DANIELE BELLO
RACCONTI SENZA TEMPO
 
 
VOLUME TERZO
LE FIABE DELL'ANTICHITÀ
 

PREFAZIONE

 

Cos'è il mito?

«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.
»

Gian Battista Vico
 

I quattro musicanti di Brema
Fotografia di Daniele Bello

L'idea di riscrivere a beneficio dei bambini di oggi le favole inventate tanto tempo fa dai nostri antenati mi è venuta quando, sfogliando vari libri di fiabe da leggere ai miei figli (alla ricerca di quella più adatta da raccontare prima della fatidica ora del sonno), mi ero reso conto che il linguaggio utilizzato nei testi originali era di difficile lettura, persino per un adulto.

Eppure – pensavo – le storie create e raccontate dai nostri progenitori possono dare ancora molto all'immaginario di noi «moderni»…Di qui, l'ispirazione per tradurre in linguaggio accessibile ai bambini alcuni dei tesori del nostro passato.

Se questo libro riuscirà a far sognare ancora gli adulti di domani… potrò senz'altro dire che ne sarà valsa la pena.

Del resto, che l'arte di pensare, inventare e raccontare non abbia altro fine se non se stessa lo dimostra anche un episodio raccontato da Diogene Laerzio nelle sue Vite dei filosofi e poi citato anche nel Novellino, una rassegna di aneddoti risalente al Medioevo:

«Visse un tempo un filosofo molto saggio, che aveva nome Diogene. Questi si era un giorno fatto un bagno nel fiume e si era steso al sole ad asciugarsi. Giunse da quelle parti Alessandro Magno, re di Macedonia, il quale avendo sentito molto parlare di Diogene e della sua fama di grande pensatore, si avvicinò a lui e disse: O divino di misera vita, io sono Alessandro, il più grande sovrano del mondo; chiedimi ciò che vuoi e io te lo darò.

«E il filosofo rispose: Scostati: mi togli il sole!»


Daniele Bello
Settembre 2010

...a Beatrice e Quốc Việt

I
IL SOLE E IL VENTO
Tratto da una favola di Esopo

 

Secondo gli studiosi, Esopo visse tra il VII e il VI secolo a.C. in Grecia ed è considerato l'inventore della favola. Della vita dell'autore persino gli antichi sapevano ben poco: nativo della Frigia, visse come schiavo a Samo e fece numerosi viaggi in Oriente e in Grecia, soprattutto a Delfi. Già alla fine del V secolo a.C., si attribuiva a Esopo un corpus di favole, la cui popolarità è attestata sin dagli inizi e che costituivano una delle prime letture scolastiche per i bambini. A noi è giunta una raccolta di circa cinquecento favole, frutto di redazioni diverse: i protagonisti sono gli animali, la narrazione è breve, lo stile è semplice e chiaro; il fine è sempre un insegnamento morale.

 

anto tempo fa, il sole e il vento litigarono tra di loro per stabilire chi fosse il più forte ed il più potente tra i due.

La faccenda stava cominciando a preoccupare un po' tutti, anche perché i contendenti erano arrivati alle maniere forti e rischiavano di farsi del male; potete immaginare che, di un sole e di un vento acciaccati, non sapremmo che farcene: come farebbe a scaldarci il sole se avesse tanti bernoccoli sulla testa? E che sollievo ci darebbe la brezza della primavera se a soffiare ci fosse un vento pieno di lividi? Era quindi evidente che bisognava trovare una soluzione…

Sembra che gli stessi dèi dell'Olimpo, riuniti tra di loro a discutere, facessero del loro meglio per convincere i due a sottoporsi ad una prova: al vincitore della gara sarebbe stato dato in premio l'onore di potersi proclamare il più forte e il più potente tra gli esseri che abitano nel cielo.

Anche se all'inizio brontolarono non poco, alla fine il sole ed il vento acconsentirono a sottoporsi a questa prova; dopo lunghissime ed interminabili trattative, venne deciso di considerare vincitore colui il quale fosse riuscito a togliere di dosso i vestiti di un viandante.

Cominciò per primo il vento, il quale iniziò a soffiare vigorosamente per tentare di strappare, con tutta la forza e la violenza di cui era capace, gli indumenti di un ignaro e sfortunato viaggiatore, che si trovava a percorrere un sentiero nelle vicinanze.

Il vento si divertiva ad agitare raffiche e mulinelli per far volare il mantello del viandante, ma l'uomo si serrava addosso i vestiti per proteggersi da quell'improvvisa ondata di gelo. Il vento allora si scagliò con ancora maggiore impeto su quel povero malcapitato, per cercare di vincere la sfida con il sole. Invano: il viandante, intirizzito dal freddo, prese un altro mantello e si serrò sempre di più addosso i vestiti. Alla fine, il vento, esausto ed esasperato da quei continui insuccessi, si allontanò con rabbia dalla scena e cedette il posto al suo rivale.

L'astro che fa risplendere le nostre giornate con i suoi raggi caldi e luminosi sfoderò un sorriso furbo e sornione, come se avesse già in mano la vittoria.

Il sole dapprima fece capolino timidamente tra le nubi e cominciò a godersi lo spettacolo; quando l'astro lucente cominciò a far scaldare i suoi raggi, il povero viandante, ancora sfinito per le terribili raffiche di vento che lo avevano tormentato sino a pochi istanti prima, cominciò a togliersi con prudenza il mantello supplementare. A questo punto il sole iniziò a splendere con più vigore: man mano che passava il tempo, il viaggiatore si rilassò e, dopo aver ripiegato il mantello, riprese a camminare con passo più sicuro e spedito.

Ben presto, però, il caldo si fece più torrido perché il sole sprigionava vampate sempre più forti: il viandante continuò a camminare per alcuni istanti ancora; non potendo più resistere a quell'afa terribile, si spogliò completamente e si tuffò nel fiume che scorreva nei pressi, per fare un bagno rinfrescante.

Il vento fu costretto ad ammettere la sconfitta e, da quel giorno, il sole poté vantarsi di essere il padrone incontrastato del firmamento; anche questo è il motivo per cui noi riusciamo a proteggerci in qualche modo dal freddo e dal gelo coprendoci bene, mentre dal caldo torrido non c'è difesa.

Fabula docet: la favola insegna che la gentilezza e la delicatezza sono spesso molto più efficaci della violenza.

 
Il sole e il vento

II
LA VOLPE E LA CICOGNA
Chi la fa l'aspetti

 

Più malinconico del solare Esopo è il latino Fedro, vissuto tra il 20 a.C. e il 55 d.C.; le poche notizie che abbiamo sulla sua vita si ricavano dalle sue opere. Portato a Roma come schiavo dalla Tracia, ancora bambino, ricevette un'educazione letteraria; fu poi assegnato alla servitù dell'imperatore, come insegnante. Per i suoi meriti fu liberato dalla condizione di schiavo e visse come liberto nella casa imperiale anche sotto Tiberio, Caligola e Claudio. È autore di cinque libri di favole; i personaggi dei racconti di Fedro sono animali che parlano il linguaggio degli uomini del tempo e ne rappresentano le tendenze e i difetti.

 

nostri antenati ci raccontano che in un'epoca lontana, quando gli animali avevano ancora il dono della parola e non si vergognavano di farsi vedere dagli uomini, una volpe volle organizzare una cena a casa propria e invitò la sua amica cicogna.

Le volpi, si sa, sono degli animali furbi per natura e riescono spesso a cavarsi dai guai grazie alla loro astuzia (anche se alcune di loro tendono a perdere la coda nelle tagliole, durante le loro scorribande; in quei casi sfortunati, il furbo animale se ne fabbrica una posticcia con la paglia, ma sta sempre sul chi vive nel timore di bruciarsela con il fuoco: insomma, come dicevano i nostri nonni… ha la coda di paglia).

Pochi sanno, tuttavia, che questo animale dal bel manto rossiccio riesce anche ad essere dispettoso e un po' indisponente.

Tutti noi ci saremmo aspettati, infatti, che la volpe preparasse per la sua ospite una cena deliziosa e, soprattutto, tenesse conto dei gusti della cicogna.

Invece, la volpe si limitò a preparare una brodaglia che venne servita a tavola su di un semplice vassoio, senza neppure una fetta di pane per poter gustare meglio la pietanza principale, né bevande per ristorarsi.

La cicogna, anche se affamata e desiderosa di provare il talento culinario dell'amica volpe, in nessun modo riuscì ad assaggiare la zuppa; il becco di questi uccelli, come è noto, è lungo e stretto per cui tentare di assaggiare quel brodo si rivelò un'impresa impossibile.

La volpe, sorniona, vedendo l'ospite in difficoltà, si limitò a finire la sua porzione in tutta tranquillità; poi, spazzolò avidamente anche il piatto della cicogna, facendo commenti ironici (e fuori luogo…) sulla mancanza di appetito del povero uccello, che tornò a casa più affamato di prima.

La cicogna fece buon viso a cattivo gioco, ma dentro di sé cominciò sin dal giorno dopo a pensare a come rendere pan per focaccia a quella amica tanto dispettosa.

Di lì a qualche giorno, comunque, l'uccello migratore (stiamo parlando sempre della cicogna, bambini; ma quando dovrete studiare la grammatica imparerete che l'italiano spesso ci impone di utilizzare parole diverse per descrivere la medesima cosa. Strana gente, gli adulti!) decise di ricambiare l'invito e, di lì a qualche giorno, invitò a cena la volpe.

L'animale dal pelo fulvo e rossiccio (non c'è bisogno che vi spieghi di nuovo il ritornello, vero? Avete capito che si tratta della volpe…), ignara del fatto che potesse esserci al mondo un animale astuto e subdolo quanto lei, accettò con entusiasmo e si presentò a casa della cicogna con l'acquolina in bocca, senza neanche avere la buona creanza di portare un mazzo di fiori o una bottiglia di vino per la padrona di casa. Dalla cucina proveniva un delizioso profumo di carne arrostita: la cicogna aveva preparato un delizioso spezzatino.

Non è possibile descrivere a parole la sorpresa della volpe quando vide in che modo era stata imbandita la tavola: la prelibata pietanza, infatti, era stata servita dentro un'anfora di vetro, dal collo lungo e stretto!

E così, mentre la cicogna grazie al suo lungo becco riuscì a degustare il cibo accuratamente sminuzzato mettendo il becco nella bottiglia e mangiando a sazietà, la meschina volpe per quanti tentativi facesse non riuscì a mettere neppure il naso nell'anfora piena di cibo che gli era stata messa davanti, soffrendo la fame per tutta la serata.

Si racconta che, mentre la volpe lambiva invano il lungo collo della bottiglia, l'uccello migratore abbia esclamato: — E sopporti molto sereno colui che mi ha dato il suo esempio!

Al povero quadrupede, alla cui astuzia la cicogna aveva risposto con altrettanta sagacia, non restò che rientrare mestamente a casa con la pancia vuota e con la coda fra le gambe (chissà se era di paglia anche quella…).

Fabula docet: la favola insegna che non bisogna nuocere; ma, se uno ti maltratta, questi va punito con un castigo appropriato.

 
La volpe e la cicogna

III
LO STATO TRIBUTARIO DEL SUD
Racconti della dinastia Tang

 

La letteratura cinese costituisce senza ombra di dubbio uno dei patrimoni più preziosi per l'umanità; in particolare, la poesia e la narrativa raggiungono il loro massimo splendore durante la dinastia Tang (618-907 d.C.), grazie anche all'apporto di una classe intellettuale di cui facevano parte i nuovi funzionari della burocrazia imperiale che, per passare l'esame di Stato, erano tenuti a cimentarsi anche nel genere letterario per fare una buona impressione sugli esaminatori. La storia che mi piace raccontare, quella del Governatore dello Stato tributario del Sud (attribuita allo scrittore Li Gongzuo), è sicuramente uno degli esempi più suggestivi della fiaba cinese.



hunyu Fen era uno dei funzionari più stimati di tutto l'impero e conduceva una vita per molti invidiabile. Aveva tuttavia il brutto vizio di bere e non di rado veniva ripreso dai suoi superiori per questo motivo: una volta venne sorpreso da un potente generale completamente ubriaco, per cui venne destituito dal suo incarico.

Tornato triste e sconsolato alla casa paterna, nei pressi della città di Yangzhou, passava le sue giornate tra bevute e divertimenti, per dimenticare le sue disgrazie.

Un giorno, Chunyu si era addormentato ai piedi di un frassino dopo l'ennesima delle sue sbronze, quando venne risvegliato da un rumore improvviso quanto inaspettato.

Aperti gli occhi, il giovane Chunyu Fen vide due messaggeri vestiti di abiti color porpora presentarsi a lui con modi assai cerimoniosi; i due si inginocchiarono e dissero di essere due inviati del regno di Frassinide: — Sua Maestà il nostro amatissimo sovrano ha inviato noi, suoi umilissimi sudditi, per invitarvi nel nostro regno.

Chunyu, senza riflettere, si vestì come meglio poteva e seguì i due messaggeri; trovò una vettura dipinta di verde trainata da quattro cavalli e scortata da otto valletti: i due inviati dal regno di Frassinide diedero i primi ordini e la vettura si diresse verso una cavità sita sotto un frassino e vi entrò dentro.

Dopo aver percorso alcune leghe, Chunyu venne condotto alle porte di una città dalle alte torri, dove fu accolto dal Primo Ministro del regno; in modo molto cerimonioso, questi affermò che era ferma intenzione del suo sovrano stringere un'alleanza tra il regno di Frassinide e la terra di Chunyu attraverso un matrimonio.

— Un umile servitore come me potrebbe osare di aspirare ad un onore così alto? — rispose il giovane con modestia ed un pizzico di imbarazzo.

Il Primo Ministro sorrise, compiaciuto del tono umile di Chunyu, e lo condusse al palazzo reale; il giovane rampollo della burocrazia cinese non poteva fare a meno di notare la magnificenza della capitale del regno di Frassinide, ricca di palazzi dai pilastri finemente lavorati, di balaustre dai colori vivaci e con giardini pieni di alberi in fiore e frutti rari.

Chunyu giunse, infine, al palazzo reale e venne accolto dal sovrano del regno, una figura alta ed imponente che indossava un vestito scarlatto e impugnava uno scettro in avorio; sopraffatto dall'onore che gli veniva tributato, il giovane non osava proferire parola ma si inginocchiò dignitosamente secondo il rituale dei burocrati dell'Impero.

Il re di Frassinide sorrise, ammirando i modi cortesi del suo ospite, e disse: — Poiché vostro padre rese dei servigi al nostro regno, è nostra volontà offrirvi in sposa la nostra seconda figlia.

Chunyu Fen non riusciva a credere alle proprie orecchie; sino a poco tempo prima era solo uno dei tanti funzionari dell'imperatore (e, per giunta, destituito) e ora gli si offriva in sposa nientemeno che la figlia di un re. Il giovane non poté che arrossire e ringraziare dell'immenso onore che gli veniva reso con quella proposta di matrimonio.

I preparativi per le nozze iniziarono ben presto; nulla venne lasciato al caso ma vennero allestiti agnelli e cigni per il banchetto; sete preziose per i vestiti; strumenti di bambù per il giorno della cerimonia; lanterne, candelabri e carrozze per accogliere gli ospiti nel modo migliore possibile. Il giorno del matrimonio, al seguito degli sposi vi erano fanciulle, paggi e dozzine di fate, che cominciarono a suonare una musica melodiosa e pura. Anche il giovane Chunyu compose dei versi per l'occasione, che vennero poi immortalati per sempre dai cantori di Frassinide:

L'amata è nel fondo del mio cuore
come potrei dimenticar l'amore!

Alla fine della cerimonia, quando gli sposi vennero lasciati finalmente soli, a Chunyu venne concesso di rimuovere il velo e di vedere il volto di sua moglie, la Principessa del Ramo d'Oro; al giovane bastò incrociare lo sguardo con la giovane fanciulla per innamorarsene subito.

Dal giorno del matrimonio in poi, l'amore tra Chunyu Fen e la principessa crebbe a dismisura: essi si amavano sempre di più via via che passava il tempo.

Il principe consorte, da allora, venne coinvolto dal suocero negli affari del regno e il suo parere venne sempre tenuto in grande considerazione per la grande saggezza che promanava dalle sue parole. Ben presto, l'imperatore di Frassinide volle rendergli omaggio affidandogli l'incarico di governatore dello Stato tributario del Sud, una provincia acquisita di recente dall'impero. Chunyu accettò con entusiasmo il nuovo incarico e si preparò a ricoprire la prestigiosa carica con umiltà e responsabilità.

Una volta giunto in quelle terre di confine con la bellissima moglie, egli cominciò a studiare la lingua e la storia di quei nuovi sudditi, cercando di risolvere tutti i problemi che affliggevano la popolazione. Chunyu Fen si occupò degli indigenti e dei malati, delle vedove e degli orfani, e per questo motivo egli venne amato e lodato da tutti gli abitanti di quella provincia, di cui egli rimase governatore per venti anni.

Con il passare del tempo, tuttavia, molte disgrazie iniziarono a funestare la vita del giovane rampollo della nobiltà di Frassinide; durante una pestilenza, infatti, la bellissima Principessa del Ramo d'Oro morì lasciando nello sconforto tutta la popolazione del Sud, che la venerava come una regina.

Venne inoltre riferita all'imperatore una terribile profezia, secondo la quale Chunyu Fen sarebbe stato causa di grandi sventure per tutto il regno; a quell'epoca, i pareri degli indovini venivano tenuti in grande considerazione per cui il sovrano di Frassinide non ebbe altra scelta se non quella di esiliare l'amato genero.
Chunyu venne condotto al di fuori dei confini dell'impero dagli stessi messaggeri che lo avevano portato nella capitale, prima delle sue nozze, percorrendo a ritroso il tragitto effettuato tanti anni prima.

All'improvviso, come riemergendo da un buco, egli rivide il suo villaggio con le medesime viuzze e le case di un tempo. Preso dalla commozione, Chunyu non poté trattenere le lacrime e si stese all'ombra di un albero per riprendere le forze; vinto dalla stanchezza e dalla intensità delle emozioni, egli si addormentò. Alcuni istanti dopo, il governatore dello Stato tributario del Sud venne svegliato da uno dei servitori della sua casa paterna: ciò che apparve incredibile a Chunyu era che, nonostante egli avesse passato più di venti anni lontano da casa, sembrava che nel suo villaggio natio non fossero passati che pochi istanti da quando era stato svegliato dagli ambasciatori dell'imperatore di Frassinide.

Chunyu dovette riflettere a lungo prima di realizzare che quello che aveva vissuto era solo un sogno…

Profondamente emozionato, il giovane non poteva fare a meno di riandare con il pensiero alle avventure che aveva vissuto: guardandosi attorno, gli ci volle poco per ritrovare il buco da cui era passato per raggiungere il regno di Frassinide, scortato dagli ambasciatori.

Preso dalla curiosità, il giovane Chunyu cominciò a scavare nei pressi di quel buco e scoprì una cavità dove viveva un'enorme colonia di formiche.

Nel formicaio vi erano tumuli di terra, simili a mura di una città; nel mezzo era stata edificata una torre scarlatta, che ricordava tanto la reggia della capitale del regno di Frassinide. Chunyu poté notare anche dei sentieri che conducevano ad altre colonie più piccole, una delle quali era straordinariamente simile allo Stato tributario del Sud.

Chunyu capì che, per magia, aveva vissuto tutto quel tempo nel regno delle formiche; comprese allora il vero significato del suo sogno e la vanità della vita: si convertì al taoismo e da allora rinunciò per sempre al piacere del vino.

Prima di morire, Chunyu decise di confidare tutti gli avvenimenti legati al regno di Frassinide al suo amico Li Gongzuo, il quale ne rimase talmente affascinato da volerli mettere per iscritto. Si narra che, dagli insegnamenti tratti da questa storia, prese ispirazione un noto poeta cinese che gli dedicò questi versi:

Giunga al cielo la buona reputazione,
la sua influenza faccia crollare
i regni nemici;
pompa e potere agli occhi del saggio sono
come delle formiche il brulicare.

Il Taoismo è una delle tre religioni fondamentali della Cina, insieme con Buddhismo e Confucianesimo e deriva dagli insegnamenti del filosofo Laozi. Secondo questa corrente di pensiero all'origine di ogni cosa vi è il Dao, da cui derivano i due opposti Yin e Yang. L'essere umano deve tendere al miglioramento del proprio io, tramite l'isolamento dalla vita sociale, praticando il non-agire, e cercando di raggiungere in questo modo l'immortalità. A Laozi viene attribuita la famosa massima: «Quello che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo chiama farfalla».

IV
LE MILLE E UNA NOTTE
Notti e profumi d'Oriente

 

Le Mille e una notte (titolo originale in arabo: Alf layla wa layla; la prima stesura viene fatta risalire al X secolo dell'era cristiana) è il classico della letteratura orientale più conosciuto al mondo.
Alcuni dei personaggi che animano i racconti di questo preziosissimo volume fanno ormai parte dell'immaginario di tanti bambini del mondo, come Alì Baba e i quaranta ladroni, Aladino e la sua lampada magica, Sindbād il marinaio...
Non tutti, però, ricordano che anche il filo conduttore dei racconti narrati nelle
Mille e una notte può essere letto come una storia a sé stante, tra le più belle mai raccontate: e parla di Shahrazād, la «tessitrice delle notti».


i racconta che un tempo regnavano nelle isole dell'India e della Cina Interna due fratelli, che avevano nome Shahriyār (il maggiore) e Shahzamān (il minore). I due regni erano talmente vasti che i due fratelli non poterono vedersi per anni, impegnati com'erano a sottomettere del tutto i popoli che abitavano i territori conquistati.

Un giorno Shahriyār provò il desiderio di rivedere l'amato fratello, che dimorava nella città di Samarcanda; per questo motivo egli incaricò il suo visir di consegnare un messaggio a Shahzamān e di convocarlo presso la propria corte.

Il visir fece i preparativi per il viaggio e quindi si mise in cammino, assieme al suo seguito: dopo giorni e giorni, arrivò finalmente in vista di Samarcanda e lì piantò il proprio campo.

Shahzamān nominò uno dei suoi notabili affinché esercitasse il potere in sua assenza e andò incontro alla delegazione del fratello, accogliendolo con tutti gli onori: egli offrì in dono al visir cavalli, cammelli, provviste, foraggio e quanto necessario per il ritorno; poi fece ritorno a casa per congedarsi dalla sposa e preparare il viaggio che lo avrebbe condotto dall'amato Shahriyār.

Quando Shahzamān tornò nei suoi appartamenti, grande fu la sua sorpresa nello scoprire che la moglie lo stava tradendo con un servo delle cucine. Sconsolato, egli uscì immediatamente da Samarcanda con il seguito dei suoi servi più fidati, raggiunse il visir e diede il segnale per la partenza al rullo dei tamburi. Dopo avere attraversato steppe e deserti per giorni e giorni i carovanieri giunsero finalmente nel paese del re Shahriyār, il quale venne incontro al fratello per abbracciarlo, non appena i suoi occhi riuscirono a scorgerlo in lontananza.

Shahriyār possedeva un enorme giardino, ai margini del quale aveva fatto costruire dei palazzi meravigliosi e confortevoli: lì venne fatto alloggiare Shahzamān, il quale tuttavia non poteva fare a meno di ripensare al tormento che sua moglie gli aveva causato e ne soffriva segretamente, emettendo ogni giorno profondi sospiri. Colpito dall'enorme turbamento del fratello, che languiva e si consumava sempre di più, Shahriyār tentò di comprendere la causa di tanta infelicità ma non riuscì a convincere Shahzamān a confidargli la sua pena.

Il caso volle che, di lì a poco, anche Shahriyār scoprì le infedeltà della moglie: fu lo stesso Shahzamān a scoprire, per puro caso, che giovani e prestanti uomini avevano continuo e libero accesso nell'harem del fratello e amoreggiavano con la consorte del sovrano e con le ancelle. Amaramente deluso per il tradimento della moglie, Shahriyār la ripudiò e, per un certo periodo, si ritirò in esilio volontario nel deserto assieme al fratello, al fine di poter ritrovare nella pace e nel silenzio di quella natura così selvaggia ed estrema le motivazioni per continuare a vivere mantenendo la fiducia nel prossimo, senza timore di essere nuovamente deluso.

Al contrario, il soggiorno nel deserto non fece che rafforzare in Shahriyār e Shahzamān l'odio mortale per l'intero genere femminile. I due fratelli si lasciarono abbracciandosi con affetto e tornarono ciascuno al proprio regno, promettendosi a vicenda di non farsi trascinare più nel vortice della passione amorosa, che tanta sofferenza aveva provocato nei loro cuori.

Shahrazād (1907)
Disegno di Edmond Dulac

Tornato in patria, Shahriyār ordinò al proprio visir di condurre al proprio cospetto ogni giorno una donna diversa: il sovrano avrebbe passato tutta la notte con lei e la mattina seguente ne avrebbe ordinato l'esecuzione. Cominciò, così, per i sudditi dell'impero, uno dei periodi più tristi che la storia avrebbe ricordato; la strage delle donne innocenti continuò per ben tre anni, sino a quando la bella e saggia figlia del visir, Shahrazād, non si offrì di passare la notte con il re dicendo al padre: — Ho deciso: o rimarrò in vita, o sarò il riscatto delle vergini musulmane e la causa della loro liberazione.

Il saggio visir cercò di dissuadere in tutti i modi la figlia, ma Shahrazād fu irremovibile: per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato ad essere la donna del sovrano. Vinto dalle argomentazioni e dagli ideali della figlia, il visir non poté impedire che Shahrazād venisse promessa al sommo Shahriyār. Per non essere messa a morte dal vendicativo re, Shahrazād inventò un astuto stratagemma: dopo aver trascorso la sua prima notte a palazzo, infatti, ella scoppiò a piangere davanti al sovrano.

Richiesta dal re Shahriyār il motivo di tanta tristezza, la giovane fanciulla disse di avere tanto a cuore la sorella minore, abituata ogni sera ad ascoltare una favola prima di addormentarsi. Shahriyār, dimenticato per un attimo il suo odio per l'intero genere femminile, acconsentì a che la sorella minore venisse accolta a palazzo per ascoltare la favola narrata dalla bella Shahrazād.

E Shahrazād cominciò a raccontare…

La giovane e saggia fanciulla iniziò a narrare una storia così affascinante che lo stesso re Shahriyār rimase ad ascoltare: quando la luce dell'alba rischiarò di nuovo la capitale del regno, il racconto non era stato ancora terminato.

Shahrazād chiese allora la grazia di poter completare la storia la notte successiva: il re Shahriyār, contravvenendo ai suoi principi (che gli imponevano di liberarsi della propria favorita ogni notte), pur di ascoltare il finale di quel racconto tanto avvincente acconsentì.

Quella notte, Shahrazād fu particolarmente attenta a tenere ben desta l'attenzione del sovrano con i suoi racconti straordinari ed ebbe cura di tenere ancora una volta in sospeso il finale al sorgere del sole. Ancora un volta, la curiosità del re Shahriyār ebbe la meglio sul suo desiderio di vendetta nei confronti delle   donne, per cui anche la notte successiva a Shahrazād venne consentito di proseguire la narrazione…

E così, la «tessitrice delle notti» continuò ad ammaliare la mente del sovrano per molte volte ancora, avendo cura di rievocare tanti racconti ora collegati tra di loro come anelli di una collana, ora rinchiusi l'uno nell'altro, come in un sistema di scatole cinesi.

Shahrazād riusciva sempre a tenere alta l'attenzione di chi ascoltava: l'abile arte della narrazione gli consentiva infatti di iniziare sempre una nuova storia nella storia, tenendo in sospeso il finale; trame e scenari si succedevano senza posa e il sovrano non poteva fare a meno di rimanere totalmente avvinto e soggiogato dalla voce di Shahrazād e di chiederle di proseguire la notte successiva.

E Shahrazād «continuò in tal modo a dipanare il filo dei suoi racconti, interrompendolo alla fine di ogni notte e riprendendolo nel corso della notte successiva, sempre con il permesso del re».

Quando Shahrazād esaurì l'ultimo dei suoi racconti, erano trascorse ormai ben mille e una notte da quando la tessitrice delle notti aveva iniziato a narrare favole al re Shahriyār; il sovrano, tuttavia, aveva ormai dimenticato l'antico odio per le donne: il tempo e la fantasia l'avevano completamente riconciliato con la vita. Grato alla bella fanciulla per la sua nobiltà e la sua gioia di vivere, Shahriyār decise di sposarla e annunciò pubblicamente la data delle sue nozze. L'esultanza di tutti si propagò dal palazzo del re sino agli angoli più remoti suo impero.

Vennero organizzati festeggiamenti a spese del sovrano per trenta giorni; tutti avevano sulla bocca il nome della bella Shahrazād, che aveva salvato sé stessa, le fanciulle del regno, la felicità del sovrano e dei suoi sudditi. E così tutti vissero nel benessere, nel piacere, nella felicità e nell'allegria poiché da quel giorno la generosità del sovrano non mancò di beneficare sino all'ultimo abitante del regno.

V
RACCONTI DEL SAGGIO SYNTIPAS
Novelle Bizantine

 

Poco conosciuta anche dagli addetti ai lavori, questa raccolta di favole scritta nell'XI secolo da un dotto bizantino recepisce lo schema della «fiaba nella fiaba», tipico della narrativa orientale. Il narratore, il saggio filosofo Syntipas, racconta per sette giorni e sette notti una serie di novelle, che hanno come tema comune l'astuzia (soprattutto quella femminile). Tradotta dal siriaco e forse passata attraverso successive redazioni arabe e persiane, questa raccolta di epoca bizantina fornisce nuova linfa per conoscere un mondo che, per mille anni, è stato il ponte tra Oriente ed Occidente.



n vecchio e ricco mercante dell'Asia Minore, venuto a sapere che in una cittadina dell'Anatolia vi era carenza di legname aromatico, decise di comprarne una grossa partita per venderla ad un prezzo conveniente. Giunto a destinazione, venne fermato davanti alle mura della città dalle guardie del Sultano, che ispezionarono il carico delle mercanzie.

Prima di proseguire con la narrazione, però, è necessario che io vi spieghi che tutti gli abitanti di quella cittadina erano soliti turlupinare il prossimo con truffe o stratagemmi vari; loro unico scopo sembrava quello di estorcere denaro agli stranieri, ignari di un modo di fare tanto villano.

Nulla di strano, quindi, che una delle guardie andasse a riferire ad una delle persone più in vista della città dell'arrivo di un mercante. In breve tempo, la voce si sparse per ogni dove e i mariuoli del posti si ingegnarono per giocare un tiro mancino al nuovo venuto. Non appena giunto nella piazza del mercato, infatti, il vecchio venne avvicinato da un giovane nobile, dall'aria scanzonata ma arrogante.

— Che cosa vendi, mercante? — chiese il ragazzo in modo sprezzante.
— Legno aromatico e pregiato dal Libano — rispose educatamente il vecchio.
— Stai scherzando, vero? — esclamò il nobile: — Nella nostra città il legno aromatico è così abbondante che lo usiamo per accendervi il fuoco: non senti il profumo che viene dalle case vicine?

E in effetti, i complici del mariuolo (perché di altri non si trattava) avevano provveduto ad accendere il fuoco in tutti i camini posti nelle vicinanze, avendo cura di collocare ceppi di legno aromatico nella brace. Il vecchio mercante, avvilito, si convinse di avere fatto un viaggio completamente inutile e venne preso dallo sconforto; con fare apparentemente distaccato, gli venne in soccorso il finto nobile che si offrì di acquistare tutto il carico in cambio di un modesto corrispettivo. — Qualunque cosa tu voglia, te ne darò un piatto pieno; vieni domattina in piazza per riscuotere quanto ti devo — disse il giovane.

A questo punto, al vecchio non restò che fare due passi, malinconicamente, tra i vicoli della cittadina e cercare un alloggio per la notte. Giunto ad un crocevia, il mercante notò alcuni abitanti che si stavano cimentando in una gara di indovinelli; forse per distrarsi o forse perché attratto dall'ebbrezza del gioco, il vecchio chiese di partecipare proprio quando la gente aveva cominciato a scommettere piccole somme di denaro.

Anche questa volta, tutto era stato orchestrato per turlupinare il malcapitato forestiero: il mercante ebbe la peggio nella gara ed il vincitore poté esclamare: — Entro domani, dovrai darmi tutti i soldi che hai oppure sarai costretto a bere tutta l'acqua del mare. — Così, ancora un volta il mercante dovette andarsene con la coda tra le gambe tra le risate a profusione degli astuti abitanti del posto.

Ma le disavventure del vecchio non erano ancora finite: aveva appena concordato il prezzo del vitto e dell'alloggio per quella notte con la proprietaria di una locanda, quando l'ennesimo mascalzone si parò davanti a lui con aria minacciosa: — Tu mi hai rubato con l'inganno il mio occhio sinistro! Domattina ti trascinerò in Tribunale per farmelo ridare per amore o per forza. — Effettivamente il mariuolo aveva un unico occhio azzurro, dello stesso colore di quelli del mercante.

Al povero vecchio non restò che consumare un pasto sobrio in completa solitudine, rimuginando sulle disgrazie che gli erano capitate e su quello che lo attendeva la mattina dopo. Mentre assaggiava uno stufato di agnello con verdure, la locandiera ne ebbe compassione e cominciò a parlare con lo straniero.

Dopo aver preso un po' di confidenza, il mercante sussurrò: — Brava donna, ma è vero che da queste parti il legno aromatico è così abbondante che lo utilizzate per accendere il fuoco?

La locandiera non ebbe il cuore di mentire a quel forestiero, già abbondantemente bistrattato dai suoi concittadini.

— In realtà, straniero, da noi quel tipo di legname è molto raro e per questo vale più dell'oro — sussurrò la donna: — Vero è, invece, che nel nostro paese l'unico scopo degli abitanti sembra essere quello di ingannare gli stranieri. I peggiori furfanti della città si riuniscono ogni sera alla Gilda dei ladri, per discutere davanti al Grande Maestro delle loro imprese: le malefatte meglio riuscite vengono addirittura premiate.

Il mercante capì allora di essere stato turlupinato, ma non si perse d'animo; dopo aver finito con gusto la sua cena, si travestì da mendicante e cominciò ad aggirarsi in mezzo ai vicoli della città, alla ricerca della Gilda.
Ci volle ben poco, in verità, per riuscire a trovare il famigerato covo in cui tutti i mariuoli del posto si riunivano al calar della sera per rievocare le scellerate imprese della giornata trascorsa. Il caso volle che, proprio in quel momento, si stava vantando della sua truffa l'arrogante nobile che gli aveva sottratto tutto il carico ad un prezzo così ridicolo.

Il Gran Maestro sorrideva ed approvava, ma non volendo dare più di tanta soddisfazione a quel giovane allievo, commentò: — Una truffa ben organizzata, non c'è che dire. Certo, promettendogli un piatto colmo di tutto ciò che desidera quel mercante, ti sei esposto ad un rischio. Pensa se ti chiedesse di riempirlo con delle pulci azzurre, di cui metà maschi e metà femmine. Riusciresti ad esaudirlo?

Uno scroscio di risate accompagnò il commento del capo di quella ignobile marmaglia di truffatori. Di lì a poco fu il grande esperto di indovinelli a raccontare delle sue imprese, enfatizzando in particolar modo la minaccia che incombeva sul povero mercante, se non avesse sborsato tutti i soldi che aveva: bere tutta l'acqua del mare.

Anche questa volta il Gran Maestro ebbe parole di lode per il suo adepto, ma non poté evitare di fare il proprio commento: — Una bella impresa, nulla da eccepire. Purché lo straniero non sia così scaltro da chiedere a te di separare le acque dei fiumi da quella del mare, per essere sicuro di bere unicamente acqua marina. Non sarebbe certo una cosa facile….

Ancora una volta i risolini ironici non mancarono, in segno di approvazione per le parole del capo della Gilda.

Venne quindi il turno dello sfrontato accusatore, che avrebbe trascinato il medesimo mercante in Tribunale per farsi restituire l'occhio sinistro. In questa occasione il Gran Maestro fissò tutti gli altri membri della combriccola con un cipiglio severo. Poi, rivolgendosi al finto promotore di cause, così esclamò: — Sei stato imprudente a comportarti così. Pensa se domani ti chiedessero di staccare il tuo occhio e di esaminarlo per verificare se è veramente dello stesso peso e della stessa misura di quello che reclami. Sapresti trarti d'impaccio?

Il mercante decise che aveva già sentito abbastanza e non volle sentire ulteriori commenti; si allontanò alla chetichella e tornò alla sua locanda dove dormì il sonno del giusto.

L'indomani, il vecchio si svegliò alle prime ore del mattino e si incamminò subito, di buona lena, alla piazza del mercato, dove ad attenderlo c'erano il giovane che si era spacciato per nobile, il vincitore della gara di indovinelli e colui che avrebbe reclamato il suo occhio in Tribunale.

Il mercante diede subito una pacca sulla spalla al giovane cui aveva venduto il suo carico di legname e, con naturalezza, disse: — Sono venuto a riscuotere il prezzo pattuito. Perciò, ti sarei grato se mi facessi avere un piatto pieno di pulci azzurre, di cui metà maschi e metà femmine.

Mentre il secondo mariuolo si avvicinava a richiedergli tutti i soldi che aveva, il vecchio lo fissò con uno sguardo di insofferenza, che lasciava sottintendere che aveva cose più importanti da fare: — Ho deciso che berrò tutta l'acqua del mare. Prima, però, mentre sbrigo un affaruccio con questo tuo concittadino, ti spiacerebbe separare l'acqua del mare da quella dei fiumi? Mi dispiacerebbe bere l'acqua sbagliata…

Il mercante si avvicinò quindi all'ultimo dei tre che aveva cercato di imbrogliarlo e con il tono più candido ed onesto di cui era capace, disse: — Non sia mai detto che io venga accusato di aver sottratto ingiustamente un occhio a chicchessia. Pertanto, proporrò al Tribunale di mettere su di una bilancia il mio occhio e il tuo; se dovesse risultare che hanno la stessa forma e lo stesso peso, allora ammetterò che appartengono a te e ti restituirò quello che ti ho ingiustamente sottratto.

I tre briganti compresero che quel vecchio era evidentemente più scaltro di quello che appariva a prima vista.

Vista la mala parata, al mercante venne offerto un corrispettivo in oro pari al valore effettivo del carico che aveva portato con sé per la vendita…. purché si togliesse di torno al più presto! Questi accettò volentieri il gruzzolo che gli veniva proposto e tornò nelle coste dell'Asia Minore più ricco e più saggio di prima.

VI
IL NOVELLINO
Racconti dal Medioevo

 

Il Novellino è una raccolta di storie brevi risalente alla fine del Duecento, redatto da un autore ignoto (probabilmente di origine fiorentina). L'opera si compone di cento novelle, scelte dal compilatore da una raccolta più ampia; la maggior parte di esse è tratta da fonti più antiche. I protagonisti delle novelle sono tratti dalla Bibbia, dalla mitologia classica e dalla storia antica e recente.



1. La tolleranza religiosa (Novellino, LXXIII)

'era una volta, in un'epoca molto lontana, un potente sovrano noto come il Sultano, il quale regnava su un territorio talmente grande che i suoi sudditi praticavano fedi religiose diverse: alcuni di loro si professavano Ebrei e riconoscevano l'autorità di un libro sacro chiamato Antico Testamento; altri, invece, venivano chiamati Musulmani e ritenevano che la volontà divina fosse stata trasmessa ai fedeli nel Corano; i Cristiani, infine, riconoscevano l'autorità del Vangelo perché in questo testo era stato raccolto il messaggio del Figlio di Dio.

Orbene, il Sultano aveva la perenne necessità di raggranellare soldi per le casse dello stato, poiché amava organizzare lussuosi ricevimenti per i suoi illustri ospiti. Alcuni dei suoi cortigiani gli suggerirono di rivolgersi ad un famoso mercante ebreo, le cui ricchezze erano note in tutto l'impero.

Il Sultano, musulmano e amante delle dispute teologiche, convocò a corte il suo suddito e gli domando quale fosse, secondo lui, la migliore delle religioni. In tal modo, il sovrano pensava: — Se il mercante risponderà che la fede migliore è quella ebraica, potrò dire che egli pecca gravemente contro il culto professato dal suo sovrano e gli confischerò i beni: se, invece, dirà che la religione più importante è quella musulmana, lo accuserò di empietà perché in pubblico professa la fede ebraica e, anche in questo caso, gli requisirò il suo patrimonio.

Il mercante, dopo aver udito la domanda del suo sovrano, soppesando le parole così rispose: — Maestà, vi racconterò un aneddoto. C'era una volta un padre di tre figli, il quale possedeva un anello con una pietra preziosa: la migliore del mondo. Poiché tutti e tre pregavano il padre affinché gli venisse lasciato in eredità questo anello, questi andò da un valente orafo e gli chiese di fabbricare due anelli uguali a quello che possedeva. L'artigiano fece un lavoro così raffinato, che nessuno sarebbe stato in grado di distinguere le copie dal gioiello originale. Il padre chiamò i figliuoli separatamente, donando a ciascuno un anello con la raccomandazione di non farne parola con gli altri fratelli. Alla fine, ognuno dei figli si era persuaso di possedere l'anello vero, ma in realtà nessuno conosceva la verità tranne il padre loro. Maestà, allo stesso modo avviene oggi per le religioni: le fedi sono tre; il Dio che ce le diede sa quale sia la migliore, e i figliuoli (che siamo noi) sono tutti convinti di possedere quella autentica. A noi altro non resta che custodire con affetto il dono che ci è stato trasmesso da nostro padre.

Il Sultano, dopo aver ascoltato l'arguta risposta del mercante, non seppe più che dire e lo lasciò andare.



2. L'adulazione (Novellino, XXIV)


Il potentissimo imperatore Federico II di Svevia, sovrano di tutto il mondo cristiano e grande cultore delle arti e del diritto, aveva due consiglieri famosi per la loro proverbiale saggezza: il primo si chiamava messer Bolghero, mentre l'altro aveva per nome messer Martino.

Un giorno Federico stava passeggiando tra i portici del suo castello in compagnia di questi due saggi; poiché l'imperatore aveva sentito il desiderio di disquisire di diritto proprio in quel momento, pose ai propri fidati consiglieri il seguente quesito: — Signori, secondo la legge potrei io togliere ai miei sudditi ciò che voglio senza spiegarne il motivo se non che io sono il loro signore? In fondo, non si insegna che ciò che piace al sovrano debba essere legge per i propri sudditi? Fatemi sapere ciò che ne pensate, perché la questione mi interessa moltissimo.

Il primo dei due giuristi così rispose: — Maestà, l'imperatore può fare dei beni dei propri sudditi ciò che più gli aggrada, senza che gli si possa muovere alcun rimprovero.

L'altro, invece, argomentò: — A me non sembra che le cose stiano così, perché la legge si basa sulla giustizia e ai suoi principi occorre conformarsi. Se fosse vostra intenzione togliere qualcosa ai vostri sudditi, essi vorranno sapere il perché.

L'imperatore Federico sembrò apprezzare entrambi i pareri e perciò fece un dono ad ambedue i consiglieri: al primo donò un cappello scarlatto e un palafreno bianco, all'altro invece venne richiesto di redigere una legge secondo la propria coscienza.

Tra i nobili facenti parte del seguito dell'imperatore si discuteva in maniera appassionata per stabilire a chi fosse stato fatto il dono più prezioso, ma nessuno sembrava trovare l'argomento decisivo.

Alla fine, fu lo stesso Federico a spiegare il suo comportamento: semplicemente, a colui che lo aveva adulato egli aveva fatto dono di un cappello e di un cavallo, come si è soliti fare con i giullari; a colui il quale aveva dimostrato di perseguire l'ideale della giustizia, il sovrano aveva invece chiesto di scrivere una legge.

VII
FIABE IRLANDESI
Dal patrimonio dell'isola di Erin

 

Molte delle leggende ispirate al pantheon celtico sono oggi scomparse a seguito dell'avvento del Cristianesimo, che vedeva nella religione dei druidi un serio pericolo per la diffusione del nuovo credo. Solamente i racconti che hanno abbandonato pretese teologiche e cosmogoniche, riparando nel più tranquillo mare del folklore, sono riuscite a sopravvivere all'erosione del tempo, regalandoci alcuni tra i tesori più preziosi della favolistica mondiale. Non è inutile osservare che, in questo modo, molte delle divinità della religione celtica hanno perso via via il loro carattere sacro per mantenere solo quello più rassicurante, vale a dire quello più propriamente fiabesco: esseri un tempo divini come gli elfi, le fate e i folletti sono divenuti protagonisti di racconti fantastici, che affascinano ancora oggi. Particolarmente intriganti sono le fiabe gallesi ed irlandesi, con le loro suggestioni magiche e il loro continuo legame con il meraviglioso.



1. La pietra da minestra

'era C'una volta un povero mendicante che andava di paese in paese cercando di trovare il modo di riempire lo stomaco con un pasto caldo.

Un giorno il vagabondo pensò che una bella minestra gli avrebbe fatto proprio bene, ma non aveva neppure un penny in tasca; mentre stava camminando lungo un fiume, si guardò intorno e vide una bella pietra tonda, che sembrava una mela; improvvisamente ebbe un'idea.

Cercò una fattoria nelle vicinanze e bussò; ad aprire la porta venne una contadina. Il mendicante tentò la sorte e le chiese una pentola e dell'acqua pulita. Quando ottenne quanto aveva richiesto, il vagabondo cominciò a lavare la pietra sino a renderla splendente.

La contadina, stupita, chiese il motivo di tanta cura per quella pietra, al che il mendicante rispose: — Gentile signora, ma questa pietra è molto rara e preziosa: è una pietra da minestra.

La donna domandò: — Ma che cosa dite? Forse che con questa pietra si può cucinare una minestra?

— Certamente — rispose il medicante. — E anche una minestra particolarmente saporita.

La contadina, meravigliata, disse: — Mi insegnereste a preparare questa minestra con la pietra?

— Ma con grande piacere, gentile signora — rispose il povero affamato, che gettò via l'acqua sporca dalla pentola, che mise poi sul fuoco versandovi sopra acqua fresca; con solennità, vi pose all'interno la pietra.

Il vagabondo, a questo punto, mormorò: — Un pizzico di sale e pepe non guasterebbero. — La contadina corse a prendere la spezie.

— Si potrebbe anche aggiungere un po' di farina — disse il vagabondo con noncuranza. La contadina andò a prendere anche la farina e si mise a guardare la pentola, in attesa.

Il mendicante a questo punto esclamò: — Ecco un bell'osso di montone, che voi sicuramente volevate dare al cane; vediamo di valorizzarlo.

In realtà la contadina non aveva nessuna intenzione di darlo al cane ma era così presa dalla ricetta della pietra da minestra che non vi badò.

Il vagabondo girò con cura la minestra con il mestolo e l'assaggiò: — Buona e sostanziosa! Ora mancano solo due patatine, per ingannare l'attesa. — Prese una mezza dozzina di patate, le sbucciò, le fece a pezzi e le buttò nella pentola.

Il mendicante assaggiò di nuovo e disse: — La minestra sta venendo benissimo, grazie alla pietra; per dare un tocco di classe, avrei bisogno ora di un paio di cipolle.

La fattoressa, sempre più sorpresa, gli dette le cipolle che finirono nella pentola.

Il vagabondo esclamò, raggiante: — Ecco, la minestra è pronta; volete assaggiarne un po'?

La contadina rispose: — Certo… ma è veramente deliziosa. Che miracoli può fare una pietra da minestra! Me la vendereste, buon uomo?

Il povero affamato, con fare magnanimo, disse mentre mangiava a sazietà la minestra: — Ve la regalo, gentile signora. — Le sue membra intirizzite cominciavano a riscaldarsi, infine.

La contadina esclamò: — Ma come siete buono! Almeno accettate anche voi un regalo: un po' di tabacco, un pezzo di lardo…

Il vagabondo finì la minestra, accettò i regali e disse: — Grazie, signora. Ma ora devo andare: devo insegnare alla gente come si usa la pietra da minestra.

La donna, ingenua, ricordando bene la ricetta che gli aveva insegnato il mendicante, continuò a preparare la minestra nello stesso modo anno dopo anno e si vantava con le sue amiche di possedere una pietra portentosa. La minestra venne sempre squisita e tutte le sue vicine la invidiavano pensando che era proprio fortunata a possedere un oggetto magico così meraviglioso.

 

2. La parte del campione

Cú Chulainn in battaglia
Disegno di Joseph Christian Leyendecker.
(Rolleston 1911).

L'assegnazione della «parte del campione» era un rituale assai noto nella mitologia celtica; in occasione di solenni banchetti, l'onore di tagliare la carne arrostita e di tenere per sé le parti più pregiate era riservato a quello che veniva riconosciuto essere il migliore tra i guerrieri.

La tradizione, apparentemente innocua, poteva tuttavia diventare estremamente pericolosa se a partecipare al banchetto erano clan differenti, a volte divisi tra di loro da antiche inimicizie o rivalità. In tali casi, ciascuno dei guerrieri più valorosi reclamava per sé l'onore di poter tagliare la carne, sostenuto dagli uomini del suo seguito: non di rado, dalle vanterie e dalle schermaglie si passava direttamente alle vie di fatto e il banchetto degenerava in una feroce rissa.

Si narra che, tra il popolo degli Ulaid , vi erano tre eroi (Cú Chulainn, Conall Cernach e Lóegaire Búadach) in grado di aspirare alla parte del campione.

Un nobile degli Ulaid famoso per le sue doti di provocatore, il vecchio Bricriu dalla Lingua Velenosa, incitò i tre guerrieri a competere tra di loro per stabilire, una volta per tutte, a chi toccasse la portata migliore nei banchetti.

Vennero così organizzate delle prove di forza e coraggio tra i tre eroi per decidere chi fosse il migliore, ma nessuna di esse risultò decisiva; il re Conchobor cominciava a preoccuparsi, perché gli animi si stavano scaldando un po' troppo per i suoi gusti e gli Ulaid non potevano permettersi il lusso di perdere uno dei loro tre guerrieri più valorosi per una faida intestina.

Il re degli Ulaid si rivolse allora ai sovrani della provincia vicina (il Connacht) affinché essi eleggessero il migliore: ma questi preferirono evitare di farsi coinvolgere in questa diatriba e si limitarono a donare una coppa in metallo prezioso a ciascuno dei tre contendenti.

Alla fine toccò a Cú Roí mac Dáire, un terribile e spaventoso gigante nativo del Mumu, risolvere la situazione.

Cú Roí fece visita alla corte degli Ulaid travestito da villano: «Aveva un aspetto pauroso e terribile; portava sulla pelle un indumento di cuoio ed era avvolto in un mantello scuro… ognuno dei suoi occhi gialli era grande quanto un paiolo per cuocere un bue».

Brandendo un enorme scure, il gigante sfidò ciascuno dei tre eroi a decapitarlo, ma ad una condizione: chiunque avesse osato tagliargli la testa, in caso di fallimento si sarebbe sottoposto allo stesso trattamento il giorno dopo.

Lóegaire il Vittorioso prese allora in mano la scure del gigante (che mise tranquillamente la testa sul ceppo) e vibrò un terribile colpo. La testa di Cú Roí rotolò sino ai piedi del focolare. Grande fu la meraviglia quando il gigante si rialzò, anche se decapitato: raccolse la testa e la scure e, pur grondante di sangue, lasciò la dimora degli Ulaid.

La sera seguente Cú Roí tornò a reclamare il suo diritto di mozzare la testa di Lóegaire, che tuttavia non si fece vedere. Allora il gigante legò al medesimo patto Conall il Trionfatore, il quale riuscì a staccare di netto la testa del suo avversario; ancora una volta, tuttavia, Cú Roí raccolse tranquillamente la sua testa e se ne andò senza problemi. Anche Conall, al pari di Lóegaire, non tenne fede alla parola data e non si presentò al banchetto degli Ulaid la sera dopo.

Cú Roí cominciò allora a schernire Cú Chulainn, sfidandolo a compiere quello che i suoi rivali non erano riusciti a portare a termine; preso dall'ira, il guerriero irlandese si avventò sul gigante e gli assestò un colpo che sembrava fatale; la testa andò a sbattere contro le travi del tetto della dimora degli Ulaid e cadde a terra; Cú Chulainn diede un ulteriore colpo di scure alla testa e la fece in pezzi. Nonostante questo, ancora una volta il terribile mostro travestito da villano riuscì a rialzarsi…

La sera dopo, tutti i guerrieri erano assai rattristati e avevano già cominciato ad intonare il lamento funebre per Cú Chulainn; questi rispettò la parola data e si presentò al banchetto per offrire il collo all'ascia del gigante. Cú Roí alzò la scure e si preparò a vibrare il colpo mortale; il sibilo dell'arma affilata era simile allo stormire degli alberi di una foresta in una notte di vento.

Il gigante abbassò quindi la scure sul collo del coraggioso guerriero, ma con la lama rivolta verso l'alto; quindi esclamò: — Àlzati, Cú Chulainn! Tra tutti i guerrieri dell'Ulaid e di Ériu nessuno ti è pari per coraggio, abilità e onore. Tu sei il primo eroe d'Irlanda e nessuno potrà contenderti la parte del campione.

Da quel giorno, la fama del grande Cú Chulainn non venne mai più messa in discussione e fu celebrata da tutti i bardi dell'isola.

Simili sfide di decapitazione si ritrovano nella mitologia indù e nella letteratura medievale; si ricorda, tra tutte, la leggenda narrata in Sir Gawain e il Cavaliere Verde (si veda la celebre traduzione di J.R.R. Tolkien, pubblicata in Adelphi 1986).

VIII
I TRE FRATELLI
Fiabe dalla remota India

 

Il patrimonio fiabesco dell'India, noto a noi occidentali anche grazie al filtro della letteratura araba (che, soprattutto nelle Mille e una notte, attinge a piene mani dal patrimonio letterario del subcontinente asiatico), è in realtà in gran parte ancora tutto da scoprire. Le favole dell'India si ispirano al mondo della natura, senza trascurare creature fantastiche e personaggi umani. L'incanto ed il mistero del panteismo indiano, che venera tutte le forme di vita come espressione dell'Uno-Tutto cui dobbiamo ricongiungerci, permea anche la letteratura popolare, di cui i racconti che seguono costituiscono solo un piccolo esempio.



1

'era una volta, nella lontana India, un re molto famoso per il suo senso della giustizia e per l'amore nei confronti dei suoi sudditi. In quel tempo, i sovrani venivano chiamati con il nome di moġūl e il più famoso tra tutti fu Jalāl ud-Dīn Muḥammad Akbar, che per comodità noi chiameremo semplicemente con il nome di Akbar.

Tutta la popolazione lo amava e gli tributava grandi onori, acclamandolo e gridando il suo nome in pubblico: — Allahu Akbar!

Tale invocazione, è bene dirlo, aveva un duplice significato: se pronunciata nella lingua dei musulmani, una delle comunità più numerose dell'India, essa significa: «Dio è grande» e pertanto aveva anche un suo connotato religioso; nella lingua hindī, parlata dalla maggior parte della popolazione, può essere interpretata anche come: «Akbar è un dio» e come tale essere accettata da tutti quanti amavano il sovrano.

Il grande moġūl aveva al suo seguito un ministro che lo aveva servito fedelmente per molto tempo ma che era ormai molto avanti negli anni e aveva espresso il desiderio di ritirarsi a vita privata, ragion per cui Akbar gli chiese se, per caso, poteva indicargli il nome di un possibile successore, possibilmente all'interno della sua stessa famiglia.

Il ministro ci pensò per un po' e poi disse: — Mio Sovrano, innanzi tutto vi ringrazio per il grande onore che intendete concedere alla mia famiglia. Tuttavia, per potervi rispondere in maniera adeguata, è per me fondamentale comprendere che cosa vi aspettate dal vostro prossimo visir. I miei tre figli, infatti, sono tutti quanti persone fidate ma hanno caratteri completamente diversi: il primo è forte e temerario, il secondo è sottile ed intelligente, il terzo invece è onesto e sincero.

Akbar rimase stupito della sicurezza con cui il suo visir parlava dei suoi figli ma, per dirla tutta, dubitava che questi li potesse conoscere così bene; avendo percepito un certo scetticismo, il ministro del re chiese di essere messo alla prova e il moġūl non poté esimersi dall'accettare.

Il visir chiamò quindi in separata sede i suoi tre figli e domandò loro di cogliere per lui una rosa dai giardini del sultano: per capire meglio quanto fosse anomala una tale richiesta, dovere sapere che entrare nella dimora del sultano per sottrarre una qualsiasi delle sue proprietà era considerato un reato molto grave e come tale severamente punito.

Il visir, tuttavia, ribadì ai tre fratelli che il suo desiderio era quello di ricevere una delle rose proibite del sovrano e chiarì che, se fossero stati catturati, avrebbero potuto difendersi solo con la bocca.

I tre figli del ministro di Akbar non vollero sottrarsi alle volontà paterne e decisero quindi di entrare nei giardini del re.

Il primogenito del visir venne scoperto quasi subito nell'atto di sottrarre la rosa, ma non si perse d'animo: egli lanciò un forte urlo di guerra e si gettò addosso ad una delle guardie del re per mordergli l'orecchio; gettando tutti nel panico, riuscì così a fuggire e a sottrarsi alla giustizia del re.

Anche il secondo dei figli del ministro di Akbar venne scoperto e catturato, ma riuscì ad ingoiare la rosa senza essere visto, perchè nessuno potesse incolparlo.

Infine, anche l'ultimo dei fratelli venne catturato e condotto avanti al moġūl; alla presenza di Akbar, il giovane confessò in maniera molto franca di aver tentato di sottrarre una rosa dal giardino reale: — Mio sovrano, è vero che ho tentato di violare una delle tue leggi, ma è altresì vero che, avendo ricevuto un ordine opposto da mio padre (che ti ha servito fedelmente per anni ed anni), ho pensato che tu ne fossi a conoscenza.

Il moġūl comprese che il suo fedelissimo servitore non si era ingannato sul carattere dei suoi figli; per questo motivo, egli designò il primogenito del primo ministro a capo del suo esercito, mentre il secondo venne nominato ambasciatore; il terzo, giovane ma saggio, prese invece il posto del padre come gran visir.

 

2

'è un'altra storia che riguarda tre fratelli che mi piace raccontarvi: si narra, infatti, che alla morte di un vecchio pastore i suoi figli stavano discutendo su come dividersi l'eredità. Un vecchio saggio, che passava di lì per caso, udì i ragazzi litigare in maniera piuttosto animata e chiese se potesse essere loro di aiuto in qualche modo.

Fu il primo dei fratelli a rivolgersi al vecchio in modo pacato e rispettoso: — Nostro padre, prima di morire, ci ha lasciato le sue ultime volontà, ma noi non siamo in grado di adempierle. Poco prima di esalare l'ultimo respiro, infatti, lui espresse il desiderio che la metà del suo bestiame venisse data a me, che sono il primogenito; un terzo del gregge, invece, doveva passare a mio fratello Ḥasan, mentre al più piccolo dei figli, Ḥasīn, doveva toccare la nona parte degli animali.

Ora, il problema è questo: nostro padre ci ha lasciato in eredità diciassette cammelli. Come facciamo a dividerli a metà? A mio giudizio, sarebbe meglio vendere uno degli animali e poi ripartire il ricavato della vendita, prima di dividerci il resto del gregge, ma i miei fratelli non sono d'accordo.

A questo punto, il secondo dei due fratelli esordì: — Mio fratello Ḥusayn parla bene, perché è stato maggiormente beneficiato dall'eredità. Secondo me, egli dovrebbe rinunciare a una parte della sua quota per favorire i fratelli minori. Inoltre, questo non è certo il momento migliore per vendere i cammelli al mercato: non ne ricaveremmo certo un buon prezzo.

A questo punto prese la parola Ḥasīn, il più giovane: — È per questo motivo che avevo suggerito di macellare uno dei cammelli e di offrire un solenne banchetto in onore di nostro padre, ma i miei fratelli non sono d'accordo, perché non intendono mantenere gli scansafatiche del paese.

Ḥusayn sguainò un coltello da macellaio e prese nuovamente la parola: — Io non vedo alternative; dobbiamo tagliare a metà almeno una delle bestie e dividerci i resti.

Il vecchio saggio sorrise e commentò con tono bonario e paterno: — Voglio aiutarvi; anche io possiedo un cammello e, per agevolarvi a fare la divisione, intendo farvene omaggio. In questo modo, non dovreste avere problemi a fare le parti, rispettando la volontà di vostro padre che avrebbe certamente desiderato che voi andaste sempre d'amore e d'accordo.

I tre fratelli, lusingati quella proposta così generosa, accettarono ed iniziarono a dividere il gregge. Al maggiore dei figli, Ḥusayn, toccò la metà del gregge, vale a dire nove cammelli; ad Ḥasan spettarono invece sei animali, pari ad un terzo dei beni dell'eredità; Ḥasīn ebbe invece la nona parte del bestiame e portò con sé due cammelli.

Al termine della divisione avanzava però un cammello; ragion per cui, il vecchio saggio esibì il sorriso più solare di cui era capace, risalì sulla sua cavalcatura e salutò amabilmente i tre fratelli, felici di aver adempiuto alle ultime volontà del padre.

IX
L'ELEFANTE IMPAZIENTE
Gli insegnamenti di mamma Africa

 

Il continente africano non solo è la culla dell'umanità, ma anche la fucina che ha forgiato molte tra le fiabe più antiche del mondo: protagonisti di questi racconti sono, in genere, gli animali della savana, ciascuno dei quali rappresenta una peculiarità del carattere umano (come il famoso Chingula, il coniglio, simbolo di astuzia e di intelligenza); ma non mancano le storie aventi come protagonisti gli esseri umani.

Ancora oggi le popolazioni che vivono in questo continente così misterioso (da cui un giorno i nostri progenitori partirono alla conquista del mondo) amano sedersi accanto al fuoco per ascoltare i vecchi saggi che raccontano una storia. Chi avesse la voglia di leggere alcuni dei racconti popolari di queste terre straordinarie, scoprirà analogie sorprendenti con la favolistica moderna, come se le fiabe dell'Africa rappresentassero le radici comuni delle storie senza tempo.

Scegliere, tra le varie fiabe del patrimonio africano, quale proporre in questo libro era un'impresa ardua; per cui, alla fine, ha prevalso un criterio basato unicamente sulla soggettività dell'Autore: ho avuto la fortuna, infatti, di vedere all'opera un mediatore culturale di nome Clovis, proveniente dal Camerun, capace di ammaliare un vasto pubblico di bambini (tra cui mia figlia) raccontando storie e coinvolgendo grandi e piccini nelle danze tribali. Questa favola, che ho udito dalle sue labbra, vuole essere un omaggio a lui e al continente che lui degnamente rappresenta.



ra un giorno come tanti, nella immensa savana africana; un nobile e poderoso elefante era alla ricerca di una fonte di acqua limpida per placare la sua sete.

Giunto in prossimità di un fiume, non riuscendo più a sopportare l'arsura che aveva in gola, si precipitò a capofitto verso l'acqua e bevve con avidità.

Dopo le prime abbondanti sorsate, l'elefante venne preso improvvisamente dal panico ed emise un forte barrito: — Cosa succede? Non riesco più a vedere bene.

Alcuni istanti dopo, il pachiderma proruppe in un pianto disperato: — Il mio occhio! Il mio occhio! Non ho più il mio occhio destro! Deve essere caduto in acqua mentre bevevo!

Elefanti

Effettivamente, l'occhio destro dell'elefante era uscito fuori dalla sua orbita ed era caduto; il pachiderma si mise alla ricerca di quell'organo per lui così vitale in maniera convulsa, rimestando l'acqua del fiume, senza fermarsi un attimo: la rapidità era essenziale per risolvere il problema al più presto e lui non aveva alcuna intenzione di perdere tempo.

L'elefante cercò freneticamente l'occhio per ore ed ore, senza ottenere altro risultato se non quello di rendere più torbida l'acqua del fiume: ciò contribuiva a gettare maggiormente l'animale nel panico più totale, poiché i mulinelli di sabbia gli impedivano di vedere con chiarezza.

All'improvviso, nella savana echeggiò una risata. Furente, l'elefante si girò in tutte le direzioni per vedere chi osava burlarsi di lui e, con la coda dell'occhio, vide una piccola tartaruga, seduta su un ceppo, che rideva e rideva.

— Pensi che tutto questo sia divertente? — gridò l'elefante. — Ho perso un occhio e questo ti fa ridere?

La tartaruga riuscì a ricomporsi e rispose con garbo: — Quello che è divertente non è quello che ti è successo, ma vedere come reagisci: sei totalmente sconvolto!

Il pachiderma replicò, offeso: — Ah, sì? Sentiamo allora cosa hai da suggerirmi. Sono tutti bravi ad essere saggi con i problemi altrui. Che cosa mi consigli di fare, dunque?

La tartaruga sussurrò con pacatezza: — Devi imparare ad avere pazienza. Càlmati e tutto andrà bene.

Anche se scettico, l'elefante decise di seguire il consiglio della tartaruga; in fondo, che cosa aveva da perdere? Smise di smuovere l'acqua del fiume, che tornò ben presto chiara e cristallina.

Di lì a poco, quale non fu la sorpresa del poderoso animale nello scoprire che il suo occhio era proprio lì, davanti a lui; l'elefante lo afferrò facilmente con la sua proboscide e se lo mise di nuovo nell'orbita.

Felice e contento per aver ritrovato quello che cercava con tanta ansia, l'elefante si girò in direzione della tartaruga e, con un pizzico di vergogna, la ringraziò per il prezioso consiglio.

Ma il piccolo abitante della savana era già scomparso tra le fronde emettendo un mormorio che, alle orecchie dell'elefante, suonava così: — La pazienza! Ricordati della pazienza!

Questo sia pur breve racconto contiene un messaggio semplice, ma certamente non privo di una grande saggezza. Sicuramente non c'è nulla di divertente nel perdere un occhio, ma il panico e la fretta non ci aiutano. In realtà, è proprio la nostra ansia a renderci ciechi, per cui noi diventiamo per alcuni istanti totalmente incapaci di vedere il mondo che ci sta attorno in maniera obiettiva e razionale.

Per fortuna esiste un rimedio al panico: la pazienza. L'Africa ci insegna che in alcuni casi è meglio attendere sino a quando la situazione non diventa chiara e le nubi non si disperdono.

La favola di Pierino e il lupo, rivissuta da mia figlia Beatrice

Epilogo
 

Come il lettore potrà facilmente immaginare, questo libercolo costituisce solamente una goccia nell'oceano del mondo delle leggende e delle fiabe.

Chi avesse voglia di approfondire l'universo delle favole, potrà attingere sia alla bibliografia citata che alla nutrita serie di pubblicazioni esistenti in materia, dalle fiabe popolari sino agli autori più moderni: i francesi Perrault e La Fontaine, il danese Andersen, il russo Afanas'ev, gli italiani Basile e Gozzano, le fiabe dei fratelli Grimm...

Lo scopo dell'Autore, ancora una volta, è quello di risvegliare nel lettore la curiosità di riscoprire un mondo millenario; mi confortano, in tal senso, i commenti di chi ha avuto la pazienza di leggere i miei precedenti scritti.

L'idea di fondo rimane lo stessa: per parafrasare una felice battuta di un film tratto da un romanzo di Baricco, non si è mai del tutto perduti sino a quando si ha una bella storia da raccontare.

Bibliografia
  • AA.VV. Il novellino. Fabbri, Milano 2001.
  • AA.VV. Racconti della dinastia Tang. Casa editrice in lingue estere, Pechino 1989.
  • AA.VV. Sir Gawain e il Cavaliere Verde (traduzione di J.R.R. Tolkien). Adelphi, Milano 1986.
  • AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia [cura]. I racconti gallesi del Mabinogion. Mondadori, Milano 1982.
  • AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia [cura]. La saga irlandese di Cú Chulainn. Mondadori, Milano 1982.
  • AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia [cura]. Saghe e racconti dell'antica Irlanda. Mondadori, Milano 1993.
  • CASTELLI Mimma Dotti. Fiabe e leggende dell'India. Demetra, Bussolengo 1996.
  • ESOPO. Favole. Rizzoli, Milano 1989.
  • FEDRO. Favole. BIT, Milano 1996.
  • HETMANN Frederik. Fiabe irlandesi. Mondadori, Milano 1991.
  • KHAWAM R.R. [cura]. Le mille ed una notte (testo stabilito sui manoscritti originali). Rizzoli, Milano 1992.
  • MANDELA Nelson. Le mie fiabe africane. Donzelli, Roma 2004.
  • SYNTIPAS. Novelle bizantine. Rizzoli, Milano 2004.
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Narrazioni:
Racconti senza Tempo - Pen Beird.
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Racconti senza Tempo è proprietà intellettuale di Daniele Bello, pubblicato su licenza da Bifröst.
Creazione pagina:27.12.2011
Ultima modifica: 17.02.2014
 
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