DANIELE BELLO
RACCONTI SENZA TEMPO
 
 
VOLUME SECONDO
IL SOGNO DEGLI DÈI
 
 


Prefazione. Gli dèi antichissimi

  1. La Teogonia di Esiodo. Le origini del mondo secondo i Greci
    Le divinità primigenie
    La creazione del mondo
    Il regno di Crono e la Titanomachia
    Zeus e i suoi discendenti
  2. I vaticini della völva, la «veggente». Le saghe dei popoli del nord
    La creazione del mondo
    Gli esseri viventi
    Yggdrasill
    Il Ragnarök
    Dopo la fine del mondo
  3. Enūma eliš. I poemi della Mesopotamia
    I Sumeri
    I Babilonesi
  4. Amon, Ptaḥ e Atum-Ra. I papiri egiziani
    Il dio-sole di Eliopoli
    Ptaḥ di Menfi
    L'ogdoade di Ermopoli
  5. Le cinque invasioni. Tradizioni celtiche
    Il ciclo mitologico
  6. Ciò che la Bibbia non dice. Ai primordi della mitologia ebraica
    La creazione del mondo
    Creature ancestrali
    Adamo e le sue compagne
    Il Paradiso Terrestre
    Il diavolo
  7. I cinque soli. L'equilibrio cosmico secondo gli Aztechi
    I cinque soli
    Quetzalcoatl

    Epilogo

PREFAZIONE
GLI DÈI ANTICHISSIMI

 

Cos'è il mito?

«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.
»

Gian Battista Vico
 

All'inizio del 2010 mi venne in mente di scrivere alcune favole mitologiche da pubblicare in occasione della festa del papà. L'idea base del progetto era quella di dimostrare l'importanza della favola nel mondo contemporaneo e il ruolo fondamentale dei padri nel raccontare ai propri figli quanto di bello ci hanno tramandato i nostri antenati con lo strumento più semplice, spontaneo ed immediato che essi erano riusciti ad inventare: il racconto.

Accettai con entusiasmo il progetto e decisi di mettere per iscritto cinque racconti mitologici, ciascuno dei quali aveva per me un significato particolare, sotto il profilo dei miei ricordi e del mio vissuto.

Mia figlia Beatrice non aveva ancora compiuto cinque anni, ragion per cui completai quella piccola fatica con la speranza che un giorno non lontano avrei potuto leggere quelle fiabe anche a lei.

Invece, ancora una volta l'intelligenza e la profondità dei bambini riuscì a stupirmi.

Complice una classica influenza invernale, mia moglie si mise a sfogliare le pagine del mio libercolo e cominciò a leggere; gli occhi di mia figlia cominciarono a brillare di un interesse che non mi sarei mai aspettato alla sua età.

Quando seppe che a scrivere quelle storie era stato suo padre, mi degnò di uno sguardo di totale adorazione che solo i figli sanno donare. Poi mi fissò con il suo sguardo sornione ed intelligente e mi disse: — Ma papà, tu mi devi raccontare la storia di quando non c'era ancora niente…

Ci bastò una breve occhiata d'intesa per capirci: mai avrei pensato che qualcuno mi avrebbe chiesto di raccontare l'origine del cosmo con tanto entusiasmo e men che meno una bambina in età prescolare.

Ma il seme era stato piantato, ormai, e non potevo sottrarmi al mio dovere di storyteller; mi bastarono pochi minuti per concepire l'idea di un altro libro che descrivesse l'origine del mondo secondo la concezione dei popoli antichi .

Se, oltre al sorriso di mia figlia, si aggiungerà l'interesse e la curiosità di altri lettori, potrò considerare senz'altro raggiunto lo scopo che mi ero prefissato.

Daniele Bello
Agosto 2010

Il lettore non me ne vorrà se ho attinto a piene mani dalle fonti citate senza troppa originalità: scopo del libro non è evidentemente quello di scrivere qualcosa di nuovo, ma di ricordare favole che hanno ormai migliaia di anni.

I
LA TEOGONIA DI ESIODO
L'ORIGINE DEL MONDO SECONDO I GRECI

 

Non si può non tornare indietro nel tempo mitologico senza ripercorrere la creazione del mondo così come la concepirono gli antichi Greci, regalando ai posteri una delle versioni più affascinanti e poetiche del mondo antico. Andare a rileggere la Teogonia di Esiodo consente anche di familiarizzare con molti dei nomi che popolano il mondo classico e che da secoli fanno compagnia a chiunque ami viaggiare con la fantasia nel favoloso mondo concepito dai nostri progenitori.

 

1
LE D
IVINITÀ PRIMIGENIE


n principio era il Caos.   Così avrebbe esordito qualsiasi precettore dell'antica Grecia per raccontare ai propri discepoli l'origine dell'universo.

Si narra, tuttavia, che a fronte di questo incipit, uno studente particolarmente sfacciato esclamasse indignato: E che cosa c'era prima del Caos? Il maestro non fu in grado di spiegarlo e consigliò al ragazzo di chiederlo ai filosofi. (Diogene Laerzio: Vite dei filosofi [X: 1])

Da quel giorno, quel discepolo tanto curioso ma poco rispettoso dell'autorità si dedicò unicamente allo studio della filosofia e decise, con il tempo, di fondare egli stesso una scuola di pensiero che divenne nota in tutto il mondo antico e la cui fama è giunta sino ai giorni nostri: quel giovane si chiamava Epicuro ed è un nome familiare a molti studenti contemporanei; per quello che interessa al vostro narratore, è sufficiente sapere che egli decise di scomparire per sempre dalla nostra storia e che noi dovremo accontentarci della spiegazione del vecchio precettore.

«Uniforme era l'aspetto della natura; e lo chiamarono Caos» [Unus erat toto naturae vultus in orbe, quem dixere chaos], così ci riferisce il poeta Ovidio (Metamorfosi [I: 6-7]); non esisteva il cielo, la terra o il sole, ma un abisso primitivo informe e indeterminato in cui tutti gli elementi erano mischiati tra di loro. Esiodo non si preoccupa neppure di definirlo, limitandosi a dire che «per primo fu Caos», il vuoto spalancato dove nacquero tutte le cose. (1)

Dal Caos venne generata la Madre Terra dall'ampio seno, che gli antichi conobbero anche con il nome di Gea (o Gaia), per sempre sede sicura per tutti i mortali e gli immortali.

Subito dopo nacque il Tartaro «nebbioso», l'orrendo buio sotterraneo, privo di ogni luce, che si annida nei recessi della Terra.

Dal Caos sorsero anche l'Erebo (il buio, privo di luce, della profondità abissale) e la Notte, nei confronti dei quali tutti gli altri dèi provavano un sacro timore; dalla loro unione nacquero l'Etere e il Giorno, ma anche divinità più sinistre come Thanatos, la terribile dea della morte, il Sonno, la Fame, l'Oblio, il Lamento, il Sarcasmo, la Discordia e la Nemesi, la terribile vendetta degli dèi. Si tratta, in realtà, nella maggior parte dei casi, di entità che personificano gli aspetti più oscuri e odiosi della vita, che gli uomini evitano con cura di menzionare a meno di non essere costretti.

Figlie di Notte e di Erebo erano anche le Moire, terribili creature dal potere arcano cui neppure gli dèi potevano sottrarsi; ogni giorno esse filano, misurano e tagliano i fili del destino di ciascuno degli esseri viventi, decidendone le sorti: Cloto fila lo stame della vita; Lachesi lo svolge sul fuso; mentre Atropo, con le cesoie, lo recide inesorabilmente.

Il loro potere è talmente antico che persino Zeus, il futuro sovrano del cielo, non ha il potere di mutare le loro decisioni, ma deve limitarsi a prendere la sua bilancia d'oro, per misurare su quale creatura il giorno stia per tramontare per sempre.

TABELLA N. 1
Gli dèi primigeni

Nacque infine il più potente tra tutti gli dèi: Eros, «tra tutti i Celesti il più bello», che scioglie le membra e soggioga lo spirito di tutti gli dèi e di tutti gli uomini, personificazione dell'Amore; quando Esiodo parla dell'érōs, non dobbiamo tuttavia pensare al putto alato armato di arco e frecce che viene spesso raffigurato nei quadri e nelle incisioni antiche e moderne, ma ad un principio ancestrale, alla energia creatrice da cui trasse vita l'intero universo.

Possiamo tuttavia permetterci di trascurare queste divinità così lontane da noi, tanto che persino in un poema didascalico come la Teogonia vengono dedicati loro solo pochi versi.

A noi interessa invece sapere che Gea, la dea della Terra, generò da sé stessa Urano cosparso di stelle, il dio del Cielo, e Ponto, il dio del Mare, ma stavolta «senza gioia d'amore».

La dea della Terra si accoppiò con i suoi figli: da Gea e Ponto nacque il saggio Nereo, divinità marina fonte di giustizia e di miti consigli, che fu il padre di tutte le ninfe del mare (note anche come Nereidi); ma da quella unione così priva di affetto vennero generati anche terribili creature, come il sinistro Forco, il «vecchio del mare» e Ceto dal bel viso, il cui nome però significava «mostro marino» (tanto è vero che viene spesso descritta come una enorme balena); dall'unione di questi ultimi proviene la razza di molti dei nemici che hanno perseguitato l'umanità nei secoli e che verranno combattuti e sconfitti dai protagonisti delle leggende eroiche della mitologia greca.

È doveroso citare tra i figli di Forco e Ceto le terribili Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa), dal corpo ricoperto di scaglie come quelle dei rettili, con serpenti vivi al posto dei capelli; esse avevano il terribile potere di pietrificare chiunque avesse la sfortuna di incrociare il loro sguardo. Per un'anomalia che solo i miti riescono a creare, Steno ed Euriale avevano il dono dell'immortalità, mentre la sola Medusa poteva essere uccisa; sarà uno degli eroi più amati dai Greci, il valoroso Perseo, ad uccidere la Gorgone tagliandole la testa: dal collo reciso nacque il famoso cavallo alato Pegaso, che ha ispirato artisti e poeti dei tempi antichi e moderni. In groppa a quel magico destriero vennero compiute alcune tra le più grandi imprese narrate dai cantori di tutte le epoche.

Dalle sciagurate nozze tra le due divinità marine nacquero anche le Graie (Enio, Deino e Pefredo), il cui aspetto era forse meno spaventoso di quello delle sorelle Gorgoni ma che comunque dovevano costituire uno spettacolo quanto meno anomalo per chi osasse andare a far loro visita, ai confini del mondo: esse, infatti, nacquero già vecchie e con i capelli bianchi; avevano inoltre un solo occhio e un solo dente in comune, che si passavano tra di loro a turno…

TABELLA N. 2
La stirpe di Ponto

Figlia di Forco e Ceto era anche la terribile Echidna dal cuore violento, metà fanciulla dagli occhi splendenti e metà serpente; ella si unì al mostruoso Tifeo (o Tifone), figlio del Tartaro e di Gea e partorì creature dal cuore violento: la Chimera, uno spaventoso animale a tre teste: una di leone, l'altra di capra e di serpente la terza, che venne combattuta dal prode Bellerofonte; il Leone di Nemea, fiera orribile e selvaggia, e l'Idra di Lerna, un feroce drago dalle molte teste, entrambi sconfitti dal grande Eracle (Ercole); il terribile cane a tre teste Cerbero, custode del regno dei morti: «fiera crudele e diversa, con tre gole carinamente latra sopra la gente che quivi è sommersa» (Inferno [VI: 13-15]); la Sfinge, essere per metà leone e metà donna, che perseguitava i passanti ponendo loro degli indovinelli e divorando chi non era in grado di rispondere. (2)

 

2
LA CREAZIONE DEL MONDO

on le nozze di Urano e Gea venne stabilito il primo ordine universale, cui i Greci diedero il nome di Cosmo («Armonia»). Secondo l'antica tradizione, infatti, Urano fu il primo sovrano assoluto; egli fecondò la Terra gettando su di essa fertili gocce di pioggia e generò la prima stirpe dei Titani (il nome proviene da Tite, uno degli altri nomi con cui veniva invocata la Grande Madre).

Narra Esiodo che dalla dea Terra, con Urano giaciuta, nacquero dodici figli: l'Oceano profondo, enorme fiume che circonda tute le terre emerse; Mnemòsine (la Memoria), Temi (la divina Giustizia), Rea, Giapeto e Crio; Iperione e Teia, dalla cui unione nacquero Helios (il Sole), Selene (la Luna) ed Eos dalle dita rosee (l'Aurora); l'amabile Teti, sposa di Oceano, che generò la stirpe dei fiumi e le Oceanine, ninfe del mare; Ceo e Febe dalla ghirlanda d'oro, che concepì Leto (la Notte Buia) e Asteria (la Notte Stellata). Dopo di loro...

...il fortissimo Crono venne alla luce,
di scaltro consiglio,
fra tutti i figliuoli il più tremendo;
e d'ira terribile ardea contro il padre.

Esiodo: Teogonia [137-138]

Gea ed Urano generarono anche i Ciclopi dal cuore superbo (Stérope, Bronte ed Arge), dalle forze immani e dalla grande scaltrezza nelle opere, che nelle cupe caverne dei vulcani forgiarono la folgore e il tuono. Essi erano in tutto simili agli altri dèi immortali, ma avevano un solo occhio, di forma rotonda, in mezzo alla fronte.

Ed altri figliuoli nacquero alla Madre Terra e ad Urano: Cotto, Gia, Briarèo, creature di somma arroganza. Cento mani protendevano terribili dalle loro spalle e cinquanta teste crescevano a ciascuno sopra le membra massicce; e forza terribile si aggiungeva al loro orrido aspetto, per cui essi furono detti Ecatonchiri (o Centimani), i giganti dalle cento braccia.

Narrano gli antichi poeti che Urano prese in odio la sua spaventosa stirpe, che sprofondò nei cupi abissi del Tartaro; di ciò si dolse amaramente la sua sposa Gea, che offrì ai suoi figli la possibilità di vendicarsi: ella fabbricò una grande falce magica, per tendere un agguato all'odiato marito.

Tra tutti i figli della Terra, il solo Crono si fece avanti per sostenere le ragioni della madre; mentre Urano giaceva con Gea («desideroso d'amore incombette e si stese dovunque» (Teogonia [177-178])), il titano afferrò con forza la falce dai denti aguzzi e tagliò i genitali del padre; dal seme di Urano mutilato nacquero altre strane creature: le Erinni potenti (Aletto, Tisifone e Megera), esseri alati dalla pelle nera e dai capelli tramutati in serpenti che perseguitano quanti si macchiano di colpa e di assassinio; la stirpe dei Giganti, splendidi nelle loro corazze di bronzo, con lunghe lance in mano (i cui progenitori furono Alcione, Porfirio ed Encelado).

TABELLA N. 3
I figli di Urano

Secondo alcuni autori, dai genitali di Urano precipitati in mare, presso l'isola di Citera, nacque anche Afrodite (Venere), la bellissima dea dell'amore dalle bionde chiome, da sempre amata e onorata dagli uomini e dagli immortali perché da lei promana il desiderio e il sentimento, il dolce piacere e l'affetto che governa il mondo.

Dopo aver vinto con l'inganno il padre, Crono prese in moglie la sorella Rea (conosciuta nel continente asiatico anche come Cibele e invocata dai Romani come Magna Mater) e salì sul trono di un universo non ancora totalmente plasmato: cominciò così il secondo Cosmo della mitologia greca. Da quel giorno, tuttavia, il Cielo non si avvicina più alla Terra per l'abbraccio notturno.

 

3
IL REGNO DI CRONO E LA TITANOMACHIA

ui gladio ferit, gladio perit: «chi di spada ferisce di spada perisce» (Matteo [26: 52]), dicevano i nostri antichi; e così il destino delle Moire, potere arcano cui neppure gli dèi possono sottrarsi, aveva decretato che quanto Crono aveva fatto al padre un giorno egli stesso lo avrebbe subito a causa di un figlio.

Si racconta che, forse proprio per evitare di essere spodestato da un suo successore, il dio Crono (che i Romani identificarono con Saturno) avesse l'abitudine di mangiare tutti i figli che la moglie Rea metteva al mondo, trangugiandoli uno dopo l'altro.

E così egli ingoiò di volta in volta Demetra (Cerere), la dea dell'agricoltura, che gli artisti raffigurarono spesso assieme al grano e alle messi della terra; Hera (Giunone), la dea protettrice della famiglia, del matrimonio e del parto; Hestia (Vesta), dea del focolare domestico, cui i Romani tributarono un culto speciale per il quale erano adibite sacerdotesse vergini (le Vestali, appunto); Ades (Plutone), futuro signore dell'oltretomba; Poseidone (Nettuno), destinato a diventare il padrone dei mari. Qualcuno sostiene che, in realtà, fosse l'essenza stessa del dio ad imporre questo comportamento, perché Crono (nome che fu messo in relazione con il greco chrónos «tempo») era destinato comunque a creare e distruggere senza posa le proprie creature.

Era naturale che a Rea Cibele dispiacesse veder divorare così i propri figli, per cui quando ella ebbe concepito un nuovo figlio chiese consiglio alla madre Gea e riparò sul monte Ida, nell'isola di Creta, dove mise al mondo un altro erede, cui diede il nome di Zeus (Giove).

Rea nascose il bambino e lo affidò alle cure di alcuni sacerdoti che la tradizione chiama Cureti (o Coribanti), i quali suonando e ballando tutto il giorno coprivano i vagiti del piccolo Zeus, nutrito dal latte della capra Amaltea. Nel frattempo la dea Cibele si recò dal marito e, in luogo del figlio appena nato, gli consegnò una grossa pietra, che Crono trangugiò senza avvedersi dell'inganno.

In breve tempo, Zeus crebbe sano e robusto e dichiarò guerra al padre Crono. In primo luogo, lo costrinse a rigettare i figli che aveva divorato, grazie anche ad un filtro magico che gli era stato preparato da Temi, la dea della Giustizia divina, che era sua zia.

Crono vomitò Poseidone, Ade, Hera, Hestia e Demetra, che essendo immortali erano ovviamente ancora vivi; anche la pietra che era stata mangiata al posto dell'infante Zeus venne restituita ed essa venne posta all'interno di un tempio dove poté essere ammirata e venerata per secoli e secoli, nel luogo più sacro di tutta l'Ellade (antico nome della Grecia): l'oracolo di Delfi.

Zeus liberò le creature che Urano aveva imprigionato nel profondo Tartaro (i Ciclopi e i giganti dalle cento braccia), promettendo loro vittoria e fama se si fossero schierati al suo fianco nella guerra contro Crono: questi, con entusiasmo, aderirono alla causa del giovane rampollo del sovrano del cielo e gli portarono in dono il tuono, il baleno e il fulmine fiammeggiante.

Per lungo tempo si combatterono tra di loro le due fazioni, soffrendo grandi pene e affrontandosi gli uni contro gli altri in tremende battaglie. Lo scontro avvenne tra i monti della Tessaglia, una regione posta nel nord dell'Ellade: da una parte Crono e i suoi Titani dall'alto del Monte Otri; dall'altra Zeus e i suoi fratelli, i Ciclopi e gli Ecatonchiri, dal Monte Olimpo (anche se gli antichi ci tramandano che due titani, Giapeto e suo figlio Prometeo, parteggiassero per Zeus).

Fu un'epica lotta, che durò per oltre dieci anni: i combattenti si scagliavano tra loro macigni, rimbombavano le valli e le montagne, le folgori di Zeus saettavano in cielo: questa guerra venne chiamata Titanomachia ed ebbe fine solo grazie al deciso intervento degli Ecatonchiri, che scagliavano pietre contro i Titani e li ricoprivano di dardi.

Alla fine la vittoria arrise a Zeus e ai suoi seguaci: i Titani vennero sconfitti e rinchiusi nel Tartaro, sorvegliati a vista dai giganti dalle cento braccia. Per farci comprendere la profondità di questa regione Esiodo ci spiega che il Tartaro oscuro è circondato da un bronzeo recinto e che esso è...

...tanto sotto la terra
quanto dalla terra il cielo è lontano; […]
ché per nove notti e giorni una bronzea incudine
cadendo dal cielo al decimo verrebbe in terra;
e ugualmente distante dalla Terra
è il Tartaro oscuro.

Esiodo: Teogonia [720-723]

Il fortissimo Atlante, figlio di Giapeto, venne invece condannato a reggere per sempre la volta del cielo, presso la catena montuosa che, in Africa, prende il suo nome.

Il dio Crono venne confinato in un'isola ai margini dell'oceano (anche se ai Romani piacque narrare che il loro Saturno avrebbe riparato in Italia, nel Lazio).

Da ultimo, Zeus dovette fronteggiare l'ultimo dei suoi terribili nemici: Tifeo, un mostro spaventoso dalle braccia forti e dagli occhi che splendevano di ardori di fuoco; cento teste, gli nascevano dalle spalle e da esse provenivano terribili suoni: a volte la sua voce era comprensibile agli dèi, ma spesso era simile al muggito di un toro, al ruggito di un leone, all'abbaiare di un cane o ad un sibilo; la parte inferiore del suo corpo era simile a due serpenti attorcigliati tra di loro. (3)

Costui si era ribellato a Zeus e sarebbe diventato il signore dei mortali e degli immortali se il nuovo padrone del cielo non lo avesse sfidato scagliando le sue folgori contro quell'ultimo avamposto del Caos.

Inizialmente, Tifeo sembrò avere la meglio; avviluppando il suo avversario con le spire dei suoi serpenti, riuscì a tagliargli i nervi e a rinchiuderlo in un antro oscuro della Cilicia, in Asia Minore. Le divinità dei boschi accorsero però in aiuto di Zeus: lo trassero dalla grotta in cui era stato rinchiuso e riuscirono a curarlo.

Zeus montò sul suo carro trainato da cavalli alati e inseguì il mostro; colpendolo ripetutamente con i suoi fulmini, riuscì infine a seppellirlo sotto la montagna dell'Etna, da dove ancora oggi Tifeo tenta di liberarsi provocando eruzioni e terremoti.

Cominciò così la terza e definitiva fase del regno degli dèi: quella della sovranità di Zeus.

 

4
ZEUS E I SUOI DISCENDENTI

na volta sconfitti ed imprigionati tutti i suoi nemici, Zeus stabilì la propria dimora sul monte Olimpo e convocò tutti gli dèi affinché gli prestassero giuramento di eterna fedeltà.

Egli conferì grandi onori a chi gli era stato fedele e fu particolarmente generoso con chi lo aveva sostenuto nonostante l'amicizia con i Titani; in particolare, Iris (l'Arcobaleno) venne nominata messaggera degli dèi; il fiume Stige, che per primo si era schierato a favore del nuovo tiranno del cielo, era divenuto sacro per tutti gli dèi, cosicché tutti i giuramenti pronunciati in suo nome, fosse anche da parte degli immortali, non potevano mai essere infranti.

Zeus convocò quindi i suoi fratelli Ades e Poseidone ed assieme a loro la sovranità dell'universo venne equamente divisa: Poseidone ebbe il domino dei mari, mentre Ades divenne il signore degli inferi e dell'oltretomba; Zeus mantenne per sé la tirannia del cielo e della terra.

TABELLA N. 4
I figli di Crono

Zeus prese inizialmente in sposa Metis (la Prudenza), una delle dee più sagge; quando, tuttavia, ella rimase incinta, nel timore che potesse partorire un figlio in grado di spodestarla, il sovrano del cielo la inghiottì nel suo ventre. Alcuni giorni dopo, tuttavia, dalla testa dei Zeus uscì intrepida la dea Pallade Atena (Minerva), già armata di tutto punto con elmo, spada e scudo: per gli antichi abitanti della Grecia ella simboleggia la sapienza e la guerra eroica.

Per seconda il sovrano del cielo ebbe in sposa la dea Temi, con la quale generò le Ore (le Stagioni) e, secondo alcuni autori, anche le terribili Moire.

Zeus amò anche Mnemòsine, che gli partorì le dolci Muse protettrici delle arti, e Leto, da cui ebbe due gemelli: Apollo (Febo), protettore delle arti e delle doti profetiche, e Artemide (Diana), la dea della caccia. I due inseparabili fratelli vengono spesso raffigurati assieme e associati al culto del Sole, il cui carro veniva condotto ogni giorno dal dio Apollo, e della Luna (uno degli epiteti della dea Artemide).

Da Eurinòme, Zeus ebbe le bellissime Cariti (le Grazie) dalle belle guance (Talia, Eufrosine e Aglaia), ninfe amabili simbolo della grazia e dell'amore; da Maia, figlia di Atlante, ebbe il dio Hermes (Mercurio); messaggero degli dèi e protettore delle arti mediche (ma anche degli audaci e dei ladruncoli nonché compagno del padre nelle sue passeggiate nella terra degli uomini), egli riusciva a muoversi rapidissimo per le terre del mondo conosciuto grazie ai suoi calzari alati.

La passione di Zeus per Demetra, invece, generò la dolce Persefone, futura sposa di Ades; altri autori gli attribuiscono anche la paternità di Afrodite, dea dell'amore.

Numerose fonti fanno di Zeus anche il progenitore delle ninfe; le Driadi e le Amadriadi, che abitano i boschi; le Oreadi, che vivono nelle montagne; le Naiadi, divinità tutelari dei fiumi e delle sorgenti.

Infine, Zeus prese in sposa Hera (Giunone), dalla quale ebbe tre figli: Ares (Marte), lo spietato dio della guerra, Ebe (la Giovinezza) ed Ilizia, la dea protettrice del parto. Pare, tuttavia, che questo terzo matrimonio fosse funestato da numerose infedeltà, tanto che la gelosa e vendicativa Hera, oltre a perseguitare le amanti di volta in volta prescelte dal marito, per ripicca generò da sé stessa Efesto (Vulcano), il fabbro degli dèi. Si racconta, inoltre, che questo figlio fosse talmente brutto e deforme che venne scaraventato dalla stessa madre giù dal monte Olimpo, per cui Efesto rimase zoppo per l'eternità; successivamente, Hera gli diede in sposa la bellissima Afrodite (di cui era gelosa), per evitare che la dea dell'amore potesse circuire altri dèi; anche questo matrimonio, ovviamente, venne caratterizzato da molti tradimenti.

E gli uomini? Stranamente, la mitologia greca non dedica alla creazione del genere umano la stessa considerazione ed importanza che essa riveste, ad esempio, nella tradizione ebraica.

Esistono numerose e diverse versioni sulla creazione dell'umanità, anche se una delle leggende che ci piace ricordare attribuisce questo atto d'amore al titano Prometeo, il quale dopo aver plasmato dalla materia i primi esseri umani chiese agli dèi di infondere loro il proprio alito vitale.

Essi vissero a lungo in uno stato ferino (anche se felice, secondo alcuni; tanto è vero che il cosmo di Crono/Saturno venne considerato dai più una vera e propria età dell'oro); successivamente fu lo stesso Prometeo ad insegnare loro i primi rudimenti del vivere civile e a rubare dall'Olimpo il segreto del fuoco per donarlo agli uomini intirizziti nelle fredde notti invernali.

Le gesta dei mortali divennero note e care agli dèi solo in seguito, quando essi cominciarono a scendere dal monte Olimpo per trascorrere parte del loro tempo in sembianze umane. Amori, collere, rivalità ed amicizie tra uomini ed immortali sono stati all'origine di molte delle storie più note dell'antichità.

Lo stesso Zeus non fu immune dal fascino delle donne mortali, con le quali concepì eredi che divennero eroi o grandi sovrani (due di essi, Dioniso ed Eracle, vennero addirittura ammessi al cospetto degli dèi dell'Olimpo). Forse il padre degli dèi era del tutto privo di senso morale? O forse erano le antiche famiglie nobili dell'antica Grecia ad avere un particolare interesse ad accampare un'origine divina?

Raccontano comunque i poeti che il regno di Zeus fosse destinato a durare per l'eternità e che nessuno riuscì mai a spodestarlo dal suo trono. Si narra inoltre che vi era un'unica divinità in grado di partorire un figlio in grado di prendere il suo posto ma che il suo nome fosse noto al solo Prometeo.

Il tiranno del cielo era tuttavia fortemente in collera con il titano, colpevole di aver sottratto il rosso fuoco dall'Olimpo con l'inganno; questi, infatti, aveva ubriacato Efesto offrendogli del vino drogato con del papavero mentre gli altri dèi si stavano riposando.

Per questo Zeus aveva fatto incatenare Prometeo sui monti del Caucaso, minacciandolo di terribili torture qualora non avesse rivelato il nome della donna in grado di partorire il suo successore.

Il titano indomabile si rifiutò di obbedire ai voleri di Zeus, nonostante un'aquila mandata dal cielo gli divorasse ogni giorno le viscere. Solamente l'intercessione di Gea, la dea della Terra, fece riconciliare il sovrano del cielo con Prometeo, che rivelò quindi il nome fatidico: era la bellissima dea Tetide, una delle Nereidi.

Pur travolto da una forte passione amorosa nei confronti della ninfa, Zeus procurò che Tetide venisse data in sposa ad un uomo mortale, che fu Peleo.

Da Peleo e Tetide nacque il più forte di tutti gli uomini mortali, vale a dire Achille, protagonista della guerra di Troia; ma questa, come si dice, è un'altra storia…

* * *


Il lettore che abbia avuto la pazienza di leggere le pagine che precedono non può non notare l'enorme quantità di nomi di divinità che vengono citati da Esiodo, tanto che diventa impresa assai ardua riuscire a ricostruire un albero genealogico completo (nelle tabelle si è cercato di aiutare al lettore a districarsi meglio; il curioso con velleità di approfondire potrà leggere direttamente la
Teogonia di Esiodo).

Chi ha già una certa dimestichezza con i racconti mitologici, invece, avrà osservato che le figure divine della religione greca tendono a sovrapporsi, quando addirittura non vi sono dèi con attributi pressoché identici (come nel caso di Apollo e di Helios, entrambi assimilati al culto del sole).

Ciò è dovuto in gran parte al fatto che la cultura greca dei primordi si è formata a seguito della fusione – più o meno pacifica, non esistono fonti certe al riguardo – tra la popolazione mediterranea dei Pelasgi e alcuni popoli indoeuropei provenienti da nord, tra i quali il gruppo predominante fu quello degli Achei.

I Pelasgi erano prevalentemente sedentari ed agricoltori, per cui essi collocavano la dimora delle loro divinità nella terra, per loro fonte di sopravvivenza; le divinità maggiori erano per lo più legate all'elemento femminile (come Hera e Gea), in quanto artefice del miracolo della maternità e della fecondità; le civiltà mediterranee ci hanno offerto più di un esempio di manifestazioni artistiche e religiose legate al culto della Potnia, l'antica Madre Terra (come i templi megalitici di Malta).

Gli Achei ereditavano invece un passato da nomadi, per cui i loro dèi «risiedevano» in cielo, unico elemento stabile per i popoli senza fissa dimora. Normalmente, le divinità principali erano connesse all'elemento maschile (come Urano e Zeus).

Dalla fusione tra queste due religioni nacque il primo pantheon greco, che sin dall'inizio si presentò quindi piuttosto eterogeneo.

In questa fase, i Greci identificavano il sacro con le forze naturali (pare che gli dèi più importanti fossero Poseidone e Demetra), per cui la divinità veniva raffigurata simbolicamente con un aspetto animale, ovvero metà uomo e metà animale (in alcuni casi, addirittura, la divinità è rappresentata come una orrida commistione tra animali diversi): tale iconografia religiosa è nota anche come «naturalismo».

Successivamente, tale concezione venne superata identificando il sacro con elementi tipicamente umani e anche gli dèi vennero raffigurati in forma umana, anche se idealizzati («antropomorfismo»): i figli di Crono e i loro discendenti erano raffigurati come degli umani «perfetti», in quanto erano immortali, ma con tutte le passioni e i vizi degli uomini: dall'amore alla collera, dall'amicizia alla gelosia.

Quando Esiodo si apprestò a scrivere la sua Teogonia, aveva davanti a sé una pletora di dèi; la genialità del grande scrittore greco fu quella di immaginare una genealogia divina in cui trovavano spazio gli dèi della prima generazione, più vicini al Caos che all'ordine (raffigurati, come si è detto, come animali o mostri), destinati tuttavia ad essere spodestati e superati dagli dèi della seconda generazione (raffigurati, invece, in forma umana).

L'amore di Esiodo per la Dike (la Giustizia) non gli consentiva di concepire la storia come una guerra continua, per cui egli ritenne che la stabilità potesse essere trovata unicamente nel Cosmo e non in una eterna guerra tra generazioni. La lotta di Zeus contro Tifeo è l'ultimo atto di violenza prima della instaurazione di un nuovo ordine, in cui c'è spazio anche per l'armonia tra vecchi e nuovi dèi; è solo in questo contesto che si può comprendere veramente il significato che ebbe, per gli antichi Greci, l'aspro conflitto e la successiva, definitiva riconciliazione tra Zeus e il titano Prometeo, che per amore dell'umanità aveva rubato dall'Olimpo il segreto del rosso fuoco. Tale costruzione poetica e religiosa trova la sua eco nella cultura greca dei secoli successivi e permea tutte le opere del grande tragediografo Eschilo.

II
I VATICINI DELLA VÖLVA, LA VEGGENTE
LE SAGHE DEI POPOLI DEL NORD

 

Dai vaticini della völva, la «Veggente», e dalla tradizione orale degli scaldi islandesi ci è giunta questa antica leggenda sulle origini del mondo, che tenteremo di trascrivere una volta ancora a beneficio del lettore di oggi.

 

1
LA CREAZIONE DEL MONDO

n principio, raccontano gli antichi, era il Ginnungagap, ovvero il vasto abisso, il vuoto infinito, in cui non esistevano né dimensioni, né limiti, né alcuno dei pensieri che la mente umana è abituata a concepire; chiunque avesse potuto contemplare l'immensità di quel nulla che sembrava eterno, in cui non era possibile discernere la luce, le tenebre e gli elementi, sarebbe forse impazzito.

Era l'inizio dei tempi
quando nulla esisteva,
non c'era sabbia né mare
né fresche onde;
non c'era la terra
né il cielo lassù,
c'era il baratro degli abissi,
ma non c'era l'erba.

(Völuspá [3])

Trascorsero gli eoni, nell'immutabile inerzia, senza poter essere misurati dal movimento o dal divenire; poi, lentamente, il nulla cominciò a diventare qualcosa ed apparvero due regioni tra loro contrastanti ed opposte: una era detta Múspellsheimr, dove tutto era devastato dalla fiamma ardente, dai lapilli e da un fumo malefico, solcato da fiumi di lava incandescente; l'altra era invece detta Niflheimr ed era ricoperta da ghiaccio, neve e brina e celata da una nebbia perenne.

Nel Niflheimr si trovava la sorgente di Hvergelmir. Da essa ebbero origine fiumi intrisi di un veleno mortale, chiamati dagli antichi Élivágar.

Per millenni le due regioni poste agli estremi dell'universo si fronteggiarono senza mai sfiorarsi, l'una eruttando scintille e gas incandescente e l'altra prigioniera nel suo silenzioso deserto di freddo.

Quando il Múspellsheimr e il Niflheimr giunsero una di fronte all'altra, accadde ciò che neppure gli dèi riuscirono mai a spiegare: il contatto tra l'acqua purissima e la scintilla del fuoco provocò una terribile esplosione, da cui nacque il miracolo della vita.

Il regno del ghiaccio e del fuoco si mescolarono tra loro e plasmarono il corpo di un gigante; quanti discendono dalla sua stirpe, lo chiamarono Aurgelmir, ma gli dèi lo conoscono con il nome di Ymir.

Per lungo tempo, il gigante giacque addormentato in quel miscuglio caotico che era ancora l'universo primordiale; infine, il suo corpo si solidificò e cominciò a sudare; dai suoi umori nacque la progenie dei mostri e dei giganti, poiché essi erano impregnati del veleno degli Élivágar.

In quel tempo, inoltre, la solidificazione delle acque che percorrevano il Niflheimr formò il corpo di una grande mucca, che gli dèi e i giganti denominarono Auðhumla e che nella lingua arcana dei nostri progenitori vuol dire la «Grande Nutrice»; leccando il ghiaccio ella plasmò le fattezze di un uomo grande e possente che gli dèi chiamarono Búri e che è l'antenato di tutte le stirpi divine.

Buri ebbe un figlio cui diede il nome di Borr, che nel sacro linguaggio delle rune vuol dire semplicemente il Nato; Borr sposò la figlia di un gigante della stirpe di Ymir ed ebbe tre figli che vennero chiamati Odino (che i Germani invocarono con il nome di Wotan), Víli e .

Tutti gli esseri che abitavano allora l'universo avevano preso forma nel Ginnungagap, ma alcuni di essi erano permeati del veleno di Élivágar e perciò inclini al male, mentre altri ne erano immuni e quindi volti verso il bene. Non trascorse quindi molto tempo prima che le forze del bene e quelle del male venissero coinvolti in un conflitto cosmico.

I figli di Borr vennero a battaglia con il possente Ymir e, a seguito di un furioso e cruento combattimento, essi infine lo uccisero. Quando il gigante ancestrale cadde esanime sotto i mortali colpi dei suoi nemici, il suo sangue sgorgò dalle molte ferite e sommerse completamente i suoi figli, che perirono annegati; solo il più giovane di questi, Bergelmir, riuscì a salvarsi con la sua compagna e riparò nel Niflheimr: da loro derivò la razza dei terribili giganti e degli orchi delle colline.

Odino, Víli e Vé trascinarono la carcassa del gigante nel mezzo del Ginnungagap e con essa plasmarono la terra, i monti, e le colline; con il suo sangue essi formarono il mare, dalle sue ossa vennero ricavate le rupi e le rocce.

Dalla carne di Ymir fu fatta la terra,
dal suo sangue il mare,
dalle ossa le montagne,
gli alberi dalla chioma,
dal cranio il cielo.

(Vafþrúðnismál [21])

Dai capelli di Ymir essi forgiarono i boschi e i cespugli, mentre con la calotta cranica dell'essere primordiale Odino, Víli e Vé formarono la volta del cielo: essi catturarono le scintille ardenti del Múspellsheimr e le posero agli angoli dell'universo, per fissare le costellazioni a scandire in eterno l'ordine del tempo e dello spazio.

Infine, Odino e i suoi fratelli presero le ciglia del gigante e cinsero una difesa di mura attorno alla terra per proteggerla dai giganti, cui venne dato il nome di Miðgarðr (che significa «Recinto di mezzo»).

Fu quello il primo fatale scontro tra il Bene e il Male, che si risolse con la vittoria schiacciante tra le forze non contaminate dall'ancestrale veleno degli Élivágar; le profezie, tuttavia, ci dicono che verrà un giorno in cui gli dèi saranno chiamati nuovamente a fronteggiare i giganti che verranno dalle regioni del ghiaccio e del fuoco a combattere una guerra senza fine che si risolverà solo con la sconfitta definitiva di uno dei contendenti.

In quel giorno, cui le sacre rune fanno sovente cenno e per il quale gli indovini usano già il sinistro nome di Ragnarök, ognuno di noi sarà chiamato a prendere parte per l'una o per l'altra fazione e l'apporto che verrà dallo spirito guerriero della razza umana sarà decisivo.

 

2
GLI ESSERI VIVENTI

n giorno i figli di Borr stavano passeggiando nel Miðgarðr che avevano appena creato e giunsero presso una spiaggia; qui trovarono due alberi: li plasmarono e ne crearono gli uomini. Odino diede loro spirito e vita, Vili saggezza e movimento, mentre Ve diede loro la forma, la parola, l'udito e la vista; le tre divinità offrirono in dono anche vesti e nome. L'uomo venne chiamato Frassino e la donna Olmo; da loro fu generata l'umanità cui fu data dimora nel Miðgarðr.

Subito dopo i figli di Borr costruirono una fortezza nel mezzo del mondo; essa è detta Ásgarðr e lì eleggeranno dimora gli dèi e le loro famiglie (gli Æsir): da qui provengono inoltre le decisioni e gli eventi che mutano il destino del cielo e della terra; ivi si trova l'altro trono di roccia, da cui Odino sta seduto e osserva tutto il mondo e le creature viventi e comprende tutto ciò che vede.

I nani, invece, avevano preso vita nella carne di Ymir, come dei vermi; ma per decisione degli dèi essi divennero intelligenti come gli uomini e presero dimora nella terra tra le pietre. Sconosciuta è invece l'origine degli elfi, i cui mondi si trovano appena al di sotto di quelli degli dèi e dei semidèi.

Nello Jötunheimr venne a stabilirsi la orribile stirpe dei giganti scampata al massacro ordito dai figli di Borr; i giganti del fuoco, invece, guidati da Surtr dalla spada fiammeggiante, trovarono dimora nella regione di Múspellsheimr.

Viveva nello Jötunheimr un gigante chiamato Nörfi; questi aveva una figlia scura e bruna come la sua stirpe e venne chiamata Notte; ella andò in sposa a Dellingr, della stirpe degli dèi, bello e splendente (secondo alcuni, infatti, Dellingr vuol dire appunto il «luminoso»): il loro figlio era biondo e splendente come il padre e venne chiamato Giorno.

Allora Odino diede a Notte e a Giorno due pariglie di destrieri e due carri e li pose in cielo, affinché corressero attorno alla terra ogni ventiquattro ore; per prima cavalca Notte con i suoi cavalli, che ogni mattina fanno gocciolare sulla terra la bava che bagna il loro morso; poi segue Giorno così che il cielo e la terra sono illuminati dal suo splendore.

Per punire la superbia di un mortale, il quale aveva avuto la presunzione di ritenere i propri due figli più belli degli astri, gli dèi stessi rapirono i due fanciulli e li condussero in cielo: la femmina, Sole, venne chiamata a condurre uno dei cavalli che tirano il carro di Giorno, mentre il maschio, Luna, fu posto in groppa al primo destriero di Notte; poiché il tragitto di Luna è più complesso, i due bambini Bil e Júki lo aiutano nel suo percorso e calando un velo sopra il suo viso creano le fasi lunari.

Essi tuttavia, dopo la fine dell'età dell'oro, proseguiranno la loro corsa molto più rapidamente, per sfuggire da due lupi della odiata stirpe di Loki, che inseguono senza scampo i due carri.

Fra gli dèi, infatti, viene annoverato anche quello che alcuni chiamano il signore degli inganni ovvero la rovina degli Æsir; questi è Loki, della stirpe dei giganti: intelligente, bello a vedersi, malvagio di animo, mutevole nel comportamento, sempre pronto ad escogitare malizie di ogni genere; anche se il suo sguardo poteva comunque apparire sereno ad affascinante per chi lo osservava, gli occhi ne rivelavano l'animo oscuro.

Loki si era invaghito di una strega della stirpe degli orchi, chiamata Angrboða; poiché essa aveva un influsso malefico su chiunque le fosse vicino, gli dèi la attirarono con l'inganno presso la loro dimora nell'Asgard e la bruciarono viva. Ma Loki frugò tra le sue ceneri e trovò all'interno il cuore di Angrboða che ancora pulsava e l'inghiottì; subito sentì il malefico influsso della strega dentro di lui e fuggì nelle terre oscure, dove il signore degli inganni si unì con l'essenza vitale di Angrboða e diede alla luce tre figli.

Il primo mostruoso figlio di Loki fu il lupo Fenrir, il capostipite della razza dei lupi.

Il secondo figlio fu un enorme serpente, dalle proporzioni colossali, che in breve tempo circondò con le sue spire l'intera terra degli uomini; Odino fece ricorso a tutti i suoi poteri per scagliarlo in mare e lì egli giace tuttora, avvolto attorno alla terra, con la coda imprigionata tra le proprie fauci, cosa che gli impedisce di crescere ulteriormente; alcuni marinai raccontano di avere scorto alle volte le spire di Jörmungandr, il Serpente del Mondo, e di essere fuggiti terrorizzati.

Il terzo figlio di Loki fu una donna dall'aspetto orribile a vedersi: ella venne chiamata Hel, dallo sguardo severo e feroce, per metà nera e per metà color carne; Hel venne gettata nel mondo degli inferi affinché regnasse su quanti finiscono tra le grinfie delle forze del male prima del trapasso: Hel vive in una dimora dai muri straordinariamente alti e dai cancelli robusti, guardata a vista dal cane Garmr, che si ciba delle carni degli uomini che muoiono.

Di Fenrir si invaghì una strega abitante del Bosco di Ferro (Járnviðr) e con lui generò due lupi enormi e terrificanti, che le forze del male scagliarono in cielo a minacciare il percorso del Giorno e della Notte; uno di essi ha nome Skoll, impaurisce ed insegue il cavallo del Sole, mentre Hati non smette di dare la caccia alla Luna.

All'est sta una vecchia
in Járnviðr
e là genera
i figli di Fenrir;
viene fuori da essi uno
che distruggerà la luna
ha l'aspetto di un gigante [...].
Si offuscherà lo splendore del sole
di estati venture,
tutto si fa spaventoso.

(Völuspá [40])

 

3
YGGDRASILL

e un uomo potesse chiedere agli dèi: — Qual è la più santa, la più importante sede del divino? — essi risponderebbero: — È presso il frassino Yggdrasill, dove gli dèi tengono ogni giorno consiglio.

Il frassino denominato Yggdrasill è il più importante ed il migliore di tutti gli alberi ed è anche chiamato l'Albero del Mondo perché i suoi rami si estendono per tutti i nove mondi e coprono il cielo. Esso deriva il suo nome da uno degli appellativi di Odino, il nome più sacro agli uomini del Nord.

Si narra, infatti, che Odino in persona, per impadronirsi del segreto delle magiche rune, i simboli magici da cui è nata la scrittura, abbia dovuto sottoporsi ad un grande sacrificio, pendendo da un ramo del Frassino che sovrastava l'abisso per nove giorni e nove notti, oscillando in quel mondo di tenebre squassato da un vento che avrebbe fatto impazzire qualsiasi essere mortale.

Tre radici ha Yggdrasill, che sorreggono l'intero universo; una di esse arriva nell'Ásgarðr, la dimora degli dèi, l'altra nella Terra dei Giganti e la terza nell'eterno Regno del Ghiaccio; a nutrire le radici è l'acqua di tre pozzi.

La radice che ha dimora nell'Asgard è curata da tre sorelle vestite di grigio, le Norne, che mescolano l'acqua del pozzo di Urðr con argilla e la spargono poi sull'albero per preservarne le radici. Una parte dell'acqua del pozzo cola sulla terra sottostante e viene chiamata dagli uomini rugiada.

La seconda radice si trova, invece, all'interno dello Jötunheimr, la Terra dei Giganti e alla sua estremità si trova l'acqua del pozzo di Mímir. Questi era un dio traboccante di sapere, ucciso mediante decapitazione da parte di alcune divinità ostili a Odino; tuttora, grazie alle arti magiche di Odino e all'acqua del pozzo, la testa di Mímir è ancora in vita e in grado di parlare a patto che a rivolgergli la parola sia il padre di tutti gli dèi.

Quando Odino giunge nella Terra dei Giganti, questi chiede conforto a Mímir sul futuro del mondo e riceve il prezioso dono della sua saggezza. Il giorno della fine del mondo, Odino salterà in groppa al suo cavallo per chiedere consiglio alla testa di Mímir, ma questa volta il suo capo mozzato rimarrà muto: allora, il padre degli dèi comprenderà che è giunto il giorno della sfida finale tra le forze del Bene e quelle del Male.

La terza radice affonda sino al Niflheimr, il Regno del Ghiaccio, dove affonda in una sorgente ribollente e velenosa; nubi tossiche e vapori venefici si levano attorno alle radici del Frassino.

Lì si aggira il terribile drago, Níðhöggr, che con le sue terribili fauci si avventa contro Yggdrasill tentando di lacerarne le radici; accanto al drago vivono molti serpenti che soffiano mefitiche nubi di veleno.

Quattro cervi giganteschi si alzano sulle zampe per brucare le foglie e staccare la corteccia di Yggdrasill, mettendone sempre a repentaglio la vita.

In cima ai rami più alti sta appollaiata una vecchia aquila, che si scambia continuamente ingiurie con Níðhöggr; uno scoiattolo corre di continuo da una estremità all'altra dell'albero a riferire gli insulti che si scambiano le due creature.

Il giorno della fine del mondo, le radici di Yggdrasill prenderanno a tremare, anche se non cadranno; esse saranno scosse dalle torme dei giganti, che valicheranno i confini delle loro terre assieme agli spiriti dei defunti malvagi, confinati nell'oscuro reame di Hel; essi salperanno dalla spiaggia dei cadaveri a bordo della nave Naglfar, costruita con le unghie delle mani e dei piedi di coloro che sono morti senza onore.

Gli zoccoli dei cavalli dei giganti del fuoco percorreranno Bifröst, il ponte di arcobaleno che separa la dimora degli dèi dalla terra di mezzo, e lo frantumeranno.

Le forze del male si raduneranno davanti ad una enorme pianura, sulla quale saranno già schierate le forze del bene: gli Æsir (gli dèi), gli elfi, i nani e gli spiriti dei valorosi morti in battaglia che dimorano nel Valhalla.

In quel giorno verranno decise le sorti dell'universo intero e solo Odino e forse la völva conoscono il destino del mondo e l'esito della battaglia che avrà luogo nel giorno decisivo: il giorno del Ragnarök.

 

4
IL RAGNARÖK

olte e terribili sono le leggende che riguardano il Ragnarök, parola arcana che significa il tramonto degli dèi, di tutti coloro che dagli dèi dipendono, la fine di ogni cosa; esse ci sono state rese note grazie ai vaticini della völva, la Veggente.

Scelse per lei Odino
anelli e collane,
ricchezza, sapienti carmi magici
e profezie ottenute tramite verghe;
Ella (la sibilla) vede molto al di là
su ogni mondo.

(Völuspá [29])

I primi a subire le terribili conseguenze del mutamento dell'ordine naturale saranno gli dèi; il più bello e il più luminoso tra di essi, Baldr il Buono, perirà a causa del tradimento del signore degli inganni.

Successivamente, saranno gli uomini della Terra di Mezzo, i discendenti di Frassino ed Olmo, a vivere grandi disastri.

I fratelli si combatteranno gli uni agli altri
e giungeranno ad uccidersi,
i cugini spezzeranno
i legami di parentela;
[…]
tempo d'asce e di spade,
gli scudi sono rotti,
èra di tempeste, èra del lupo,
prima che il mondo crolli;
nessuno risparmierà l'altro.

(Völuspá [45])

A queste guerre crudeli seguirà il terribile inverno Fimbulvetr, in cui tempeste di neve e di ghiaccio tormenteranno l'umanità per tre anni consecutivi; nei cieli, uno dei figli del lupo Fenrir inghiottirà il sole mentre l'altro divorerà la luna. Un terremoto sconquasserà tutte le terre, consentendo alle forze del male di liberarsi dalle prigioni in cui erano state confinate dagli dèi.

Latra forte Garmr
davanti ai cancelli di Hel,
i lacci si spezzeranno
e libero correrà il lupo Fenrir.
Il gigante Hrymr verrà da est
con un scudo di tiglio davanti;
si contorce Jörmungandr
con rabbia da gigante;
il serpente flagella le onde.

(Völuspá [49-50])

Dal regno dei morti salperà la nave Naglfar, con a bordo la sua ciurma di cadaveri guidata da Loki, il signore degli inganni. Il cielo si squarcerà e si riverseranno le orrende truppe dei giganti del fuoco, guidati da Surtr dalla spada fiammeggiante. Anche i giganti montani e quelli del ghiaccio si uniranno alle forze del male nello scontro decisivo con gli dèi.

Il mattino del Ragnarök il gallo Gullinkambi canterà per la prima ed ultima volta e chiamerà tutti gli eroi ed i valorosi ad unirsi agli dèi e ai loro alleati nello scontro finale.

In testa alle schiere, Odino si avventerà sul più terribile dei suoi nemici, il lupo Fenrir, che spalancherà le sue fauci e lo inghiottirà per sempre.

Il figlio di Odino, il grande Thor, protettore della Terra di Mezzo, sarà impegnato in una lotta sino allo stremo delle forze contro Jörmungandr, il Serpente del Mondo. I fulmini che sprigioneranno dalle armi di Thor saranno fatali per il serpente e lo uccideranno. Ma dopo questa aspra lotta il figlio di Odino percorrerà esattamente nove passi barcollando prima di crollare al suolo, esanime, ucciso dal veleno mefitico di Jörmungandr.

Anche gli altri dèi si batteranno valorosamente contro le forze del caos e della distruzione, annientandosi a vicenda; ma saranno infine i giganti del fuoco a prevalere. Surtr appiccherà il fuoco alla terra e tutto l'universo brucerà per tornare ad essere un caotico ed indifferenziato nulla.

Il sole si oscura,
la terra sprofonda nel mare,
scompaiono dal cielo
le stelle splendenti;
infuria il fuoco
con il fuoco,
gioca alta la fiamma
con il cielo stesso.

(Völuspá [57])

 

5
DOPO LA FINE DEL MONDO

n giorno i saggi si chiesero: — Che cosa avverrà dopo che il fuoco avrà distrutto il cielo, la terra e tutto il mondo, dopo che gli dèi e gli uomini saranno morti? Che cosa succederà dopo che Surtr avrà avvolto tutto con le sue fiamme?

Un grande iniziato riuscì ad udire le parole che Odino sussurrò a Baldr il Buono prima che costui esalasse l'ultimo respiro e ne lasciò traccia per i posteri affinché tutti serbassero un messaggio di speranza per il futuro. (4)

Stando alla profezia, dopo il disastro del Ragnarök i giganti del fuoco domineranno il mondo per un breve periodo; essi abiteranno una dimora con la porta rivolta a settentrione fatta intessendo le pelli di tutti i serpenti del mondo; le teste di quei serpenti saranno vive ed emaneranno veleno; il drago Níðhöggr tormenterà i cadaveri dei morti con le sue fauci. Ma ben presto i giganti si distruggeranno da soli con le proprie fiamme; anche Surtr perirà miseramente nel rogo che lui stesso avrà provocato.

La terra risorgerà di nuovo a nuova vita e si scuoterà di dosso le acque del mare, tornando verde e bella; allora cresceranno messi non seminate. Le cascate torneranno a scorrere dalle rupi e le aquile volteggeranno ancora nei cieli.

Baldr il Buono tornerà dal regno dei morti e con lui i nuovi dèi; essi abiteranno le dimore che erano state di Odino, di Thor e degli altri protettori del genere umano, dimentichi degli antichi mali di Fenrir, di Jörmungandr e del signore degli inganni.

Anche Yggdrasill, il Frassino del Mondo, che durante l'inizio del Ragnarök comincerà a tremare, resisterà al disastro della fine del mondo. Alcuni esseri viventi si nasconderanno tra le sue foglie ed i suoi rami e troveranno riparo; una donna e un uomo, chiamati Vita e Desiderio di Vita, si salveranno dalle fiamme e daranno vita ad una nuova stirpe, che ripopolerà il nuovo mondo.

Líf [Vita] e Leifþrasir [Desiderio di Vita]
devono nascondersi
nel bosco di Hoddmímir;
la rugiada del mattino
hanno come cibo
e di lì rinasceranno le stirpi.

(Vafþrúðnismál [45])

E prima di essere divorata dal lupo, Sole genererà una figlia non meno luminosa di lei che percorrerà di nuovo gli stessi sentieri della madre nei cieli.

Subito dopo aver udito la profezia, il grande iniziato udì un grande tuono in tutte le direzioni. Allora si mise in viaggio e raccontò tutto quanto aveva visto e udito; e dopo di lui queste storie vennero tramandate di padre in figlio, di generazione in generazione.

* * *

 

A differenza della mitologia greca, che concepisce l'universo come Cosmo (sinonimo di ordine ed armonia), dove ognuno di noi ha un posto assegnato che non può travalicare senza commettere il peccato di hýbris (superbia), la concezione del mondo secondo i popoli del nord è molto più cupa. L'equilibrio tra Bene e Male è sempre precario e spesso affidato alla forza e al coraggio di impavidi eroi e divinità, senza i quali il Male potrebbe prendere il sopravvento (il che spiega la disperazione con la quale veniva pianta la morte dei grandi capi e dei guerrieri più famosi). La tensione tra queste due forze opposte, inoltre, è destinata a trovare una soluzione non in una riconciliazione finale ma in una lotta decisiva tra i due contendenti, al termine della quale il Male prevarrà sul Bene (sia pure provvisoriamente), ma distruggerà sé stesso, creando i presupposti per la ricostruzione di un nuovo, buon mondo.

III
ENŪMA ELIŠ
I POEMI DELLA MESOPOTAMIA

 

I popoli della Mesopotamia ci hanno lasciato una delle versioni più affascinanti mai scritte sulla creazione del mondo. Le prime testimonianze risalgono, ovviamente, all'epoca dei Sumeri, chiamati spesso, nei testi più antichi, «Teste Nere» per la carnagione più scura rispetto alle altre popolazioni semitiche che abitavano quella regione. Oscura è l'origine del popolo sumerico, così come è estremamente difficile riuscire a risalire alla versione originale dei loro miti, interpolati da stratificazioni e aggiunte dei popoli che si succederanno nei millenni nella regione della cosiddetta Mezzaluna Fertile.

 

1
I SUMERI

i fu un tempo in cui i sacerdoti dell'antica Sumer adoravano la triade divina composta da Anu, Enki ed Enlil e per essi avevano edificato molte Città Tempio le cui sommità sembravano sfidare il cielo. A quell'epoca il popolo delle Teste Nere dominava il mondo e donò all'umanità uno dei tesori più preziosi: la scrittura.

Le prime leggende e i primi poemi dell'antichità giunti sino a noi, nonostante il terribile sfacelo causato dalle sanguinose guerre dei secoli successivi, risalgono proprio a quest'epoca .
In una di queste storie, si narra di Gilgameš, re di Uruk (5), il quale dopo la morte del suo amato e fedele compagno Enkidu viaggiò per anni alla ricerca del segreto dell'immortalità, che gli venne tuttavia negata per la sua natura (per due terzi divina e per un terzo umana).

Perché io sono quel Gilgameš
che afferrò e uccise il Toro del Cielo;
ho ucciso il custode della foresta dei cedri,
ho sconfitto H̬umbaba che abitava nella foresta
e ho ucciso i leoni sui passi del monte.

(Epopea di Gilgameš [X])

Nel corso del suo peregrinare, Gilgameš giunse sino al regno dei morti, dove riuscì ad apprendere direttamente dalla voce dei defunti la verità sulle antiche leggende del passato.

Una di queste, forse la più nota per il lettore moderno, racconta del Diluvio Universale, che gli dèi decretarono a causa della malvagità degli uomini; nessuno sa se, in realtà, il mondo sia stato in effetti ricoperto completamente da un oceano d'acqua a causa di un disastro naturale o se gli uomini abbiano semplicemente voluto ricordare in questo modo una terribile inondazione di portata immane.

Fatto sta che le tavolette di argilla più antiche rinvenute nelle antiche biblioteche di Sumer ci raccontano delle imprese di Utnapištim, il progenitore dell'umanità che durante il Diluvio riuscì a mettere in salvo sé e la propria famiglia, assieme a tutte le specie di animali che oggi popolano il mondo.

Fu lo stesso Gilgameš, come si diceva, ad ascoltare direttamente dalla bocca di Utnapištim le vicende del diluvio, che il re di Uruk si preoccupò di mettere per iscritto non appena tornato in patria.

Alle prime luci dell'alba
Venne dall'orizzonte una nube nera;
tuonava da dentro,
là dove viaggiava Adad, signore della tempesta
[…]
Poi sorsero gli dèi dell'abisso:
Nergal divelse le dighe dell'acqua sotterranea,
Ninurta dio della guerra abbatté gli argini
e i sette giudici degli Inferi, gli Anunnakkū,
innalzarono le loro torce.

(Epopea di Gilgameš [XI])

Il mondo di Sumer non ci ha tramandato solo leggende scolpite nell'eterno linguaggio della poesia, ma anche testi di astrologia e di complessi rituali di carattere religioso; è difficile, tuttavia, riuscire a decifrare quanto, dei testi che ci sono pervenuti, risalgano all'epoca delle Teste Nere e quanto, invece, sia frutto di interpolazioni successive.

Si narra infatti che, quando la terra di Sumer venne sconfitta da Akkad e dal popolo degli Amorrei, il culto della triade divina (Anu, Enki ed Enlil) venne soppiantato. I vinti accettarono con rassegnazione l'affermarsi delle nuove credenze religiose, mentre i sacerdoti del nuovo culto si preoccuparono di riscrivere i testi sacri dell'epoca descrivendo con novizia di particolari il passaggio di sovranità a Marduk, il nuovo sovrano del Cielo.

 

2
I BABILONESI

  sacerdoti babilonesi ci hanno tramandato un poema sulle origini dell'universo noto come Enūma eliš (o «Epopea della Creazione»), che prende il nome dai primi versi trascritti sulle tavolette rinvenute a Kiš, Babilonia e Ninive.

Si tratta di una delle visioni cosmologiche più antiche tra quelle pervenute sino ai giorni nostri.

Questa è l'epopea che ha inizio all'origine del tempo
quando i cieli in alto
non erano stati ancora nominati
né la terra sotto era stata chiamata per nome.

(Enūma eliš [I: 1-2])

Esistevano, all'epoca, solo due divinità: Apsū, le acque primordiali sotto la terra, e Tiāmat, la personificazione del mare fonte della vita. Essi giacquero insieme e generarono tutti gli altri immortali.

Gli dèi di quella generazione si riunirono
e disturbarono Tiāmat
e il loro chiasso rimbombava.
Essi fecero rimescolare il ventre di Tiāmat,
la infastidivano giocando nella dimora degli dèi.
Apsū non riusciva a calmare il loro rumore.

(Enūma eliš [I: 21-25])

Allora Apsū, infastidita, meditò di uccidere tutti gli dèi, ma il saggio Ea «che conosce ogni cosa» (altro nome di Enki) ne scoprì l'inganno, fece addormentare profondamente Apsū con un incantesimo e lo uccise; quindi Ea si impadronì della di lui moglie Damkina e concepì un figlio, cui pose il nome di Marduk.

Altero era il suo aspetto, penetrante il suo sguardo,
maturo il suo comportamento,
egli fu potente sin dall'inizio,
e suo padre l'ammirò e gioì raggiante;
molto al di sopra degli altri era superiore in tutto.

(Enūma eliš [I: 87-92])

Quando Tiāmat scoprì l'uccisione di Apsū se ne addolorò e cercò di vendicarsi, generando terribili mostri, tra cui i serpenti giganti, che vennero dotati di occhi aguzzi e zanne spietate; Tiāmat ne avvolse i corpi di veleno, anziché di sangue. Essa inoltre...

...generò un serpente cornuto,
un drago, un eroe lah
̬mu,
un demone, un cane rabbioso,
un uomo scorpione, demoni aggressivi,
un uomo pesce e un uomo toro.

(Enūma eliš [I: 141-143])

Tiāmat condusse alla guerra il suo esercito di mostri e sconfisse ripetutamente gli dèi che dovettero sottomettersi al suo potere; solo Marduk resistette alla furia dei demoni e si offrì di sconfiggere in duello la stessa Tiāmat. Una condizione Egli tuttavia pose agli altri dèi; in caso di vittoria sarebbe diventato il dio supremo.

La mia parola decreterà il destino, non la vostra!
Ciò che creerò rimarrà per sempre inalterato!
Ciò che le mie labbra hanno decretato
non sarà mai revocato né cambiato!

(Enūma eliš [II: 148?-150?])

Gli dèi, nel corso di un banchetto, elessero Marduk come loro campione e questi preparò quindi le armi per la grande battaglia contro Tiāmat. Quando i due eserciti cominciarono a scorgersi in lontananza, Marduk venne colto all'improvviso da un sacro terrore e la sua sicurezza cominciò a vacillare. Tiāmat sogghignò e si gettò nella mischia.

Tiāmat e Marduk, il campione degli dèi,
si fronteggiarono,
si fecero vicini e ingaggiarono battaglia.
Tiāmat aprì la bocca per ingoiarlo,
Marduk scagliò una freccia che le forò il ventre,
la trapassò a metà e le trapassò il cuore,
la vinse e le tolse la vita.
Egli gettò a terra la carcassa e le si mise sopra.

(Enūma eliš [IV: 93-104])

Marduk sconfisse e imprigionò tutti i demoni creati da Tiāmat; quindi gettò a terra la carcassa della sua grande nemica e la divise a metà, «come un pesce messo ad essiccare»; con una metà egli creò il firmamento e con l'altra fabbricò la terra.

Marduk organizzò tutto l'universo, creò il sole, la luna, gli astri, le nuvole, il vento e la pioggia; con la saliva di Tiāmat vennero fabbricate le nuvole, con i suoi occhi il Tigri e l'Eufrate. Il dio supremo impose le leggi alla natura e agli esseri viventi e fece costruire le dimore degli dèi all'interno della città più sacra che chiamò Babilonia. Per un anno intero gli dèi costruirono mattoni e costruirono il grande santuario e il tempio a gradini chiamato ziqqurat.

Gli altri dèi gli tributarono grandi onori e lo proclamarono il dio supremo, poiché Egli aveva salvato l'universo dalle forze distruttrici del caos.

Infine, Marduk si accinse a compiere il miracolo più grande: mettendo insieme «sangue ed ossa», il dio creò l'essere primitivo cui diede il nome di Uomo, affinché la sua discendenza potesse proseguire il lavoro degli dèi.

* * *

 

Finisce così l'epopea della creazione così come ci è stata tramandata dai sacerdoti di Marduk. La mitologia mediorientale dei secoli successivi è permeata, invece, dalla religione persiana, dominata dalla figura di Ahura Mazdā, il signore degli dèi che creò il cielo, l'acqua, la terra e l'Albero originale.

Alla grande potenza di Ahura Mazdā, tuttavia, si contrappone lo Spirito del Male rappresentato da Ahriman, che mira alla distruzione del mondo ed è impegnato in una perenne lotta cosmica con il Bene. Ahura Mazdā crea gli uomini proprio per assisterlo nel conflitto contro il male, ma Ahriman riesce ad installare in alcuni di loro l'inganno e la falsa convinzione che sia stato il maligno a creare il mondo.

Secondo la mitologia persiana, l'era in cui viviamo terminerà con la sconfitta totale del male, grazie all'apporto decisivo degli uomini virtuosi, anche se la punizione dei malvagi non sarà per l'eternità, essendo ciò una contraddizione con la misericordia divina. Non vi è chi non vede – e forse non a torto – in Ahriman un antesignano della figura di Samael, personaggio della mitologia ebraica entrato poi di prepotenza nella cultura cristiana e meglio noto come Satana (v. Capitolo VI).

IV
AMON, PTAḤ E ATUM-RA
I PAPIRI EGIZIANI

 

La cosmogonia, vale a dire quella branca del sapere che indaga sull'origine dell'universo, ebbe sempre grande importanza presso gli antichi Egizi. Non esistono, tuttavia, versioni «ufficiali» sulla creazione del mondo ma una pluralità di tradizioni tra di loro eterogenee, sintomo di una cultura religiosa avente origini molto diverse, all'inizio, prima della unificazione politica e culturale dell'Egitto. I frammenti di papiro giunti sino a noi ci hanno restituito le tre teorie cosmologiche principali, facenti capo alle città sacre di Eliopoli, Ermopoli e Menfi.

 

1
IL DIO-SOLE DI ELIOPOLI

lla periferia del Cairo, è possibile rinvenire le rovine della città sacra di Yunu, che Erodoto chiama Eliopoli (la Città del Sole), dove la classe sacerdotale elaborò più di cinquemila anni fa la prima teoria coerente sulle origini dell'universo.

Si narra, infatti, che all'inizio esisteva nell'oscurità un infinito oceano di acque primordiali che gli antichi chiamarono Nu (o Nun).

All'alba dei tempi, scaturì a plasmare gli elementi il creatore dell'universo: questi era Atum (assimilato in tutto e per tutto con Ra, il dio del sole), il quale fece sorgere un tumulo primigenio a forma di piramide e dall'alto della sua visuale contemplò il caos.

Non esisteva il cielo, non esisteva la terra,
creai da solo tutti gli esseri.
Da un mio starnuto nacque Šu,
da uno sputo Tefnut.

Il primo atto creativo aveva dunque generato le due divinità più antiche, spesso raffigurate nell'iconografia religiosa come due leoni: Šu (che personifica il Vuoto, l'Aria) e Tefnut (che letteralmente significa la rugiada, l'umidità dell'aria; ma i sacerdoti insegnavano che essa poteva essere identificata anche con l'atmosfera dell'oltretomba).

Dall'unione di Šu e Tefnut nacquero Gebb, il dio della terra (nonché personificazione dell'Egitto stesso), e Nut, la dea del cielo. La cosmogonia eliopolitana raffigura spesso la dea del cielo piegata ad arco sopra il dio della terra, divenuto suo marito.

Dall'unione di Gebb e Nut nacquero quattro figli: Iside, Osiride, Seth e Nefti, completando così la genealogia delle nove divinità principali (la famosa Enneade). Successivamente, per volere di Atum, i due consorti vennero separati a opera di Šu, che da allora si frappone tra terra e cielo.

TABELLA N. 5
L'enneade di Eliopoli

Il mito della creazione concepito dai sacerdoti di Eliopoli a questo punto si ricollega ad un altro ciclo mitico dell'antico Egitto, originatosi nella zona del Delta del Nilo e precisamente nella città di Menfi: quello della sovranità.

Secondo la tradizione, fu Osiride a ereditare il diritto a governare il mondo in quanto primogenito di Gebb e Nut. Egli prese in sposa sorella Iside e questo costituì per millenni il modello di regalità di tutto l'antico Egitto (i faraoni erano infatti soliti prendere in sposa una loro sorella).

Durante il regno di Osiride, le terre del Nilo prosperarono anche perché il dio era in grado di plasmare e modellare gli elementi a beneficio del paese.

Quel periodo così felice, tuttavia, venne sconvolto a causa della usurpazione dell'antagonista di Osiride, il malvagio dio Seth: questi squarciò il ventre di Nut e diede inizio ad un periodo di violenza e di caos; poi rivolse la sua ira nei confronti del fratello, che prese a tormentare in tutti i modi, giungendo infine ad ucciderlo presso il fiume Nedyet. Seth divenne così il sovrano assoluto dell'Egitto e associò al trono la sorella Nefti, che prese in moglie.

Mentre Seth governava con crudeltà e violenza, i lamenti struggenti della bella e sfortunata Iside, vedova del defunto sovrano, echeggiavano per tutta la terra; mossa a pietà per il dolore della sorella, Nefti si mise alla ricerca del corpo di Osiride, per potergli dare almeno una degna sepoltura.

Si narra, a questo punto, che Iside e Nefti riuscissero a ricomporre il cadavere del dio, che Seth aveva fatto crudelmente a pezzi, nella città di Abido; le due sorelle avvolsero Osiride nelle bende ponendo in essere per la prima volta quel processo di mummificazione che divenne poi tipico della cultura funeraria egiziana.

Il dio Osiride discese quindi nel Duat, il regno degli inferi, dal quale egli regna ancora come Signore dell'Oltretomba.

Poco prima di ultimare il rituale di sepoltura, tuttavia, la dea Iside fece uso dei suoi grandissimi poteri magici per far risorgere l'alito della vita (sia pure per un attimo) nel suo sposo. Quanto basta per concepire con lui un figlio destinato un domani a riprendere il trono ingiustamente usurpato da Seth.

Il figlio di Iside e Osiride fu quindi Horus, il dio falco, fondatore della dinastia dei faraoni d'Egitto. Raggiunta l'età adulta, questi dichiarò guerra allo zio e lo affrontò in una serie di sanguinose prove e battaglie a seguito delle quali Horus uscì sempre vincitore.

Nonostante gli inganni di Seth (che sfiderà il nipote prendendo ora le sembianze di un ippopotamo, ora di un coccodrillo, ora di altro animale), Horus continuò a perorare i propri diritti di legittimo erede al trono davanti agli antichi dèi.

Alla fine, l'Enneade rese giustizia al figlio di Osiride, cui venne assegnata la sovranità totale di tutto l'Egitto. Lo zio usurpatore e i suoi seguaci vennero esiliati ma non uccisi poiché Seth era sotto la protezione del dio Ra.

Horus associò al trono la regina madre Iside (nota, a questo punto, anche come Hathor) e cinse per la prima volta la doppia corona, simbolo di regalità nell'Antico Egitto.

 

2
PTAḤ DI MENFI

l dio Ptaḥ era una delle divinità principali di Menfi, la più antica capitale dell'Egitto; questi viene presentato dai testi sacerdotali (tra tutte, la Pietra di Šabaka) come dio creatore, supremo artefice e demiurgo (e, in quanto tale, anche protettore del genio creativo e degli artigiani).

Secondo il clero di Menfi, Ptaḥ era il tumulo primigenio sorto all'origine del tempo ed era per questo chiamato Ta-tenen, che in antico egizio significa la «terra che è diventata distinguibile», ossia tutto quanto è derivato dal caos primordiale (Nu).

Ptaḥ diede quindi vita agli altri dèi, compreso Atum e tutte le altre divinità dell'Enneade di Eliopoli per mezzo del cuore e della lingua. Egli è perciò presente nel cuore e nelle bocche di tutti gli dèi, di tutto il bestiame e di tutti gli esseri che vivono.

La concezione della creazione ad opera di Ptaḥ è in verità assai singolare: il potere della sua parola era tale che tutti gli esseri mortali ed immortali vennero in essere solo pronunciandone il nome. In pratica, per la prima volta nella storia del mondo il principio primo della creazione è visto come un principio intellettuale, la mente è la causa del mondo materiale.

Nessuno è in grado di stabilire quanto le culture successive siano debitrici del patrimonio dei sacerdoti di Ptaḥ; certo è che i papiri di Menfi ricordano in maniera troppo evidente la dottrina greca del Lógos (il Pensiero Razionale che permea il mondo, citato da Eraclito e dagli Stoici) nonché il celeberrimo passo del Nuovo Testamento:

In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo.
Egli era in principio presso Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di Lui; e senza di Lui
niente è stato fatto di ciò che esiste.
In Lui era la vita;
e la vita era la luce degli uomini.

(Giovanni [I: 1-14])

I sacerdoti di Menfi discettavano altresì sulla natura del Lógos di Ptaḥ, discutendo se questo avesse pianificato o meno il destino dell'universo: ma se la religione egiziana avesse sviluppato una vera e propria teoria della predestinazione, purtroppo non siamo in grado di dirlo.

 

3
L'OGDOADE DI ERMOPOLI

icino all'odierno villaggio egizio di al-Ašmūnayn, si trovava la città chiamata dai Greci Ermopoli, nell'antichità fu il maggior centro di culto di Thot, il dio della sapienza che trasmise agli uomini il segreto della scrittura e dei geroglifici (per questo venne identificato con il dio greco Hermes e chiamato Ermete Trismegisto, cioè «tre volte grandissimo»). Proprio dalla città di Ermopoli proviene una delle grandi visioni cosmogoniche dell'antico Egitto.

Secondo il mito della creazione dell'Ogdoade (letteralmente: otto dei), l'originaria essenza dell'universo non era costituita dal solo Nu, ma da otto divinità che vivevano assieme in un perfetto equilibrio all'interno della melma primordiale: Nu e Haunet (le acque primigenie), Heh e Hauhet (la forza dell'acqua), Kek e Kauket (l'oscurità), Amon e Amaunet (il dinamismo occulto); ciascuna delle quattro coppie è costituita da un principio maschile, raffigurato in forma di rana (Nu, Heh, Kek e Amon), e da un principio femminile, raffigurato in forma di serpente (Haunet, Hauhet, Kauket e Amaunet).

L'equilibrio tra questi otto poteri elementari venne rotto dalla interazione tra le divinità: ci fu un'enorme esplosione da cui sorsero il sole, la terra e tutti gli esseri mortali ed immortali. Secondo i sacerdoti di Ermopoli, dunque, l'Ogdoade precede l'universo e ne rappresenta il principio primo: da essi derivarono Atum, il sole, e l'Enneade.

Successivamente, tre coppie dell'Ogdoade si estraniarono dal processo creativo dell'universo, rimanendo immutabili ed impassibili, mentre la quarta (Amon e Amaunet) ne divenne parte integrante.

Durante il Nuovo Regno, i sacerdoti di Tebe (la nuova capitale dell'Egitto) esaltarono la figura del dio Amon, che viene visto sempre più come demiurgo e creatore nonché come una entità trascendente che esiste al di là del cielo e del più profondo degli inferi.

Se nel mito di Ermopoli, Amon è solo uno degli elementi della Ogdoade, nella cosmogonia tebana egli diventa «colui che si nasconde», un mistero la cui essenza è inconcepibile.

Come essere trascendente, Amon esiste prima di ogni altra sostanza: una volta emerso da un non meglio definito uovo cosmico, egli crea la materia primitiva e l'Ogdoade di cui è comunque parte divenendo così «il Primo che fa nascere i primi».

Amon è anche l'impulso che dà inizio a quella esplosione creativa dell'intero universo. Sotto questo profilo, secondo alcune versioni, tutte le divinità (inclusa l'Enneade) non sarebbero altro che proiezioni di Amon, che però nella maggior parte dei casi è associato al dio sole per cui non è infrequente l'appellativo di Amon-Ra.

Successivamente, Amon avrebbe creato il dio H̬num, raffigurato con la testa di montone, cui viene conferito il potere regale sulla terra; nella cosmologia tebana, è H̬num il creatore degli uomini e di tutte le specie animali nonché il capostipite della stirpe dei faraoni, i reggitori dell'antico Egitto.

V
LE CINQUE INVASIONI
TRADIZIONI CELTICHE

 

Gli antichi sacerdoti della religione celtica, i Druidi, possedevano probabilmente delle dottrine segrete sull'origine del mondo e dell'uomo che essi, tuttavia, non vollero mai mettere per iscritto. Per tale motivo, nelle più antiche storie sul principio di tutte le cose che questi popoli ci hanno tramandato, il narratore non comincia dal mondo, ma dal proprio paese di origine. La versione più interessante di questo genere letterario ci viene tramandata dalla letteratura irlandese.

 

1
IL CICLO MITOLOGICO

ell'antico testo del Lebor Gabála Érenn (il «Libro delle conquiste d'Irlanda»), compilato dai monaci irlandesi tra il secolo XI e il secolo XII, si narra che un giorno il monaco Finnen ricevette la visita di un guerriero molto vecchio, il quale disse di chiamarsi Túan, figlio di Starn e discendente dell'antichissima stirpe di Parthólon. (6)

Il monaco capì che al guerriero era stata evidentemente donata una vita lunghissima, per cui fece celebrare la messa e recitare i salmi, quindi chiese a Túan di narrargli le storie dell'antichità. Il guerriero esordì:

Vi furono cinque invasioni,
nessuna prima del Diluvio.
E, dopo il Diluvio, nessuno giunse
se non dopo trecento e dodici anni.
Fu allora che Parthólon figlio di Sera
si stabilì in Ériu.

Si apre così il Ciclo delle Invasioni, una delle leggende più antiche e famose della letteratura celtica. Túan fu testimone di tutta la storia dell'antica Irlanda, poiché egli accompagnò la prima colonizzazione dell'isola al seguito di Parthólon, poi si incarnò in un cervo, in un cinghiale ed in un falco, prima di trasformarsi in un salmone di mare (7); catturato dalla rete di un pescatore, venne portato alla moglie di Carell, un sovrano locale. La moglie del re mangiò il salmone tutto intero e scoprì, subito dopo, di portare un figlio nel grembo, cui venne dato il nome di Túan, figlio di Carell. Il bambino, sin dall'inizio, riusciva a parlare come un adulto e ricordava tutto quanto assimilato nelle vite precedenti: sviluppò doti profetiche e, in vecchiaia, aderì al nuovo credo cristiano che San Patrizio aveva portato nell'isola.

Secondo la leggenda, Parthólon e il suo seguito furono i primi a colonizzare l'isola di Ériu; fuggivano dalla loro terra natale, la Mygdonia (la Piccola Grecia), perché il loro capo si era macchiato di un terribile crimine, avendo ucciso il padre e la madre.

Parthólon figlio di Sera giunse così, esiliato, portando con sé ventiquattro uomini con le rispettive compagne e i servitori; in breve tempo la comunità crebbe e prosperò, arrivando a contare oltre cinquemila abitanti.

Dieci anni dopo la conquista dell'isola, i primi abitanti dell'Irlanda dovettero fronteggiare la stirpe dei Fomori, esseri giganteschi e deformi con una sola gamba ed un solo braccio, guidati da Cíchol il Senzapiede. Parthólon combatté contro questi demoni e li ricacciò nei mari del Nord, da dove essi saltuariamente calavano per delle scorrerie.

Il popolo di Parthólon si estinse a causa di una terribile pestilenza che flagellò gli abitanti di Ériu trecento anni dopo la battaglia combattuta contro i Fomori; uno solo si salvò e fu proprio Túan, figlio di Starn, il quale visse da solo per trent'anni vagando di roccia in roccia, di fortezza in fortezza, cercando riparo dai lupi.

Dopo l'improvvisa estinzione delle genti di Parthólon, a causa dell'epidemia, venne a conquistare Ériu la stirpe di Nemed, proveniente dai Greci di Scizia. Essi dissodarono le pianure, formando quattro laghi, e costruirono fortezze.

Anche Nemed dovette combattere ripetutamente contro i terribili Fomori dell'oltremare, che vennero sconfitti a più riprese, sia pure a costo di molte perdite. Anche questa volta, tuttavia, l'isola di Ériu venne funestata da una pestilenza, che uccise lo stesso Nemed e tremila abitanti del suo popolo.

I Fomori approfittarono allora della situazione di momentanea debolezza dei loro avversari per imporre agli irlandesi una odiosa tirannia. A quell'epoca, i due capi di quel popolo demoniaco erano Morc e Conann: essi costruirono nell'isola di Tór Inis (8) la loro roccaforte, detta da allora Torre di Conann, e imposero ai Nemediani pesanti tributi: due terzi del grano, del latte e dei figli dovevano essere consegnati ogni anno ai Fomori.

Le genti di Nemed, esasperate da quella tassa che li aveva condotti alla miseria più nera, si riunirono in assemblea e decisero di ribellarsi. Essi approdarono su Tór Inis e ne espugnarono la fortezza, che venne data alle fiamme; lo stesso Conann, capo dei Fomori, perì nel corso della battaglia.

L'assalto della Torre di Conann, grande evento,
contro Conann il grande figlio di Febar:
gli uomini di Ériu vi andarono,
tre nobili principi con loro.

I Fomori, tuttavia, tornarono alla riscossa con truppe fresche guidate da Morc, che sterminò la stirpe di Nemed: solo trenta superstiti sopravvissero alla strage e tornarono mesti nella loro terra di origine.

L'isola di Ériu rimase deserta per trecento anni prima di essere nuovamente colonizzata dal popolo dei Fir Bolg, discendenti di Semeon della stirpe di Nemed, che era sopravvissuto al massacro della Torre di Conan.

La stirpe dei Fir Bolg aveva vissuto per secoli in terra di Grecia, dove era stata sottoposta ad un pesante tributo; esasperati da una tale condizione servile, essi avevano deciso costruire canoe e vascelli con la pelle e i sacchi che utilizzavano per trasportare la terra: per questo erano noti come Uomini del Sacco [bolg].

In generale, la genealogia irlandese tende a non dare grande importanza a questo popolo, cui venivano attribuite caratteristiche di servilismo. I Fir Bolg continuarono ad abitare l'Irlanda anche a seguito delle invasioni successive, ma furono sempre relegati in posizioni di inferiorità. Anche in periodi storici, in Irlanda affermare che una persona aveva sangue Fir Bolg significava attribuirgli una estrazione plebea.

L'Irlanda venne quindi colonizzata dal popolo di Danann, discendenti da Beothach della stirpe di Nemed; questi, dopo la guerra con i Fomori, si erano stabiliti nelle isole settentrionali del mondo, dove avevano appreso la scienza druidica, la magia e l'arte: la tradizione li conosce con il nome di Túatha Dé Danann («le genti del dio la cui madre è Danann»).

Dopo aver completato la loro erudizione, i Túatha Dé Danann dimorarono tra gli Ateniesi e i Filistei; in seguito, decisero di prendere il mare e, alla guida del principe Núada, giunsero nell'isola di Ériu avvolti da una nube magica.

Secondo un'altra tradizione, i discendenti di Beothach giunsero nell'isola provenendo dalle isole del profondo nord  e portando con sé quattro oggetti dai poteri soprannaturali. I quattro tesori che i Túatha Dé Danann avevano donato all'Irlanda erano: la Pietra del Destino, la Lancia di Lúg, la Spada di Núada e il Calderone del Dagda Mor.

La pietra venne collocata sulla collina di Tara ed utilizzata nei secoli a venire per riconoscere, tra i vari pretendenti al trono, la persona degna di essere acclamata come re supremo d'Irlanda (Árd Ríg): la pietra, infatti, emetteva un grido al cospetto del legittimo sovrano. (9)

La Lancia di Lúg dal lungo braccio era un'arma invincibile, che venne in seguito incorporata nella tradizione cristiana e identificata con la lancia che ferì il costato di Gesù di Nazareth.

La Spada di Núada dal lungo braccio era anch'essa un'arma leggendaria, il cui potere venne tramandato di generazione in generazione; essa divenne nota nella tradizione irlandese come Caladbolg e menzionata da Goffredo di Monmouth con il nome di Caliburn. Solo in seguito, tuttavia, fu universalmente conosciuta come Excalibur, la spada di Re Artù.

Il Calderone del Dagda Mór (uno dei Túatha Dé Danann) viene menzionato anche nelle leggende gallesi, che spesso fanno riferimento ai poteri di un oggetto magico in grado di far rivivere i morti gettati dentro quel paiolo fatato. Inizialmente parte integrante di un rituale legato al ciclo della morte e della rinascita (e, quindi, della reincarnazione (10)). Il calderone venne in seguito assimilato nel patrimonio di leggende che fanno da contorno al Cristianesimo medievale e divenne noto come il Sacro Graal, il calice dell'Ultima Cena dove Giuseppe d'Arimatea riuscì a raccogliere il sangue di Gesù. Non si può non citare, ora, il primo riferimento al Graal della letteratura romanza (scritto tra il 1160 e il 1190), destinato ad alimentare un ciclo di racconti ed avventure che ancora oggi appassiona milioni di lettori:

Da una camera apparve un valletto, che impugnava a metà una lancia splendente di biancore. Una goccia di sangue usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla mano del valletto, questa goccia vermiglia. […] Vennero allora due altri valletti, due bellissimi uomini, che tenevano in mano due candelabri d'oro fino lavorato […] Un graal teneva una damigella tra le mani e seguiva i valletti bella, gentile e nobilmente adornata. E quand'essa fu entrata, da tutto il graal che essa teneva s'irradiò per tutta la sala un chiarore sì grande che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole. Dopo questa damigella ne veniva un'altra che portava un piatto d'argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro; vi erano inserite pietre preziose delle più ricche e delle più varie che esistano per mare e per terra; nessuna gemma potrebbe paragonarsi a quelle del graal.

(Chrétien de Troyes: Perceval il gallese o Il racconto del Graal)

È evidente, anche da una prima lettura delle leggende che parlano dei Túatha Dé Danann, che in origine tali figure avessero attributi divini, che persero via via che il Cristianesimo conquistò proseliti e fedeli nella verde Irlanda. Nella forma in cui la mitologia irlandese è giunta sino a noi, essi hanno ormai perso la qualifica di dèi per essere ridotti al rango di esseri fatati o, tutt'al più, di angeli caduti. In alcuni passi, tuttavia, il popolo di Danann sembra conservare quei poteri e quelle caratteristiche che ne tradiscono l'origine più «nobile».

Si racconta che, quando i Túatha Dé Danann giunsero in Irlanda, essi proposero ai Fir Bolg di dividere l'isola in parti uguali tra i due popoli; questi ultimi, tuttavia, non furono per niente impressionati dalla potenza dei loro avversari e decisero di attaccare battaglia.

Lo scontro ebbe luogo nella piana di Mag Tuired (Moytura) e si risolse con la completa disfatta dei Fir Bolg. I Túatha Dé Danann, condotti dal loro principe Núada, conquistarono la terra di Ériu e lasciarono agli sconfitti il possesso delle sole province occidentali (l'odierno Connacht).

Nello scontro con i Fir Bolg, tuttavia, al principe Núada venne mozzato il braccio; anche se gli abili artigiani del popolo di Danann riuscirono a costruirgli un arto in argento (per questo, egli divenne noto come Núada Mano d'Argento), la legge imponeva che nessun uomo con un difetto fisico potesse essere sovrano. I Túatha Dé Danann, pertanto, acclamarono come re Bress, il quale tuttavia pur essendo giovane e bello non aveva le doti necessarie per diventare un vero capo; egli lasciò che i Fomori spadroneggiassero come un tempo e imponessero la loro tirannia al popolo di Danann.

A questo punto entra in scena nel ciclo mitologico irlandese uno dei personaggi più importanti di tutta la religione celtica: Lúg, figlio di Cían, meglio noto come il Dio Sole (11). La tradizione vuole che egli fosse di sangue misto, perché sua madre Ethlinn era una principessa dei Fomori che re Balor aveva rinchiuso all'interno di una torre per paura di una profezia (un druido, infatti, sosteneva che il figlio di Ethlinn avrebbe causato la morte del nonno e la rovina di tutta la stirpe dei Fomori). Questo accorgimento non impedì, tuttavia, a Cían dei Túatha Dé Danann di giungere all'interno della torre grazie ad un incantesimo e di sedurre la principessa.

Quando giunse il momento, Ethlinn partorì tre gemelli; il re Balor, furioso, decretò che i tre bambini venissero messi a morte. L'araldo incaricato di eseguire la terribile sentenza avvolse i neonati in un telo per gettarli in mare: per puro caso, tuttavia, lo spillo che avvolgeva il fagotto si staccò e uno dei tre bimbi cadde in una piccola baia prima di essere gettato in acqua.

Una druidessa amica di Cían salvò il bambino e lo portò dal padre, che lo crebbe sino a farlo diventare sano, forte e padrone di tutte le conoscenze dei Túatha Dé Danann: tutti conoscevano quel giovane come Lúg dal Lungo Braccio.

Si narra che Lúg si presentò all'assemblea dei Túatha Dé Danann proprio in occasione del pagamento del tributo annuale ai Fomori; al suo apparire, tutti ebbero la sensazione di veder sorgere il sole in un mattino d'estate.

Lúg si rifiutò di corrispondere ai Fomori l'odiosa tassa che i demoni pretendevano di volta in volta e attaccò battaglia: i Túatha Dé Danann si schierarono al suo fianco e ricacciarono gli invasori dall'isola di Ériu.

Il figlio di Cían venne eletto a furor di popolo sovrano delle gente di Danann e si preparò alla battaglia decisiva contro i Fomori, desiderosi di prendersi una rivincita dopo l'umiliazione della mancata riscossione del tributo.

Lo scontro ebbe luogo ancora una volta nella piana di Mag Tured e fu un terribile massacro, in cui persero la vita molti tra i Fomori e tra i Túatha Dé Danann; tra le vittime più illustri, anche Núada Mano d'Argento, antico reggitore del popolo di Danann.

Alla fine, risultò decisivo il duello tra Lúg e Balor, che si risolse con la morte del sovrano dei Fomori: la profezia evocata dal druido si era dunque avverata.

I Túatha Dé Danann si assicurarono così il pieno dominio dell'isola di Ériu; l'infame Bress, che dopo essere stato detronizzato si era schierato dalla parte dei demoni invasori, ebbe salva la vita da Lúg, ma in cambio della grazia dovette insegnare tutti i segreti dell'agricoltura ai figli di Danann, i quali regnarono indisturbati per lunghissimo tempo.

Dopo la vittoria, la Mórrígan (12) andò sulle vette regali di Ériu ad annunciare il definitivo trionfo sui Fomori: si narra che, in quell'occasione, ella profetizzasse la imminente fine del mondo.

I giudizi errati dei vecchi,
le false sentenze dei giudici,
ogni uomo un traditore,
ogni fanciullo un ladro.
Il figlio nel letto del padre,
il padre nel letto del figlio,
ciascuno si farà cognato del fratello.

Tempo di empietà!
Il figlio tradirà il padre,
la figlia tradirà la madre…

La quinta ed ultima invasione dell'Irlanda avvenne ad opera dei figli di Míl (altrimenti noti come Milesi), detti anche Goideli o Gaeli. I loro antenati discendevano da Jafet, figlio di Noè, e avevano vissuto in Scizia, in Grecia ed in Egitto, prima di approdare in Spagna.

Dopo aver osservato dall'alto di una torre l'ombra dell'isola di Ériu, i Gaeli decisero di mettersi in mare alla volta di quella terra lontana.

Il primo contatto tra i figli di Míl e i Túatha Dé Danann, che pure parlavano la stessa lingua, non fu per niente pacifico; il vecchio Íth, capo della spedizione, venne inizialmente chiamato per dirimere una controversia tra i sovrani del popolo di Danann; quando però questi ultimi capirono che i Gaeli avevano delle mire di conquista, Íth venne catturato e messo a morte.

I superstiti tornarono in Spagna, raccontando ai loro consanguinei della terribile umiliazione subita. I figli di Míl decisero di vendicarsi dell'oltraggio e prepararono una nuova spedizione per invadere l'Irlanda.

Si narra che, al seguito della spedizione, vi fosse anche il bardo e poeta Amairgin, il quale dedicò alla verde isola i primi versi che la storia ricordi .

Io invoco la terra d'Irlanda:
lucente, lucente mare;
fertile, fertile terra;
radure, radure dei boschi!
Fiumi gonfi, gonfi di acqua!
Lago che abbondi di pesci!

Ci fu una grande battaglia tra i Milesi e i Túatha Dé Danann, che si risolse con la totale disfatta del popolo di Danann; i Gaeli assunsero la sovranità dell'isola d'Irlanda, che mantennero sino all'epoca storica; nei secoli successivi, tutte le famiglie nobili dell'isola si vantavano di avere sangue milesio nelle vene.

In realtà, agli stessi irlandesi ripugnava l'idea che i Túatha Dé Danann, esseri dai poteri straordinari e di lontane origini divine, potessero essere sconfitti da una stirpe mortale. Per questo poeti e letterari immaginarono che essi, in realtà, «si sono fusi con la terra stessa, o almeno è questo ciò che dicono gli uomini eruditi. I Danann hanno riposto il loro spirito negli alberi, oppure si sono insinuati nel sottosuolo per vivere dentro enormi caverne dall'ingresso nascosto e c'è chi crede che essi siano immortali… Qualsiasi cosa possano essere, di certo sono magici, dotati di una magia temibile. Nessuno conosce il limiti dei loro poteri, ed essi non hanno mai veramente abbandonato Erin». (13)

I Túatha Dé Danann, in altre parole, grazie all'utilizzo dei loro incantesimi, si ammantarono di un velo di invisibilità e si ritirarono in un mondo soprannaturale, illuminato da una luce perpetua e in cui il tempo trascorre più lentamente: essi trascorrono le giornate cibandosi di carne e birra fatate in grado di assicurar loro l'eterna giovinezza.

Secondo la tradizione, la sottile barriera tra il mondo dei Túatha Dé Danann (noti, in questa veste, anche come popolo dei Síde) e quella degli uomini mortali può essere violata solamente in alcune, rarissime occasioni. Una di queste è la solenne festa di Samain (14), in cui il confine tra il mondo terreno e quello soprannaturale viene meno e gli esseri fatati vengono a far visita alla gente comune; anche il più umile dei contadini irlandesi si aspetta, almeno una volta nella vita, un incontro con le fate o con i folletti e diventerà molto scortese con chi oserà anche solo metterne in dubbio l'esistenza.

VI
CIÒ CHE LA BIBBIA NON DICE
AI PRIMORDI DELLA MITOLOGIA EBRAICA

 

La creazione del mondo così come viene raccontata nella Genesi costituisce una testimonianza dal valore incommensurabile sotto il profilo poetico e letterario, oltre che religioso.

Pochi sanno, tuttavia, che il testo pervenuto al lettore di oggi è il frutto di una evoluzione millenaria in cui sono confluite tradizioni diverse.

In una di esse, il nome del dio creatore viene denominato Yahweh, mentre in altri testi all'unica divinità viene dato il nome di Elohim.

L'anonimo compilatore dei testi biblici (forse il gran sacerdote Esdra, ma non è escluso che più mani abbiano contribuito alla stesura finale) ha cercato di conciliare tutte le varie tradizioni in un testo coerente, non senza farsi sfuggire qualche «sbavatura». (15)

Esistono tuttavia versioni ancora più antiche, non confluite nel testo ufficiale, sulla creazione del mondo che denotano un legame evidente tra la religione ebraica e la tradizione babilonese, ugaritica e cananea, nonché con i miti egiziani.

È peraltro verosimile che, durante il periodo in cui gli Ebrei vissero in Egitto in una condizione servile, essi siano venuti in contatto con quella comunità egiziana che, fedele agli insegnamenti del faraone Amenophis IV (altrimenti noto come Akhenaton), riconosceva come unico dio Aton, il disco del Sole, e abbiano consolidato il proprio monoteismo. Secondo alcune interpretazioni, infatti, proprio in Egitto la religione degli Ebrei sarebbe passata dal «monolatrismo» (la prevalenza del culto di un dio sugli altri), al «monoteismo» vero e proprio, vale a dire la religione dell'unico Dio. (16)

Non è escluso neppure che alcuni Egiziani abbiano seguito gli Ebrei nella loro fuga attraverso il Mar Rosso verso la terra promessa: lo stesso nome di Mosè ha probabilmente un'origine egizia.

 

1
LA CREAZIONE DEL MONDO

Quando Dio creò il cielo e la terra, nulla trovò intorno a sé, se non Tohu e Bohu, vale a dire il caos e il vuoto. L'abisso su cui lo spirito divino si librava era ricoperto dalle tenebre.

Il primo giorno della creazione, Dio disse: — Sia la luce! —  E la luce fu.

Il secondo giorno, venne creato uno spazio celeste per separare le acque di sopra da quelle di sotto: e venne chiamato «cielo».

Il terzo giorno Dio radunò le acque di sotto in un unico luogo, lasciando scoperto l'asciutto, cui venne dato il nome di «terra»; alle acque così radunate venne invece dato il nome di «mare». Il Signore ordinò quindi alla terra di dar vita ai prati, alle erbe e agli alberi.

Il quarto giorno venne creato il sole, la luna e le stelle.

Il quinto giorno il Signore donò la vita ai pesci e agli altri animali acquatici.

Il sesto giorno Dio creò gli animali della terra, i rettili e il genere umano.

L'universo intero venne quindi creato in sei giorni; il settimo giorno, soddisfatto del suo lavoro, il Signore si riposò. (17)

Altri sostengono invece che, dopo aver creato il cielo e la terra, Dio formasse una nebbia umida per dare vita al giardino dell'Eden (il Paradiso Terrestre); solo successivamente venne ad esistenza il primo uomo, che venne chiamato Adamo, gli animali e per ultimo la donna. (18)

Secondo un'altra versione, non confluita nella Genesi, Dio creo il cielo e le stelle con una sola parola di comando; in seguito, Egli si librò sugli abissi e, dopo aver cosparso di raggi luminosi le acque superiori, là edificò il proprio trono.

Mentre era intento all'opera della creazione, il Signore pose la terra su fondamenta inamovibili e, per fare ciò, affondò alcune montagne a mo' di pilastri nelle acque dell'abisso.

Allora, le ribollenti acque inferiori si ribellarono e Tehom (19), la loro regina, minacciò di distruggere il lavoro creativo di Dio. Montato sul suo carro di fuoco, il Signore fermò le ondate e scagliò raffiche di fulmini e saette contro i suoi nemici; dominate dalla voce tuonante di Dio, le acque si ammansirono e si dichiararono vinte; allora il Signore emise un ruggito di vittoria e le sottomise al suo volere; Egli decretò inoltre che Tehom dovesse rimanere per sempre rinchiusa dentro cancelli, sprangati con sbarre di ferro.

Da allora, Tehom è rimasta acquattata in sottomissione nella sua cavità, anche se Dio consente ogni tanto alle acque inferiori di scaturire poco a poco, inviando ruscelli o nutrendo le radici degli alberi; in un'unica occasione venne rimosso il sigillo che impedisce a Tehom di riprendersi il dominio del mondo e ciò è stato in occasione del Diluvio Universale.

Il Signore, allora, completò la creazione ed esiliò quindi Tohu e Bohu; ancora oggi, tuttavia, è possibile riconoscere Tohu come la sottile e grigia linea dell'orizzonte, da cui ogni sera nasce la tenebra. Bohu è, invece, il nome che viene dato alle pietre luccicanti sprofondate nell'abisso marino, dove sono in agguato terribili mostri marini.

Altri sostengono, infine, che in principio Dio creò numerosi mondi ma, non essendone soddisfatto, li distrusse uno dopo l'altro: migliaia di generazioni vennero cancellate senza che ne rimanesse alcun ricordo.
Dopo questi primi tentativi, Dio rimase solo e riconobbe che nessun mondo era degno di essere creato se non abitato da uomini capaci di pentimento. Per questo motivo il Signore creò la legge, il pentimento, il trono divino, il padiglione celeste, il giardino dell'Eden, la Gehenna (l'inferno ebraico) e il Messia.

Trascorsi due giorni divini (pari a duemila anni terrestri), Dio chiese alla legge: — Cosa accadrebbe se creassi un nuovo mondo? — E la legge rispose: — Se un re non avesse armate né campi, su cosa potrebbe regnare? E se non vi è alcuno per lodarlo, quale onore potrebbe mai avere? Tuttavia, vi è il rischio che il mondo venga consegnato alla mercè di peccatori, dominati dal male.

Dio ascoltò, approvò e disse: —  Per questo motivo ho creato il pentimento, come rimedio al male; il trono divino, come sede del mio giudizio; il padiglione celeste, per assistere ai sacrifici della penitenza; il giardino dell'Eden, per premiare i virtuosi; la Gehenna, nel cui fuoco verranno puniti i peccatori; il Messia, per raccogliere gli esuli. — E fu così che il Signore diede inizio alla creazione del mondo.

Stranamente, i testi ebraici non fanno menzione della creazione degli Angeli, che vengono tuttavia citati come potenze celesti attente al volere di Dio, che siedono intorno a Lui e ne cantano incessantemente le lodi.

Solamente in un testo apocrifo, il Libro dei Giubilei (detto anche «piccola Genesi»), si dice espressamente che tra le opere di Dio del primo giorno della creazione ci furono anche Spiriti e Angeli, che Egli preparò con la sapienza del Suo cuore.

La tradizione successiva, confluita poi nel Cristianesimo, afferma che la creazione degli Angeli avrebbe avuto inizio nel momento primordiale in cui Dio, uscendo dal suo riposo eterno, compì il primo atto da Creatore.

 

2
CREATURE ANCESTRALI

i racconta che prima della creazione si ribellò a Dio il terribile Rahab, il drago gigante (20). Quando il Signore gli comandò di trangugiare tutte le acque del mondo, il mostro gridò: — Lasciami in pace, padrone dell'universo! — Allora il Signore lo colpì a morte e ne fece sprofondare la carcassa negli abissi marini.

Altri sostengono invece che Dio avrebbe risparmiato il drago gigante; successivamente, il Signore avrebbe ordinato a Rahab di recuperare negli abissi marini il libro di Raziel, un compendio di tutto il sapere divino inizialmente dato al primo uomo e poi trafugato da angeli ribelli.

Rahab obbedì ma, in un secondo momento, si schierò dalla parte dei nemici di Dio, per cui il Signore lo trasse a riva con una rete gigante e pose un guardiano accanto al drago, che alla fine verrà condotto avanti al giudizio supremo.

Un'altra delle terribili creature che affliggono il mondo, secondo la mitologia ebraica, è il Leviathan dalle feroci zanne: raffigurato ora come una balena, ora come un coccodrillo (o come un orribile miscuglio di entrambi gli animali), è un essere dalla cui bocca sgorgano fiamme e fuoco; il suo cuore non conosce pietà e i suoi occhi emettono spaventosi raggi di luce.

Questo orribile mostro vaga a suo piacimento sulla superficie delle acque oppure si immerge negli abissi più profondi facendo ribollire il mare come una pentola. Persino le creature dei cieli temono il Leviathan.

Altri, tuttavia, sostengono che il Signore avrebbe domato il Leviathan, confinandolo in una caverna dell'oceano. Il gigantesco corpo del mostro è stato collocato sopra le acque inferiori, impedendo a Tehom di inondare la terra.

Behemoth fu invece la prima creatura terrestre creata; simile ad un enorme ippopotamo, ha la coda grossa come il tronco di un cedro e governa sulle creature della terra, così come il Leviathan domina su quelle del mare. (21)

Si dice che ogni anno, durante il solstizio d'estate, Behemoth si sollevi sulle gambe posteriori emettendo un ruggito spaventoso.

Le leggende sulla sorte di queste due creature sono molto diverse tra di loro. Alcuni sostengono che, inizialmente, Dio abbia inviato gli arcangeli Michele e Gabriele per sconfiggere queste creature immonde e che, vedendoli impotenti a domarle, abbia provveduto Egli stesso in prima persona.

Secondo un'altra versione, i due mostri si affronteranno nel giorno del giudizio. Dopo uno scontro che scatenerà un maremoto, le corna ricurve di Behemoth squarceranno Leviathan, che tuttavia ferirà a morte il suo avversario con le sue pinne aguzze. La carne di queste creature servirà per imbandire la mensa dei giusti, nel giorno del giudizio.

 

3
ADAMO E LE SUE COMPAGNE

l sesto giorno della creazione, Dio decise di creare l'uomo a sua immagine e somiglianza; a tal fine, Egli non si servì di materiale indegno, ma scelse la polvere più pura, la inumidì e ne prese una manciata per dare vita al primo essere umano, cui venne dato il nome di Adamo in quanto figlio della terra [ădāmāh].

Alcuni fanno derivare il nome da adōm («rosso»), per ricordare che il primo uomo venne plasmato con la creta rossa che si trova a Hebron.

Inizialmente, il Signore aveva dato ad Adamo un aspetto così maestoso che, quando si trovava in posizione eretta, la sua testa poteva contemplare il trono divino.

Dio chiese quindi alle creature viventi e agli angeli di rendere omaggio al primo uomo; tutti si inchinarono davanti ad Adamo, tranne il serpente invidioso, che venne per questo motivo allontanato dalla presenza del Creatore.

Altri sostengono, invece, che la bellezza e la maestà del primo uomo stupirono gli angeli a tal punto che essi chiesero preoccupati a Dio se fosse mai possibile avere due poteri divini nell'universo, uno nel cielo e l'altro sulla terra. Allora il Signore posò la mano su Adamo e ne ridusse le dimensioni.

Si narra che Dio avesse chiesto ad Adamo di dare un nome a tutte le creature viventi: pare che a questo punto il primo uomo si rendesse conto che tutti avevano una compagna tranne lui per cui venne preso dalla gelosia, non potendo appagare la sua sete d'amore, e chiese al Signore di rimediare a quella ingiustizia.

Avendo deciso di dare ad Adamo una compagna, Dio creò Lilith, la prima donna; dall'unione tra i due nacque Asmodeo e la razza dei demoni che ancora oggi funestano l'umanità. Adamo e Lilith non ebbero mai un attimo di pace assieme, perché tutte le volte in cui egli voleva giacere con lei, la donna si offendeva per la posizione che le veniva imposta: — Perché mai devo stendermi sotto di te se sono tua uguale?

Poiché Adamo tentava di ottenere la sua ubbidienza con la forza, Lilith pronunciò il sacro nome di Dio e si librò nell'aria abbandonando per sempre il suo sposo.

Allora Dio decise di creare una più degna compagna per il primo uomo e ne plasmò le fattezze davanti a lui: poiché Adamo aveva assistito all'atto creativo della donna e ne aveva visto anche le viscere e le secrezioni, questi venne colto da disgusto e fuggì.

Dio provò per la terza volta ad accontentare Adamo e agì con maggiore prudenza: mentre il primo uomo dormiva, il Signore gli estrasse una costola e formò con essa una donna, intrecciò i capelli e la adornò con ventiquattro gioielli. Quando Adamo si ridestò, rimase colpito dalla bellezza della donna, cui venne dato il nome di Eva, e ne fece la sua sposa.

 

4
IL PARADISO TERRESTRE

io aveva creato un giardino paradisiaco, ornandolo con alberi e frutta simili a gemme splendenti, cui venne dato il nome di Eden. Un fiume lo percorreva, poi di lì si divideva e formava quattro corsi; il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c'è l'oro, la resina odorosa e la pietra di onice. Il secondo fiume si chiama Ghion: esso scorre intorno a tutto il paese d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri, che scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate.

Il Signore Dio prese l'uomo e la donna e li pose nel giardino di Eden, perché lo coltivassero e lo custodissero. Dio consentì che mangiassero tutti i frutti del giardino, tranne di quelli dell'albero della conoscenza del bene e del male.

In quei giorni il serpente, che era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio e che si era rifiutato di inchinarsi davanti all'uomo, si avvicinò ad Eva e disse: — È vero che Dio ha detto di non mangiare nessun frutto degli alberi del giardino?

La donna rispose: — Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma non del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino, perché ne moriremmo.

Ma il serpente disse alla donna: — Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Lui, conoscendo il bene e il male.

Allora la donna vide che l'albero era gradito agli occhi e desiderabile; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: — Adamo, dove sei?

L'uomo rispose: — Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto vergogna e mi sono nascosto.

Dio esclamò: — Chi ti ha fatto conoscere la vergogna? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?

Rispose Adamo: — La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato

Il Signore Dio disse alla donna: — Che hai fatto?

Rispose la donna: — Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato.

Allora il Signore maledì il serpente, Adamo ed Eva; poi disse: — L'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. — Dio scacciò l'uomo dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto e pose ad oriente del giardino i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita.

Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì due fratelli: Caino, che divenne lavoratore del suolo, e Abele, pastore di greggi.

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì l'offerta di Abele ma non quella di Caino.

Preso dall'invidia, Caino invitò il fratello in campagna e lo uccise con l'inganno. Allora il Signore disse a Caino: — Dov'è Abele, tuo fratello?

Egli rispose: — Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?

Il Signore esclamò: — Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto! Fuggi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello.

Caino disse al Signore: — Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere.

Ma Dio sentenziò: — Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!

Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.

Adamo si unì di nuovo alla moglie, che partorì un figlio e lo chiamò Set. Da Set discese la stirpe dei Patriarchi, come Noè e Abramo.

Questo è il libro della genealogia di Adamo. Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò un figlio e lo chiamò Set. Dopo aver generato Set, Adamo visse ancora ottocento anni e generò figli e figlie. L'intera vita di Adamo fu di novecentotrenta anni; poi morì. (22)

 

5
IL DIAVOLO

ella mitologia ebraica, inizialmente non esiste una divinità in qualche modo collegata alle forze del Male o del Caos (come si è visto nella concezione cosmogonica dei Greci, dei Sumeri e dei popoli del Nord).

Nella Bibbia è presente la figura di Sataniel (Satana) (23), l'angelo cui viene affidato da Dio il compito di verificare la fede dell'uomo, riportando al Signore tutti i peccati commessi (Libro di Giobbe).

Successivamente, nei testi dei Profeti, viene citato più volte il nome di Helel (Lucifero), che nella sua superbia avrebbe tentato di usurpare il trono di Dio assieme ad altri angeli ribelli e, per questo, sarebbe stato scagliato nell'abisso.

Nel terzo giorno della creazione, il primo tra gli angeli del Signore, Helel ben Šaḥar, «Lucifero figlio dell'aurora», venne nominato guardiano di tutte le nazioni future. All'inizio, questi si comportò con discrezione ma poi l'orgoglio gli fece perdere del tutto il senno.

L'angelo ribelle volle ascendere le nubi e le stelle e farsi incoronare, per diventare così in tutto e per tutto uguale a Dio. Il Signore, accortosi della sua ambizione, lo precipitò nell'abisso; Lucifero, nella sua rovinosa caduta, venne ridotto in cenere; ancora oggi il suo spirito vaga senza posa nella profonda tenebra.

Il ricordo di questa sciagurata impresa riecheggia nei lamenti del profeta Isaia:

Negli inferi è precipitato il tuo fasto,
la musica delle tue arpe;
sotto di te c'è uno strato di marciume,
tua coltre sono i vermi.
Come mai sei caduto dal cielo,
Lucifero, figlio dell'aurora?
Come mai sei stato messo a terra,
signore di popoli?
Eppure tu pensavi:
salirò in cielo,
sulle stelle di Dio
innalzerò il trono,
dimorerò sul monte dell'assemblea,
nelle parti più remote del settentrione.
Salirò sulle regioni superiori delle nubi,
mi farò uguale all'Altissimo.
E invece sei stato precipitato negli inferi,
nelle profondità dell'abisso!

(Isaia [14: 11-15])

Anche il profeta Ezechiele, nel rievocare la disgrazia di un cherubino scacciato dal «monte di Dio», si riferisce molto probabilmente a Lucifero:

Tu eri un modello di perfezione,
pieno di sapienza,
perfetto in bellezza.
[...]
Eri come un cherubino ad ali spiegate a difesa;
io ti posi sul monte santo di Dio,
e camminavi in mezzo a pietre di fuoco.
Perfetto tu eri nella tua condotta,
da quando sei stato creato,
finché fu trovata in te l'iniquità.
crescendo i tuoi commerci
ti sei riempito di violenza e di peccati;
io ti ho scacciato dal monte di Dio
e ti ho fatto perire, cherubino protettore,
in mezzo alle pietre di fuoco.

(Ezechiele [28: 12-16])

La mitologia ebraica conosce anche la figura di Samaele, derivante forse dalla divinità siriana Šemal e spesso identificato con la già citata figura di Satana, il quale si ribellò perché invidioso della posizione che Dio aveva attribuito ad Adamo.

Il sesto giorno della creazione, il Signore aveva ordinato a tutti gli abitanti dell'Eden di riverire Adamo. L'arcangelo Michele obbedì immediatamente assieme agli altri angeli, ma Samaele si ribellò: — Non onorerò mai una creatura inferiore a me! Quando nacque Adamo, io ero già perfetto. È lui che deve adorare me!

Gli angeli seguaci di Samaele approvarono, mentre Michele li ammonì a non sfidare la collera di Dio.

Allora il Signore mise alla prova la sapienza di Samaele chiedendogli di dare il nome a tutte le creature del mondo, ma l'arcangelo non fu in grado di rispondere. Adamo, invece, illuminato nel cuore da Dio, riuscì ad additare tutti gli animali con il loro vero nome.

Samaele, indignato perché il Signore aveva instillato il sapere nelle mente dell'uomo, si rivoltò adirato nei confronti del Creatore. Allora Dio scaraventò Samaele ed i suoi seguaci fuori dal paradiso. Samaele provò ad aggrapparsi alle ali di Michele e lo avrebbe trascinato con sé, se Dio stesso non fosse intervenuto.

Samaele ed i suoi seguaci vennero rinchiusi in un carcere buio dove ancora oggi languiscono con il volto spettrale e le labbra sigillate.

Altri, tuttavia, sostengono che Samaele venne precipitato nella terra, da dove egli continua a tramare contro il volere di Dio: sembra infatti che il serpente dell'Eden che indusse Adamo ed Eva a disobbedire agli ordini del Signore fosse in realtà l'arcangelo Samaele sotto mentite spoglie. Secondo alcune fonti, inoltre, dopo aver persuaso l'uomo a mangiare il frutto dell'albero della conoscenza nelle sembianze di un serpente, sedusse Eva e generò con lei Caino.

Da allora, le generazioni degli uomini formano due rami separati: i discendenti di Caino sono votati al male, mentre i discendenti di Set sono propensi verso il bene.

A seguito dei contatti con la religione persiana durante la cattività babilonese, gli Ebrei elaborano l'idea di una vera e propria figura antitetica a Dio: il Principe delle Tenebre (da alcuni identificato con Tohu), colui il quale si sarebbe opposto al volere del Signore prima ancora della creazione. Quando Dio annunciò di voler creare l'universo nella luce, il suo avversario domandò: — Perché non dalle tenebre? — Il Signore soggiogò con un urlo enorme il principe delle tenebre, il quale tuttavia nel giorno del giudizio si dichiarerà uguale a Dio e tenterà di ripristinare il dominio dell'oscurità. Solo allora il fuoco dell'inferno punirà la sua arroganza.

In questo contesto, le figure di Samaele, Satana e Lucifero tendono ad identificarsi in un'unica entità nota anche come il Diavolo (dal latino Diābolus e dal greco antico Diábolos, cioè «Colui che divide»). L'antagonista di Dio è chiamato anche Belzebù («Signore delle Mosche», trasformazione spregiativa del nome del dio fenico Baal Zĕbūl, «Signore dei Prìncipi»), Belial o Mefistofele (tutti nomi che traggono origine dai nomi delle divinità venerate dai popoli nemici degli Ebrei) ed è citato anche nel Corano con il nome di Iblīs.

La tradizione cristiana si impadronirà del mito della ribellione e della caduta degli angeli ribelli, elaborando soprattutto in epoca medievale la visione demonologica più famosa della storia delle religioni, che trova la sua massima espressione letteraria nella Divina Commedia di Dante Alighieri. (24)

La storia racconta che Lucifero in origine era il più bello tra tutti gli angeli ma che, a causa della superbia, «contra il suo Fattore alzò le ciglia» e si ribellò quindi a Dio. La decima parte degli angeli prese le parti di Satana ma i ribelli vennero duramente sconfitti dall'arcangelo Michele.

Corrotti dal peccato, gli angeli vennero trasformati in demoni e precipitati sopra la terra. Lucifero, in particolare, cadde dalla parte dell'emisfero australe, dove in origine esisteva il paradiso terrestre, e venne conficcato al centro della terra, che è anche il centro dell'Universo secondo la concezione tolemaica poi recepita da Aristotele e dalla Scolastica medievale. (25)

E la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fe' del mar velo,
e venne all'emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui il loco voto
quella che appar di qua e su ricorse...

(Inferno [XXXIV: 122-126])

Durante la caduta dell'angelo ribelle, le terre emerse dell'emisfero australe per paura di lui si ritirarono al di sotto delle acque e riemersero nell'emisfero boreale. Nel percorso verso il centro del mondo, inoltre, tutti gli elementi cercarono di schivare ogni contatto con Lucifero, lasciando una cavità vuota (che Dante chiama la «natural burella»), e si arrampicarono su nell'emisfero australe andando a formare il colle del Purgatorio

Lucifero («la creatura ch'ebbe il bel sembiante»), viene rappresentato da Dante come un essere di smisurata grandezza, con tre facce alla sua testa (l'una vermiglia, tra bianca e gialla l'altra, nera la terza), corpo peloso e sei enormi ali di pipistrello.

S'el fu sì bel com' elli è ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.

Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand' io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;

l'altr' eran due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:

e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.

Sotto ciascuna uscivan due grand' ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid' io mai cotali.

Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:

quindi Cocito tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava

(Inferno [XXXIV: 34-35])

L'idea di Lucifero con tre facce non è espressione della fantasia di Dante; egli è, in un certo senso, l'antitesi della divinità creatrice che i Cristiani concepirono come Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo).

Poiché per Dante, come per San Tommaso, il Padre è Potestà, il Figlio è Sapienza, mentre lo Spirito Santo è Amore, le tre facce non possono simboleggiare se non impotenza, ignoranza ed odio.

VII
I CINQUE SOLI
L'EQUILIBRIO COSMICO SECONDO GLI AZTECHI

 

Nella mitologia del Mesoamerica, la leggenda vuole che i Mexicas (l'antico ed originale nome degli Aztechi) fossero partiti da nord per giungere dopo una lunga peregrinazione nel lago Texcoco. Il loro dio protettore Huitzilopochtli (il Colibrì Azzurro) aveva predetto che un giorno essi avrebbero visto un'aquila sopra un cactus con un serpente nel becco e in quel punto avrebbero fondato la loro città. Così avvenne e, dopo molti anni, i Mexicas gettarono le fondamenta della loro capitale, Tenochtitlàn, su un isolotto posto al centro del lago. In breve tempo essi divennero una grandissima potenza economica e militare e costruirono un vasto impero. La loro visione dell'origine del cosmo è una delle più originali tra quelle elaborate dalle culture del Nuovo Mondo.

 

1
I CINQUE SOLI

econdo la religione degli Aztechi, l'idea dell'origine del mondo era strettamente connessa con quella della sua distruzione. Nella religione di questo antico popolo, infatti, la storia viene caratterizzata dal continuo avvicendarsi di cicli di nascita e morte: ciascuna delle ere precedenti prende vita con l'atto della creazione, per poi terminare tragicamente con una catastrofe naturale che pone fine, in modo drammatico, ad un'epoca storica.

Poiché ognuna delle ere viene contraddistinta dal dominio di una divinità solare, la storia del mondo viene descritta attraverso l'avvicendarsi dei soli: nacque così il mito dei Cinque Soli.

In principio, secondo quanto ci viene tramandato dai sacerdoti, il mondo era avvolto dalle tenebre e funestato da fiere orribili che tormentavano i pochi esseri umani che riuscivano a sopravvivere in un clima tanto ostile. Questo periodo di oscurità coincide con l'èra del Sole di Terra ma era noto anche come l'Era dei Puma, poiché essi dominavano il mondo e divoravano senza pietà gli uomini che osavano comparire in un'epoca tanto sventurata. Quest'epoca finì con un terribile terremoto che sconvolse del tutto la crosta terrestre: gli uomini che riuscirono a sopravvivere a questa terribile catastrofe si trasformarono in scimmie.

In seguito, il cosmo venne dominato dal Sole di Fuoco: in quest'epoca molti esseri viventi vennero alla luce e prosperarono, ma tutte le specie vennero annientate da una pioggia di lava e da incendi che devastarono tutto il pianeta; gli unici a sopravvivere furono gli uccelli e quei pochi esseri umani in grado di trasformarsi in volatili.

Venne quindi il Sole d'Aria: come le precedenti, anche questa era venne contraddistinta dal proliferare della creazione ma finì in modo tragico: un terribile uragano spazzò via alberi, monti e le case degli uomini.

La quarta era fu contraddistinta dal Sole d'Acqua, che finì con una grande inondazione in cui tutti gli esseri viventi (tranne i pesci) annegarono.

La leggenda racconta che, prima del diluvio, il Sole d'Acqua si sarebbe recato da due esseri umani, Tata e Nena, dicendo loro: — Sappiate che sto per sommergere con la pioggia tutta la terra; tutti ne moriranno, tranne voi; ma solo se farete quello che dico.

L'uomo e la donna rimasero sconvolti da quanto era stato loro rivelato dal dio Sole, che così continuò: — Voi dovrete trovare al centro della foresta un albero alto e robusto; alla sommità del tronco dovrete praticare una cavità e rifugiarvi lì sino a quando le acque non saranno defluite. Ricordatevi, però, una volta tornati sulla terra, di prendere lo stretto indispensabile per sopravvivere: ciascuno di voi potrà avere solo una pannocchia di mais per sfamarsi e niente altro.

Tata e Nena si diressero nella foresta e cercarono l'albero più grande, all'interno del quale vi era già una cavità naturale: fu sufficiente allargarla un poco per avere un comodo rifugio.

Di lì a poco ebbe inizio il terribile diluvio, che sommerse tutto: corpi, alberi, rocce ed utensili vennero travolti dalle acque e portati via. Solamente dopo molto tempo le acque finalmente si abbassarono: Tata e Nena, sia pure con molta prudenza, scesero dal loro rifugio e misero nuovamente i piedi a terra. Erano molto affamati e, quando videro un pesce che nuotava in un fiume ancora gonfio per via della piena, dimenticarono completamente gli ordini del Sole d'Acqua.

L'uomo e la donna catturarono il pesce e cominciarono ad arrostirlo sul fuoco: il fumo salì verso l'alto e venne notato anche dal dio Sole, il quale adirato così si rivolse verso i due esseri umani: — Stolti, perché mi avete disobbedito? Vi avevo detto di accontentarvi di una sola pannocchia di mais. — E, preso un grosso randello, percosse la testa di Tata e Nena con tale violenza da distruggere quella parte del cervello che rende gli uomini simili a dei; i due sopravvissuti al diluvio vennero così tramutati in cani.

Il Quinto Sole nacque nella città santa di Teotihuacán; secondo i più, la quinta era (quella in cui viviamo) sarebbe destinata a non avere mai termine perché l'ultimo dei soli, dopo aver radunato tutti e quattro gli elementi, prima in contrasto tra di loro, li avrebbe riconciliati creando così un equilibrio perenne; altri, invece, sostenevano che anche l'epoca attuale, caratterizzata da terremoti, guerre e carestia, verrà annientata con una catastrofe.

Per questo motivo, gli Aztechi temevano in particolar modo la fine di un ciclo cosmico (che coincideva con un periodo pari a cinquantadue anni), perché al termine di questo periodo il mondo rischiava di perire ancora una volta a causa di una catastrofe naturale.

I sacerdoti celebravano complessi rituali che prevedevamo anche quei sacrifici umani che tanto raccapriccio suscitarono negli Europei che vennero a contatto con questi popoli (26). La prima alba del nuovo ciclo veniva quindi salutata da tutti con grande sollievo: l'era del Quinto Sole era destinata a durare ancora.

 

2
QUETZALCOATL

a mitologia degli Aztechi ricorda spesso il nome del dio Quetzalcoatl (il Serpente Piumato), venerato presso molte altre delle civiltà precolombiane, tra cui i Maya (che lo chiamavano Kukulkán), i Mixtechi e i Toltechi: era il dio del cielo e del sole, dei venti e della stella del mattino; come tale, egli era considerato il benefattore di tutta l'umanità .

Quetzalcoatl fu conosciuto come inventore dei libri, del calendario e soprattutto come colui che donò il mais al genere umano. Egli non richiedeva sacrifici umani, ma sosteneva che essi dovevano essere sostituiti con offerte di fiori, incenso, farfalle e pane di mais.

La vita del Serpente Piumato era basata sul digiuno, sull'astinenza e su continue penitenze: egli era solito mortificarsi pungendosi la pelle con spine di cactus sino a farsi uscire il sangue.

La vita ascetica di Quetzalcoatl, la sua bontà e la sua purezza irritarono non poco il dio Tezcatlipoca (dio del male e del cielo notturno, suo rivale e nemico). Volendo distruggere l'integrità del Serpente Piumato, gli offrì una tazza di pulque, un liquore ottenuto dalla fermentazione del succo di agave.

Non essendo abituato all'uso di queste bevande, Quetzalcoatl ben presto si ubriacò e, preso da una insana passione, si gettò tra le braccia della sorella. Per qualche tempo, egli condusse una vita dissoluta, dimentico della purezza e della castità che aveva predicato in passato.

Una volta venuto meno l'effetto inebriante del liquore, il Serpente Piumato si rese improvvisamente conto di quanto aveva commesso e abbandonò in lacrime la sua città per recarsi sulla riva del mare. Qui, Quetzalcoatl eresse una pira funebre e, indossata una maschera di turchese e indossato un abito fatto di verdi piume di uccello, si gettò tra le fiamme. Alcuni istanti dopo, i suoi seguaci potevano assistere alla metamorfosi del dio, che si era trasformato in un nuovo, luminosissimo astro: era diventato la nuova stella del mattino.

Secondo una diversa versione del mito, il dio Quetzalcoatl non morì ma si sarebbe congedato dal suo popolo, prendendo il largo a bordo di una zattera fatta di pelli di serpente; egli tuttavia promise che un giorno sarebbe tornato dal mare per riconquistare il potere e portare una nuova età dell'oro. (27)

Quest'ultima versione del mito, paradossalmente, fu fatale per il destino dell'impero azteco; si diceva infatti che Quetzalcoatl fosse molto alto di statura, di pelle chiara, con lunghi capelli neri e dalla barba fluente. Quando, nel 1519, lo spagnolo Hernán Cortés giunse in Messico, poiché questi aveva caratteristiche fisiche in gran parte corrispondenti a quelle che venivano attribuire al Serpente Piumato, molti tra gli Aztechi (tra cui lo stesso re azteco Montezuma II) sembravano giustificarne la identificazione con il dio.

Per questo motivo, il conquistatore Cortés fu inizialmente accolto con grandi onori. Quando, tuttavia, le reali intenzioni di conquista e distruzione dei conquistadores furono palesi, gli Aztechi si resero conto del tragico errore commesso; ma ormai era troppo tardi: la cruenta conquista del Messico da parte degli invasori era ormai una realtà.

 

* * *

La cosmogonia degli Aztechi non è ovviamente l'unica tra le leggende del Nuovo Mondo. Secondo gli antichi testi maya del Popul Vuh, infatti, gli dèi Pepeu (il Creatore) e Gucumaz (il Plasmatore) decisero di trasformare le tenebre in giorno e di dar vita al mondo. Alla fine, gli dèi decisero di creare l'uomo: dapprima, essi lo plasmarono con il fango ma questi si sciolse con l'acqua; poi, provarono a formare uomini e donne con il legno: il materiale era sicuramente più resistente, ma gli esseri creati erano del tutto privi di raziocinio e non avevano sentimenti religiosi, per cui gli dèi decisero di sterminarli con un'alluvione. Infine, gli esseri umani vennero creati con la pappa di mais: ed essi furono i nostri progenitori.

Secondo gli Incas, invece, fu il dio creatore Viracocha a decidere di costruire il mondo in cui far vivere gli uomini, che egli stesso plasmò in una grotta nei pressi di Cuzco, la futura capitale dell'impero incaico.

Anche gli Indiani d'America ci hanno lasciato numerose versioni sulla creazione del mondo, di cui non è possibile dare un resoconto completo, essendo il patrimonio di leggende ampio e variegato: esse spaziano da versioni molto ingenue, che attribuiscono l'atto creativo a divinità burlone (come quelle diffuse presso i Cree e i Lakota) o ad animali come la Volpe Argentata (Achumawi), sino ad elaborazioni più raffinate (Apache, Navaho) che sfiorano la speculazione filosofica (come presso gli Omaha, secondo i quali: «In principio tutte le cose erano nella mente del Wakonda. Tutte le creature, compreso l'uomo, erano spiriti» ).
(28)

EPILOGO



Riuscire ad affrontare il tema della creazione del mondo secondo le versioni che ci hanno tramandato i nostri antenati è impresa certamente ardua, che meriterebbe sicuramente una trattazione di ben più ampio respiro.

Ho cercato di selezionare quei miti che, a mio giudizio, potevano incuriosire maggiormente il lettore (ma forse mi sono fatto condizionare dalle storie che avevano lasciato di più il segno nel mio immaginario).

Esistono, ovviamente, oltre alle leggende citate, molti altri poemi cosmogonici di cui non si è potuto fare cenno in queste pagine, ma che costituiscono patrimonio dell'umanità.  (29)

È singolare osservare come, per alcuni popoli, la storia della nascita del mondo coincide in gran parte con le origini del proprio paese o delle istituzioni che lo rappresentano: in Cina, ad esempio, i testi più antichi narrano con dovizia di particolari la nascita dell'Impero e la storia degli Otto Sovrani Predinastici che precedono la nascita delle dinastie protostoriche (Xia, Shang).

Diversamente, presso altre culture la ricerca delle origini viene in gran parte sostituita dalla ricerca del capostipite del clan o della tribù, spesso idealizzato e raffigurato in sembianze animali
(30); in questo caso la cosmogonia coincide con la storia degli antenati, che le generazioni successive avrebbero poi evemerizzato (31).

Tale concezione è tipica delle popolazioni africane, il cui patrimonio di favolistica costituisce un unicum culturale che non ha uguali nel mondo.

Nella maggior parte dei casi le fiabe africane adottano un linguaggio simbolico, attingendo spesso al mondo animale per affrontare sia temi sacri che la quotidianità.

Più raramente possiamo rinvenire concezioni teologiche vere e proprie, anche se non mancano riferimenti alla dea madre, come la Mawu-Lisa di cui parlano gli antichi abitanti del Benin, ovvero al dio del cielo e creatore, come il Nladima dei Pigmei.

Analogamente, presso gli Aborigeni dell'Australia manca una vera e propria concezione cosmogonica (o, almeno, non è giunta sino a noi; la cultura aborigena, infatti, non conosce se non l'oralità per la trasmissione di racconti e leggende ).

Normalmente, i racconti tradizionali si riferiscono al passato mitico (32) in cui vissero gli antenati (spesso raffigurati o descritti come animali o vegetali), dalle doti sovrumane ed in grado di insegnare ai discendenti tutte le arti necessarie alla sopravvivenza. L'idea di un Essere Supremo fa comunque capolino nei racconti di alcune popolazioni, come quella degli Arunta.

Non mancano, ovviamente, visioni più complesse o fantasiose sulla creazione del mondo.

In Giappone, ad esempio, si narra che all'inizio esistevano i due kami Izanagi e Izanami, i quali plasmarono il mondo e generarono tutte le altre divinità, tra cui la loro figlia prediletta, Amaterasu.

La morte improvvisa di Izanami sconvolse il suo consorte, che tentò in tutti i modi (ma invano) di riportare indietro l'amata dal regno dei morti; la comparsa del lutto per la prima volta nell'universo segnò per sempre il destino de la creazione.

Da allora, infatti, le divinità benigne e quelle malvagie si affrontarono in una devastante lotta, che costrinse Amaterasu, dea del sole, a nascondersi. Alla fine, ella si persuase ad uscire all'esterno incuriosita dalla danza di alcuni kami e il mondo venne illuminato nuovamente dal sole.

Amaterasu plasmò gli elementi e domò il ciclo delle stagioni e mandò un suo nipote (Ninigi) sulla terra per governare il Giappone.

In India il
corpus mitologico è vastissimo e copre una quantità enorme di testi letterari e di divinità, la più importante delle quali fu, inizialmente, Indra.

Successivamente, la cultura induista elaborò una concezione filosofico-religiosa estremamente raffinata sulla creazione del mondo e sul suo eterno ciclo di nascita, distruzione e rinascita.

Nel pantheon indù particolare importanza rivestì la Trimūrti, costituita dagli dèi Brahma (il dio creatore che mise in moto l'universo), Śiva (il dio associato alla distruzione e alla sregolatezza) e Viṣṇu (il dio conservatore, divinità solare che illumina l'umanità con la sua luce apparendo spesso sulla terra come «incarnazione» o avatar).

Chiudiamo questo rapido
excursus per arrivare alla facile conclusione che non è possibile esaurire l'argomento delle origini del mondo in poche pagine.

Questo opuscolo vuole essere solo uno stratagemma per schiudere la porta verso un mondo, quello dei nostri antichi progenitori, che sa di notti antichissime passate accanto al fuoco a raccontare favole.

Se qualcuno avrà voglia di spalancare questa porta per conoscere meglio il sogno degli dèi, allora l'Autore potrà affermare con soddisfazione di essere riuscito pienamente nel suo intento.

NOTE

1 —  La creazione del mondo secondo Esiodo non è l'unica versione nota agli antichi Greci, anche se è sicuramente la più nota. Secondo Omero, l'«origine degli dèi» e l'«origine di tutto» fu l'inesauribile potenza generatrice del dio Oceano, che si unì alla sua sposa Teti procreando tutti gli altri dèi. Secondo la tradizione che faceva capo al mitico cantore Orfeo, invece, in origine esisteva la Notte che depose un uovo d'argento, da cui scaturirono tutte le forze primordiali dell'universo.

2 — Il quesito che la Sfinge poneva ai malcapitati abitanti della Beozia è talmente famoso che non può non essere citato: «Qual è l'animale che al mattino cammina a quattro zampe, a mezzogiorno con due e la sera con tre?» A risolvere l'enigma fu Edipo, destinato a diventare re di Tebe; quell'animale è l'uomo, che da piccolo si muove a quattro zampe, da grande è in posizione eretta e si appoggia ad un bastone in vecchiaia. La Sfinge, umiliata dall'ingegno di Edipo, si gettò da una rupe e morì.

3 — Il mito di Tifeo è molto più antico dei poemi dell'antica Grecia; le origini di questa figura mostruosa, infatti, possono essere rinvenute addirittura nelle leggende degli H̬ittiti, che narrano del combattimento tra il dio delle tempeste e il drago Illuyankas.

4 — Quello delle ultime parole sussurrate da Odino nell'orecchio di Baldr è uno dei temi più misteriosi e affascinanti del mito nordico. I testi non ci informano sul contenuto di queste parole, conosciute soltanto a Odino. È presumibile che esse fossero, in ogni caso, un messaggio di speranza per un futuro remoto, in cui, dopo la fine del mondo, lo stesso Baldr sarebbe tornato sulla Terra per imporvi un regno di giustizia e felicità.

5 — Uruk: antica città della Mesopotamia, da molti storici considerata il più antico centro urbano della regione.

6 — Il Lebor Gabála Érenn è un testo vasto e dettagliatissimo, nel quale sono narrate tutte le genealogie dei mitici invasori d'Irlanda. Tuttavia, la storia di Túan figlio di Cairell è narrata in un testo apposito, ancora più antico, lo Scél Túan maic Cairill.

7 — La teoria della metempsicosi, ossia della trasmigrazione dell'anima da un corpo ad un'altra, è tipico della mitologia celtica. La stessa sorte di Túan veniva attribuita anche al gallese Taliesin, bardo e profeta dell'antica Britannia.

8 — Si tratta dell'odierna isola di Tory, al largo delle coste del Donegal. Questa regione si trova nella parte nord-occidentale dell'Irlanda e affaccia sull'Oceano Atlantico; ha dato i natali al grande poeta e scrittore Yeats.

9 — La Pietra del Destino viene solitamente identificata con un monolito di forma fallica presente nel sito archeologico di Tara.

10 — Pur in assenza di fonti scritte, come si è detto in precedenza, appare evidente che i Celti credessero nella metempsicosi. Pare che il simbolo della spirale, utilizzato spesso nell'iconografia, simboleggiasse appunto l'eterno ciclo della nascita, della morte e della successiva reincarnazione.

11 — A lui era infatti dedicata una delle festività più importanti della tradizione celtica: Lúgnasad, la festa del Sole, che corrisponde alla odierna ricorrenza del Ferragosto.

12 — La Mórrígan era l'antica dea della guerra, che nel ciclo mitologico diventa una dei Túatha Dé Danann al seguito di Lúg dal Lungo Braccio.

13 — Citazione dal romanzo I guerrieri del Ramo Rosso, di Morgan Llewelyn, pag. 8.

14 — Nel nostro calendario, equivale alla notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre e sopravvive ancora oggi nella tradizione popolare con il più pittoresco nome di HallowÈen.

15 — In Genesi [7: 11-34], si legge: «Nell'anno seicentesimo della vita di Noè, il diciassette del secondo mese, in questo giorno si ruppero tutte le fonti del grande abisso e si aprirono le cateratte del cielo e la pioggia cadde sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti […] Fu così sterminato ogni essere esistente sulla faccia della terra, dall'uomo agli animali domestici, ai rettili e agli uccelli del cielo; tutto fu dunque sterminato sulla terra: rimase solo Noè e coloro che erano con lui nell'arca. E le acque rimasero alte sopra la terra per centocinquanta giorni» (citazione tratta da La Bibbia Concordataria, pp. 48-49).

16 — Altri studiosi sostengono invece che la cultura ebraica giunse a piena maturazione, sotto il profilo teologico, durante l'esilio babilonese, a seguito dei contatti con la religione dei Persiani.

17 — La prima versione della creazione (Genesi [1.1 - 2.3]) venne probabilmente composta a Gerusalemme dopo il ritorno dalla cattività babilonese e in essa Dio viene chiamato Elohim. L'eco della visione babilonese del mondo è evidente, soprattutto nella concezione negativa dell'acqua, che in Mesopotamia era sì fonte di vita ma anche causa di devastanti alluvioni; l'opera più complessa nella creazione di Dio, infatti, è proprio quella di dar ordine al cosmo, separando le acque di sopra da quelle di sotto; le acque di sopra sono quelle che, filtrando ogni tanto dalle aperture poste nella volta celeste («cateratte»), producono le piogge.

18 — La «seconda» Genesi, in cui Dio viene denominato Yahweh, è stata concepita in epoca antecedente all'esilio babilonese e risale, forse, al periodo di re Salomone (Genesi [2: 4-22]). È importante notare che quella accezione negativa dell'acqua che permeava la prima versione della creazione del mondo non sussiste in questo capitolo della Bibbia; l'ignoto autore delle storie sul giardino dell'Eden conosceva le privazioni che vivevano all'epoca gli abitanti della Palestina, una terra semidesertica afflitta da una grave penuria d'acqua: per questo il Paradiso Terrestre viene descritto come una terra fertile e lussureggiante, ricca di sorgenti.

19 — È evidente, qui, il richiamo a Tiāmat, per la quale si rinvia al Capitolo III.

20 — La descrizione di Rahab, il drago gigante, è sicuramente tratto dal poema babilonese Enūma eliš, per il quale si rinvia al Capitolo III.

21 — Il Leviathan (noto anche come il Leviatano) e Behemoth richiamano le descrizioni contenute nei poemi egizi.

22 — L'epopea del peccato originale e della cacciata del Paradiso Terrestre è talmente bella da non meritare abbellimenti diversi da quelli del testo originale; questo brano è pertanto quasi integralmente ripreso da Genesi [3-4], come riportato in La Bibbia Concordataria, pp. 38-44.

23 — Questo appellativo deriva da un'antica parola semitica, che significa letteralmente «ostacolare»; il ruolo di questa figura era quello verosimilmente dell'accusatore, dell'inquisitore ovvero di chi aveva il compito di mettere alla prova l'uomo, anche inducendolo in tentazione.

24 — La demonologia cristiana secondo la visione di Dante Alighieri è descritta da Arturo Graf in Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, pp. 51-72.

25 — Nella visione dantesca, Satana precipita e si ferma al centro del mondo perché, secondo una legge del cosmo aristotelico, gli elementi hanno tutti un peso specifico e l'elemento più pesante (inteso anche come il meno puro e il più lontano da Dio) è la terra; Lucifero, reso pesantissimo a causa della enormità del suo peccato, non poteva che fermarsi nel punto più basso, il centro del mondo.

26 — Nella religione azteca, i sacrifici umani venivano giustificati con la credenza che gli dèi stessi si sarebbero sacrificati per l'umanità, gettandosi nel fuoco, per consentire la nascita del Quinto Sole. Altri, invece, sostenevano che il mondo sarebbe stato creato con la carcassa di un vorace mostro dalle molte bocche, che anche da morto continuava a chiedere sangue per sfamarsi e, nel contempo, garantire la fecondità della terra.

27 — Sempre tenendo in considerazione la tesi secondo cui Quetzalcoatl sarebbe stato un grande sovrano dei Toltechi, non vi è chi non veda in questa versione del mito una origine storica. Infatti, quando l'impero di Tollan crollò a seguito dell'invasione di popoli provenienti da nord (i Chichimechi), i Toltechi fuggirono a sud per fondersi successivamente con il popolo dei Maya: è verosimile che la leggenda del Serpente Piumato sia debitrice del ricordo di questa antica migrazione.

28 — Citato da: Walter Pedrotti, Dal popolo degli uomini.

29 — Per ulteriori approfondimenti si rinvia alla lettura di Mitologia del Vecchio Mondo, a cura di Alice Mills.

30 — Tale concezione è particolarmente sentita nei cosiddetti «gruppi totemici», i quali si sentono uniti tra loro da uno speciale vincolo di parentela, derivante dalla discendenza da un antenato comune vissuto in un'epoca anteriore, in cui la differenza tra uomini e animali era molto meno netta; l'animale o l'uomo di cui il gruppo si considera discendente costituisce il totem.

31 — Con questa parola «difficile» si intende, in realtà, un processo piuttosto tipico delle popolazioni antiche (e descritto dal pensatore greco Evemero), secondo il quale il ricordo dei grandi uomini vissuti nel passato, idealizzati con il trascorrere dei secoli e con la tradizione orale, darebbe origine alla divinità. Gli dèi sarebbero, quindi, esseri umani «divinizzati» dai loro discendenti.

32 — Gli Aborigeni si riferiscono spesso a questo periodo come il «Tempo del Sogno».

Bibliografia

  • AA.VV. La Bibbia Concordataria. Mondadori, Milano 1995.
  • AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia: Saghe e racconti dell'antica Irlanda. Mondadori, Milano 1983.
  • ARRIGHETTI Graziano [cura]: Esiodo: Teogonia. Rizzoli, Milano 1984.
  • BOSI Roberto: Aborigeni australiani. Nardini, Fiesole 1994.
  • BRANSTON Brian: Gods & Heroes from Viking Mythology. Eurobook, Londra 1978. ID. Dèi e eroi della mitologia vichinga. Mondadori, Milano 1981.
  • DIOGENE LAERZIO: Vite dei filosofi. Laterza, Bari 2002.
  • GIFFORD Douglas: Warriors, Gods & Spirits from Central and South American Mythology. Eurobook, Londra 1983. ID. Dei ed eroi della mitologia dell'America Centrale e Meridionale. Mondadori, Milano 1983.
  • GRAF Arturo: Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo. Mondadori. Milano 1989.
  • GRAVES Robert ~ PATAI Raphael. Hebrew Myths. The Book of Genesis. Doubleday, New York 1964. ID. I miti ebraici. Longanesi, Milano 1980.
  • GREEN Miranda Jane: Celtic Myths. British Museum Press, Londra 1993. ID. I miti celtici. Mondadori, Milano 1994.
  • HART George: Miti egizi. Mondadori, Milano 1994.
  • ISNARDI Gianna Chiesa: I miti nordici. Longanesi, Milano 1991.
  • LLYWELYN Morgan: I guerrieri del Ramo Rosso. Nord, Milano 2003.
  • McCALL Henrietta: Miti mesopotamici. Mondadori, Milano 1995.
  • MILLS Alice [cura]: Old World Mythology. Global Book, Lane Cove 2003. ID. Mitologia del Vecchio Mondo. Il Castello, Cornaredo 2008.
  • MORPURGO Giuseppe. Le favole antiche. Notizie e racconti di mitologia greca e romana. Petrini, Torino 1953.
  • PEDROTTI Walter. Dal popolo degli uomini. Demetra, Bussolengo 1995.
  • POLIA Mario: Völuspá: I detti di colei che vede. Il Cerchio, Rimini 1983.
  • ROLLESTON Thomas William: Myths and Legends of the Celtic Race. 1911. ID. I miti celtici. Longanesi, Milano 1994.
  • SANDARS N.K. [cura]: L'epopea di Gilgameš. Adelphi, Milano 1991.
  • VASCONI Marcella: Miti aztechi. Demetra, Bussolengo 1996.
Download

Scarica gratuitamente Racconti senza Tempo II, in formato PDF.
© Daniele Bello. Tutti i diritti riservati
Peso: 836 KB.

Sezione: Rielaborazioni - Chat de Carabas.
Narrazioni:
Racconti senza Tempo - Pen Beird.
Testi di Daniele Bello.
Racconti senza Tempo è proprietà intellettuale di Daniele Bello, pubblicato su licenza da Bifröst.
Creazione pagina:01.08.2011
Ultima modifica: 17.02.2014
 
POSTA
© BIFRÖST
Tutti i diritti riservati