PREFAZIONE
Cos'è il mito?
«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.»
Gian Battista Vico
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I quattro musicanti di Brema |
Fotografia di Daniele Bello |
L'idea di riscrivere a beneficio dei bambini di oggi le
favole inventate tanto tempo fa dai nostri antenati mi è venuta quando,
sfogliando vari libri di fiabe da leggere ai miei figli (alla ricerca di quella
più adatta da raccontare prima della fatidica ora del sonno), mi ero reso conto
che il linguaggio utilizzato nei testi originali era di difficile lettura,
persino per un adulto.
Eppure – pensavo – le storie create e raccontate dai nostri progenitori possono
dare ancora molto all'immaginario di noi «moderni»…Di qui, l'ispirazione per tradurre in linguaggio accessibile ai bambini alcuni
dei tesori del nostro passato.
Se questo libro riuscirà a far sognare ancora gli adulti di domani… potrò
senz'altro dire che ne sarà valsa la pena.
Del resto, che l'arte di pensare, inventare e raccontare non abbia altro fine se
non se stessa lo dimostra anche un episodio raccontato da Diogene Laerzio nelle
sue Vite dei filosofi e poi citato anche nel
Novellino, una rassegna di
aneddoti risalente al Medioevo:
«Visse un tempo un filosofo molto saggio, che aveva nome Diogene. Questi si era
un giorno fatto un bagno nel fiume e si era steso al sole ad asciugarsi. Giunse
da quelle parti Alessandro Magno, re di Macedonia, il quale avendo sentito molto
parlare di Diogene e della sua fama di grande pensatore, si avvicinò a lui e
disse:
— O divino di misera vita, io sono Alessandro, il più grande sovrano del
mondo; chiedimi ciò che vuoi e io te lo darò. —
«E il filosofo rispose:
— Scostati: mi togli il sole!»
Daniele Bello
Settembre 2010
...a Beatrice e Quốc Việt |
I
IL SOLE E IL VENTO
Tratto da una favola di Esopo
Secondo gli studiosi, Esopo visse tra il VII e il VI
secolo a.C. in Grecia ed è considerato l'inventore della
favola. Della vita dell'autore persino gli antichi sapevano
ben poco: nativo della Frigia, visse come schiavo a Samo e
fece numerosi viaggi in Oriente e in Grecia, soprattutto a
Delfi. Già alla fine del V secolo a.C., si attribuiva a
Esopo un corpus di favole, la cui popolarità è
attestata sin dagli inizi e che costituivano una delle prime
letture scolastiche per i bambini. A noi è giunta una
raccolta di circa cinquecento favole, frutto di redazioni
diverse: i protagonisti sono gli animali, la narrazione è
breve, lo stile è semplice e chiaro; il fine è sempre un
insegnamento morale.
anto
tempo fa, il sole e il vento litigarono tra di loro per
stabilire chi fosse il più forte ed il più potente tra i
due.
La faccenda stava cominciando a preoccupare un po' tutti,
anche perché i contendenti erano arrivati alle maniere forti
e rischiavano di farsi del male; potete immaginare che, di
un sole e di un vento acciaccati, non sapremmo che farcene:
come farebbe a scaldarci il sole se avesse tanti bernoccoli
sulla testa? E che sollievo ci darebbe la brezza della
primavera se a soffiare ci fosse un vento pieno di lividi?
Era quindi evidente che bisognava trovare una soluzione…
Sembra che gli stessi dèi dell'Olimpo, riuniti tra di
loro a discutere, facessero del loro meglio per convincere i
due a sottoporsi ad una prova: al vincitore della gara
sarebbe stato dato in premio l'onore di potersi proclamare
il più forte e il più potente tra gli esseri che abitano nel
cielo.
Anche se all'inizio brontolarono non poco, alla fine il
sole ed il vento acconsentirono a sottoporsi a questa prova;
dopo lunghissime ed interminabili trattative, venne deciso
di considerare vincitore colui il quale fosse riuscito a
togliere di dosso i vestiti di un viandante.
Cominciò per primo il vento, il quale iniziò a soffiare
vigorosamente per tentare di strappare, con tutta la forza e
la violenza di cui era capace, gli indumenti di un ignaro e
sfortunato viaggiatore, che si trovava a percorrere un
sentiero nelle vicinanze.
Il vento si divertiva ad agitare raffiche e mulinelli per
far volare il mantello del viandante, ma l'uomo si serrava
addosso i vestiti per proteggersi da quell'improvvisa
ondata di gelo. Il vento allora si scagliò con ancora
maggiore impeto su quel povero malcapitato, per cercare di
vincere la sfida con il sole. Invano: il viandante,
intirizzito dal freddo, prese un altro mantello e si serrò
sempre di più addosso i vestiti. Alla fine, il vento,
esausto ed esasperato da quei continui insuccessi, si
allontanò con rabbia dalla scena e cedette il posto al suo
rivale.
L'astro che fa risplendere le nostre giornate con i suoi
raggi caldi e luminosi sfoderò un sorriso furbo e sornione,
come se avesse già in mano la vittoria.
Il sole dapprima fece capolino timidamente tra le nubi e
cominciò a godersi lo spettacolo; quando l'astro lucente
cominciò a far scaldare i suoi raggi, il povero viandante,
ancora sfinito per le terribili raffiche di vento che lo
avevano tormentato sino a pochi istanti prima, cominciò a
togliersi con prudenza il mantello supplementare. A questo
punto il sole iniziò a splendere con più vigore: man mano
che passava il tempo, il viaggiatore si rilassò e, dopo aver
ripiegato il mantello, riprese a camminare con passo più
sicuro e spedito.
Ben presto, però, il caldo si fece più
torrido perché il sole sprigionava vampate sempre più forti:
il viandante continuò a camminare per alcuni istanti ancora;
non potendo più resistere a quell'afa terribile, si spogliò
completamente e si tuffò nel fiume che scorreva nei pressi,
per fare un bagno rinfrescante.
Il vento fu costretto ad ammettere la sconfitta e, da quel
giorno, il sole poté vantarsi di essere il padrone
incontrastato del firmamento; anche questo è il motivo per
cui noi riusciamo a proteggerci in qualche modo dal freddo e
dal gelo coprendoci bene, mentre dal caldo torrido non c'è
difesa.
Fabula docet: la favola insegna che la gentilezza e
la delicatezza sono spesso molto più efficaci della violenza.
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Il sole e il vento |
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II
LA VOLPE E LA CICOGNA
Chi la fa l'aspetti
Più malinconico del solare Esopo è il latino Fedro,
vissuto tra il 20 a.C. e il 55 d.C.; le poche notizie che
abbiamo sulla sua vita si ricavano dalle sue opere. Portato
a Roma come schiavo dalla Tracia, ancora bambino, ricevette
un'educazione letteraria; fu poi assegnato alla servitù
dell'imperatore, come insegnante. Per i suoi meriti fu
liberato dalla condizione di schiavo e visse come liberto
nella casa imperiale anche sotto Tiberio, Caligola e
Claudio. È autore di cinque libri di favole; i personaggi
dei racconti di Fedro sono animali che parlano il linguaggio
degli uomini del tempo e ne rappresentano le tendenze e i
difetti.
nostri antenati ci raccontano che in un'epoca lontana,
quando gli animali avevano ancora il dono della parola e non
si vergognavano di farsi vedere dagli uomini, una volpe
volle organizzare una cena a casa propria e invitò la sua
amica cicogna.
Le volpi, si sa, sono degli animali furbi per natura e
riescono spesso a cavarsi dai guai grazie alla loro astuzia
(anche se alcune di loro tendono a perdere la coda nelle
tagliole, durante le loro scorribande; in quei casi
sfortunati, il furbo animale se ne fabbrica una posticcia
con la paglia, ma sta sempre sul chi vive nel timore di
bruciarsela con il fuoco: insomma, come dicevano i nostri
nonni… ha la coda di paglia).
Pochi sanno, tuttavia, che questo animale dal bel manto
rossiccio riesce anche ad essere dispettoso e un po'
indisponente.
Tutti noi ci saremmo aspettati, infatti, che la volpe
preparasse per la sua ospite una cena deliziosa e,
soprattutto, tenesse conto dei gusti della cicogna.
Invece, la volpe si limitò a preparare una brodaglia che
venne servita a tavola su di un semplice vassoio, senza
neppure una fetta di pane per poter gustare meglio la
pietanza principale, né bevande per ristorarsi.
La cicogna, anche se affamata e desiderosa di provare il
talento culinario dell'amica volpe, in nessun modo riuscì ad
assaggiare la zuppa; il becco di questi uccelli, come è
noto, è lungo e stretto per cui tentare di assaggiare quel
brodo si rivelò un'impresa impossibile.
La volpe, sorniona, vedendo l'ospite in difficoltà, si
limitò a finire la sua porzione in tutta tranquillità; poi,
spazzolò avidamente anche il piatto della cicogna, facendo
commenti ironici (e fuori luogo…) sulla mancanza di appetito
del povero uccello, che tornò a casa più affamato di prima.
La cicogna fece buon viso a cattivo gioco, ma dentro di sé
cominciò sin dal giorno dopo a pensare a come rendere pan
per focaccia a quella amica tanto dispettosa.
Di lì a qualche giorno, comunque, l'uccello migratore
(stiamo parlando sempre della cicogna, bambini; ma quando
dovrete studiare la grammatica imparerete che l'italiano
spesso ci impone di utilizzare parole diverse per descrivere
la medesima cosa. Strana gente, gli adulti!) decise di
ricambiare l'invito e, di lì a qualche giorno, invitò a cena
la volpe.
L'animale dal pelo fulvo e rossiccio (non c'è bisogno che vi
spieghi di nuovo il ritornello, vero? Avete capito che si
tratta della volpe…), ignara del fatto che potesse esserci
al mondo un animale astuto e subdolo quanto lei, accettò con
entusiasmo e si presentò a casa della cicogna con
l'acquolina in bocca, senza neanche avere la buona creanza
di portare un mazzo di fiori o una bottiglia di vino per la
padrona di casa.
Dalla cucina proveniva un delizioso profumo di carne
arrostita: la cicogna aveva preparato un delizioso
spezzatino.
Non è possibile descrivere a parole la sorpresa della volpe
quando vide in che modo era stata imbandita la tavola: la
prelibata pietanza, infatti, era stata servita dentro
un'anfora di vetro, dal collo lungo e stretto!
E così, mentre la cicogna grazie al suo lungo becco riuscì a
degustare il cibo accuratamente sminuzzato mettendo il becco
nella bottiglia e mangiando a sazietà, la meschina volpe per
quanti tentativi facesse non riuscì a mettere neppure il
naso nell'anfora piena di cibo che gli era stata messa
davanti, soffrendo la fame per tutta la serata.
Si racconta che, mentre la volpe lambiva invano il lungo
collo della bottiglia, l'uccello migratore abbia esclamato:
— E sopporti molto
sereno colui che mi ha dato il suo esempio!
Al povero quadrupede, alla cui astuzia la cicogna aveva
risposto con altrettanta sagacia, non restò che rientrare
mestamente a casa con la pancia vuota e con la coda fra le
gambe (chissà se era di paglia anche quella…).
Fabula docet: la favola insegna che non bisogna
nuocere; ma, se uno ti maltratta, questi va punito con un
castigo appropriato.
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La volpe e la cicogna |
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III
LO STATO TRIBUTARIO DEL SUD
Racconti della dinastia Tang
La letteratura cinese costituisce senza ombra di
dubbio uno dei patrimoni più preziosi per l'umanità; in
particolare, la poesia e la narrativa raggiungono il loro
massimo splendore durante la dinastia Tang (618-907 d.C.),
grazie anche all'apporto di una classe intellettuale di cui
facevano parte i nuovi funzionari della burocrazia imperiale
che, per passare l'esame di Stato, erano tenuti a cimentarsi
anche nel genere letterario per fare una buona impressione
sugli esaminatori. La storia che mi piace raccontare, quella
del Governatore dello Stato tributario del Sud (attribuita
allo scrittore Li Gongzuo), è sicuramente uno degli esempi
più suggestivi della fiaba cinese.
hunyu
Fen era uno dei funzionari più stimati di tutto l'impero e
conduceva una vita per molti invidiabile. Aveva tuttavia il
brutto vizio di bere e non di rado veniva ripreso dai suoi
superiori per questo motivo: una volta venne sorpreso da un
potente generale completamente ubriaco, per cui venne
destituito dal suo incarico.
Tornato triste e sconsolato alla casa paterna, nei pressi
della città di Yangzhou, passava le sue giornate tra bevute
e divertimenti, per dimenticare le sue disgrazie.
Un giorno, Chunyu si era addormentato ai piedi di un
frassino dopo l'ennesima delle sue sbronze, quando venne
risvegliato da un rumore improvviso quanto inaspettato.
Aperti gli occhi, il giovane Chunyu Fen vide due
messaggeri vestiti di abiti color porpora presentarsi a lui
con modi assai cerimoniosi; i due si inginocchiarono e
dissero di essere due inviati del regno di Frassinide: — Sua
Maestà il nostro amatissimo sovrano ha inviato noi, suoi
umilissimi sudditi, per invitarvi nel nostro regno.
Chunyu, senza riflettere, si vestì come meglio poteva e
seguì i due messaggeri; trovò una vettura dipinta di verde
trainata da quattro cavalli e scortata da otto valletti: i
due inviati dal regno di Frassinide diedero i primi ordini e
la vettura si diresse verso una cavità sita sotto un
frassino e vi entrò dentro.
Dopo aver percorso alcune leghe, Chunyu venne condotto
alle porte di una città dalle alte torri, dove fu accolto
dal Primo Ministro del regno; in modo molto cerimonioso,
questi affermò che era ferma intenzione del suo sovrano
stringere un'alleanza tra il regno di Frassinide e la terra
di Chunyu attraverso un matrimonio.
— Un umile servitore come me potrebbe osare di aspirare ad
un onore così alto? — rispose il giovane con modestia ed un
pizzico di imbarazzo.
Il Primo Ministro sorrise, compiaciuto del tono umile di
Chunyu, e lo condusse al palazzo reale; il giovane rampollo
della burocrazia cinese non poteva fare a meno di notare la
magnificenza della capitale del regno di Frassinide, ricca
di palazzi dai pilastri finemente lavorati, di balaustre dai
colori vivaci e con giardini pieni di alberi in fiore e
frutti rari.
Chunyu giunse, infine, al palazzo reale e venne accolto
dal sovrano del regno, una figura alta ed imponente che
indossava un vestito scarlatto e impugnava uno scettro in
avorio; sopraffatto dall'onore che gli veniva tributato, il
giovane non osava proferire parola ma si inginocchiò
dignitosamente secondo il rituale dei burocrati dell'Impero.
Il re di Frassinide sorrise, ammirando i modi cortesi del
suo ospite, e disse: — Poiché vostro padre rese dei servigi
al nostro regno, è nostra volontà offrirvi in sposa la
nostra seconda figlia.
Chunyu Fen non riusciva a credere alle proprie orecchie;
sino a poco tempo prima era solo uno dei tanti funzionari
dell'imperatore (e, per giunta, destituito) e ora gli si
offriva in sposa nientemeno che la figlia di un re. Il
giovane non poté che arrossire e ringraziare dell'immenso
onore che gli veniva reso con quella proposta di matrimonio.
I preparativi per le nozze iniziarono ben presto; nulla
venne lasciato al caso ma vennero allestiti agnelli e cigni
per il banchetto; sete preziose per i vestiti; strumenti di
bambù per il giorno della cerimonia; lanterne, candelabri e
carrozze per accogliere gli ospiti nel modo migliore
possibile. Il giorno del matrimonio, al seguito degli sposi
vi erano fanciulle, paggi e dozzine di fate, che
cominciarono a suonare una musica melodiosa e pura. Anche il
giovane Chunyu compose dei versi per l'occasione, che
vennero poi immortalati per sempre dai cantori di Frassinide:
L'amata è nel fondo del mio cuore
come potrei dimenticar l'amore!
Alla fine della cerimonia, quando gli sposi vennero
lasciati finalmente soli, a Chunyu venne concesso di
rimuovere il velo e di vedere il volto di sua moglie, la
Principessa del Ramo d'Oro; al giovane bastò incrociare lo
sguardo con la giovane fanciulla per innamorarsene subito.
Dal giorno del matrimonio in poi, l'amore tra Chunyu Fen
e la principessa crebbe a dismisura: essi si amavano sempre
di più via via che passava il tempo.
Il principe consorte, da allora, venne coinvolto dal
suocero negli affari del regno e il suo parere venne sempre
tenuto in grande considerazione per la grande saggezza che
promanava dalle sue parole. Ben presto, l'imperatore di
Frassinide volle rendergli omaggio affidandogli l'incarico
di governatore dello Stato tributario del Sud, una provincia
acquisita di recente dall'impero. Chunyu accettò con
entusiasmo il nuovo incarico e si preparò a ricoprire la
prestigiosa carica con umiltà e responsabilità.
Una volta giunto in quelle terre di confine con la
bellissima moglie, egli cominciò a studiare la lingua e la
storia di quei nuovi sudditi, cercando di risolvere tutti i
problemi che affliggevano la popolazione. Chunyu Fen si
occupò degli indigenti e dei malati, delle vedove e degli
orfani, e per questo motivo egli venne amato e lodato da
tutti gli abitanti di quella provincia, di cui egli rimase
governatore per venti anni.
Con il passare del tempo, tuttavia, molte disgrazie
iniziarono a funestare la vita del giovane rampollo della
nobiltà di Frassinide; durante una pestilenza, infatti, la
bellissima Principessa del Ramo d'Oro morì lasciando nello
sconforto tutta la popolazione del Sud, che la venerava come
una regina.
Venne inoltre riferita all'imperatore una terribile
profezia, secondo la quale Chunyu Fen sarebbe stato causa di
grandi sventure per tutto il regno; a quell'epoca, i pareri
degli indovini venivano tenuti in grande considerazione per
cui il sovrano di Frassinide non ebbe altra scelta se non
quella di esiliare l'amato genero.
Chunyu venne condotto al di fuori dei confini dell'impero
dagli stessi messaggeri che lo avevano portato nella
capitale, prima delle sue nozze, percorrendo a ritroso il
tragitto effettuato tanti anni prima.
All'improvviso, come riemergendo da un buco, egli rivide
il suo villaggio con le medesime viuzze e le case di un
tempo. Preso dalla commozione, Chunyu non poté trattenere le
lacrime e si stese all'ombra di un albero per riprendere le
forze; vinto dalla stanchezza e dalla intensità delle
emozioni, egli si addormentò. Alcuni istanti dopo, il
governatore dello Stato tributario del Sud venne svegliato
da uno dei servitori della sua casa paterna: ciò che apparve
incredibile a Chunyu era che, nonostante egli avesse passato
più di venti anni lontano da casa, sembrava che nel suo
villaggio natio non fossero passati che pochi istanti da
quando era stato svegliato dagli ambasciatori
dell'imperatore di Frassinide.
Chunyu dovette riflettere a lungo prima di realizzare che
quello che aveva vissuto era solo un sogno…
Profondamente emozionato, il giovane non poteva fare a
meno di riandare con il pensiero alle avventure che aveva
vissuto: guardandosi attorno, gli ci volle poco per
ritrovare il buco da cui era passato per raggiungere il
regno di Frassinide, scortato dagli ambasciatori.
Preso dalla curiosità, il giovane Chunyu cominciò a
scavare nei pressi di quel buco e scoprì una cavità dove
viveva un'enorme colonia di formiche.
Nel formicaio vi erano tumuli di terra, simili a mura di
una città; nel mezzo era stata edificata una torre
scarlatta, che ricordava tanto la reggia della capitale del
regno di Frassinide. Chunyu poté notare anche dei sentieri
che conducevano ad altre colonie più piccole, una delle
quali era straordinariamente simile allo Stato tributario
del Sud.
Chunyu capì che, per magia, aveva vissuto tutto quel
tempo nel regno delle formiche; comprese allora il vero
significato del suo sogno e la vanità della vita: si
convertì al taoismo e da allora rinunciò per sempre al
piacere del vino.
Prima di morire, Chunyu decise di confidare tutti gli
avvenimenti legati al regno di Frassinide al suo amico Li
Gongzuo, il quale ne rimase talmente affascinato da volerli
mettere per iscritto. Si narra che, dagli insegnamenti
tratti da questa storia, prese ispirazione un noto poeta
cinese che gli dedicò questi versi:
Giunga al cielo la buona reputazione,
la sua influenza faccia crollare
i regni nemici;
pompa e potere agli occhi del saggio sono
come delle formiche il brulicare.
Il Taoismo è una delle tre religioni fondamentali della Cina, insieme con
Buddhismo e Confucianesimo e deriva dagli insegnamenti del filosofo Laozi.
Secondo questa corrente di pensiero all'origine di ogni cosa vi è il Dao,
da cui derivano i due opposti Yin e Yang. L'essere umano deve
tendere al miglioramento del proprio io, tramite l'isolamento dalla vita
sociale, praticando il non-agire, e cercando di raggiungere in questo modo
l'immortalità. A Laozi viene attribuita la famosa massima: «Quello che il bruco
chiama fine del mondo il resto del mondo chiama farfalla». |
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IV
LE MILLE E UNA NOTTE
Notti e profumi d'Oriente
Le Mille e una notte (titolo originale in
arabo: Alf layla wa layla; la prima stesura viene
fatta risalire al X secolo dell'era cristiana) è il classico
della letteratura orientale più conosciuto al mondo.
Alcuni dei personaggi che animano i racconti di questo
preziosissimo volume fanno ormai parte dell'immaginario di
tanti bambini del mondo, come Alì Baba e i quaranta ladroni,
Aladino e la sua lampada magica, Sindbād
il marinaio...
Non tutti, però, ricordano che anche il filo conduttore dei
racconti narrati nelle Mille e una notte può essere
letto come una storia a sé stante, tra le più belle mai
raccontate: e parla di Shahrazād, la «tessitrice delle
notti».
i
racconta che un tempo regnavano nelle isole dell'India e
della Cina Interna due fratelli, che avevano nome Shahriyār
(il maggiore) e Shahzamān (il minore). I due regni erano
talmente vasti che i due fratelli non poterono vedersi per
anni, impegnati com'erano a sottomettere del tutto i popoli
che abitavano i territori conquistati.
Un giorno Shahriyār provò il desiderio di rivedere
l'amato fratello, che dimorava nella città di Samarcanda;
per questo motivo egli incaricò il suo visir di consegnare
un messaggio a Shahzamān e di convocarlo presso la propria
corte.
Il visir fece i preparativi per il viaggio e quindi si
mise in cammino, assieme al suo seguito: dopo giorni e
giorni, arrivò finalmente in vista di Samarcanda e lì piantò
il proprio campo.
Shahzamān nominò uno dei suoi notabili affinché
esercitasse il potere in sua assenza e andò incontro alla
delegazione del fratello, accogliendolo con tutti gli
onori: egli offrì in dono al visir cavalli, cammelli,
provviste, foraggio e quanto necessario per il ritorno; poi
fece ritorno a casa per congedarsi dalla sposa e preparare
il viaggio che lo avrebbe condotto dall'amato Shahriyār.
Quando Shahzamān tornò nei suoi appartamenti, grande fu
la sua sorpresa nello scoprire che la moglie lo stava
tradendo con un servo delle cucine. Sconsolato, egli uscì
immediatamente da Samarcanda con il seguito dei suoi servi
più fidati, raggiunse il visir e diede il segnale per la
partenza al rullo dei tamburi.
Dopo avere attraversato steppe e deserti per giorni e giorni
i carovanieri giunsero finalmente nel paese del re Shahriyār,
il quale venne incontro al fratello per abbracciarlo, non
appena i suoi occhi riuscirono a scorgerlo in lontananza.
Shahriyār possedeva un enorme giardino, ai margini del quale
aveva fatto costruire dei palazzi meravigliosi e
confortevoli: lì venne fatto alloggiare Shahzamān, il quale
tuttavia non poteva fare a meno di ripensare al tormento che
sua moglie gli aveva causato e ne soffriva segretamente,
emettendo ogni giorno profondi sospiri.
Colpito dall'enorme turbamento del fratello, che languiva e
si consumava sempre di più, Shahriyār tentò di comprendere
la causa di tanta infelicità ma non riuscì a convincere Shahzamān a confidargli la sua pena.
Il caso volle che, di lì a poco, anche Shahriyār scoprì le
infedeltà della moglie: fu lo stesso Shahzamān a scoprire,
per puro caso, che giovani e prestanti uomini avevano
continuo e libero accesso nell'harem del fratello e
amoreggiavano con la consorte del sovrano e con le ancelle.
Amaramente deluso per il tradimento della moglie, Shahriyār
la ripudiò e, per un certo periodo, si ritirò in esilio
volontario nel deserto assieme al fratello, al fine di poter
ritrovare nella pace e nel silenzio di quella natura così
selvaggia ed estrema le motivazioni per continuare a vivere
mantenendo la fiducia nel prossimo, senza timore di essere
nuovamente deluso.
Al contrario, il soggiorno nel deserto non fece che
rafforzare in Shahriyār e Shahzamān l'odio mortale per
l'intero genere femminile. I due fratelli si lasciarono
abbracciandosi con affetto e tornarono ciascuno al proprio
regno, promettendosi a vicenda di non farsi trascinare più
nel vortice della passione amorosa, che tanta sofferenza
aveva provocato nei loro cuori.
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Shahrazād (1907) |
Disegno di Edmond Dulac |
Tornato in patria, Shahriyār ordinò al proprio visir di
condurre al proprio cospetto ogni giorno una donna diversa:
il sovrano avrebbe passato tutta la notte con lei e la
mattina seguente ne avrebbe ordinato l'esecuzione.
Cominciò, così, per i sudditi dell'impero, uno dei periodi
più tristi che la storia avrebbe ricordato; la strage delle
donne innocenti continuò per ben tre anni, sino a quando la
bella e saggia figlia del visir, Shahrazād, non si offrì di
passare la notte con il re dicendo al padre: — Ho deciso: o
rimarrò in vita, o sarò il riscatto delle vergini musulmane
e la causa della loro liberazione.
Il saggio visir cercò di dissuadere in tutti i modi la
figlia, ma Shahrazād fu irremovibile: per nessuna ragione al
mondo avrebbe rinunciato ad essere la donna del sovrano. Vinto dalle argomentazioni e dagli ideali della figlia, il
visir non poté impedire che Shahrazād venisse promessa al
sommo Shahriyār.
Per non essere messa a morte dal vendicativo re, Shahrazād
inventò un astuto stratagemma: dopo aver trascorso la sua
prima notte a palazzo, infatti, ella scoppiò a piangere
davanti al sovrano.
Richiesta dal re Shahriyār il motivo di tanta tristezza, la
giovane fanciulla disse di avere tanto a cuore la sorella
minore, abituata ogni sera ad ascoltare una favola prima di
addormentarsi.
Shahriyār, dimenticato per un attimo il suo odio per
l'intero genere femminile, acconsentì a che la sorella
minore venisse accolta a palazzo per ascoltare la favola
narrata dalla bella Shahrazād.
E Shahrazād cominciò a raccontare…
La giovane e saggia fanciulla iniziò a narrare una storia
così affascinante che lo stesso re Shahriyār rimase ad
ascoltare: quando la luce dell'alba rischiarò di nuovo la
capitale del regno, il racconto non era stato ancora
terminato.
Shahrazād chiese allora la grazia di poter completare la
storia la notte successiva: il re Shahriyār, contravvenendo
ai suoi principi (che gli imponevano di liberarsi della
propria favorita ogni notte), pur di ascoltare il finale di
quel racconto tanto avvincente acconsentì.
Quella notte, Shahrazād fu particolarmente attenta a tenere
ben desta l'attenzione del sovrano con i suoi racconti
straordinari ed ebbe cura di tenere ancora una volta in
sospeso il finale al sorgere del sole.
Ancora un volta, la curiosità del re Shahriyār ebbe la
meglio sul suo desiderio di vendetta nei confronti delle donne, per cui anche la notte successiva a
Shahrazād venne
consentito di proseguire la narrazione…
E così, la «tessitrice delle notti» continuò ad ammaliare la
mente del sovrano per molte volte ancora, avendo cura di
rievocare tanti racconti ora collegati tra di loro come
anelli di una collana, ora rinchiusi l'uno nell'altro, come
in un sistema di scatole cinesi.
Shahrazād riusciva sempre a tenere alta l'attenzione di chi
ascoltava: l'abile arte della narrazione gli consentiva
infatti di iniziare sempre una nuova storia nella storia,
tenendo in sospeso il finale; trame e scenari si succedevano
senza posa e il sovrano non poteva fare a meno di rimanere
totalmente avvinto e soggiogato dalla voce di Shahrazād e
di chiederle di proseguire la notte successiva.
E Shahrazād «continuò in tal modo a dipanare il filo dei
suoi racconti, interrompendolo alla fine di ogni notte e
riprendendolo nel corso della notte successiva, sempre con
il permesso del re».
Quando Shahrazād esaurì l'ultimo dei suoi racconti, erano
trascorse ormai ben mille e una notte da quando la
tessitrice delle notti aveva iniziato a narrare favole al
re Shahriyār; il sovrano, tuttavia, aveva ormai dimenticato
l'antico odio per le donne: il tempo e la fantasia l'avevano
completamente riconciliato con la vita.
Grato alla bella fanciulla per la sua nobiltà e la sua gioia
di vivere, Shahriyār decise di sposarla e annunciò
pubblicamente la data delle sue nozze. L'esultanza di tutti
si propagò dal palazzo del re sino agli angoli più remoti
suo impero.
Vennero organizzati festeggiamenti a spese del sovrano per
trenta giorni; tutti avevano sulla bocca il nome della bella
Shahrazād, che aveva salvato sé stessa, le fanciulle del
regno, la felicità del sovrano e dei suoi sudditi. E così
tutti vissero nel benessere, nel piacere, nella felicità e
nell'allegria poiché da quel giorno la generosità del
sovrano non mancò di beneficare sino all'ultimo abitante del
regno.
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V
RACCONTI DEL SAGGIO SYNTIPAS
Novelle Bizantine
Poco conosciuta anche dagli addetti ai lavori, questa
raccolta di favole scritta nell'XI secolo da un dotto
bizantino recepisce lo schema della
«fiaba nella fiaba»,
tipico della narrativa orientale. Il narratore, il saggio
filosofo Syntipas, racconta per sette giorni e sette notti
una serie di novelle, che hanno come tema comune l'astuzia
(soprattutto quella femminile). Tradotta dal siriaco e forse
passata attraverso successive redazioni arabe e persiane,
questa raccolta di epoca bizantina fornisce nuova linfa per
conoscere un mondo che, per mille anni, è stato il ponte tra
Oriente ed Occidente.
n
vecchio e ricco mercante dell'Asia Minore, venuto a sapere
che in una cittadina dell'Anatolia vi era carenza di legname
aromatico, decise di comprarne una grossa partita per
venderla ad un prezzo conveniente.
Giunto a destinazione, venne fermato davanti alle mura della
città dalle guardie del Sultano, che ispezionarono il carico
delle mercanzie.
Prima di proseguire con la narrazione, però, è necessario
che io vi spieghi che tutti gli abitanti di quella cittadina
erano soliti turlupinare il prossimo con truffe o
stratagemmi vari; loro unico scopo sembrava quello di
estorcere denaro agli stranieri, ignari di un modo di fare
tanto villano.
Nulla di strano, quindi, che una delle guardie andasse a
riferire ad una delle persone più in vista della città
dell'arrivo di un mercante. In breve tempo, la voce si sparse per ogni dove e i mariuoli
del posti si ingegnarono per giocare un tiro mancino al
nuovo venuto.
Non appena giunto nella piazza del mercato, infatti, il
vecchio venne avvicinato da un giovane nobile, dall'aria
scanzonata ma arrogante.
— Che cosa vendi, mercante? — chiese il ragazzo in modo
sprezzante.
— Legno aromatico e pregiato dal Libano — rispose
educatamente il vecchio.
— Stai scherzando, vero? — esclamò il nobile: — Nella nostra
città il legno aromatico è così abbondante che lo usiamo
per accendervi il fuoco: non senti il profumo che viene
dalle case vicine?
E in effetti, i complici del mariuolo (perché di altri non
si trattava) avevano provveduto ad accendere il fuoco in
tutti i camini posti nelle vicinanze, avendo cura di
collocare ceppi di legno aromatico nella brace. Il vecchio
mercante, avvilito, si convinse di avere fatto un viaggio
completamente inutile e venne preso dallo sconforto; con
fare apparentemente distaccato, gli venne in soccorso il
finto nobile che si offrì di acquistare tutto il carico in
cambio di un modesto corrispettivo. — Qualunque cosa tu
voglia, te ne darò un piatto pieno; vieni domattina in
piazza per riscuotere quanto ti devo — disse il giovane.
A questo punto, al vecchio non restò che fare due passi,
malinconicamente, tra i vicoli della cittadina e cercare un
alloggio per la notte.
Giunto ad un crocevia, il mercante notò alcuni abitanti che
si stavano cimentando in una gara di indovinelli; forse per
distrarsi o forse perché attratto dall'ebbrezza del gioco,
il vecchio chiese di partecipare proprio quando la gente
aveva cominciato a scommettere piccole somme di denaro.
Anche questa volta, tutto era stato orchestrato per
turlupinare il malcapitato forestiero: il mercante ebbe la
peggio nella gara ed il vincitore poté esclamare: — Entro
domani, dovrai darmi tutti i soldi che hai oppure sarai
costretto a bere tutta l'acqua del mare. — Così, ancora un
volta il mercante dovette andarsene con la coda tra le
gambe tra le risate a profusione degli astuti abitanti del
posto.
Ma le disavventure del vecchio non erano ancora finite:
aveva appena concordato il prezzo del vitto e dell'alloggio
per quella notte con la proprietaria di una locanda, quando
l'ennesimo mascalzone si parò davanti a lui con aria
minacciosa: — Tu mi hai rubato con l'inganno il mio occhio
sinistro! Domattina ti trascinerò in Tribunale per farmelo
ridare per amore o per forza. — Effettivamente il mariuolo
aveva un unico occhio azzurro, dello stesso colore di quelli
del mercante.
Al povero vecchio non restò che consumare un pasto sobrio in
completa solitudine, rimuginando sulle disgrazie che gli
erano capitate e su quello che lo attendeva la mattina dopo.
Mentre assaggiava uno stufato di agnello con verdure, la
locandiera ne ebbe compassione e cominciò a parlare con lo
straniero.
Dopo aver preso un po' di confidenza, il mercante sussurrò:
— Brava donna, ma è vero che da queste parti il legno
aromatico è così abbondante che lo utilizzate per accendere
il fuoco?
La locandiera non ebbe il cuore di mentire a quel
forestiero, già abbondantemente bistrattato dai suoi
concittadini.
— In realtà, straniero, da noi quel tipo di legname è molto
raro e per questo vale più dell'oro — sussurrò la donna: — Vero è, invece, che nel nostro paese l'unico scopo degli
abitanti sembra essere quello di ingannare gli stranieri. I
peggiori furfanti della città si riuniscono ogni sera alla
Gilda dei ladri, per discutere davanti al Grande Maestro
delle loro imprese: le malefatte meglio riuscite vengono
addirittura premiate.
Il mercante capì allora di essere stato turlupinato, ma non
si perse d'animo; dopo aver finito con gusto la sua cena, si
travestì da mendicante e cominciò ad aggirarsi in mezzo ai
vicoli della città, alla ricerca della Gilda.
Ci volle ben poco, in verità, per riuscire a trovare il
famigerato covo in cui tutti i mariuoli del posto si
riunivano al calar della sera per rievocare le scellerate
imprese della giornata trascorsa. Il caso volle che, proprio in quel momento, si stava
vantando della sua truffa l'arrogante nobile che gli aveva
sottratto tutto il carico ad un prezzo così ridicolo.
Il Gran Maestro sorrideva ed approvava, ma non volendo dare
più di tanta soddisfazione a quel giovane allievo, commentò:
— Una truffa ben organizzata, non c'è che dire. Certo,
promettendogli un piatto colmo di tutto ciò che desidera
quel mercante, ti sei esposto ad un rischio. Pensa se ti
chiedesse di riempirlo con delle pulci azzurre, di cui metà
maschi e metà femmine. Riusciresti ad esaudirlo?
Uno scroscio di risate accompagnò il commento del capo di
quella ignobile marmaglia di truffatori.
Di lì a poco fu il grande esperto di indovinelli a
raccontare delle sue imprese, enfatizzando in particolar
modo la minaccia che incombeva sul povero mercante, se non
avesse sborsato tutti i soldi che aveva: bere tutta l'acqua
del mare.
Anche questa volta il Gran Maestro ebbe parole di lode per
il suo adepto, ma non poté evitare di fare il proprio
commento: — Una bella impresa, nulla da eccepire. Purché lo
straniero non sia così scaltro da chiedere a te di separare
le acque dei fiumi da quella del mare, per essere sicuro di
bere unicamente acqua marina. Non sarebbe certo una cosa
facile….
Ancora una volta i risolini ironici non mancarono, in segno
di approvazione per le parole del capo della Gilda.
Venne quindi il turno dello sfrontato accusatore, che
avrebbe trascinato il medesimo mercante in Tribunale per
farsi restituire l'occhio sinistro.
In questa occasione il Gran Maestro fissò tutti gli altri
membri della combriccola con un cipiglio severo. Poi,
rivolgendosi al finto promotore di cause, così esclamò: —
Sei stato imprudente a comportarti così. Pensa se domani ti
chiedessero di staccare il tuo occhio e di esaminarlo per
verificare se è veramente dello stesso peso e della stessa
misura di quello che reclami. Sapresti trarti d'impaccio?
Il mercante decise che aveva già sentito abbastanza e non
volle sentire ulteriori commenti; si allontanò alla
chetichella e tornò alla sua locanda dove dormì il sonno del
giusto.
L'indomani, il vecchio si svegliò alle prime ore del mattino
e si incamminò subito, di buona lena, alla piazza del
mercato, dove ad attenderlo c'erano il giovane che si era
spacciato per nobile, il vincitore della gara di indovinelli
e colui che avrebbe reclamato il suo occhio in Tribunale.
Il mercante diede subito una pacca sulla spalla al giovane
cui aveva venduto il suo carico di legname e, con
naturalezza, disse: — Sono venuto a riscuotere il prezzo
pattuito. Perciò, ti sarei grato se mi facessi avere un
piatto pieno di pulci azzurre, di cui metà maschi e metà
femmine.
Mentre il secondo mariuolo si avvicinava a richiedergli
tutti i soldi che aveva, il vecchio lo fissò con uno
sguardo di insofferenza, che lasciava sottintendere che
aveva cose più importanti da fare: — Ho deciso che berrò
tutta l'acqua del mare. Prima, però, mentre sbrigo un affaruccio
con questo tuo concittadino, ti spiacerebbe separare l'acqua
del mare da quella dei fiumi? Mi dispiacerebbe bere l'acqua
sbagliata…
Il mercante si avvicinò quindi all'ultimo dei tre che aveva
cercato di imbrogliarlo e con il tono più candido ed onesto
di cui era capace, disse: — Non sia mai detto che io venga
accusato di aver sottratto ingiustamente un occhio a
chicchessia. Pertanto, proporrò al Tribunale di mettere su
di una bilancia il mio occhio e il tuo; se dovesse
risultare che hanno la stessa forma e lo stesso peso,
allora ammetterò che appartengono a te e ti restituirò
quello che ti ho ingiustamente sottratto.
I tre briganti compresero che quel vecchio era evidentemente
più scaltro di quello che appariva a prima vista.
Vista la mala parata, al mercante venne offerto un
corrispettivo in oro pari al valore effettivo del carico che
aveva portato con sé per la vendita…. purché si togliesse
di torno al più presto! Questi accettò volentieri il
gruzzolo che gli veniva proposto e tornò nelle coste
dell'Asia Minore più ricco e più saggio di prima.
|
VI
IL NOVELLINO
Racconti dal Medioevo
Il Novellino è una raccolta di storie brevi
risalente alla fine del Duecento, redatto da un autore
ignoto (probabilmente di origine fiorentina). L'opera si
compone di cento novelle, scelte dal compilatore da una
raccolta più ampia; la maggior parte di esse è tratta da
fonti più antiche. I protagonisti delle novelle sono tratti
dalla Bibbia, dalla mitologia classica e dalla storia antica
e recente.
1. La tolleranza religiosa (Novellino,
LXXIII)
'era
una volta, in un'epoca molto lontana, un potente sovrano
noto come il Sultano, il quale regnava su un territorio
talmente grande che i suoi sudditi praticavano fedi
religiose diverse: alcuni di loro si professavano Ebrei e
riconoscevano l'autorità di un libro sacro chiamato Antico
Testamento; altri, invece, venivano chiamati Musulmani e
ritenevano che la volontà divina fosse stata trasmessa ai
fedeli nel Corano; i Cristiani, infine, riconoscevano
l'autorità del Vangelo perché in questo testo era stato
raccolto il messaggio del Figlio di Dio.
Orbene, il Sultano aveva la perenne necessità di
raggranellare soldi per le casse dello stato, poiché amava
organizzare lussuosi ricevimenti per i suoi illustri ospiti.
Alcuni dei suoi cortigiani gli suggerirono di rivolgersi ad
un famoso mercante ebreo, le cui ricchezze erano note in
tutto l'impero.
Il Sultano, musulmano e amante delle dispute teologiche,
convocò a corte il suo suddito e gli domando quale fosse,
secondo lui, la migliore delle religioni. In tal modo, il
sovrano pensava: — Se il mercante risponderà che la fede
migliore è quella ebraica, potrò dire che egli pecca
gravemente contro il culto professato dal suo sovrano e gli
confischerò i beni: se, invece, dirà che la religione più
importante è quella musulmana, lo accuserò di empietà perché
in pubblico professa la fede ebraica e, anche in questo
caso, gli requisirò il suo patrimonio.
Il mercante, dopo aver udito la domanda del suo sovrano,
soppesando le parole così rispose: — Maestà, vi racconterò un
aneddoto. C'era una volta un padre di tre figli, il quale
possedeva un anello con una pietra preziosa: la migliore del
mondo. Poiché tutti e tre pregavano il padre affinché gli
venisse lasciato in eredità questo anello, questi andò da un
valente orafo e gli chiese di fabbricare due anelli uguali a
quello che possedeva. L'artigiano fece un lavoro così
raffinato, che nessuno sarebbe stato in grado di distinguere
le copie dal gioiello originale.
Il padre chiamò i figliuoli separatamente, donando a
ciascuno un anello con la raccomandazione di non farne
parola con gli altri fratelli.
Alla fine, ognuno dei figli si era persuaso di possedere
l'anello vero, ma in realtà nessuno conosceva la verità
tranne il padre loro.
Maestà, allo stesso modo avviene oggi per le religioni: le
fedi sono tre; il Dio che ce le diede sa quale sia la
migliore, e i figliuoli (che siamo noi) sono tutti convinti
di possedere quella autentica. A noi altro non resta che
custodire con affetto il dono che ci è stato trasmesso da
nostro padre.
Il Sultano, dopo aver ascoltato l'arguta risposta del
mercante, non seppe più che dire e lo lasciò andare.
2. L'adulazione (Novellino, XXIV)
Il potentissimo imperatore Federico II di Svevia, sovrano di
tutto il mondo cristiano e grande cultore delle arti e del
diritto, aveva due consiglieri famosi per la loro
proverbiale saggezza: il primo si chiamava messer Bolghero,
mentre l'altro aveva per nome messer Martino.
Un giorno Federico stava passeggiando tra i portici del suo
castello in compagnia di questi due saggi; poiché
l'imperatore aveva sentito il desiderio di disquisire di
diritto proprio in quel momento, pose ai propri fidati
consiglieri il seguente quesito: — Signori, secondo la legge
potrei io togliere ai miei sudditi ciò che voglio senza
spiegarne il motivo se non che io sono il loro signore? In
fondo, non si insegna che ciò che piace al sovrano debba
essere legge per i propri sudditi? Fatemi sapere ciò che ne
pensate, perché la questione mi interessa moltissimo.
Il primo dei due giuristi così rispose: — Maestà,
l'imperatore può fare dei beni dei propri sudditi ciò che
più gli aggrada, senza che gli si possa muovere alcun
rimprovero.
L'altro, invece, argomentò: — A me non sembra che le cose
stiano così, perché la legge si basa sulla giustizia e ai
suoi principi occorre conformarsi. Se fosse vostra
intenzione togliere qualcosa ai vostri sudditi, essi
vorranno sapere il perché.
L'imperatore Federico sembrò apprezzare entrambi i pareri e
perciò fece un dono ad ambedue i consiglieri: al primo donò
un cappello scarlatto e un palafreno bianco, all'altro
invece venne richiesto di redigere una legge secondo la
propria coscienza.
Tra i nobili facenti parte del seguito dell'imperatore si
discuteva in maniera appassionata per stabilire a chi fosse
stato fatto il dono più prezioso, ma nessuno sembrava
trovare l'argomento decisivo.
Alla fine, fu lo stesso Federico a spiegare il suo
comportamento: semplicemente, a colui che lo aveva adulato
egli aveva fatto dono di un cappello e di un cavallo, come
si è soliti fare con i giullari; a colui il quale aveva
dimostrato di perseguire l'ideale della giustizia, il
sovrano aveva invece chiesto di scrivere una legge.
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VII
FIABE IRLANDESI
Dal patrimonio dell'isola di Erin
Molte delle leggende ispirate al pantheon celtico sono
oggi scomparse a seguito dell'avvento del Cristianesimo,
che vedeva nella religione dei druidi un serio pericolo per
la diffusione del nuovo credo. Solamente i racconti che
hanno abbandonato pretese teologiche e cosmogoniche,
riparando nel più tranquillo mare del folklore, sono
riuscite a sopravvivere all'erosione del tempo, regalandoci
alcuni tra i tesori più preziosi della favolistica mondiale.
Non è inutile osservare che, in questo modo, molte delle
divinità della religione celtica hanno perso via via il loro
carattere sacro per mantenere solo quello più rassicurante,
vale a dire quello più propriamente fiabesco: esseri un
tempo divini come gli elfi, le fate e i folletti sono
divenuti protagonisti di racconti fantastici, che
affascinano ancora oggi. Particolarmente intriganti sono le
fiabe gallesi ed irlandesi, con le loro suggestioni magiche
e il loro continuo legame con il meraviglioso.
1. La pietra da minestra
'era
C'una volta un povero mendicante che andava di paese in
paese cercando di trovare il modo di riempire lo stomaco con
un pasto caldo.
Un giorno il vagabondo pensò che una bella minestra gli
avrebbe fatto proprio bene, ma non aveva neppure un penny
in tasca; mentre stava camminando lungo un fiume, si guardò
intorno e vide una bella pietra tonda, che sembrava una
mela; improvvisamente ebbe un'idea.
Cercò una fattoria nelle vicinanze e bussò; ad aprire la
porta venne una contadina. Il mendicante tentò la sorte e le
chiese una pentola e dell'acqua pulita.
Quando ottenne quanto aveva richiesto, il vagabondo cominciò
a lavare la pietra sino a renderla splendente.
La contadina, stupita, chiese il motivo di tanta cura per
quella pietra, al che il mendicante rispose: — Gentile
signora, ma questa pietra è molto rara e preziosa: è una
pietra da minestra.
La donna domandò: — Ma che cosa dite? Forse che con questa
pietra si può cucinare una minestra?
— Certamente — rispose il medicante. — E anche una minestra
particolarmente saporita.
La contadina, meravigliata, disse: — Mi insegnereste a
preparare questa minestra con la pietra?
— Ma con grande piacere, gentile signora — rispose il povero
affamato, che gettò via l'acqua sporca dalla pentola, che
mise poi sul fuoco versandovi sopra acqua fresca; con
solennità, vi pose all'interno la pietra.
Il vagabondo, a questo punto, mormorò: — Un pizzico di sale e
pepe non guasterebbero. — La contadina corse a prendere la
spezie.
— Si potrebbe anche aggiungere un po' di farina — disse il
vagabondo con noncuranza. La contadina andò a prendere anche
la farina e si mise a guardare la pentola, in attesa.
Il mendicante a questo punto esclamò: — Ecco un bell'osso di
montone, che voi sicuramente volevate dare al cane; vediamo
di valorizzarlo.
In realtà la contadina non aveva nessuna intenzione di darlo
al cane ma era così presa dalla ricetta della pietra da
minestra che non vi badò.
Il vagabondo girò con cura la minestra con il mestolo e
l'assaggiò: — Buona e sostanziosa! Ora mancano solo due
patatine, per ingannare l'attesa. — Prese una mezza dozzina
di patate, le sbucciò, le fece a pezzi e le buttò nella
pentola.
Il mendicante assaggiò di nuovo e disse: — La minestra sta
venendo benissimo, grazie alla pietra; per dare un tocco di
classe, avrei bisogno ora di un paio di cipolle.
La fattoressa, sempre più sorpresa, gli dette le cipolle che
finirono nella pentola.
Il vagabondo esclamò, raggiante: — Ecco, la minestra è
pronta; volete assaggiarne un po'?
La contadina rispose: — Certo… ma è veramente deliziosa. Che
miracoli può fare una pietra da minestra! Me la vendereste,
buon uomo?
Il povero affamato, con fare magnanimo, disse mentre
mangiava a sazietà la minestra: — Ve la regalo, gentile
signora. — Le sue membra intirizzite cominciavano a
riscaldarsi, infine.
La contadina esclamò: — Ma come siete buono! Almeno
accettate anche voi un regalo: un po' di tabacco, un pezzo
di lardo…
Il vagabondo finì la minestra, accettò i regali e disse:
— Grazie, signora. Ma ora devo andare: devo insegnare alla
gente come si usa la pietra da minestra.
La donna, ingenua, ricordando bene la ricetta che gli aveva
insegnato il mendicante, continuò a preparare la minestra
nello stesso modo anno dopo anno e si vantava con le sue
amiche di possedere una pietra portentosa.
La minestra venne sempre squisita e tutte le sue vicine la
invidiavano pensando che era proprio fortunata a possedere
un oggetto magico così meraviglioso.
2. La parte del campione
|
Cú Chulainn in battaglia |
Disegno di Joseph Christian Leyendecker.
(Rolleston 1911). |
L'assegnazione della «parte del campione» era un rituale
assai noto nella mitologia celtica; in occasione di solenni
banchetti, l'onore di tagliare la carne arrostita e di
tenere per sé le parti più pregiate era riservato a quello
che veniva riconosciuto essere il migliore tra i guerrieri. La tradizione, apparentemente innocua, poteva tuttavia
diventare estremamente pericolosa se a partecipare al
banchetto erano clan differenti, a volte divisi tra di loro
da antiche inimicizie o rivalità. In tali casi, ciascuno
dei guerrieri più valorosi reclamava per sé l'onore di poter
tagliare la carne, sostenuto dagli uomini del suo seguito:
non di rado, dalle vanterie e dalle schermaglie si passava
direttamente alle vie di fatto e il banchetto degenerava
in una feroce rissa. Si narra che, tra il popolo degli Ulaid , vi erano tre eroi
(Cú Chulainn, Conall Cernach e Lóegaire Búadach) in grado di
aspirare alla parte del campione.
Un nobile degli Ulaid famoso per le sue doti di provocatore,
il vecchio Bricriu dalla Lingua Velenosa, incitò i tre
guerrieri a competere tra di loro per stabilire, una volta
per tutte, a chi toccasse la portata migliore nei banchetti. Vennero così organizzate delle prove di forza e coraggio tra
i tre eroi per decidere chi fosse il migliore, ma nessuna
di esse risultò decisiva; il re Conchobor cominciava a
preoccuparsi, perché gli animi si stavano scaldando un po'
troppo per i suoi gusti e gli Ulaid non potevano permettersi
il lusso di perdere uno dei loro tre guerrieri più valorosi
per una faida intestina. Il re degli Ulaid si rivolse allora ai sovrani della
provincia vicina (il Connacht) affinché essi eleggessero il
migliore: ma questi preferirono evitare di farsi
coinvolgere in questa diatriba e si limitarono a donare una
coppa in metallo prezioso a ciascuno dei tre contendenti. Alla fine toccò a Cú
Roí mac Dáire, un terribile e
spaventoso gigante nativo del Mumu, risolvere la situazione. Cú Roí fece visita alla corte degli Ulaid travestito da
villano: «Aveva un aspetto pauroso e terribile; portava
sulla pelle un indumento di cuoio ed era avvolto in un
mantello scuro… ognuno dei suoi occhi gialli era grande
quanto un paiolo per cuocere un bue». Brandendo un enorme scure, il gigante sfidò ciascuno dei tre
eroi a decapitarlo, ma ad una condizione: chiunque avesse
osato tagliargli la testa, in caso di fallimento si sarebbe
sottoposto allo stesso trattamento il giorno dopo.
Lóegaire il Vittorioso prese allora in mano la scure del
gigante (che mise tranquillamente la testa sul ceppo) e
vibrò un terribile colpo. La testa di Cú Roí rotolò sino ai
piedi del focolare.
Grande fu la meraviglia quando il gigante si rialzò, anche
se decapitato: raccolse la testa e la scure e, pur grondante
di sangue, lasciò la dimora degli Ulaid. La sera seguente Cú Roí tornò a reclamare il suo diritto di
mozzare la testa di Lóegaire, che tuttavia non si fece
vedere. Allora il gigante legò al medesimo patto Conall il
Trionfatore, il quale riuscì a staccare di netto la testa
del suo avversario; ancora una volta, tuttavia, Cú Roí
raccolse tranquillamente la sua testa e se ne andò senza
problemi. Anche Conall, al pari di Lóegaire, non tenne fede
alla parola data e non si presentò al banchetto degli Ulaid
la sera dopo. Cú Roí cominciò allora a schernire Cú Chulainn, sfidandolo
a compiere quello che i suoi rivali non erano riusciti a
portare a termine; preso dall'ira, il guerriero irlandese si
avventò sul gigante e gli assestò un colpo che sembrava
fatale; la testa andò a sbattere contro le travi del tetto
della dimora degli Ulaid e cadde a terra; Cú Chulainn diede
un ulteriore colpo di scure alla testa e la fece in pezzi.
Nonostante questo, ancora una volta il terribile mostro
travestito da villano riuscì a rialzarsi… La sera dopo, tutti i guerrieri erano assai rattristati e
avevano già cominciato ad intonare il lamento funebre per
Cú Chulainn; questi rispettò la parola data e si presentò al
banchetto per offrire il collo all'ascia del gigante.
Cú Roí alzò la scure e si preparò a vibrare il colpo
mortale; il sibilo dell'arma affilata era simile allo
stormire degli alberi di una foresta in una notte di vento. Il gigante abbassò quindi la scure sul collo del coraggioso
guerriero, ma con la lama rivolta verso l'alto; quindi
esclamò: — Àlzati, Cú Chulainn! Tra tutti i guerrieri dell'Ulaid
e di Ériu nessuno ti è pari per coraggio, abilità e onore.
Tu sei il primo eroe d'Irlanda e nessuno potrà contenderti
la parte del campione. Da quel giorno, la fama del grande Cú Chulainn non venne
mai più messa in discussione e fu celebrata da tutti i bardi
dell'isola.
Simili sfide di decapitazione si ritrovano nella mitologia indù e nella
letteratura medievale; si ricorda, tra tutte, la leggenda narrata in
Sir Gawain e il Cavaliere Verde (si veda la
celebre traduzione di J.R.R. Tolkien, pubblicata in Adelphi 1986). |
|
VIII
I TRE FRATELLI
Fiabe dalla remota India
Il patrimonio fiabesco dell'India, noto a noi occidentali
anche grazie al filtro della letteratura araba (che,
soprattutto nelle Mille e una notte, attinge a piene mani
dal patrimonio letterario del subcontinente asiatico), è in
realtà in gran parte ancora tutto da scoprire. Le favole
dell'India si ispirano al mondo della natura, senza
trascurare creature fantastiche e personaggi umani.
L'incanto ed il mistero del panteismo indiano, che venera
tutte le forme di vita come espressione dell'Uno-Tutto cui
dobbiamo ricongiungerci, permea anche la letteratura
popolare, di cui i racconti che seguono costituiscono solo
un piccolo esempio.
1
'era
una volta, nella lontana India, un re
molto famoso per il suo senso della giustizia e per l'amore
nei confronti dei suoi sudditi.
In quel tempo, i sovrani venivano chiamati con il nome di
moġūl e il più famoso tra tutti fu Jalāl ud-Dīn Muḥammad
Akbar, che per comodità noi chiameremo semplicemente con il
nome di Akbar.
Tutta la popolazione lo amava e gli tributava grandi onori,
acclamandolo e gridando il suo nome in pubblico: — Allahu Akbar!
Tale invocazione, è bene dirlo, aveva un duplice
significato: se pronunciata nella lingua dei musulmani, una
delle comunità più numerose dell'India, essa significa: «Dio
è grande» e pertanto aveva anche un suo connotato religioso;
nella lingua hindī, parlata dalla maggior parte della
popolazione, può essere interpretata anche come: «Akbar è un
dio» e come tale essere accettata da tutti quanti amavano il
sovrano.
Il grande moġūl aveva al suo seguito un ministro che lo
aveva servito fedelmente per molto tempo ma che era ormai
molto avanti negli anni e aveva espresso il desiderio di
ritirarsi a vita privata, ragion per cui Akbar gli chiese
se, per caso, poteva indicargli il nome di un possibile
successore, possibilmente all'interno della sua stessa
famiglia.
Il ministro ci pensò per un po' e poi disse: — Mio Sovrano,
innanzi tutto vi ringrazio per il grande onore che intendete
concedere alla mia famiglia. Tuttavia, per potervi
rispondere in maniera adeguata, è per me fondamentale
comprendere che cosa vi aspettate dal vostro prossimo visir.
I miei tre figli, infatti, sono tutti quanti persone fidate
ma hanno caratteri completamente diversi: il primo è forte e
temerario, il secondo è sottile ed intelligente, il terzo
invece è onesto e sincero.
Akbar rimase stupito della sicurezza con cui il suo visir
parlava dei suoi figli ma, per dirla tutta, dubitava che
questi li potesse conoscere così bene; avendo percepito un
certo scetticismo, il ministro del re chiese di essere messo
alla prova e il moġūl non poté esimersi dall'accettare.
Il visir chiamò quindi in separata sede i suoi tre figli e
domandò loro di cogliere per lui una rosa dai giardini del
sultano: per capire meglio quanto fosse anomala una tale
richiesta, dovere sapere che entrare nella dimora del
sultano per sottrarre una qualsiasi delle sue proprietà era
considerato un reato molto grave e come tale severamente
punito.
Il visir, tuttavia, ribadì ai tre fratelli che il suo
desiderio era quello di ricevere una delle rose proibite del
sovrano e chiarì che, se fossero stati catturati, avrebbero
potuto difendersi solo con la bocca.
I tre figli del ministro di Akbar non vollero sottrarsi alle
volontà paterne e decisero quindi di entrare nei giardini
del re.
Il primogenito del visir venne scoperto quasi subito
nell'atto di sottrarre la rosa, ma non si perse d'animo:
egli lanciò un forte urlo di guerra e si gettò addosso ad
una delle guardie del re per mordergli l'orecchio; gettando
tutti nel panico, riuscì così a fuggire e a sottrarsi alla
giustizia del re.
Anche il secondo dei figli del ministro di Akbar venne
scoperto e catturato, ma riuscì ad ingoiare la rosa senza
essere visto, perchè nessuno potesse incolparlo.
Infine, anche l'ultimo dei fratelli venne catturato e
condotto avanti al moġūl; alla presenza di Akbar, il giovane
confessò in maniera molto franca di aver tentato di
sottrarre una rosa dal giardino reale: — Mio sovrano, è vero
che ho tentato di violare una delle tue leggi, ma è altresì
vero che, avendo ricevuto un ordine opposto da mio padre
(che ti ha servito fedelmente per anni ed anni), ho pensato
che tu ne fossi a conoscenza.
Il moġūl comprese che il suo fedelissimo servitore non si
era ingannato sul carattere dei suoi figli; per questo
motivo, egli designò il primogenito del primo ministro a
capo del suo esercito, mentre il secondo venne nominato
ambasciatore; il terzo, giovane ma saggio, prese invece il
posto del padre come gran visir.
2
'è un'altra storia che riguarda tre fratelli che mi
piace raccontarvi: si narra, infatti, che alla morte di un
vecchio pastore i suoi figli stavano discutendo su come
dividersi l'eredità.
Un vecchio saggio, che passava di lì per caso, udì i ragazzi
litigare in maniera piuttosto animata e chiese se potesse
essere loro di aiuto in qualche modo.
Fu il primo dei fratelli a rivolgersi al vecchio in modo
pacato e rispettoso: — Nostro padre, prima di morire, ci ha
lasciato le sue ultime volontà, ma noi non siamo in grado di
adempierle. Poco prima di esalare l'ultimo respiro, infatti,
lui espresse il desiderio che la metà del suo bestiame
venisse data a me, che sono il primogenito; un terzo del
gregge, invece, doveva passare a mio fratello Ḥasan, mentre
al più piccolo dei figli, Ḥasīn, doveva toccare la nona
parte degli animali.
Ora, il problema è questo: nostro padre ci ha lasciato in
eredità diciassette cammelli. Come facciamo a dividerli a
metà? A mio giudizio, sarebbe meglio vendere uno degli
animali e poi ripartire il ricavato della vendita, prima di
dividerci il resto del gregge, ma i miei fratelli non sono
d'accordo.
A questo punto, il secondo dei due fratelli esordì: — Mio
fratello Ḥusayn parla bene, perché è stato maggiormente
beneficiato dall'eredità. Secondo me, egli dovrebbe
rinunciare a una parte della sua quota per favorire i
fratelli minori. Inoltre, questo non è certo il momento
migliore per vendere i cammelli al mercato: non ne
ricaveremmo certo un buon prezzo.
A questo punto prese la parola Ḥasīn, il più giovane: — È
per questo motivo che avevo suggerito di macellare uno dei
cammelli e di offrire un solenne banchetto in onore di
nostro padre, ma i miei fratelli non sono d'accordo, perché
non intendono mantenere gli scansafatiche del paese.
Ḥusayn sguainò un coltello da macellaio e prese nuovamente
la parola: — Io non vedo alternative; dobbiamo tagliare a
metà almeno una delle bestie e dividerci i resti.
Il vecchio saggio sorrise e commentò con tono bonario e
paterno: — Voglio aiutarvi; anche io possiedo un cammello e,
per agevolarvi a fare la divisione, intendo farvene omaggio.
In questo modo, non dovreste avere problemi a fare le parti,
rispettando la volontà di vostro padre che avrebbe
certamente desiderato che voi andaste sempre d'amore e
d'accordo.
I tre fratelli, lusingati quella proposta così generosa,
accettarono ed iniziarono a dividere il gregge. Al maggiore
dei figli, Ḥusayn, toccò la metà del gregge, vale a dire
nove cammelli; ad Ḥasan spettarono invece sei animali, pari
ad un terzo dei beni dell'eredità; Ḥasīn ebbe invece la nona
parte del bestiame e portò con sé due cammelli.
Al termine della divisione avanzava però un cammello; ragion
per cui, il vecchio saggio esibì il sorriso più solare di
cui era capace, risalì sulla sua cavalcatura e salutò
amabilmente i tre fratelli, felici di aver adempiuto alle
ultime volontà del padre.
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IX
L'ELEFANTE IMPAZIENTE
Gli insegnamenti di mamma Africa
Il continente africano non solo è la culla
dell'umanità, ma anche la fucina che ha forgiato molte tra
le fiabe più antiche del mondo: protagonisti di questi
racconti sono, in genere, gli animali della savana, ciascuno
dei quali rappresenta una peculiarità del carattere umano
(come il famoso Chingula, il coniglio, simbolo di astuzia
e di intelligenza); ma non mancano le storie aventi come
protagonisti gli esseri umani.
Ancora oggi le popolazioni che vivono in questo continente
così misterioso (da cui un giorno i nostri progenitori
partirono alla conquista del mondo) amano sedersi accanto al
fuoco per ascoltare i vecchi saggi che raccontano una
storia. Chi avesse la voglia di leggere alcuni dei racconti
popolari di queste terre straordinarie, scoprirà analogie
sorprendenti con la favolistica moderna, come se le fiabe
dell'Africa rappresentassero le radici comuni delle storie
senza tempo.
Scegliere, tra le varie fiabe del patrimonio africano, quale
proporre in questo libro era un'impresa ardua; per cui, alla
fine, ha prevalso un criterio basato unicamente sulla
soggettività dell'Autore: ho avuto la fortuna, infatti, di
vedere all'opera un mediatore culturale di nome Clovis,
proveniente dal Camerun, capace di ammaliare un vasto
pubblico di bambini (tra cui mia figlia) raccontando storie
e coinvolgendo grandi e piccini nelle danze tribali. Questa
favola, che ho udito dalle sue labbra, vuole essere un
omaggio a lui e al continente che lui degnamente
rappresenta.
ra
un giorno come tanti, nella immensa savana africana; un
nobile e poderoso elefante era alla ricerca di una fonte di
acqua limpida per placare la sua sete.
Giunto in prossimità di un fiume, non riuscendo più a
sopportare l'arsura che aveva in gola, si precipitò a
capofitto verso l'acqua e bevve con avidità.
Dopo le prime abbondanti sorsate, l'elefante venne preso
improvvisamente dal panico ed emise un forte barrito: — Cosa
succede? Non riesco più a vedere bene.
Alcuni istanti dopo, il pachiderma proruppe in un pianto
disperato: — Il mio occhio! Il mio occhio! Non ho più il mio
occhio destro! Deve essere caduto in acqua mentre bevevo!
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Elefanti |
Effettivamente, l'occhio destro dell'elefante era uscito
fuori dalla sua orbita ed era caduto; il pachiderma si mise
alla ricerca di quell'organo per lui così vitale in maniera
convulsa, rimestando l'acqua del fiume, senza fermarsi un
attimo: la rapidità era essenziale per risolvere il problema
al più presto e lui non aveva alcuna intenzione di perdere
tempo.
L'elefante cercò freneticamente l'occhio per ore ed ore,
senza ottenere altro risultato se non quello di rendere più
torbida l'acqua del fiume: ciò contribuiva a gettare
maggiormente l'animale nel panico più totale, poiché i
mulinelli di sabbia gli impedivano di vedere con chiarezza.
All'improvviso, nella savana echeggiò una risata. Furente,
l'elefante si girò in tutte le direzioni per vedere chi
osava burlarsi di lui e, con la coda dell'occhio, vide una
piccola tartaruga, seduta su un ceppo, che rideva e rideva.
— Pensi che tutto questo sia divertente? — gridò l'elefante.
— Ho perso un occhio e questo ti fa ridere?
La tartaruga riuscì a ricomporsi e rispose con garbo:
— Quello che è divertente non è quello che ti è successo, ma
vedere come reagisci: sei totalmente sconvolto!
Il pachiderma replicò, offeso: — Ah, sì? Sentiamo allora
cosa hai da suggerirmi. Sono tutti bravi ad essere saggi con
i problemi altrui. Che cosa mi consigli di fare, dunque?
La tartaruga sussurrò con pacatezza: — Devi imparare ad avere
pazienza. Càlmati e tutto andrà bene.
Anche se scettico, l'elefante decise di seguire il consiglio
della tartaruga; in fondo, che cosa aveva da perdere? Smise
di smuovere l'acqua del fiume, che tornò ben presto chiara e
cristallina.
Di lì a poco, quale non fu la sorpresa del poderoso animale
nello scoprire che il suo occhio era proprio lì, davanti a
lui; l'elefante lo afferrò facilmente con la sua proboscide
e se lo mise di nuovo nell'orbita.
Felice e contento per aver ritrovato quello che cercava con
tanta ansia, l'elefante si girò in direzione della tartaruga
e, con un pizzico di vergogna, la ringraziò per il prezioso
consiglio.
Ma il piccolo abitante della savana era già scomparso tra le
fronde emettendo un mormorio che, alle orecchie
dell'elefante, suonava così: — La pazienza! Ricordati della
pazienza!
Questo sia pur breve racconto contiene un messaggio
semplice, ma certamente non privo di una grande saggezza.
Sicuramente non c'è nulla di divertente nel perdere un
occhio, ma il panico e la fretta non ci aiutano. In realtà,
è proprio la nostra ansia a renderci ciechi, per cui noi
diventiamo per alcuni istanti totalmente incapaci di vedere
il mondo che ci sta attorno in maniera obiettiva e
razionale.
Per fortuna esiste un rimedio al panico: la pazienza.
L'Africa ci insegna che in alcuni casi è meglio attendere
sino a quando la situazione non diventa chiara e le nubi non
si disperdono.
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La favola di Pierino e il lupo, rivissuta da mia figlia
Beatrice |
Epilogo
Come il lettore potrà facilmente immaginare, questo
libercolo costituisce solamente una goccia nell'oceano del
mondo delle leggende e delle fiabe.
Chi avesse voglia di approfondire l'universo delle
favole, potrà attingere sia alla bibliografia citata che
alla nutrita serie di pubblicazioni esistenti in materia,
dalle fiabe popolari sino agli autori più moderni: i
francesi Perrault e La Fontaine, il danese Andersen, il
russo Afanas'ev, gli italiani Basile e Gozzano, le fiabe dei
fratelli Grimm...
Lo scopo dell'Autore, ancora una volta, è quello di
risvegliare nel lettore la curiosità di riscoprire un mondo
millenario; mi confortano, in tal senso, i commenti di chi
ha avuto la pazienza di leggere i miei precedenti scritti.
L'idea di fondo rimane lo stessa: per parafrasare una
felice battuta di un film tratto da un romanzo di Baricco,
non si è mai del tutto perduti sino a quando si ha una bella
storia da raccontare.
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Bibliografia
- AA.VV. Il novellino. Fabbri, Milano
2001.
- AA.VV. Racconti della dinastia Tang.
Casa editrice in lingue estere, Pechino 1989.
- AA.VV. Sir Gawain e il Cavaliere Verde
(traduzione di J.R.R. Tolkien). Adelphi, Milano 1986.
- AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia [cura]. I
racconti gallesi del Mabinogion. Mondadori, Milano 1982.
- AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia [cura]. La
saga irlandese di Cú Chulainn. Mondadori, Milano 1982.
- AGRATI Gabriella ~ MAGINI Maria Letizia [cura].
Saghe e racconti dell'antica Irlanda. Mondadori, Milano 1993.
- CASTELLI Mimma Dotti. Fiabe e leggende dell'India.
Demetra, Bussolengo 1996.
- ESOPO. Favole. Rizzoli, Milano 1989.
- FEDRO. Favole. BIT, Milano 1996.
- HETMANN Frederik. Fiabe irlandesi.
Mondadori, Milano 1991.
- KHAWAM R.R. [cura]. Le mille ed una notte
(testo stabilito sui manoscritti originali). Rizzoli, Milano 1992.
- MANDELA Nelson. Le mie fiabe africane.
Donzelli, Roma 2004.
- SYNTIPAS. Novelle bizantine. Rizzoli,
Milano 2004.
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