nera;
tuonava da dentro,
là dove viaggiava Adad, signore della tempesta
[…]
Poi sorsero gli dèi dell'abisso:
Nergal divelse le dighe dell'acqua sotterranea,
Ninurta dio della guerra abbatté gli argini
e i sette giudici degli Inferi, gli Anunnakkū,
innalzarono le loro torce.
(Epopea di
Gilgameš [XI])
Il mondo di Sumer non ci ha tramandato solo leggende
scolpite nell'eterno linguaggio della poesia, ma anche testi
di astrologia e di complessi rituali di carattere religioso;
è difficile, tuttavia, riuscire a decifrare quanto, dei
testi che ci sono pervenuti, risalgano all'epoca delle Teste
Nere e quanto, invece, sia frutto di interpolazioni
successive.
Si narra infatti che, quando la terra di Sumer venne
sconfitta da Akkad e dal popolo degli Amorrei, il culto
della triade divina (Anu, Enki ed Enlil) venne soppiantato.
I vinti accettarono con rassegnazione l'affermarsi delle
nuove credenze religiose, mentre i sacerdoti del nuovo culto
si preoccuparono di riscrivere i testi sacri dell'epoca
descrivendo con novizia di particolari il passaggio di
sovranità a Marduk, il nuovo sovrano del Cielo.
2
I BABILONESI
sacerdoti babilonesi ci hanno tramandato un poema sulle
origini dell'universo noto come Enūma eliš (o «Epopea
della Creazione»), che prende il nome dai primi versi
trascritti sulle tavolette rinvenute a Kiš, Babilonia e
Ninive.
Si tratta di una delle visioni cosmologiche più antiche
tra quelle pervenute sino ai giorni nostri.
Questa è
l'epopea che ha inizio all'origine del tempo
quando i cieli in alto
non erano stati ancora nominati
né la terra sotto era stata chiamata per nome.
(Enūma eliš
[I: 1-2])
Esistevano, all'epoca, solo due divinità: Apsū, le acque
primordiali sotto la terra, e Tiāmat, la personificazione
del mare fonte della vita. Essi giacquero insieme e
generarono tutti gli altri immortali.
Gli dèi di
quella generazione si riunirono
e disturbarono Tiāmat
e il loro chiasso rimbombava.
Essi fecero rimescolare il ventre di Tiāmat,
la infastidivano giocando nella dimora degli
dèi.
Apsū non riusciva a calmare il loro rumore.
(Enūma eliš
[I: 21-25])
Allora Apsū, infastidita, meditò di uccidere tutti
gli dèi, ma il saggio Ea «che conosce ogni cosa» (altro nome di
Enki) ne scoprì l'inganno, fece addormentare profondamente Apsū con un incantesimo e lo uccise; quindi Ea si impadronì
della di lui moglie Damkina e concepì un figlio, cui pose il
nome di Marduk.
Altero era il
suo aspetto, penetrante il suo sguardo,
maturo il suo comportamento,
egli fu potente sin dall'inizio,
e suo padre l'ammirò e gioì raggiante;
molto al di sopra degli altri era superiore in
tutto.
(Enūma eliš
[I: 87-92])
Quando Tiāmat scoprì
l'uccisione di Apsū se ne addolorò e cercò di vendicarsi,
generando terribili mostri, tra cui i serpenti giganti, che
vennero dotati di occhi aguzzi e zanne spietate; Tiāmat
ne avvolse i corpi di veleno, anziché di sangue. Essa
inoltre...
...generò un
serpente cornuto,
un drago, un eroe lah̬mu,
un demone, un cane rabbioso,
un uomo scorpione, demoni aggressivi,
un uomo pesce e un uomo toro.
(Enūma eliš
[I: 141-143])
Tiāmat condusse alla
guerra il suo esercito di mostri e sconfisse ripetutamente
gli dèi che dovettero sottomettersi al suo potere; solo
Marduk resistette alla furia dei demoni e si offrì di
sconfiggere in duello la stessa Tiāmat. Una condizione Egli
tuttavia pose agli altri dèi; in caso di vittoria sarebbe
diventato il dio supremo.
La mia parola
decreterà il destino, non la vostra!
Ciò che creerò rimarrà per sempre inalterato!
Ciò che le mie labbra hanno decretato
non sarà mai revocato né cambiato!
(Enūma eliš
[II: 148?-150?])
Gli dèi, nel corso di un banchetto, elessero Marduk come
loro campione e questi preparò quindi le armi per la grande
battaglia contro Tiāmat. Quando i due eserciti cominciarono
a scorgersi in lontananza, Marduk venne colto all'improvviso
da un sacro terrore e la sua sicurezza cominciò a vacillare.
Tiāmat sogghignò e si gettò nella mischia.
Tiāmat e Marduk,
il campione degli dèi,
si fronteggiarono,
si fecero vicini e ingaggiarono battaglia.
Tiāmat aprì la bocca per ingoiarlo,
Marduk scagliò una freccia che le forò il
ventre,
la trapassò a metà e le trapassò il cuore,
la vinse e le tolse la vita.
Egli gettò a terra la carcassa e le si mise
sopra.
(Enūma eliš
[IV: 93-104])
Marduk sconfisse e imprigionò tutti i demoni creati da
Tiāmat; quindi gettò a terra la carcassa della sua grande
nemica e la divise a metà, «come un pesce messo ad
essiccare»; con una metà egli creò il firmamento e con
l'altra fabbricò la terra.
Marduk organizzò tutto l'universo, creò il sole, la luna,
gli astri, le nuvole, il vento e la pioggia; con la saliva
di Tiāmat vennero fabbricate le nuvole, con i suoi occhi il
Tigri e l'Eufrate. Il dio supremo impose le leggi alla
natura e agli esseri viventi e fece costruire le dimore
degli dèi all'interno della città più sacra che chiamò
Babilonia. Per un anno intero gli dèi costruirono mattoni e
costruirono il grande santuario e il tempio a gradini
chiamato ziqqurat.
Gli altri dèi gli tributarono grandi onori e lo
proclamarono il dio supremo, poiché Egli aveva salvato
l'universo dalle forze distruttrici del caos.
Infine, Marduk si accinse a compiere il miracolo più
grande: mettendo insieme «sangue ed ossa», il dio creò
l'essere primitivo cui diede il nome di Uomo, affinché la
sua discendenza potesse proseguire il lavoro degli dèi.
* * *
Finisce così l'epopea della creazione così come ci è
stata tramandata dai sacerdoti di Marduk. La mitologia
mediorientale dei secoli successivi è permeata, invece,
dalla religione persiana, dominata dalla figura di Ahura
Mazdā, il signore degli dèi che creò il cielo, l'acqua, la
terra e l'Albero originale.
Alla grande potenza di Ahura
Mazdā, tuttavia, si
contrappone lo Spirito del Male rappresentato da Ahriman,
che mira alla distruzione del mondo ed è impegnato in una
perenne lotta cosmica con il Bene. Ahura
Mazdā crea gli
uomini proprio per assisterlo nel conflitto contro il male,
ma Ahriman riesce ad installare in alcuni di loro l'inganno
e la falsa convinzione che sia stato il maligno a creare il
mondo.
Secondo la mitologia persiana, l'era in cui viviamo
terminerà con la sconfitta totale del male, grazie
all'apporto decisivo degli uomini virtuosi, anche se la
punizione dei malvagi non sarà per l'eternità, essendo ciò
una contraddizione con la misericordia divina. Non vi è chi
non vede – e forse non a torto – in Ahriman un antesignano
della figura di Samael, personaggio della mitologia ebraica
entrato poi di prepotenza nella cultura cristiana e meglio
noto come Satana (v. Capitolo VI).
|
IV
AMON, PTAḤ E ATUM-RA
I PAPIRI
EGIZIANI
La cosmogonia, vale a dire quella branca del sapere
che indaga sull'origine dell'universo, ebbe sempre grande
importanza presso gli antichi Egizi. Non esistono, tuttavia,
versioni «ufficiali» sulla creazione del mondo ma una
pluralità di tradizioni tra di loro eterogenee, sintomo di
una cultura religiosa avente origini molto diverse,
all'inizio, prima della unificazione politica e culturale
dell'Egitto. I frammenti di papiro giunti sino a noi ci
hanno restituito le tre teorie cosmologiche principali,
facenti capo alle città sacre di Eliopoli, Ermopoli e Menfi.
1
IL DIO-SOLE DI ELIOPOLI
lla
periferia del Cairo, è possibile rinvenire le rovine della
città sacra di Yunu, che Erodoto chiama Eliopoli (la Città
del Sole), dove la classe sacerdotale elaborò più di
cinquemila anni fa la prima teoria coerente sulle origini
dell'universo.
Si narra, infatti, che all'inizio esisteva nell'oscurità
un infinito oceano di acque primordiali che gli antichi
chiamarono Nu (o Nun).
All'alba dei tempi, scaturì a plasmare gli elementi il
creatore dell'universo: questi era Atum (assimilato in tutto
e per tutto con Ra, il dio del sole), il quale fece sorgere
un tumulo primigenio a forma di piramide e dall'alto della
sua visuale contemplò il caos.
Non esisteva il
cielo, non esisteva la terra,
creai da solo tutti gli esseri.
Da un mio starnuto nacque Šu,
da uno sputo Tefnut.
Il primo atto creativo aveva dunque generato le due
divinità più antiche, spesso raffigurate nell'iconografia
religiosa come due leoni: Šu (che personifica il Vuoto,
l'Aria) e Tefnut (che letteralmente significa la rugiada,
l'umidità dell'aria; ma i sacerdoti insegnavano che essa
poteva essere identificata anche con l'atmosfera
dell'oltretomba).
Dall'unione di Šu e Tefnut nacquero Gebb, il dio della
terra (nonché personificazione dell'Egitto stesso), e Nut,
la dea del cielo. La cosmogonia eliopolitana raffigura
spesso la dea del cielo piegata ad arco sopra il dio della
terra, divenuto suo marito.
Dall'unione di Gebb e Nut nacquero quattro figli:
Iside,
Osiride, Seth e Nefti, completando così la genealogia delle
nove divinità principali (la famosa Enneade).
Successivamente, per volere di Atum, i due consorti vennero
separati a opera di Šu, che da allora si frappone tra terra
e cielo.
TABELLA N. 5 |
|
L'enneade di Eliopoli |
Il mito della creazione concepito dai sacerdoti di
Eliopoli a questo punto si ricollega ad un altro ciclo
mitico dell'antico Egitto, originatosi nella zona del Delta
del Nilo e precisamente nella città di Menfi: quello della
sovranità.
Secondo la tradizione, fu Osiride a ereditare il diritto
a governare il mondo in quanto primogenito di Gebb e Nut.
Egli prese in sposa sorella Iside e questo costituì per
millenni il modello di regalità di tutto l'antico Egitto (i
faraoni erano infatti soliti prendere in sposa una loro
sorella).
Durante il regno di Osiride, le terre del Nilo
prosperarono anche perché il dio era in grado di plasmare e
modellare gli elementi a beneficio del paese.
Quel periodo così felice, tuttavia, venne sconvolto a
causa della usurpazione dell'antagonista di Osiride, il
malvagio dio Seth: questi squarciò il ventre di Nut e diede
inizio ad un periodo di violenza e di caos; poi rivolse la
sua ira nei confronti del fratello, che prese a tormentare
in tutti i modi, giungendo infine ad ucciderlo presso il
fiume Nedyet. Seth divenne così il sovrano assoluto
dell'Egitto e associò al trono la sorella Nefti, che prese
in moglie.
Mentre Seth governava con crudeltà e violenza, i lamenti
struggenti della bella e sfortunata Iside, vedova del
defunto sovrano, echeggiavano per tutta la terra; mossa a
pietà per il dolore della sorella, Nefti si mise alla
ricerca del corpo di Osiride, per potergli dare almeno una
degna sepoltura.
Si narra, a questo punto, che Iside e Nefti riuscissero a
ricomporre il cadavere del dio, che Seth aveva fatto
crudelmente a pezzi, nella città di Abido; le due sorelle
avvolsero Osiride nelle bende ponendo in essere per la prima
volta quel processo di mummificazione che divenne poi tipico
della cultura funeraria egiziana.
Il dio Osiride discese quindi nel Duat, il regno degli
inferi, dal quale egli regna ancora come Signore
dell'Oltretomba.
Poco prima di ultimare il rituale di sepoltura, tuttavia,
la dea Iside fece uso dei suoi grandissimi poteri magici per
far risorgere l'alito della vita (sia pure per un attimo)
nel suo sposo. Quanto basta per concepire con lui un figlio
destinato un domani a riprendere il trono ingiustamente
usurpato da Seth.
Il figlio di Iside e Osiride fu quindi Horus, il dio
falco, fondatore della dinastia dei faraoni d'Egitto.
Raggiunta l'età adulta, questi dichiarò guerra allo zio e lo
affrontò in una serie di sanguinose prove e battaglie a
seguito delle quali Horus uscì sempre vincitore.
Nonostante gli inganni di Seth (che sfiderà il nipote
prendendo ora le sembianze di un ippopotamo, ora di un
coccodrillo, ora di altro animale), Horus continuò a
perorare i propri diritti di legittimo erede al trono
davanti agli antichi dèi.
Alla fine, l'Enneade rese giustizia al figlio di Osiride,
cui venne assegnata la sovranità totale di tutto l'Egitto.
Lo zio usurpatore e i suoi seguaci vennero esiliati ma non
uccisi poiché Seth era sotto la protezione del dio Ra.
Horus associò al trono la regina madre Iside (nota, a
questo punto, anche come Hathor) e cinse per la prima volta
la doppia corona, simbolo di regalità nell'Antico Egitto.
2
PTAḤ DI MENFI
l
dio Ptaḥ era una delle divinità principali di Menfi, la più
antica capitale dell'Egitto; questi viene presentato dai
testi sacerdotali (tra tutte, la Pietra di Šabaka) come dio
creatore, supremo artefice e demiurgo (e, in quanto tale,
anche protettore del genio creativo e degli artigiani).
Secondo il clero di Menfi, Ptaḥ era il tumulo primigenio
sorto all'origine del tempo ed era per questo chiamato
Ta-tenen, che in antico egizio significa la «terra che è
diventata distinguibile», ossia tutto quanto è derivato dal
caos primordiale (Nu).
Ptaḥ diede quindi vita agli altri dèi, compreso Atum e
tutte le altre divinità dell'Enneade di Eliopoli per mezzo
del cuore e della lingua. Egli è perciò presente nel cuore e
nelle bocche di tutti gli dèi, di tutto il bestiame e di
tutti gli esseri che vivono.
La concezione della creazione ad opera di Ptaḥ è in
verità assai singolare: il potere della sua parola era tale
che tutti gli esseri mortali ed immortali vennero in essere
solo pronunciandone il nome. In pratica, per la prima volta
nella storia del mondo il principio primo della creazione è
visto come un principio intellettuale, la mente è la causa
del mondo materiale.
Nessuno è in grado di stabilire quanto le culture
successive siano debitrici del patrimonio dei sacerdoti di
Ptaḥ; certo è che i papiri di Menfi ricordano in maniera
troppo evidente la dottrina greca del Lógos (il Pensiero
Razionale che permea il mondo, citato da Eraclito e dagli
Stoici) nonché il celeberrimo passo del Nuovo Testamento:
In principio
era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo.
Egli era in principio presso Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di Lui; e senza di
Lui
niente è stato fatto di ciò che esiste.
In Lui era la vita;
e la vita era la luce degli uomini.
(Giovanni [I:
1-14])
I sacerdoti di Menfi discettavano altresì sulla natura
del Lógos di Ptaḥ, discutendo se questo avesse pianificato o
meno il destino dell'universo: ma se la religione egiziana
avesse sviluppato una vera e propria teoria della
predestinazione, purtroppo non siamo in grado di dirlo.
3
L'OGDOADE DI ERMOPOLI
icino
all'odierno villaggio egizio di al-Ašmūnayn, si trovava la
città chiamata dai Greci Ermopoli,
nell'antichità fu il maggior centro di culto di Thot, il dio
della sapienza che trasmise agli uomini il segreto della
scrittura e dei geroglifici (per questo venne identificato
con il dio greco Hermes e chiamato Ermete
Trismegisto, cioè
«tre volte grandissimo»). Proprio dalla città di Ermopoli
proviene una delle grandi visioni cosmogoniche dell'antico
Egitto.
Secondo il mito della creazione dell'Ogdoade
(letteralmente: otto dei), l'originaria essenza
dell'universo non era costituita dal solo Nu, ma da otto
divinità che vivevano assieme in un perfetto equilibrio
all'interno della melma primordiale: Nu e Haunet (le acque
primigenie), Heh e Hauhet (la forza dell'acqua),
Kek e
Kauket (l'oscurità), Amon e Amaunet (il dinamismo occulto);
ciascuna delle quattro coppie è costituita da un principio
maschile, raffigurato in forma di rana (Nu, Heh, Kek e Amon),
e da un principio femminile, raffigurato in forma di
serpente (Haunet, Hauhet, Kauket e Amaunet).
L'equilibrio tra questi otto poteri elementari venne
rotto dalla interazione tra le divinità: ci fu un'enorme
esplosione da cui sorsero il sole, la terra e tutti gli
esseri mortali ed immortali. Secondo i sacerdoti di Ermopoli,
dunque, l'Ogdoade precede l'universo e ne rappresenta il
principio primo: da essi derivarono Atum, il sole, e l'Enneade.
Successivamente, tre coppie dell'Ogdoade si estraniarono
dal processo creativo dell'universo, rimanendo immutabili ed
impassibili, mentre la quarta (Amon e Amaunet) ne divenne
parte integrante.
Durante il Nuovo Regno, i sacerdoti di Tebe (la nuova
capitale dell'Egitto) esaltarono la figura del dio Amon, che
viene visto sempre più come demiurgo e creatore nonché come
una entità trascendente che esiste al di là del cielo e del
più profondo degli inferi.
Se nel mito di Ermopoli, Amon è solo uno degli elementi
della Ogdoade, nella cosmogonia tebana egli diventa «colui
che si nasconde», un mistero la cui essenza è inconcepibile.
Come essere trascendente, Amon esiste prima di ogni altra
sostanza: una volta emerso da un non meglio definito uovo
cosmico, egli crea la materia primitiva e l'Ogdoade di cui è
comunque parte divenendo così «il Primo che fa nascere i
primi».
Amon è anche l'impulso che dà inizio a quella esplosione
creativa dell'intero universo. Sotto questo profilo, secondo
alcune versioni, tutte le divinità (inclusa l'Enneade) non
sarebbero altro che proiezioni di Amon, che però nella
maggior parte dei casi è associato al dio sole per cui non è
infrequente l'appellativo di Amon-Ra.
Successivamente, Amon avrebbe creato il dio H̬num,
raffigurato con la testa di montone, cui viene conferito il
potere regale sulla terra; nella cosmologia tebana, è H̬num
il creatore degli uomini e di tutte le specie animali nonché
il capostipite della stirpe dei faraoni, i reggitori
dell'antico Egitto.
|
V
LE CINQUE INVASIONI
TRADIZIONI CELTICHE
Gli antichi sacerdoti della religione celtica, i
Druidi, possedevano probabilmente delle dottrine segrete
sull'origine del mondo e dell'uomo che essi, tuttavia, non
vollero mai mettere per iscritto.
Per tale motivo, nelle più antiche storie sul principio di
tutte le cose che questi popoli ci hanno tramandato, il
narratore non comincia dal mondo, ma dal proprio paese di
origine. La versione più interessante di questo genere
letterario ci viene tramandata dalla letteratura irlandese.
1
IL CICLO MITOLOGICO
ell'antico
testo del Lebor Gabála Érenn (il
«Libro delle conquiste d'Irlanda»), compilato dai monaci
irlandesi tra il secolo XI e il secolo XII, si narra che un
giorno il monaco Finnen ricevette la visita di un guerriero
molto vecchio, il quale disse di chiamarsi Túan, figlio di
Starn e discendente dell'antichissima stirpe di Parthólon.
(6)
Il monaco capì che al guerriero era stata evidentemente
donata una vita lunghissima, per cui fece celebrare la messa
e recitare i salmi, quindi chiese a Túan di narrargli le
storie dell'antichità. Il guerriero esordì:
Vi furono cinque invasioni,
nessuna prima del Diluvio. E, dopo il Diluvio, nessuno giunse se non dopo trecento e dodici anni. Fu allora che Parthólon figlio di Sera si stabilì in Ériu.
Si apre così il Ciclo delle Invasioni, una delle leggende
più antiche e famose della letteratura celtica. Túan fu
testimone di tutta la storia dell'antica Irlanda, poiché
egli accompagnò la prima colonizzazione dell'isola al
seguito di Parthólon, poi si incarnò in un cervo, in un
cinghiale ed in un falco, prima di trasformarsi in un
salmone di mare
(7); catturato dalla rete di un pescatore, venne
portato alla moglie di Carell, un sovrano locale. La moglie
del re mangiò il salmone tutto intero e scoprì, subito dopo,
di portare un figlio nel grembo, cui venne dato il nome di
Túan, figlio di Carell. Il bambino, sin dall'inizio,
riusciva a parlare come un adulto e ricordava tutto quanto
assimilato nelle vite precedenti: sviluppò doti profetiche
e, in vecchiaia, aderì al nuovo credo cristiano che San
Patrizio aveva portato nell'isola.
Secondo la leggenda, Parthólon e il suo seguito furono i
primi a colonizzare l'isola di Ériu; fuggivano dalla loro
terra natale, la Mygdonia (la Piccola Grecia), perché il
loro capo si era macchiato di un terribile crimine, avendo
ucciso il padre e la madre.
Parthólon figlio di Sera giunse così, esiliato, portando
con sé ventiquattro uomini con le rispettive compagne e i
servitori; in breve tempo la comunità crebbe e prosperò,
arrivando a contare oltre cinquemila abitanti.
Dieci anni dopo la conquista dell'isola, i primi abitanti
dell'Irlanda dovettero fronteggiare la stirpe dei Fomori,
esseri giganteschi e deformi con una sola gamba ed un solo
braccio, guidati da Cíchol il Senzapiede. Parthólon combatté
contro questi demoni e li ricacciò nei mari del Nord, da
dove essi saltuariamente calavano per delle scorrerie.
Il popolo di Parthólon si estinse a causa di una
terribile pestilenza che flagellò gli abitanti di Ériu
trecento anni dopo la battaglia combattuta contro i Fomori;
uno solo si salvò e fu proprio Túan, figlio di Starn, il
quale visse da solo per trent'anni vagando di roccia in
roccia, di fortezza in fortezza, cercando riparo dai lupi.
Dopo l'improvvisa estinzione delle genti di Parthólon, a
causa dell'epidemia, venne a conquistare Ériu la stirpe di
Nemed, proveniente dai Greci di Scizia. Essi dissodarono le
pianure, formando quattro laghi, e costruirono fortezze.
Anche Nemed dovette combattere ripetutamente contro i
terribili Fomori dell'oltremare, che vennero sconfitti a più
riprese, sia pure a costo di molte perdite. Anche questa
volta, tuttavia, l'isola di Ériu venne funestata da una
pestilenza, che uccise lo stesso Nemed e tremila abitanti
del suo popolo.
I Fomori approfittarono allora della situazione di
momentanea debolezza dei loro avversari per imporre agli
irlandesi una odiosa tirannia. A quell'epoca, i due capi
di quel popolo demoniaco erano Morc e Conann: essi
costruirono nell'isola di Tór Inis
(8) la loro roccaforte, detta da allora Torre di
Conann,
e imposero ai Nemediani pesanti tributi: due terzi del
grano, del latte e dei figli dovevano essere consegnati ogni
anno ai Fomori.
Le genti di Nemed, esasperate da quella tassa che li
aveva condotti alla miseria più nera, si riunirono in
assemblea e decisero di ribellarsi. Essi approdarono su Tór Inis e ne espugnarono la
fortezza, che venne data alle fiamme; lo stesso
Conann, capo dei Fomori, perì nel
corso della battaglia.
L'assalto della Torre
di Conann, grande evento, contro Conann il grande figlio di Febar: gli uomini di
Ériu vi andarono, tre nobili principi con loro.
I Fomori, tuttavia, tornarono alla riscossa con truppe
fresche guidate da Morc, che sterminò la stirpe di Nemed:
solo trenta superstiti sopravvissero alla strage e tornarono
mesti nella loro terra di origine.
L'isola di Ériu rimase deserta per trecento anni prima di
essere nuovamente colonizzata dal popolo dei Fir Bolg,
discendenti di Semeon della stirpe di Nemed, che era
sopravvissuto al massacro della Torre di Conan.
La stirpe dei Fir Bolg aveva vissuto per secoli in terra
di Grecia, dove era stata sottoposta ad un pesante tributo;
esasperati da una tale condizione servile, essi avevano
deciso costruire canoe e vascelli con la pelle e i sacchi
che utilizzavano per trasportare la terra: per questo erano
noti come Uomini del Sacco [bolg].
In generale, la genealogia irlandese tende a non dare
grande importanza a questo popolo, cui venivano attribuite
caratteristiche di servilismo. I Fir Bolg continuarono ad abitare l'Irlanda anche a
seguito delle invasioni successive, ma furono sempre
relegati in posizioni di inferiorità. Anche in periodi
storici, in Irlanda affermare che una persona aveva sangue
Fir Bolg significava attribuirgli una estrazione plebea.
L'Irlanda venne quindi colonizzata dal popolo di Danann,
discendenti da Beothach della stirpe di Nemed; questi, dopo
la guerra con i Fomori, si erano stabiliti nelle isole
settentrionali del mondo, dove avevano appreso la scienza
druidica, la magia e l'arte: la tradizione li conosce con il
nome di Túatha Dé Danann
(«le genti del dio la cui madre è Danann»).
Dopo aver completato la loro erudizione, i Túatha Dé
Danann dimorarono tra gli Ateniesi e i Filistei; in seguito,
decisero di prendere il mare e, alla guida del principe
Núada, giunsero nell'isola di Ériu avvolti da una nube
magica.
Secondo un'altra tradizione, i discendenti di Beothach
giunsero nell'isola provenendo dalle
isole del profondo nord e portando con sé quattro oggetti dai poteri
soprannaturali. I quattro tesori che i Túatha Dé Danann
avevano donato all'Irlanda erano: la Pietra del Destino, la
Lancia di Lúg, la Spada di
Núada e il Calderone del Dagda
Mor.
La pietra venne collocata sulla collina di Tara ed
utilizzata nei secoli a venire per riconoscere, tra i vari
pretendenti al trono, la persona degna di essere acclamata
come re supremo d'Irlanda (Árd Ríg): la pietra, infatti, emetteva un
grido al cospetto del legittimo sovrano.
(9)
La Lancia di Lúg dal lungo braccio era un'arma invincibile, che venne in
seguito incorporata nella tradizione cristiana e
identificata con la lancia che ferì il costato di Gesù di
Nazareth.
La Spada di Núada dal lungo braccio era anch'essa un'arma
leggendaria, il cui potere venne tramandato di generazione
in generazione; essa divenne nota nella tradizione
irlandese come Caladbolg e menzionata da Goffredo di Monmouth con il
nome di Caliburn. Solo in seguito, tuttavia, fu
universalmente conosciuta come Excalibur, la spada di Re
Artù.
Il Calderone del Dagda Mór (uno dei Túatha Dé Danann) viene
menzionato anche nelle leggende gallesi, che spesso fanno
riferimento ai poteri di un oggetto magico in grado di far
rivivere i morti gettati dentro quel paiolo fatato.
Inizialmente parte integrante di un rituale legato al ciclo
della morte e della rinascita (e, quindi, della
reincarnazione
(10)). Il calderone venne in seguito assimilato
nel patrimonio di leggende che fanno da contorno al
Cristianesimo medievale e divenne noto come il Sacro Graal,
il calice dell'Ultima Cena dove Giuseppe d'Arimatea riuscì a
raccogliere il sangue di Gesù. Non si può non citare, ora,
il primo riferimento al Graal della letteratura romanza
(scritto tra il 1160 e il 1190), destinato ad alimentare un
ciclo di racconti ed avventure che ancora oggi appassiona
milioni di lettori:
Da una camera apparve un valletto, che impugnava a metà
una lancia splendente di biancore. Una goccia di sangue
usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla
mano del valletto, questa goccia vermiglia. […] Vennero
allora due altri valletti, due bellissimi uomini, che
tenevano in mano due candelabri d'oro fino lavorato […] Un
graal teneva una damigella tra le mani e seguiva i
valletti bella, gentile e nobilmente adornata. E quand'essa
fu entrata, da tutto il graal che essa teneva s'irradiò per
tutta la sala un chiarore sì grande che le candele
impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il
sole. Dopo questa damigella ne veniva un'altra che portava
un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto
dell'oro più puro; vi erano inserite pietre preziose delle
più ricche e delle più varie che esistano per mare e per
terra; nessuna gemma potrebbe paragonarsi a quelle del
graal.
(Chrétien de Troyes:
Perceval il gallese o Il
racconto del Graal)
È evidente, anche da una prima lettura delle leggende che
parlano dei Túatha Dé Danann, che in origine tali figure
avessero attributi divini, che persero via via che il
Cristianesimo conquistò proseliti e fedeli nella verde
Irlanda. Nella forma in cui la mitologia irlandese è giunta
sino a noi, essi hanno ormai perso la qualifica di dèi per
essere ridotti al rango di esseri fatati o, tutt'al più, di
angeli caduti. In alcuni passi, tuttavia, il popolo di
Danann
sembra conservare quei poteri e quelle caratteristiche che
ne tradiscono l'origine più «nobile».
Si racconta che, quando i Túatha Dé Danann giunsero in
Irlanda, essi proposero ai Fir Bolg di dividere l'isola in
parti uguali tra i due popoli; questi ultimi, tuttavia, non
furono per niente impressionati dalla potenza dei loro
avversari e decisero di attaccare battaglia.
Lo scontro ebbe luogo nella piana di Mag Tuired (Moytura)
e si risolse con la completa disfatta dei Fir Bolg. I Túatha
Dé Danann, condotti dal loro principe Núada, conquistarono
la terra di Ériu e lasciarono agli sconfitti il possesso
delle sole province occidentali (l'odierno Connacht).
Nello scontro con i Fir Bolg, tuttavia, al principe Núada
venne mozzato il braccio; anche se gli abili artigiani del
popolo di Danann riuscirono a costruirgli un arto in argento
(per questo, egli divenne noto come Núada Mano d'Argento),
la legge imponeva che nessun uomo con un difetto fisico
potesse essere sovrano. I Túatha Dé Danann, pertanto,
acclamarono come re Bress, il quale tuttavia pur essendo
giovane e bello non aveva le doti necessarie per diventare
un vero capo; egli lasciò che i Fomori spadroneggiassero
come un tempo e imponessero la loro tirannia al popolo di
Danann.
A questo punto entra in scena nel ciclo mitologico
irlandese uno dei personaggi più importanti di tutta la
religione celtica: Lúg, figlio di Cían, meglio noto come il
Dio Sole
(11). La tradizione vuole che egli fosse di sangue
misto, perché sua madre Ethlinn era una principessa dei
Fomori che re Balor aveva rinchiuso all'interno di una
torre per paura di una profezia (un druido, infatti,
sosteneva che il figlio di Ethlinn avrebbe causato la morte
del nonno e la rovina di tutta la stirpe dei Fomori). Questo
accorgimento non impedì, tuttavia, a Cían dei Túatha Dé
Danann di giungere all'interno della torre grazie ad un
incantesimo e di sedurre la principessa.
Quando giunse il momento, Ethlinn partorì tre gemelli; il
re Balor, furioso, decretò che i tre bambini venissero messi
a morte. L'araldo incaricato di eseguire la terribile
sentenza avvolse i neonati in un telo per gettarli in mare:
per puro caso, tuttavia, lo spillo che avvolgeva il fagotto
si staccò e uno dei tre bimbi cadde in una piccola baia
prima di essere gettato in acqua.
Una druidessa amica di Cían salvò il bambino e lo portò
dal padre, che lo crebbe sino a farlo diventare sano, forte
e padrone di tutte le conoscenze dei Túatha Dé Danann: tutti
conoscevano quel giovane come Lúg dal Lungo Braccio.
Si narra che Lúg si presentò all'assemblea dei Túatha Dé
Danann proprio in occasione del pagamento del tributo
annuale ai Fomori; al suo apparire, tutti ebbero la
sensazione di veder sorgere il sole in un mattino d'estate.
Lúg si rifiutò di corrispondere ai Fomori l'odiosa tassa
che i demoni pretendevano di volta in volta e attaccò
battaglia: i Túatha Dé Danann si schierarono al suo fianco e
ricacciarono gli invasori dall'isola di Ériu.
Il figlio di Cían venne eletto a furor di popolo sovrano
delle gente di Danann e si preparò alla battaglia decisiva
contro i Fomori, desiderosi di prendersi una rivincita dopo
l'umiliazione della mancata riscossione del tributo.
Lo scontro ebbe luogo ancora una volta nella piana di Mag Tured e fu un terribile massacro, in cui
persero la vita molti tra i Fomori e tra i Túatha Dé Danann;
tra le vittime più illustri, anche Núada Mano d'Argento,
antico reggitore del popolo di Danann.
Alla fine, risultò decisivo il duello tra Lúg e Balor,
che si risolse con la morte del sovrano dei Fomori: la
profezia evocata dal druido si era dunque avverata.
I Túatha Dé Danann si assicurarono così il pieno dominio
dell'isola di Ériu; l'infame Bress, che dopo essere stato
detronizzato si era schierato dalla parte dei demoni
invasori, ebbe salva la vita da Lúg, ma in cambio della
grazia dovette insegnare tutti i segreti dell'agricoltura ai
figli di Danann, i quali regnarono indisturbati per
lunghissimo tempo.
Dopo la vittoria, la Mórrígan
(12) andò sulle vette regali
di Ériu ad annunciare il definitivo trionfo sui Fomori:
si narra che, in quell'occasione, ella profetizzasse la
imminente fine del mondo.
I giudizi errati dei
vecchi, le false sentenze dei giudici, ogni uomo un traditore, ogni fanciullo un ladro. Il figlio nel letto del padre, il padre nel letto del figlio, ciascuno si farà cognato del fratello.
Tempo di empietà! Il figlio tradirà il padre, la figlia tradirà la madre…
La quinta ed ultima invasione dell'Irlanda avvenne ad
opera dei figli di Míl (altrimenti noti come Milesi),
detti anche Goideli o Gaeli. I loro antenati
discendevano da Jafet, figlio di Noè, e avevano vissuto
in Scizia, in Grecia ed in Egitto, prima di approdare in
Spagna.
Dopo aver osservato dall'alto di una torre l'ombra
dell'isola di Ériu, i Gaeli decisero di mettersi in mare
alla volta di quella terra lontana.
Il primo contatto tra i figli di Míl e i Túatha Dé
Danann, che pure parlavano la stessa lingua, non fu per
niente pacifico; il vecchio Íth, capo della spedizione,
venne inizialmente chiamato per dirimere una
controversia tra i sovrani del popolo di Danann; quando
però questi ultimi capirono che i Gaeli avevano delle
mire di conquista, Íth venne catturato e messo a morte.
I superstiti tornarono in Spagna, raccontando ai loro
consanguinei della terribile umiliazione subita. I figli
di Míl decisero di vendicarsi dell'oltraggio e
prepararono una nuova spedizione per invadere l'Irlanda.
Si narra che, al seguito della spedizione, vi fosse
anche il bardo e poeta Amairgin, il quale dedicò alla
verde isola i primi versi che la storia ricordi .
Io invoco la terra d'Irlanda: lucente, lucente mare; fertile, fertile terra; radure, radure dei boschi! Fiumi gonfi, gonfi di acqua! Lago che abbondi di pesci!
Ci fu una grande battaglia tra i Milesi e i Túatha Dé
Danann, che si risolse con la totale disfatta del popolo
di Danann; i Gaeli assunsero la sovranità dell'isola
d'Irlanda, che mantennero sino all'epoca storica; nei
secoli successivi, tutte le famiglie nobili dell'isola
si vantavano di avere sangue milesio nelle vene.
In realtà, agli stessi irlandesi ripugnava l'idea che i
Túatha Dé
Danann, esseri dai poteri straordinari e di lontane
origini divine, potessero essere sconfitti da una stirpe
mortale. Per questo poeti e letterari immaginarono che
essi, in realtà, «si sono fusi con la terra stessa, o
almeno è questo ciò che dicono gli uomini eruditi. I Danann hanno riposto il loro spirito negli alberi,
oppure si sono insinuati nel sottosuolo per vivere
dentro enormi caverne dall'ingresso nascosto e c'è chi
crede che essi siano immortali… Qualsiasi cosa possano
essere, di certo sono magici, dotati di una magia
temibile. Nessuno conosce il limiti dei loro poteri, ed
essi non hanno mai veramente abbandonato Erin».
(13)
I Túatha Dé Danann, in altre parole, grazie all'utilizzo
dei loro incantesimi, si ammantarono di un velo di
invisibilità e si ritirarono in un mondo soprannaturale,
illuminato da una luce perpetua e in cui il tempo
trascorre più lentamente: essi trascorrono le giornate
cibandosi di carne e birra fatate in grado di assicurar
loro l'eterna giovinezza.
Secondo la tradizione, la sottile barriera tra il mondo
dei Túatha Dé Danann (noti, in questa veste, anche come
popolo dei Síde) e quella degli uomini mortali può
essere violata solamente in alcune, rarissime occasioni.
Una di queste è la solenne festa di Samain
(14), in cui il
confine tra il mondo terreno e quello soprannaturale
viene meno e gli esseri fatati vengono a far visita alla
gente comune; anche il più umile dei contadini irlandesi
si aspetta, almeno una volta nella vita, un incontro con
le fate o con i folletti e diventerà molto scortese con
chi oserà anche solo metterne in dubbio l'esistenza.
|
VI
CIÒ CHE LA BIBBIA NON DICE
AI PRIMORDI DELLA
MITOLOGIA EBRAICA
La creazione del mondo così come viene raccontata
nella Genesi costituisce una testimonianza dal valore
incommensurabile sotto il profilo poetico e letterario,
oltre che religioso.
Pochi sanno, tuttavia, che il testo pervenuto al
lettore di oggi è il frutto di una evoluzione millenaria in
cui sono confluite tradizioni diverse.
In una di esse, il nome del dio creatore viene
denominato Yahweh, mentre in altri testi all'unica divinità
viene dato il nome di Elohim.
L'anonimo compilatore dei testi biblici (forse il gran
sacerdote Esdra, ma non è escluso che più mani abbiano
contribuito alla stesura finale) ha cercato di conciliare
tutte le varie tradizioni in un testo coerente, non senza
farsi sfuggire qualche «sbavatura».
(15)
Esistono tuttavia versioni ancora più antiche, non
confluite nel testo ufficiale, sulla creazione del mondo che
denotano un legame evidente tra la religione ebraica e la
tradizione babilonese, ugaritica
e cananea, nonché con i miti egiziani.
È peraltro verosimile che, durante il periodo in cui
gli Ebrei vissero in Egitto in una condizione servile, essi
siano venuti in contatto con quella comunità egiziana che,
fedele agli insegnamenti del faraone Amenophis IV
(altrimenti noto come Akhenaton), riconosceva come unico dio
Aton, il disco del Sole, e abbiano consolidato il proprio
monoteismo. Secondo alcune interpretazioni, infatti, proprio
in Egitto la religione degli Ebrei sarebbe passata dal «monolatrismo»
(la prevalenza del culto di un dio sugli altri), al
«monoteismo» vero e proprio, vale a dire la religione
dell'unico Dio.
(16)
Non è escluso neppure che alcuni Egiziani abbiano
seguito gli Ebrei nella loro fuga attraverso il Mar Rosso
verso la terra promessa: lo stesso nome di Mosè ha
probabilmente un'origine egizia.
1
LA CREAZIONE DEL MONDO
Quando Dio creò il cielo e la terra, nulla trovò intorno
a sé, se non Tohu e Bohu, vale a dire il caos e il vuoto.
L'abisso su cui lo spirito divino si librava era ricoperto
dalle tenebre.
Il primo giorno della creazione, Dio disse: — Sia la
luce! — E la luce fu.
Il secondo giorno, venne creato uno spazio celeste per
separare le acque di sopra da quelle di sotto: e venne
chiamato «cielo».
Il terzo giorno Dio radunò le acque di sotto in un unico
luogo, lasciando scoperto l'asciutto, cui venne dato il nome
di «terra»; alle acque così radunate venne invece dato il
nome di «mare». Il Signore ordinò quindi alla terra di dar
vita ai prati, alle erbe e agli alberi.
Il quarto giorno venne creato il sole, la luna e le
stelle.
Il quinto giorno il Signore donò la vita ai pesci e agli
altri animali acquatici.
Il sesto giorno Dio creò gli animali della terra, i
rettili e il genere umano.
L'universo intero venne quindi creato in sei giorni; il
settimo giorno, soddisfatto del suo lavoro, il Signore si
riposò. (17)
Altri sostengono invece che, dopo aver creato il cielo e la
terra, Dio formasse una nebbia umida per dare vita al
giardino dell'Eden (il Paradiso Terrestre); solo
successivamente venne ad esistenza il primo uomo, che venne
chiamato Adamo, gli animali e per ultimo la donna.
(18)
Secondo un'altra versione, non confluita nella Genesi,
Dio creo il cielo e le stelle con una sola parola di
comando; in seguito, Egli si librò sugli abissi e, dopo aver
cosparso di raggi luminosi le acque superiori, là edificò il
proprio trono.
Mentre era intento all'opera della creazione, il Signore
pose la terra su fondamenta inamovibili e, per fare ciò,
affondò alcune montagne a mo' di pilastri nelle acque
dell'abisso.
Allora, le ribollenti acque inferiori si ribellarono e
Tehom (19), la loro regina, minacciò di distruggere il lavoro
creativo di Dio. Montato sul suo carro di fuoco, il Signore
fermò le ondate e scagliò raffiche di fulmini e saette
contro i suoi nemici; dominate dalla voce tuonante di Dio,
le acque si ammansirono e si dichiararono vinte; allora il
Signore emise un ruggito di vittoria e le sottomise al suo
volere; Egli decretò inoltre che Tehom dovesse rimanere per
sempre rinchiusa dentro cancelli, sprangati con sbarre di
ferro.
Da allora, Tehom è rimasta acquattata in sottomissione
nella sua cavità, anche se Dio consente ogni tanto alle
acque inferiori di scaturire poco a poco, inviando ruscelli
o nutrendo le radici degli alberi; in un'unica occasione
venne rimosso il sigillo che impedisce a Tehom di
riprendersi il dominio del mondo e ciò è stato in occasione
del Diluvio Universale.
Il Signore, allora, completò la creazione ed esiliò
quindi Tohu e Bohu; ancora oggi, tuttavia, è possibile
riconoscere Tohu come la sottile e grigia linea
dell'orizzonte, da cui ogni sera nasce la tenebra. Bohu è,
invece, il nome che viene dato alle pietre luccicanti
sprofondate nell'abisso marino, dove sono in agguato
terribili mostri marini.
Altri sostengono, infine, che in principio Dio creò numerosi
mondi ma, non essendone soddisfatto, li distrusse uno dopo
l'altro: migliaia di generazioni vennero cancellate senza
che ne rimanesse alcun ricordo.
Dopo questi primi tentativi, Dio rimase solo e riconobbe che
nessun mondo era degno di essere creato se non abitato da
uomini capaci di pentimento. Per questo motivo il Signore
creò la legge, il pentimento, il trono divino, il padiglione
celeste, il giardino dell'Eden, la Gehenna (l'inferno
ebraico) e il Messia.
Trascorsi due giorni divini (pari a duemila anni
terrestri), Dio chiese alla legge: — Cosa accadrebbe se
creassi un nuovo mondo? — E la legge rispose: — Se un re non
avesse armate né campi, su cosa potrebbe regnare? E se non
vi è alcuno per lodarlo, quale onore potrebbe mai avere?
Tuttavia, vi è il rischio che il mondo venga consegnato alla
mercè di peccatori, dominati dal male.
Dio ascoltò, approvò e disse: — Per questo motivo
ho creato il pentimento, come rimedio al male; il trono
divino, come sede del mio giudizio; il padiglione celeste,
per assistere ai sacrifici della penitenza; il giardino
dell'Eden, per premiare i virtuosi; la Gehenna, nel cui
fuoco verranno puniti i peccatori; il Messia, per
raccogliere gli esuli. — E fu così che il Signore diede
inizio alla creazione del mondo.
Stranamente, i testi ebraici non fanno menzione della
creazione degli Angeli, che vengono tuttavia citati come
potenze celesti attente al volere di Dio, che siedono
intorno a Lui e ne cantano incessantemente le lodi.
Solamente in un testo apocrifo, il Libro dei Giubilei
(detto anche «piccola Genesi»), si dice espressamente che
tra le opere di Dio del primo giorno della creazione ci
furono anche Spiriti e Angeli, che Egli preparò con la
sapienza del Suo cuore.
La tradizione successiva, confluita poi nel
Cristianesimo, afferma che la creazione degli Angeli avrebbe
avuto inizio nel momento primordiale in cui Dio, uscendo dal
suo riposo eterno, compì il primo atto da Creatore.
2
CREATURE ANCESTRALI
i racconta che prima della creazione si ribellò a Dio il
terribile Rahab, il drago gigante
(20). Quando il Signore gli
comandò di trangugiare tutte le acque del mondo, il mostro
gridò: — Lasciami in pace, padrone dell'universo! — Allora
il Signore lo colpì a morte e ne fece sprofondare la
carcassa negli abissi marini.
Altri sostengono invece che Dio avrebbe risparmiato il
drago gigante; successivamente, il Signore avrebbe ordinato
a Rahab di recuperare negli abissi marini il libro di Raziel,
un compendio di tutto il sapere divino inizialmente dato al
primo uomo e poi trafugato da angeli ribelli.
Rahab obbedì ma, in un secondo momento, si schierò dalla
parte dei nemici di Dio, per cui il Signore lo trasse a riva
con una rete gigante e pose un guardiano accanto al drago,
che alla fine verrà condotto avanti al giudizio supremo.
Un'altra delle terribili creature che affliggono il
mondo, secondo la mitologia ebraica, è il Leviathan dalle
feroci zanne: raffigurato ora come una balena, ora come un
coccodrillo (o come un orribile miscuglio di entrambi gli
animali), è un essere dalla cui bocca sgorgano fiamme e
fuoco; il suo cuore non conosce pietà e i suoi occhi
emettono spaventosi raggi di luce.
Questo orribile mostro vaga a suo piacimento sulla
superficie delle acque oppure si immerge negli abissi più
profondi facendo ribollire il mare come una pentola. Persino
le creature dei cieli temono il Leviathan.
Altri, tuttavia, sostengono che il Signore avrebbe domato il
Leviathan, confinandolo in una caverna dell'oceano. Il
gigantesco corpo del mostro è stato collocato sopra le acque
inferiori, impedendo a Tehom di inondare la terra.
Behemoth fu invece la prima creatura terrestre creata;
simile ad un enorme ippopotamo, ha la coda grossa come il
tronco di un cedro e governa sulle creature della terra,
così come il Leviathan domina su quelle del mare.
(21)
Si dice che ogni anno, durante il solstizio d'estate,
Behemoth si sollevi sulle gambe posteriori emettendo un
ruggito spaventoso.
Le leggende sulla sorte di queste due creature sono molto
diverse tra di loro. Alcuni sostengono che, inizialmente,
Dio abbia inviato gli arcangeli Michele e Gabriele per
sconfiggere queste creature immonde e che, vedendoli
impotenti a domarle, abbia provveduto Egli stesso in prima
persona.
Secondo un'altra versione, i due mostri si affronteranno
nel giorno del giudizio. Dopo uno scontro che scatenerà un
maremoto, le corna ricurve di Behemoth squarceranno
Leviathan, che tuttavia ferirà a morte il suo avversario con
le sue pinne aguzze. La carne di queste creature servirà per
imbandire la mensa dei giusti, nel giorno del giudizio.
3
ADAMO E LE SUE COMPAGNE
l sesto giorno della creazione, Dio decise di creare
l'uomo a sua immagine e somiglianza; a tal fine, Egli non si
servì di materiale indegno, ma scelse la polvere più pura,
la inumidì e ne prese una manciata per dare vita al primo
essere umano, cui venne dato il nome di Adamo in quanto
figlio della terra [ădāmāh].
Alcuni fanno derivare il nome da adōm («rosso»),
per ricordare che il primo uomo venne plasmato con la creta
rossa che si trova a Hebron.
Inizialmente, il Signore aveva dato ad Adamo un aspetto
così maestoso che, quando si trovava in posizione eretta, la
sua testa poteva contemplare il trono divino.
Dio chiese quindi alle creature viventi e agli angeli di
rendere omaggio al primo uomo; tutti si inchinarono davanti
ad Adamo, tranne il serpente invidioso, che venne per questo
motivo allontanato dalla presenza del Creatore.
Altri sostengono, invece, che la bellezza e la maestà del
primo uomo stupirono gli angeli a tal punto che essi
chiesero preoccupati a Dio se fosse mai possibile avere due
poteri divini nell'universo, uno nel cielo e l'altro sulla
terra. Allora il Signore posò la mano su Adamo e ne ridusse
le dimensioni.
Si narra che Dio avesse chiesto ad Adamo di dare un nome
a tutte le creature viventi: pare che a questo punto il
primo uomo si rendesse conto che tutti avevano una compagna
tranne lui per cui venne preso dalla gelosia, non potendo
appagare la sua sete d'amore, e chiese al Signore di
rimediare a quella ingiustizia.
Avendo deciso di dare ad Adamo una compagna, Dio creò
Lilith, la prima donna; dall'unione tra i due nacque
Asmodeo
e la razza dei demoni che ancora oggi funestano l'umanità.
Adamo e Lilith non ebbero mai un attimo di pace assieme,
perché tutte le volte in cui egli voleva giacere con lei, la
donna si offendeva per la posizione che le veniva imposta: —
Perché mai devo stendermi sotto di te se sono tua uguale?
Poiché Adamo tentava di ottenere la sua ubbidienza con la
forza, Lilith pronunciò il sacro nome di Dio e si librò
nell'aria abbandonando per sempre il suo sposo.
Allora Dio decise di creare una più degna compagna per il
primo uomo e ne plasmò le fattezze davanti a lui: poiché
Adamo aveva assistito all'atto creativo della donna e ne
aveva visto anche le viscere e le secrezioni, questi venne
colto da disgusto e fuggì.
Dio provò per la terza volta ad accontentare Adamo e agì
con maggiore prudenza: mentre il primo uomo dormiva, il
Signore gli estrasse una costola e formò con essa una donna,
intrecciò i capelli e la adornò con ventiquattro gioielli.
Quando Adamo si ridestò, rimase colpito dalla bellezza della
donna, cui venne dato il nome di Eva, e ne fece la sua
sposa.
4
IL PARADISO TERRESTRE
io aveva creato un giardino paradisiaco, ornandolo con
alberi e frutta simili a gemme splendenti, cui venne dato il
nome di Eden. Un fiume lo percorreva, poi di lì si divideva
e formava quattro corsi; il primo fiume si chiama Pison:
esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c'è
l'oro, la resina odorosa e la pietra di onice. Il secondo
fiume si chiama Ghion: esso scorre intorno a tutto il paese
d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri, che scorre ad
oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate.
Il Signore Dio prese l'uomo e la donna e li pose nel
giardino di Eden, perché lo coltivassero e lo custodissero.
Dio consentì che mangiassero tutti i frutti del giardino,
tranne di quelli dell'albero della conoscenza del bene e del
male.
In quei giorni il serpente, che era la più astuta di
tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio e che si
era rifiutato di inchinarsi davanti all'uomo, si avvicinò ad
Eva e disse: — È vero che Dio ha detto di non mangiare
nessun frutto degli alberi del giardino?
La donna rispose: — Dei frutti degli alberi del giardino
noi possiamo mangiare, ma non del frutto dell'albero che sta
in mezzo al giardino, perché ne moriremmo.
Ma il serpente disse alla donna: — Non morirete affatto!
Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i
vostri occhi e diventereste come Lui, conoscendo il bene e
il male.
Allora la donna vide che l'albero era gradito agli occhi
e desiderabile; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne
diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne
mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si
accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se
ne fecero cinture.
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino
alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero
dal Signore. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: —
Adamo, dove sei?
L'uomo rispose: — Ho udito il tuo passo nel giardino: ho
avuto vergogna e mi sono nascosto.
Dio esclamò: — Chi ti ha fatto conoscere la vergogna? Hai
forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non
mangiare?
Rispose Adamo: — La donna che tu mi hai posta accanto mi
ha dato dell'albero e io ne ho mangiato
Il Signore Dio disse alla donna: — Che hai fatto?
Rispose la donna: — Il serpente mi ha ingannata e io ho
mangiato.
Allora il Signore maledì il serpente, Adamo ed Eva; poi
disse: — L'uomo è diventato come uno di noi, per la
conoscenza del bene e del male. — Dio scacciò l'uomo dal
giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era
stato tratto e pose ad oriente del giardino i cherubini e la
fiamma della spada folgorante, per custodire la via
all'albero della vita.
Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì
due fratelli: Caino, che divenne lavoratore del suolo, e
Abele, pastore di greggi.
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in
sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo
gregge e il loro grasso. Il Signore gradì l'offerta di Abele
ma non quella di Caino.
Preso dall'invidia, Caino invitò il fratello in campagna
e lo uccise con l'inganno. Allora il Signore disse a Caino:
— Dov'è Abele, tuo fratello?
Egli rispose: — Non lo so. Sono forse il guardiano di mio
fratello?
Il Signore esclamò: — Che hai fatto? La voce del sangue
di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto!
Fuggi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto
il sangue di tuo fratello.
Caino disse al Signore: — Troppo grande è la mia colpa
per ottenere perdono! Mi dovrò nascondere lontano da te; io
sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi
incontrerà mi potrà uccidere.
Ma Dio sentenziò: — Chiunque ucciderà Caino subirà la
vendetta sette volte!
Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo
colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò
dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.
Adamo si unì di nuovo alla moglie, che partorì un figlio e
lo chiamò Set. Da Set discese la stirpe dei Patriarchi, come
Noè e Abramo.
Questo è il libro della genealogia di Adamo. Quando Dio
creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina
li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono
creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò un figlio
e lo chiamò Set. Dopo aver generato Set, Adamo visse ancora
ottocento anni e generò figli e figlie. L'intera vita di
Adamo fu di novecentotrenta anni; poi morì.
(22)
5
IL DIAVOLO
ella
mitologia ebraica, inizialmente non esiste una divinità in
qualche modo collegata alle forze del Male o del Caos (come
si è visto nella concezione cosmogonica dei Greci, dei
Sumeri e dei popoli del Nord).
Nella Bibbia è presente la figura di
Sataniel (Satana)
(23),
l'angelo cui viene affidato da Dio il compito di verificare
la fede dell'uomo, riportando al Signore tutti i peccati
commessi (Libro di Giobbe).
Successivamente, nei testi dei Profeti, viene citato più
volte il nome di Helel (Lucifero), che nella sua superbia
avrebbe tentato di usurpare il trono di Dio assieme ad altri
angeli ribelli e, per questo, sarebbe stato scagliato
nell'abisso.
Nel terzo giorno della creazione, il primo tra gli
angeli del Signore, Helel ben Šaḥar,
«Lucifero figlio dell'aurora», venne nominato guardiano di tutte le
nazioni future. All'inizio, questi si comportò con
discrezione ma poi l'orgoglio gli fece perdere del tutto il
senno.
L'angelo ribelle volle ascendere le nubi e le stelle e
farsi incoronare, per diventare così in tutto e per tutto
uguale a Dio. Il Signore, accortosi della sua ambizione, lo
precipitò nell'abisso; Lucifero, nella sua rovinosa caduta,
venne ridotto in cenere; ancora oggi il suo spirito vaga
senza posa nella profonda tenebra.
Il ricordo di questa sciagurata impresa riecheggia nei
lamenti del profeta Isaia:
Negli inferi è
precipitato il tuo fasto,
la musica delle tue arpe;
sotto di te c'è uno strato di marciume,
tua coltre sono i vermi.
Come mai sei caduto dal cielo,
Lucifero, figlio dell'aurora?
Come mai sei stato messo a terra,
signore di popoli?
Eppure tu pensavi:
salirò in cielo,
sulle stelle di Dio
innalzerò il trono,
dimorerò sul monte dell'assemblea,
nelle parti più remote del settentrione.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all'Altissimo.
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell'abisso!
(Isaia [14:
11-15])
Anche il profeta Ezechiele, nel rievocare la disgrazia di
un cherubino scacciato dal «monte di Dio», si riferisce
molto probabilmente a Lucifero:
Tu eri un
modello di perfezione,
pieno di sapienza,
perfetto in bellezza.
[...]
Eri come un cherubino ad ali spiegate a difesa;
io ti posi sul monte santo di Dio,
e camminavi in mezzo a pietre di fuoco.
Perfetto tu eri nella tua condotta,
da quando sei stato creato,
finché fu trovata in te l'iniquità.
crescendo i tuoi commerci
ti sei riempito di violenza e di peccati;
io ti ho scacciato dal monte di Dio
e ti ho fatto perire, cherubino protettore,
in mezzo alle pietre di fuoco.
(Ezechiele
[28: 12-16])
La mitologia ebraica conosce anche la figura di
Samaele,
derivante forse dalla divinità siriana Šemal e spesso
identificato con la già citata figura di Satana, il quale si
ribellò perché invidioso della posizione che Dio aveva
attribuito ad Adamo.
Il sesto giorno della creazione, il Signore aveva
ordinato a tutti gli abitanti dell'Eden di riverire Adamo.
L'arcangelo Michele obbedì immediatamente assieme agli altri
angeli, ma Samaele si ribellò: — Non onorerò mai una
creatura inferiore a me! Quando nacque Adamo, io ero già
perfetto. È lui che deve adorare me!
Gli angeli seguaci di Samaele approvarono, mentre Michele
li ammonì a non sfidare la collera di Dio.
Allora il Signore mise alla prova la sapienza di Samaele
chiedendogli di dare il nome a tutte le creature del mondo,
ma l'arcangelo non fu in grado di rispondere. Adamo, invece,
illuminato nel cuore da Dio, riuscì ad additare tutti gli
animali con il loro vero nome.
Samaele, indignato perché il Signore aveva instillato il
sapere nelle mente dell'uomo, si rivoltò adirato nei
confronti del Creatore. Allora Dio scaraventò Samaele ed i
suoi seguaci fuori dal paradiso. Samaele provò ad
aggrapparsi alle ali di Michele e lo avrebbe trascinato con
sé, se Dio stesso non fosse intervenuto.
Samaele ed i suoi seguaci vennero rinchiusi in un carcere
buio dove ancora oggi languiscono con il volto spettrale e
le labbra sigillate.
Altri, tuttavia, sostengono che Samaele venne precipitato
nella terra, da dove egli continua a tramare contro il
volere di Dio: sembra infatti che il serpente dell'Eden che
indusse Adamo ed Eva a disobbedire agli ordini del Signore
fosse in realtà l'arcangelo Samaele sotto mentite spoglie.
Secondo alcune fonti, inoltre, dopo aver persuaso l'uomo a
mangiare il frutto dell'albero della conoscenza nelle
sembianze di un serpente, sedusse Eva e generò con lei
Caino.
Da allora, le generazioni degli uomini formano due rami
separati: i discendenti di Caino sono votati al male, mentre
i discendenti di Set sono propensi verso il bene.
A seguito dei contatti con la religione persiana durante la
cattività babilonese, gli Ebrei elaborano l'idea di una vera
e propria figura antitetica a Dio: il Principe delle Tenebre
(da alcuni identificato con Tohu), colui il quale si sarebbe
opposto al volere del Signore prima ancora della creazione.
Quando Dio annunciò di voler creare l'universo nella luce,
il suo avversario domandò: — Perché non dalle tenebre? — Il
Signore soggiogò con un urlo enorme il principe delle
tenebre, il quale tuttavia nel giorno del giudizio si
dichiarerà uguale a Dio e tenterà di ripristinare il dominio
dell'oscurità. Solo allora il fuoco dell'inferno punirà la
sua arroganza.
In questo contesto, le figure di Samaele, Satana e
Lucifero tendono ad identificarsi in un'unica entità nota
anche come il Diavolo (dal latino Diābolus e dal
greco antico Diábolos, cioè «Colui che divide»).
L'antagonista di Dio è chiamato anche Belzebù («Signore
delle Mosche», trasformazione spregiativa del nome del dio
fenico Ba’al Zĕbūl, «Signore dei Prìncipi»),
Belial o Mefistofele (tutti nomi
che traggono origine dai nomi delle divinità venerate dai
popoli nemici degli Ebrei) ed è citato anche nel Corano con
il nome di Iblīs.
La tradizione cristiana si impadronirà del mito della
ribellione e della caduta degli angeli ribelli, elaborando
soprattutto in epoca medievale la visione demonologica più
famosa della storia delle religioni, che trova la sua
massima espressione letteraria nella Divina Commedia
di Dante Alighieri.
(24)
La storia racconta che Lucifero in origine era il più bello
tra tutti gli angeli ma che, a causa della superbia, «contra
il suo Fattore alzò le ciglia» e si ribellò quindi a Dio. La
decima parte degli angeli prese le parti di Satana ma i
ribelli vennero duramente sconfitti dall'arcangelo Michele.
Corrotti dal peccato, gli angeli vennero trasformati in
demoni e precipitati sopra la terra. Lucifero, in
particolare, cadde dalla parte dell'emisfero australe, dove
in origine esisteva il paradiso terrestre, e venne conficcato
al centro della terra, che è anche il centro dell'Universo
secondo la concezione tolemaica poi recepita da Aristotele e
dalla Scolastica medievale.
(25)
E la terra, che
pria di qua si sporse,
per paura di lui fe' del mar velo,
e venne all'emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui il loco voto
quella che appar di qua e su ricorse...
(Inferno [XXXIV:
122-126])
Durante la caduta dell'angelo ribelle, le terre emerse
dell'emisfero australe per paura di lui si ritirarono al di
sotto delle acque e riemersero nell'emisfero boreale. Nel
percorso verso il centro del mondo, inoltre, tutti gli
elementi cercarono di schivare ogni contatto con Lucifero,
lasciando una cavità vuota (che Dante chiama la «natural
burella»), e si arrampicarono su nell'emisfero australe
andando a formare il colle del Purgatorio
Lucifero («la creatura ch'ebbe il bel sembiante»), viene
rappresentato da Dante come un essere di smisurata
grandezza, con tre facce alla sua testa (l'una vermiglia,
tra bianca e gialla l'altra, nera la terza), corpo peloso e
sei enormi ali di pipistrello.
S'el fu sì bel
com' elli è ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand' io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;
l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand' ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid' io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava
(Inferno [XXXIV:
34-35])
L'idea di Lucifero con tre facce non è espressione della
fantasia di Dante; egli è, in un certo senso, l'antitesi
della divinità creatrice che i Cristiani concepirono come
Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo).
Poiché per Dante, come per San Tommaso, il Padre è
Potestà, il Figlio è Sapienza, mentre lo Spirito Santo è
Amore, le tre facce non possono simboleggiare se non
impotenza, ignoranza ed odio. |
VII
I CINQUE SOLI
L'EQUILIBRIO COSMICO
SECONDO GLI AZTECHI
Nella mitologia del Mesoamerica, la leggenda vuole che
i Mexicas (l'antico ed originale nome degli Aztechi) fossero
partiti da nord per giungere dopo una lunga peregrinazione
nel lago Texcoco. Il loro dio protettore Huitzilopochtli (il
Colibrì Azzurro) aveva predetto che un giorno essi avrebbero
visto un'aquila sopra un cactus con un serpente nel becco e
in quel punto avrebbero fondato la loro città. Così avvenne
e, dopo molti anni, i Mexicas gettarono le fondamenta della
loro capitale, Tenochtitlàn, su un isolotto posto al centro
del lago. In breve tempo essi divennero una grandissima
potenza economica e militare e costruirono un vasto impero.
La loro visione dell'origine del cosmo è una delle più
originali tra quelle elaborate dalle culture del Nuovo
Mondo.
1
I CINQUE SOLI
econdo la religione degli Aztechi, l'idea dell'origine
del mondo era strettamente connessa con quella della sua
distruzione. Nella religione di questo antico popolo,
infatti, la storia viene caratterizzata dal continuo
avvicendarsi di cicli di nascita e morte: ciascuna delle ere
precedenti prende vita con l'atto della creazione, per poi
terminare tragicamente con una catastrofe naturale che pone
fine, in modo drammatico, ad un'epoca storica.
Poiché ognuna delle ere viene contraddistinta dal dominio
di una divinità solare, la storia del mondo viene descritta
attraverso l'avvicendarsi dei soli: nacque così il mito dei
Cinque Soli.
In principio, secondo quanto ci viene tramandato dai
sacerdoti, il mondo era avvolto dalle tenebre e funestato da
fiere orribili che tormentavano i pochi esseri umani che
riuscivano a sopravvivere in un clima tanto ostile. Questo
periodo di oscurità coincide con l'èra del Sole di Terra ma
era noto anche come l'Era dei Puma, poiché essi dominavano
il mondo e divoravano senza pietà gli uomini che osavano
comparire in un'epoca tanto sventurata. Quest'epoca finì con
un terribile terremoto che sconvolse del tutto la crosta
terrestre: gli uomini che riuscirono a sopravvivere a questa
terribile catastrofe si trasformarono in scimmie.
In seguito, il cosmo venne dominato dal Sole di Fuoco: in quest'epoca molti esseri viventi vennero alla luce e
prosperarono, ma tutte le specie vennero annientate da una
pioggia di lava e da incendi che devastarono tutto il
pianeta; gli unici a sopravvivere furono gli uccelli e quei
pochi esseri umani in grado di trasformarsi in volatili.
Venne quindi il Sole d'Aria: come le precedenti, anche
questa era venne contraddistinta dal proliferare della
creazione ma finì in modo tragico: un terribile uragano
spazzò via alberi, monti e le case degli uomini.
La quarta era fu contraddistinta dal Sole d'Acqua, che
finì con una grande inondazione in cui tutti gli esseri
viventi (tranne i pesci) annegarono.
La leggenda racconta che, prima del diluvio, il Sole
d'Acqua si sarebbe recato da due esseri umani, Tata e
Nena,
dicendo loro: — Sappiate che sto per sommergere con la
pioggia tutta la terra; tutti ne moriranno, tranne voi; ma
solo se farete quello che dico.
L'uomo e la donna rimasero sconvolti da quanto era stato
loro rivelato dal dio Sole, che così continuò: — Voi dovrete
trovare al centro della foresta un albero alto e robusto;
alla sommità del tronco dovrete praticare una cavità e
rifugiarvi lì sino a quando le acque non saranno defluite.
Ricordatevi, però, una volta tornati sulla terra, di
prendere lo stretto indispensabile per sopravvivere:
ciascuno di voi potrà avere solo una pannocchia di mais per
sfamarsi e niente altro.
Tata e Nena si diressero nella foresta e cercarono
l'albero più grande, all'interno del quale vi era già una
cavità naturale: fu sufficiente allargarla un poco per avere
un comodo rifugio.
Di lì a poco ebbe inizio il terribile diluvio, che
sommerse tutto: corpi, alberi, rocce ed utensili vennero
travolti dalle acque e portati via. Solamente dopo molto
tempo le acque finalmente si abbassarono: Tata e Nena, sia
pure con molta prudenza, scesero dal loro rifugio e misero
nuovamente i piedi a terra. Erano molto affamati e, quando
videro un pesce che nuotava in un fiume ancora gonfio per
via della piena, dimenticarono completamente gli ordini del
Sole d'Acqua.
L'uomo e la donna catturarono il pesce e cominciarono ad
arrostirlo sul fuoco: il fumo salì verso l'alto e venne
notato anche dal dio Sole, il quale adirato così si rivolse
verso i due esseri umani: — Stolti, perché mi avete
disobbedito? Vi avevo detto di accontentarvi di una sola
pannocchia di mais. — E, preso un grosso randello, percosse
la testa di Tata e Nena con tale violenza da distruggere
quella parte del cervello che rende gli uomini simili a dei;
i due sopravvissuti al diluvio vennero così tramutati in
cani.
Il Quinto Sole nacque nella città santa di
Teotihuacán;
secondo i più, la quinta era (quella in cui viviamo) sarebbe
destinata a non avere mai termine perché l'ultimo dei soli,
dopo aver radunato tutti e quattro gli elementi, prima in
contrasto tra di loro, li avrebbe riconciliati creando così
un equilibrio perenne; altri, invece, sostenevano che anche
l'epoca attuale, caratterizzata da terremoti, guerre e
carestia, verrà annientata con una catastrofe.
Per questo motivo, gli Aztechi temevano in particolar
modo la fine di un ciclo cosmico (che coincideva con un
periodo pari a cinquantadue anni), perché al termine di
questo periodo il mondo rischiava di perire ancora una volta
a causa di una catastrofe naturale.
I sacerdoti celebravano complessi rituali che prevedevamo
anche quei sacrifici umani che tanto raccapriccio
suscitarono negli Europei che vennero a contatto con questi
popoli
(26). La prima alba del nuovo ciclo veniva quindi
salutata da tutti con grande sollievo: l'era del Quinto Sole
era destinata a durare ancora.
2
QUETZALCOATL
a mitologia degli Aztechi ricorda spesso il nome del dio
Quetzalcoatl (il Serpente Piumato), venerato presso molte
altre delle civiltà precolombiane, tra cui i Maya (che lo
chiamavano Kukulkán), i Mixtechi e i Toltechi: era il dio
del cielo e del sole, dei venti e della stella del mattino;
come tale, egli era considerato il benefattore di tutta
l'umanità .
Quetzalcoatl fu conosciuto come inventore dei libri, del
calendario e soprattutto come colui che donò il mais al
genere umano. Egli non richiedeva sacrifici umani, ma
sosteneva che essi dovevano essere sostituiti con offerte di
fiori, incenso, farfalle e pane di mais.
La vita del Serpente Piumato era basata sul digiuno,
sull'astinenza e su continue penitenze: egli era solito
mortificarsi pungendosi la pelle con spine di cactus sino a
farsi uscire il sangue.
La vita ascetica di Quetzalcoatl, la sua bontà e la sua
purezza irritarono non poco il dio Tezcatlipoca (dio del
male e del cielo notturno, suo rivale e nemico). Volendo
distruggere l'integrità del Serpente Piumato, gli offrì una
tazza di pulque, un liquore ottenuto dalla fermentazione del
succo di agave.
Non essendo abituato all'uso di queste bevande,
Quetzalcoatl ben presto si ubriacò e, preso da una insana
passione, si gettò tra le braccia della sorella. Per qualche
tempo, egli condusse una vita dissoluta, dimentico della
purezza e della castità che aveva predicato in passato.
Una volta venuto meno l'effetto inebriante del liquore,
il Serpente Piumato si rese improvvisamente conto di quanto
aveva commesso e abbandonò in lacrime la sua città per
recarsi sulla riva del mare. Qui, Quetzalcoatl eresse una
pira funebre e, indossata una maschera di turchese e
indossato un abito fatto di verdi piume di uccello, si gettò
tra le fiamme. Alcuni istanti dopo, i suoi seguaci potevano
assistere alla metamorfosi del dio, che si era trasformato
in un nuovo, luminosissimo astro: era diventato la nuova
stella del mattino.
Secondo una diversa versione del mito, il dio
Quetzalcoatl non morì ma si sarebbe congedato dal suo
popolo, prendendo il largo a bordo di una zattera fatta di
pelli di serpente; egli tuttavia promise che un giorno
sarebbe tornato dal mare per riconquistare il potere e
portare una nuova età dell'oro.
(27)
Quest'ultima versione del mito, paradossalmente, fu fatale
per il destino dell'impero azteco; si diceva infatti che
Quetzalcoatl fosse molto alto di statura, di pelle chiara,
con lunghi capelli neri e dalla barba fluente. Quando, nel
1519, lo spagnolo Hernán Cortés giunse in Messico, poiché
questi aveva caratteristiche fisiche in gran parte
corrispondenti a quelle che venivano attribuire al Serpente
Piumato, molti tra gli Aztechi (tra cui lo stesso re azteco
Montezuma II) sembravano giustificarne la identificazione
con il dio.
Per questo motivo, il conquistatore Cortés fu
inizialmente accolto con grandi onori. Quando, tuttavia, le
reali intenzioni di conquista e distruzione dei
conquistadores furono palesi, gli Aztechi si resero
conto del tragico errore commesso; ma ormai era troppo
tardi: la cruenta conquista del Messico da parte degli
invasori era ormai una realtà.
* * *
La cosmogonia degli Aztechi non è ovviamente l'unica
tra le leggende del Nuovo Mondo. Secondo gli antichi testi
maya del Popul Vuh, infatti, gli dèi Pepeu (il Creatore) e
Gucumaz (il Plasmatore) decisero di trasformare le tenebre
in giorno e di dar vita al mondo. Alla fine, gli dèi
decisero di creare l'uomo: dapprima, essi lo plasmarono con
il fango ma questi si sciolse con l'acqua; poi, provarono a
formare uomini e donne con il legno: il materiale era
sicuramente più resistente, ma gli esseri creati erano del
tutto privi di raziocinio e non avevano sentimenti
religiosi, per cui gli dèi decisero di sterminarli con
un'alluvione. Infine, gli esseri umani vennero creati con la
pappa di mais: ed essi furono i nostri progenitori.
Secondo gli Incas, invece, fu il dio creatore Viracocha a
decidere di costruire il mondo in cui far vivere gli uomini,
che egli stesso plasmò in una grotta nei pressi di Cuzco, la
futura capitale dell'impero incaico.
Anche gli Indiani d'America ci hanno lasciato numerose
versioni sulla creazione del mondo, di cui non è possibile
dare un resoconto completo, essendo il patrimonio di
leggende ampio e variegato: esse spaziano da versioni molto
ingenue, che attribuiscono l'atto creativo a divinità
burlone (come quelle diffuse presso i Cree e i Lakota) o ad
animali come la Volpe Argentata (Achumawi), sino ad
elaborazioni più raffinate (Apache, Navaho) che sfiorano la
speculazione filosofica (come presso gli Omaha, secondo i
quali: «In principio tutte le cose erano nella mente del
Wakonda. Tutte le creature, compreso l'uomo, erano spiriti»
).
(28) |
EPILOGO
Riuscire ad affrontare il tema della creazione del mondo
secondo le versioni che ci hanno tramandato i nostri
antenati è impresa certamente ardua, che meriterebbe
sicuramente una trattazione di ben più ampio respiro.
Ho cercato di selezionare quei miti che, a mio
giudizio, potevano incuriosire maggiormente il lettore (ma
forse mi sono fatto condizionare dalle storie che avevano
lasciato di più il segno nel mio immaginario).
Esistono, ovviamente, oltre alle leggende citate,
molti altri poemi cosmogonici di cui non si è potuto fare
cenno in queste pagine, ma che costituiscono patrimonio
dell'umanità.
(29)
È singolare osservare come, per alcuni popoli, la storia
della nascita del mondo coincide in gran parte con le
origini del proprio paese o delle istituzioni che lo
rappresentano: in Cina, ad esempio, i testi più antichi
narrano con dovizia di particolari la nascita dell'Impero e
la storia degli Otto Sovrani
Predinastici che precedono la nascita
delle dinastie protostoriche (Xia, Shang).
Diversamente, presso altre culture la ricerca delle origini
viene in gran parte sostituita dalla ricerca del capostipite
del clan o della tribù, spesso idealizzato e raffigurato in
sembianze animali
(30); in questo caso la cosmogonia coincide con
la storia degli antenati, che le generazioni successive
avrebbero poi evemerizzato
(31).
Tale concezione è tipica delle popolazioni africane,
il cui patrimonio di favolistica costituisce un unicum
culturale che non ha uguali nel mondo.
Nella maggior parte dei casi le fiabe africane
adottano un linguaggio simbolico, attingendo spesso al mondo
animale per affrontare sia temi sacri che la quotidianità.
Più raramente possiamo rinvenire concezioni teologiche
vere e proprie, anche se non mancano riferimenti alla dea
madre, come la Mawu-Lisa di cui parlano gli antichi abitanti
del Benin, ovvero al dio del cielo e creatore, come il
Nladima dei Pigmei.
Analogamente, presso gli Aborigeni dell'Australia
manca una vera e propria concezione cosmogonica (o, almeno,
non è giunta sino a noi; la cultura aborigena, infatti, non
conosce se non l'oralità per la trasmissione di racconti e
leggende ).
Normalmente, i racconti tradizionali si riferiscono al
passato mitico
(32) in cui vissero gli antenati (spesso
raffigurati o descritti come animali o vegetali), dalle doti
sovrumane ed in grado di insegnare ai discendenti tutte le
arti necessarie alla sopravvivenza. L'idea di un Essere
Supremo fa comunque capolino nei racconti di alcune
popolazioni, come quella degli Arunta.
Non mancano, ovviamente, visioni più complesse o
fantasiose sulla creazione del mondo.
In Giappone, ad esempio, si narra che all'inizio
esistevano i due kami Izanagi e Izanami, i quali
plasmarono il mondo e generarono tutte le altre divinità,
tra cui la loro figlia prediletta, Amaterasu.
La morte improvvisa di Izanami sconvolse il suo
consorte, che tentò in tutti i modi (ma invano) di riportare
indietro l'amata dal regno dei morti; la comparsa del lutto
per la prima volta nell'universo segnò per sempre il destino
de la creazione.
Da allora, infatti, le divinità benigne e quelle
malvagie si affrontarono in una devastante lotta, che
costrinse Amaterasu, dea del sole, a nascondersi. Alla fine,
ella si persuase ad uscire all'esterno incuriosita dalla
danza di alcuni kami e il mondo venne illuminato
nuovamente dal sole.
Amaterasu plasmò gli elementi e domò il ciclo delle
stagioni e mandò un suo nipote (Ninigi) sulla terra per
governare il Giappone.
In India il corpus mitologico è vastissimo e copre
una quantità enorme di testi letterari e di divinità, la più
importante delle quali fu, inizialmente, Indra.
Successivamente, la cultura induista elaborò una
concezione filosofico-religiosa estremamente raffinata sulla
creazione del mondo e sul suo eterno ciclo di nascita,
distruzione e rinascita.
Nel pantheon indù particolare importanza rivestì la
Trimūrti, costituita dagli dèi Brahma (il dio creatore che
mise in moto l'universo), Śiva (il dio associato alla
distruzione e alla sregolatezza) e Viṣṇu (il dio
conservatore, divinità solare che illumina l'umanità con la
sua luce apparendo spesso sulla terra come «incarnazione» o
avatar).
Chiudiamo questo rapido excursus per arrivare alla
facile conclusione che non è possibile esaurire l'argomento
delle origini del mondo in poche pagine.
Questo opuscolo vuole essere solo uno stratagemma per
schiudere la porta verso un mondo, quello dei nostri antichi
progenitori, che sa di notti antichissime passate accanto al
fuoco a raccontare favole.
Se qualcuno avrà voglia di spalancare questa porta per
conoscere meglio il sogno degli dèi, allora l'Autore potrà
affermare con soddisfazione di essere riuscito pienamente
nel suo intento. |
|