PREFAZIONE
Cos'è il mito?
«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.»
Gian Battista Vico
Ricordo ancora, come se fosse oggi, il giorno in cui lessi
per la prima volta in un fumetto un termine che per me, all'epoca, non aveva
praticamente senso: «Titano».
avevo all'incirca sei anni e le mie letture erano basate soprattutto sui
personaggi di Walt Disney e sul Corriere dei piccoli (sì, lo so: sono
passati molti anni da allora; ho vissuto la mia infanzia durante i lontanissimi
anni '70 del secolo ormai trascorso). Ragion per cui corsi subito da mio padre a
chiedere il significato di quella parola tanto strana.
Di lì a poco, da non so quale anfratto della biblioteca uscì fuori un libro le
cui pagine erano ingiallite già da allora : — Volevi sapere dei Titani? — disse
mio padre e, senza neppure darmi il tempo di rispondere, cominciò a leggere...
— Creature immortali come gli Dei, ma privi dell'onnipotenza divina, i Titani
erano giganti di colossale statura; la più alta quercia avrebbe appena toccato
coi suoi rami il loro fianco, ed essi avrebbero potuto schiantarne il tronco con
facilità...
Questo era l'incipit del capitolo che mi venne letto quella sera di tanti
anni fa; e da lì cominciò il mio viaggio nel mondo dei miti e delle leggende del
passato, viaggio che a tutt'oggi non si è ancora concluso.
Scopo di questo libro è quello di ricordare ai ragazzi di oggi, spesso
anestetizzati da computer e videogiochi, che è possibile ancora sognare come
facevano i nostri antenati, seduti di fronte al fuoco e ascoltando un vecchio e
saggio narratore di favole.
Un mestiere così importante, quello dello storyteller, che in epoche
antiche era degno di altissima considerazione e che ora è pressoché dimenticato.
Al punto tale che in Irlanda, una delle culle del patrimonio fiabesco
dell'umanità, per timore di perdere questa ricchezza, l'Università sovvenziona i
ricercatori per andare di villaggio in villaggio ad ascoltare le favole degli
anziani e per metterle per iscritto, affinché sopravvivano ancora a beneficio
delle generazioni future.
Lascio ora senz'altro spazio alla lettura, rivolta a grandi e piccini, delle
«favole antiche», augurandomi che possa aiutare genitori e figli a passare
qualche istante in più in compagnia di una bella storia.
E che la lettura serva a riscoprire che, dall'alba dei tempi, gli uomini amano
raccontare e raccontarsi e che, in fondo, al giorno d'oggi siamo ancora debitori
di quel patrimonio. Per dirla con le parole del grande sceneggiatore Giancarlo
Berardi: — Che senso avrebbe continuare a scrivere dopo le opere di Omero e la
Bibbia? In realtà, noi continuiamo a riscrivere quelle storie, adattandole alla
nostra sensibilità e a quella dei nostri tempi.
...Conservo gelosamente quel volume ancora oggi, anche se le
pagine negli ultimi trent'anni sono diventate ancora più gialle. Il titolo del
libro è: Le favole antiche, scritto da
Giuseppe Morpurgo, ed edito dalla G.B. Petrini di Torino nel 1953. |
I
PROMETEO
Questa leggenda, tramandataci dai Greci e menzionata già
nella Teogonia di Esiodo, fu il primo racconto di
mitologia che riuscii a leggere per intero da solo (complice
la partenza di mio padre per un viaggio di lavoro e la mia
irresistibile curiosità di sapere... come sarebbe andata a
finire). Sono pertanto particolarmente affezionato a questo
mito e per questo intendo iniziare questo piccolo viaggio
nei racconti del passato con la storia del Titano
indomabile.
ei tempi in cui
gli dèi camminavano ancora
tra i mortali e bussavano di casa in casa chiedendo
ospitalità per la notte, i nostri avi ci hanno tramandato la
storia dell'indomabile Prometeo.
Narrano le leggende che all'alba dei tempi i Titani,
primi tra gli dèi, dominassero il mondo; creature immortali,
giganti dalla voce possente e dalla colossale statura, essi
erano stati tuttavia maledetti dal padre Urano perché con la
loro tracotanza lo avevano spodestato dal dominio
dell'universo.
Ci fu, in quei tempi, una guerra terribile tra gli dèi
che oppose tra di loro i due pretendenti al trono celeste.
Da una parte, Crono (SATURNO) e i suoi seguaci che si erano
stanziati sul Monte Otri; dall'altra, suo figlio Zeus
(GIOVE) con i suoi alleati, dal Monte Olimpo; la maggior
parte dei Titani prese le parti del dio Crono.
Uno solo fra di essi, tuttavia, parteggiò per Zeus; non
per amore per il nuovo dio, ma perché si racconta che egli
conoscesse gli eventi futuri e fosse in grado di discernere
da subito il corso del Fato (il nome del destino secondo gli
antichi): questi era Prometeo, il cui nome pare significhi
appunto il «Preveggente».
Come egli aveva previsto, infatti, la vittoria arrise a
Zeus, che si vendicò dei Titani che non l'avevano sostenuto
precipitandoli nelle più profonde cavità degli abissi.
Uno di essi, il mostruoso Tifeo, era stato abbattuto da
un fulmine e seppellito sotto un vulcano, che sussulta e
provoca terribili terremoti ed eruzioni di fuoco e lava ogni
volta che il mostro si agita e tenta di liberarsi; il
fortissimo Atlante, invece, era stato condannato a reggere
sulle sue spalle la volta del cielo; analoghi supplizi
sarebbero toccati agli altri seguaci del dio Crono.
Il giorno della sua vittoria, Zeus organizzò un grande
banchetto a Mekone, cui fu invitato anche Prometeo; al
Titano venne richiesto di fare le parti di un grosso bue e,
dopo averlo diviso, per irridere il nuovo padrone
dell'universo pose da una parte carni e interiora
nascondendole nel ventre dell'animale e dall'altra ossa
bianche avvolte nel grasso. Zeus beffardo scelse con ambedue
le mani la porzione che credeva più grossa e prese così il
mucchio delle ossa e del grasso; adirato per l'inganno, Zeus
meditò a lungo la sua vendetta nei confronti del Titano, che
aveva osato tentare di metterlo in ridicolo davanti a tutti
gli immortali.
Prometeo, intanto, era disceso sulla terra per recare
conforto agli uomini mortali, che allora vivevano ancora
allo stato ferino e insegnò loro come costruire una casa e
gli arnesi per sopravvivere, l'arte dell'agricoltura,
l'importanza della famiglia e della solidarietà.
Zeus aveva però negato loro il privilegio del fuoco e
ordito, un ulteriore inganno nei confronti del genere umano,
...formò con la terra un'immagine di vergine vereconda, per il volere del figlio di Crono, l'ornò di cintura e la vestì di candida veste; dall'alto del capo un velo dai mille ricami di sua mano la fece cadere, meraviglia a vedersi.
(Esiodo, Teogonia
[571-577])
Pandora fu il nome che venne dato alla creatura che Zeus
aveva plasmato e da lei sembra che discenda la razza di
tutte le donne; ella venne tra gli uomini reggendo sul capo
una grande anfora d'oro, dicendo che il padre di tutti gli
dèi l'aveva inviata sulla terra per diffondere gioia e
serenità.
Il Fato volle che fu Epimeteo, l'ingenuo fratello di
Prometeo, a tentare di aprire con forza l'anfora di Pandora,
convinto che in essa vi fosse il nettare che gli dèi bevono
alla loro mensa; ma quando l'anfora si aprì da essa
fuoriuscirono, come fantasmi, tutti i mali che affliggono
oggi il mondo: la vecchiaia, le malattie, gli affanni,
l'odio e la violenza.
In fondo al vaso, tuttavia, gli dèi vollero che
albergasse comunque un sollievo per tutte le sofferenze
dell'umanità, nonostante i mali che l'avrebbero afflitta.
Quando Prometeo venne a trovare l'ingenuo fratello,
l'anfora giaceva ancora a terra, e attorno ad essa
aleggiavano sinistre forme dall'aspetto minaccioso; ma
quando il Titano tentò di richiuderla di nuovo, una
dolcissima voce femminile richiamò la sua attenzione.
Fu così che Prometeo poté vedere, in fondo all'anfora, lo
sguardo della più giovane delle dee; il nome della piccola
creatura era Elpis, che nel linguaggio antico significa la
Speranza; ella uscì dal vaso da cui erano usciti tutti i
mali, perché da allora è scritto che in fondo ad ogni
sventura c'è sempre la speranza a darci conforto.
Il Titano venne colpito da enorme sdegno per tutte le
sciagure che Zeus aveva afflitto agli uomini e, pur
consapevole di quanto fosse grave sfidare apertamente il
nuovo tiranno del cielo, Prometeo giurò a se stesso che Zeus
avrebbe dovuto pagare per il grave torto commesso nei
confronti dei mortali.
Il Titano organizzò uno stratagemma per carpire agli dèi
il segreto del fuoco: egli si recò infatti con rapidi balzi
alle pendici dell'Olimpo, la dimora di tutti gli dèi,
portando con sé un'anfora di vino rosso.
Una volta giunto, notò che tutti dormivano tranne il
fabbro degli dèi, Efesto, il quale vegliava
affinché il fuoco che ardeva sul Monte Olimpo non si
spegnesse mai.
Prometeo parlò con cordialità ad Efesto e gli offrì il
vino della sua anfora, cui era stato tuttavia mischiato del
succo di papavero; Efesto ne bevve e venne colto
improvvisamente dal sonno.
Il Titano ne approfittò per ghermire dall'Olimpo le
faville del fuoco e per portarlo tra gli uomini; da allora e
solo da allora i nostri antenati riuscirono a carpire il
segreto della fiamma e a cessare di tremare per il freddo e
per la paura di notte, poiché Prometeo sfidò la inevitabile
vendetta degli dèi per rischiarare le tenebre dell'umanità.
Così non si può di Zeus ingannare il volere né ad esso sottrarsi: né infatti il figlio di Giapeto, Prometeo benefico, sfuggì l'ira profonda di lui.
(Esiodo, Teogonia
[613-615])
Come egli aveva comunque previsto, infatti, la vendetta di
Zeus non tardò ad abbattersi su Prometeo. Fu Efesto con i
suoi Ciclopi, esseri giganteschi con un occhio solo sulla
fronte, a trascinare il Titano sui Monti della Scizia e ad
incatenarlo ad una parete di roccia.
A nulla valsero i lamenti dell'Oceano e delle ninfe del
mare; la vendetta del signore di tutti gli dèi era
implacabile e non conosceva la misericordia.
Prometeo, tuttavia, non si abbassò mai a chiedere pietà
al suo carnefice; egli, invece, gridò al cielo che un giorno
anche Zeus sarebbe stato spodestato dal suo trono qualora si
fosse unito in nozze fatali con una dea che avrebbe generato
un figlio più forte di lui; il Preveggente conosceva il nome
della donna che avrebbe potuto partorire una creatura così
potente, ma mai ne avrebbe rivelato il nome se prima Zeus
non si fosse deciso a liberarlo.
Zeus minacciò rabbiosamente Prometeo di terribili
vendette e di supplizi inenarrabili, qualora il Titano non
avesse rivelato subito il nome fatale, ma questi non
cedette; il signore dell'Olimpo, allora...
...legò Prometeo dai vari
pensieri con inestricabili lacci, con legami dolorosi,
che a mezzo d'una colonna poi avvolse, e sopra gli avventò un'aquila,
ampia d'ali, che il fegato gli mangiasse immortale,
che ricresceva altrettanto la notte quanto nel giorno
gli aveva mangiato l'uccello dalle ampie ali.
(Esiodo, Teogonia
[521-523])
Le rocce cui era stato incatenato il coraggioso Titano
vennero tormentate da terribili scosse di terremoto, che
squarciarono le rocce e fecero tremare tutte le creature
viventi, ma mai il cuore di Prometeo tremò, né il suo fermo
intento vacillò sia pure per un istante.
Alla fine, non i supplizi di Zeus, non i lamenti delle
ninfe, non le preghiere degli uomini riuscirono a vincere la
caparbietà del Titano, ma l'intervento della stessa Madre
Terra, che si offrì ad agire da paciere tra i due immortali
affinché l'armonia tornasse a regnare nel cosmo.
Prometeo ubbidì alla madre di tutti gli esseri immortali
e rivelò al messaggero di Zeus che la donna che avrebbe
potuto generare un figlio destinato ad essere il nuovo
padrone del cielo era Tetide, una dea del mare.
Zeus procurò che Tetide fosse promessa in sposa ad un
uomo mortale, affinché mai potesse generare prole divina, e
mantenne la sua promessa fatta alla dea Terra: l'aquila che
tormentava ogni giorno il fegato di Prometeo venne uccisa
dal più forte di tutti i figli di Zeus, il giovane Eracle
che i popoli dell'Occidente conobbero anche con il nome di
Ercole.
Eracle spezzò le catene che tenevano ancora prigioniero
il Titano e a quel punto si compì un prodigio: il corpo di
Prometeo divenne roccia e si fuse completamente con la
montagna cui era stato incatenato così a lungo; la sua
anima, invece, che mai era stata schiava o prigioniera di
alcuno, spiccò il volo verso il Sole.
Le leggende dei nostri avi raccontano che Prometeo
sopravvisse al cosmo di Zeus e a quello degli dèi che si
sono via via succeduti a lui nel cuore degli uomini; egli
vive ancora: è sempre accanto a noi tutte le volte in cui
qualcuno si adopera per il bene degli altri, compie una
grande impresa o quando viene fatta una scoperta in grado di
aiutare l'umanità.
Egli ci assiste e ci consola nei momenti di difficoltà e
ci sopporta pazientemente quando dimentichiamo i suoi
insegnamenti.
Gli antichi Elleni (oggi meglio noti con il nome di
Greci) tramandano da secoli la storia del Titano Prometeo e
credono che finché al mondo vi sarà qualcuno degno di
commemorarne la memoria e di tentarne l'emulazione, le
faville del fuoco che vennero portate dall'Olimpo per
riscaldare l'anima dei mortali continueranno ad ardere.
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Atlante e Prometeo |
Figura laconica nera, da un amphoriskos (±530 a.C.).
Musei Vaticani, Roma. |
|
II
TESEO E IL MINOTAURO
Il nostro percorso tra i miti del passato prosegue con
la leggenda del Minotauro; questo è stato il primo racconto
che ho letto a mia figlia Beatrice, sicuro di annoiarla a
morte… Invece, a distanza di qualche giorno, la sorpresi a
parlare con la nostra portiera, che ci stava raccontando
della recente nascita di una bambina, di nome Arianna. Gli
occhi di Beatrice si illuminarono e chiese: «Ma chi, quella
di Teseo?» Allora capii che io e mia moglie stavamo
percorrendo il sentiero giusto… Questo racconto è dedicato a
mia figlia Beatrice.
anto tempo fa regnava nell'Attica un re chiamato Egeo; la
tradizione ci dice che la città più importante di questa
regione fosse Atene, per la quale è opportuno spendere
qualche parola in più.
Si narra, infatti, che subito dopo la sua fondazione due
divinità si contendessero l'onore di dare il nome alla
città: Poseidone (Nettuno), dio del
mare, sperando di ingraziarsi il favore degli abitanti
dell'Attica offrì il dono per lui più prezioso: il cavallo;
Pallade Atena (Minerva), dea della
sapienza e della guerra eroica, cercò di guadagnarsi il
patronato recando a beneficio della popolazione l'albero
dell'ulivo.
La dea Atena venne dichiarata vincitrice, per cui alla città
appena fondata venne dato il nome di Atene; al fine di
placare la collera dello sconfitto dio Poseidone, tuttavia,
gli abitanti del luogo edificarono un tempio in suo onore a
strapiombo sul mare, a Capo Synion; ancora oggi, è possibile
ammirare da quel monumento uno dei tramonti più belli del
mondo.
Il primo re di Atene fu Cecrope, figlio della dea Terra e
fondatore della prima dinastia di reggitori della città, il
quale a causa delle sue origini veniva spesso raffigurato
con la parte inferiore del corpo a forma di serpente
(animale particolarmente sacro per i Greci in quanto aveva
il privilegio di vivere più di tutti a contatto con la
terra).
Fondatore della seconda dinastia di regnanti fu, invece,
Erittonio, figlio della stessa dea Atena (che, però, per una
strana alchimia che solo i miti possono alimentare, si è
sempre dichiarata Parthenos, cioè vergine), di cui
Egeo era un pronipote.
Egeo regnò su Atene per molti anni, ma il destino per
lungo tempo lo privò della gioia di un erede maschio. Per
paura di non poter trasmettere il trono ad un suo
discendente, Egeo si recò a chiedere consiglio nel luogo più
sacro di tutta l'antichità: l'oracolo di Delfi, dove – si
diceva – il dio Apollo, nume solare nonché protettore della
poesia e delle arti, parlava per il tramite della sua
sacerdotessa, la Pizia. Le parole dell'oracolo («Tieni
chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il
punto più alto della città di Atene, altrimenti un giorno ne
morirai di dolore») non vennero comprese da Egeo, il quale
sconsolato si recò a Trezene, alla reggia del re Pitteo.
Il re di Trezene presentò Egeo a sua figlia Etra; tra i
due, complice anche un improvviso stato di ubriachezza del
re di Atene (favorito, a quanto si racconta, dallo stesso re
Pitteo), sbocciò una passione travolgente a seguito della
quale Etra rimase incinta, anche se alcuni mormorarono che
fu in realtà il dio Poseidone a fecondare la figlia del re
di Trezene.
Quando seppe dello stato di Etra, Egeo decise di tornare
ad Atene, ma volle nascondere i suoi calzari, lo scudo e la
spada sotto una roccia; prima di partire, il re di Atene
disse alla principessa di Trezene che il loro figlio avrebbe
potuto presentarsi al padre solo quando fosse riuscito a
sollevare la pietra e a riportare indietro le armi e i
calzari.
Alcuni mesi dopo, Etra diede alla luce un figlio maschio,
cui diede il nome di Teseo: il fanciullo crebbe forte e
coraggioso e in breve tempo riuscì a sollevare l'enorme
pietra che nascondeva le armi del padre; solo allora, la
madre rivelò a Teseo la verità sulle sue origini.
Il giovane rampollo del re di Atene decise di mettersi
subito in marcia per raggiungere la dimora paterna, pur
sapendo che il tragitto che lo separava da Atene era
infestato da ladri e banditi. Giovane, coraggioso e
ambizioso, Teseo decise di andare ad Atene per la via di
terra. Si narra che, durante il viaggio che lo separava
dalla città paterna, molti furono i briganti che tentarono
di sbarrargli la strada, ma senza successo. Il più famoso di
questi avversari si chiamava Procuste ed era solito stendere
quanti gli capitavano tra le grinfie su di un letto: se la
sua vittima era più lunga del giaciglio, gli amputava le
gambe; in caso contrario, gli stiracchiava gli arti sino a
farla morire di dolore; il giovane Teseo lo uccise
praticandogli lo stesso trattamento che era solito riservare
ai suoi prigionieri.
Giunto ad Atene, Teseo si presentò alla reggia ma non
rivelò la sua vera identità. All'epoca, un Egeo molto
invecchiato era praticamente alla mercé della sua
consigliera Medea, una maga molto potente originaria della
Colchide (l'odierno Caucaso) e famosa per una serie di
delitti efferati; dopo aver funestato la città di Corinto
uccidendo con le proprie mani i figli che aveva generato
dall'eroe Giasone, ella era riuscita a trovare asilo in
Attica, dove si era guadagnata comunque una fama di donna
saggia e divinatrice presso il re.
Medea, sospettosa per l'arrivo dello straniero e temendo
di perdere la posizione di potere che aveva ormai
consolidato in Atene, cercò di persuadere Egeo ad uccidere
il giovane. Per fortuna, il re riconobbe i calzari pochi
istanti prima che Teseo bevesse dal calice di vino
avvelenato che aveva preparato Medea. Padre e figlio si
erano finalmente riconosciuti e riuniti dopo tanto tempo e
la maga malvagia venne esiliata per sempre da Atene.
Teseo venne associato al trono dal padre e questi lo
ripagò sconfiggendo tutti i fieri nemici della città,
consolidando il potere della sua dinastia in tutta la
regione; ben presto, tuttavia, anche per Teseo venne il
momento di confrontarsi con eventi decisamente tragici.
Alcuni anni prima, infatti, era giunto a far visita ad
Atene il nobile Androgeo, figlio di Minosse, re della
potentissima Creta. Poiché il giovane principe nel corso di
giochi ginnici organizzati in suo onore era riuscito a
umiliare gli Ateniesi in ogni disciplina, Egeo lo uccise, in
preda alla gelosia.
Il sovrano di Creta Minosse, infuriato per questo
terribile oltraggio, aveva dichiarato guerra agli Ateniesi e
li aveva sconfitti imponendo loro terribili condizioni: ogni
nove anni, infatti, sette giovinetti e sette fanciulle
dovevano essere inviati a Creta per essere offerti in
sacrificio al Minotauro, un feroce mostro di cui è bene
parlare più diffusamente.
La nostra storia a questo punto si sposta nell'isola di
Creta, dove regnava il potente Minosse, padrone
incontrastato del mare che dominava dalla sua fastosa reggia
di Cnosso; egli era figlio di Zeus (Giove)
e della bella Europa, che il padre di tutti gli dei era
riuscito a sedurre solo prendendo le sembianze di un toro.
Sua moglie Pasifae era figlia di Helios, il dio del sole, e
sorella del sovrano della Colchide (nonché zia della
terribile Medea di cui abbiamo fatto cenno poco fa).
Minosse era particolarmente devoto a Poseidone, il dio
del mare, al quale aveva promesso di offrire in sacrificio
il toro più bello di tutta l'isola; si narra, a questo
punto, che lo stesso Poseidone facesse sorgere dai flutti
marini un animale dalla bellezza incomparabile. Il sovrano
ne fu talmente ammirato che decise di sacrificare un altro
toro in sua vece, destinando il dono di Poseidone ai suoi
armenti privati; dimenticava, l'ignaro ed ingenuo Minosse,
che gli dei raramente dimenticano o perdonano un torto
subito.
La vendetta del dio del mare non si fece attendere: la
bella Pasifae, infatti, venne posseduta da un immondo
desiderio nei confronti del toro emerso dalle onde; per
placare il suo ardore, la regina chiese all'artigiano più
famoso dell'isola, l'abilissimo Dedalo, di costruirle una
mucca di legno dove nascondersi; quello stratagemma consentì
a Pasifae di ingannare il toro e di sedurlo.
Da quella folle ed insana passione amorosa nacque una
creatura deforme ed atroce, cui venne dato il nome di
Minotauro: il corpo gigantesco era quello di un uomo, la
testa enorme era quella di un toro; si nutriva di carne
umana ed emetteva terrificanti muggiti.
Il re Minosse, inorridito, ordinò a Dedalo di trovare il
modo di nascondere quel terribile mostro dalla vista di
tutti; e quell'abile artefice costruì attorno alle stanze
presso cui dimorava il Minotauro un Labirinto, un bislacco
edificio pieno di stanze, viuzze e cunicoli dalla pianta
così complicata che era impossibile per chiunque entrare e
ritrovare l'uscita prima di essere scoperto e divorato da
quella terribile creatura affamata di carne umana; ancora
oggi, quando ci perdiamo, non facciamo alcuna fatica a dire
che ci troviamo all'interno di un labirinto oppure (se siamo
particolarmente raffinati) a parlare di un «dedalo» di
viuzze in riferimento alla pianta di un quartiere o di una
cittadina particolarmente complessi.
Per evitare che svelasse il terribile segreto del
Labirinto, Minosse aveva proibito al suo artefice di uscire
da quell'edificio, cosicché Dedalo si trovava a vivere
praticamente da prigioniero, assieme al figlio Icaro, nella
costruzione che lui stesso aveva progettato.
L'abile artigiano non si diede per vinto e riuscì a
costruire due immense paia di ali con le penne di volatili,
assicurandole al proprio corpo e a quello del figlio con la
cera.
Padre e figlio riuscirono a spiccare il volo e furono i
primi ad accarezzare un sogno che ha sedotto l'umanità sino
ai tempi più moderni: volare! Dedalo ed Icaro riuscirono
così a fuggire dal Labirinto.
Nonostante le raccomandazioni del padre, il giovane Icaro
fu talmente inebriato dall'esperienza del volo da
dimenticare ogni prudenza; questi saliva sempre più su,
sempre più su verso il sole, deciso a coglierne
l'incomparabile bellezza come nessuno aveva potuto prima di
lui.
Disgraziatamente per Icaro, il calore dei raggi del sole
sciolse la cera che teneva le ali attaccate alle sue
scapole; il giovane precipitò così in mare e trovò la morte.
Dedalo, invece, aveva guadagnato la libertà raggiungendo le
coste della Sicilia, ma l'aveva pagata comunque ad un prezzo
altissimo: la perdita dell'unico figlio.
Ma è tempo di ritornare al protagonista di questa storia,
vale a dire al giovane Teseo in procinto di salpare verso
Creta assieme ai quattordici giovinetti destinati al
sacrificio.
Il vecchio Egeo aveva chiesto al figlio di issare delle
vele bianche al ritorno in patria, qualora fosse riuscito a
sconfiggere il Minotauro; in caso contrario, le vele da
issare sulla barca dovevano essere di color nero. Teseo
salutò il padre con affetto e promise di ritornare
vittorioso.
I poeti raccontano che, quando la nave proveniente da
Atene approdò nel porto di Cnosso, tutti notarono la
fierezza e la nobiltà del giovane figlio del re Egeo, che si
presentò davanti a Minosse con la dignità che si addice agli
uomini impavidi, coraggiosi e dall'animo nobile.
Il destino, che spesso aiuta i giovani e gli audaci,
venne in soccorso di Teseo nelle sembianze del dio Eros, un
fanciullo alato che si diverte a sconvolgere la vita delle
persone istillando in loro il germe di un sentimento
travolgente: l'amore. Arianna, la giovane e bella figlia di
Minosse, si invaghì del principe ateniese e cercò in tutti i
modi di trovare il modo di salvarlo da un triste destino che
appariva a tutti inevitabile: la morte per mano del
terribile Minotauro.
In realtà, il vero nemico di Teseo era l'inestricabile
Labirinto, da cui mai l'eroe sarebbe riuscito ad uscire
anche una volta ucciso il mostro dalla testa di toro. Lo
stratagemma utilizzato da Arianna per salvare il suo amato è
talmente famoso e noto da essere divenuto proverbiale, anche
a distanza di tanti secoli.
Teseo ebbe in dono dalla principessa cretese un gomitolo
di filo rosso (il «filo di Arianna», appunto); mentre il
figlio del re di Atene si inoltrava nel Labirinto, questi
svolgeva il gomitolo, sicuro di ritrovare la via del ritorno
perché Arianna reggeva l'altro capo del filo.
Alla fine, quel gigantesco e immondo essere dalla testa
taurina si parò di fronte al giovane eroe e i due
ingaggiarono una terribile lotta al termine della quale solo
uno dei contendenti sarebbe sopravvissuto. Dopo un
combattimento fiero e al limite della resistenza, fu Teseo a
sferrare il colpo fatale e a lasciare il Minotauro a terra,
privo di vita.
Dopo la morte del mostro, Teseo fuggì a bordo della sua
nave assieme ai quattordici giovinetti destinati al
sacrificio e portando con sé la bella Arianna.
Le leggende che ci vengono tramandate dai poeti, a questo
punto, sono in imbarazzo nel riferirci quanto accadde
durante il viaggio di ritorno. Teseo, infatti, sbarcò per
una notte nell'isola di Nasso e il mattino dopo riprese il
viaggio abbandonando la giovane Arianna. Nessuno ha mai
compreso il significato di un gesto così sconsiderato, che
getta sicuramente un'ombra sulla reputazione di un eroe
tanto amato.
Fatto sta che Arianna rimase sola nell'isola di Nasso e
stava per cadere preda della disperazione quando venne
notata dal giovane e allegro Dioniso (Bacco),
dio del vino e dei piaceri sfrenati, che ne fece la sua
sposa e celebrò ben presto con lei una festa nuziale che i
poeti ricordarono anche dopo secoli e secoli; ci piace
credere che Dioniso si fosse innamorato della bella
principessa sin da subito e che lui stesso avesse ordinato a
Teseo di abbandonare Arianna sull'isola; solo in questo modo
(con l'obbedienza dovuta sempre e comunque alla divinità)
riusciremmo a giustificare l'azione insensata del figlio di
Egeo.
Giunto in prossimità della madrepatria, Teseo spiegò le
vele ma sciaguratamente si scordò della promessa fatta al
padre e utilizzò le vele nere.
Quando Egeo, che ogni giorno fissava il mare nell'attesa
di suo figlio, vide il colore nero all'orizzonte, preso
dalla disperazione si gettò in mare nell'errata convinzione
che suo figlio fosse stato ucciso, compiendo così la
profezia. Il mare in cui si gettò divenne in seguito noto
come Mare Egeo.
La vita e le imprese di Teseo non si esauriscono certo con
la lotta contro il Minotauro; asceso al trono di Atene al
posto del defunto padre, egli consolidò il potere in tutta
la regione dell'Attica e governò saggiamente, grazie anche
ai consigli dell'eroe Edipo, che era stato una volta re di
Tebe (prima di essere scacciato dalla popolazione e
abbandonato dai suoi figli maschi), il quale riparò a
Colono, nei pressi di Atene e dispensò al suo protettore
parole di eterna saggezza.
Altre avventure lo attendevano: insieme all'inseparabile
amico Piritoo, Teseo affrontò e sconfisse i Centauri, esseri
metà uomo e metà cavallo; partecipò alla caccia del
cinghiale di Calidone, una terribile fiera che imperversava
in Grecia; tentò di rapire Elena, principessa di Sparta, che
i poeti già cantavano come la donna più bella del mondo;
scese negli Inferi per cercare di sottrarre al signore
dell'oltretomba, il dio Ades (Plutone),
la sua legittima sposa. Il dio dei morti si vendicò
terribilmente e solo l'intervento di un altro eroe dei miti
greci, Eracle (Ercole), consentì a
Teseo di rivedere la luce del sole; non fu altrettanto
fortunato l'amico Piritoo, che giace ancora oggi seduto sul
trono dell'oblio a scontare la sua superbia.
La vita di Teseo fu anche funestata da terribili lutti:
tra tutti, la perdita del figlio Ippolito (generato da un
amore tra il re di Atene e Ippolita, regina della Amazzoni),
calunniato dalla matrigna Fedra e poi ucciso da un mostro
marino creato dal dio Poseidone.
Si narra, infatti, che Fedra, moglie di Teseo, si fosse
invaghita del figliastro ma, essendone stato respinto, aveva
riferito al marito di essere stata vittima di violenza da
parte di Ippolito; avendo prestato fede alle menzogne di
Fedra, l'ignaro figlio di Egeo aveva chiesto vendetta ai
numi e invocato il suo padre putativo Poseidone, che lo
aveva subito accontentato; troppo tardi Teseo apprese la
verità ascoltando la confessione di Fedra, che per la
vergogna si impiccò.
Le sventure non erano finite per l'eroe ateniese, che
venne spodestato dal trono in vecchiaia e venne ucciso a
tradimento da un suo antico alleato mentre cercava di
reclutare un esercito che gli consentisse di combattere
l'usurpatore.
La triste e malinconica fine di Teseo ricorda quella di
molte altre figure mitologiche, cui il Fato (cioè il
destino, potere arcano cui neppure gli dèi possono
sottrarsi) assegnò di compiere imprese gloriose ma anche di
affrontare dolori e avversità.
Noi non siamo certo in grado di spiegare perché i nostri
progenitori avessero questa concezione della vita; a noi
basti sapere che, grazie alla memoria e alla fantasia degli
antichi Greci, i poeti del passato ci hanno tramandato una
favola che non perde di fascino da oltre tremila anni. E
questo ci spinga a raccontarla una volta ancora ai nostri
figli.
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Teseo e il Minotauro |
Figura attica rossa, da un kylix (±510-500 a.C.).
Attribuita al pittore Euergides.
Musée du Louvre, Parigi (Francia). |
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III
FILEMONE E
BAUCI
Tra i tanti legami che mi uniscono a mia moglie Catia,
faro e punto di riferimento della mia vita nel caotico
oceano dell'esistenza, ci sono proprio le favole: ricordo
ancora quando, appena fidanzati, trascorrevamo ore ed ore a
passeggiare mentre io le raccontavo miti e leggende del
passato, che lei mi chiedeva in continuazione senza darmi
neppure il tempo di riprendere fiato; una delle sue storie
preferite era, senz'altro, quella che viene descritta nelle
pagine che seguono. Ricordare oggi questi momenti significa
per me ringraziare ancora una volta la mia compagna di vita
per tutto l'amore che ha saputo darmi in questi anni.
anto tempo fa, gli
dèi erano soliti camminare sulla terra
tra i comuni mortali e andare a bussare di porta in porta
per sondarne la bontà d'animo; per questo l'ospitalità era
sacra presso i Greci: perché dietro le sembianze di un
viandante o di un semplice mendicante poteva nascondersi un
dio.
Questa tradizione non era evidentemente nota agli
abitanti di un villaggio della Frigia (una regione dell'Asia
Minore), sito non molto distante dalla città di Troia; qui,
infatti, presero sembianze umane il padre di tutti gli dèi
Zeus (Giove) e uno dei suoi figli prediletti, Hermes
(Mercurio).
I due viaggiatori, stanchi per il lungo viaggio a piedi,
bussavano di porta in porta in cerca di ospitalità, ma
invano. Nessuno concedeva loro né carità, né ristoro.
Zeus ed Hermes giunsero infine di fronte ad un'umile
casetta dove vivevano Filemone e Bauci: due poveri
vecchietti dalle facce rugose, sposati da oltre cinquant'anni
e che tuttavia continuavano a volersi bene come il primo
giorno in cui si erano conosciuti.
Quando i due sconosciuti bussarono alla porta di quella
coppia di sposi così straordinariamente affiatata, Filemone
e Bauci non ebbero altro pensiero se non quello di
accogliere quei pellegrini e dar loro ospitalità. Venne
acceso il fuoco e preparata una zuppa d'erbe, venne
affettato il prosciutto serbato per le grande occasioni.
I quattro si misero tutti a tavola, apparecchiata in modo
semplice ma sobrio ed elegante; durante la cena, avvenne un
fenomeno straordinario: di tanto in tanto, Bauci versava del
latte di capra dalla sua anfora per dissetare gli ospiti,
che Zeus ed Hermes trovarono entrambi squisito; eppure, per
quante volte la vecchietta riempiva il bicchiere dei due
viandanti, l'anfora in luogo di svuotarsi si riempiva da
sola.
Al termine della cena, Filemone e Bauci rinunciarono al
loro letto coniugale per far dormire più comodamente gli
ospiti e si sistemarono per la notte in un giaciglio di
paglia. La mattina dopo Zeus si alzò dopo aver dormito il
sonno del giusto e si rivelò ai due sposi per chi era
veramente; disse che aveva trovato la gente del luogo arida
e meschina e che l'avrebbe punita a dovere.
Hermes invitò quindi Filemone e Bauci ad uscire dalla
loro casa per raggiungere la sommità del colle più vicino: i
due vecchietti si misero in marcia e, anche se arrancando,
giunsero alla fine in cima all'altura assieme alle due
divinità.
Zeus stava stendendo la mano su quel paese tanto ingrato,
che venne immediatamente sommerso da una palude; solo la
casetta di Filemone e Bauci venne risparmiata ma essa si era
miracolosamente trasformata in un tempio di marmo bianco e
dal tetto d'oro.
Zeus rivolse il suo sguardo benigno ai due vecchi e
disse: — Voi siete le
uniche persone dall'animo buono e gentile che abbiamo
incontrato e per questo meritate la mia gratitudine; ditemi
quello che desiderate e vi verrà concesso.
Filemone e Bauci rimasero un po' interdetti e si misero a
confabulare tra di loro, sotto lo sguardo tollerante di
Hermes e Zeus; con le persone anziane, si sa, ci vuole
pazienza.
I due sposi si scambiarono uno sguardo d'intesa e, come
ci riferisce Ovidio nelle Metamorfosi, formularono il
loro desiderio:
Chiediamo d'essere sacerdoti
e di custodire il vostro tempio;
e poiché in dolce armonia
abbiamo trascorso i nostri anni,
vorremmo andarcene nello stesso istante,
ch'io mai non veda la tomba di mia moglie
e mai lei debba seppellirmi.
Il desiderio di Filemone e Bauci venne esaudito da Zeus:
i due vecchi, infatti, furono i custodi di quello splendido
tempio per tutto il resto della loro vita.
Ma un giorno avvenne un altro straordinario prodigio;
mentre, sfiniti dallo scorrere degli anni, i due vecchi
stavano davanti alla sacra gradinata del tempio, narrando la
storia del luogo ai pellegrini, Bauci vide Filemone coprirsi
di fronde e crescere di statura; e la stessa cosa stava
succedendo a lei.
I due sposi capirono che stava succedendo qualcosa di
misterioso, ma continuarono a parlare tra di loro
sussurrandosi parole d'amore. Infine, dissero assieme:
— Addio, amore mio
—, pochi istanti prima
di perdere del tutto la voce; un ultimo bacio suggellò le
loro bocche.
Bauci si mutò in un tiglio, e Filemone in una quercia; le
fronde e i rami dei due alberi erano intrecciati tra di loro
in un ultimo ed eterno abbraccio; erano diventati due alberi
sacri a Zeus, destinati a stare ancora insieme per i secoli
a venire e a fare ombra ai viandanti accaldati.
Ai piedi dei due alberi vi era ancora l'anfora che Bauci
aveva utilizzato per dissetare Hermes e Zeus, tanti anni
prima; essa aveva ancora il miracoloso potere di riempirsi
da sola senza svuotarsi mai.
Tutti i pellegrini dall'animo semplice e gentile che
assaggiavano quel latte lo trovavano il liquido più fresco e
zuccherino che avessero mai assaggiato. Le persone
dall'animo gretto e malvagio, invece, percepivano solo un
sapore rancido ed amaro non possedendo il dono di gustare il
bello della vita.
È questa, forse, una delle storie più tenere e delicate
della mitologia greca, che mi piace dedicare a tutte le
persone che si vogliono bene.
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Filemone e Bauci |
Stampa di Nicolaes Lauwers (1600-1652) |
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IV
BĒOWULF
Il poema di Bēowulf risale all'VIII sec. d.C.
ed è uno dei primi esempi di epica medievale. Per me la
lettura di questa leggenda significò accedere ad un mondo
sino ad allora sconosciuto: quello della mitologia nordica,
che non era contemplata dai programmi dei miei studi
classici. Ricordo ancora le notti in cui, dopo l'esame di
maturità, divoravo le pagine del libro che mi avrebbe
condotto in un'atmosfera di sogno affascinante come poche;
oltre quella storia c'erano tanti altri personaggi ad
attendermi: da Re Artù a Sigfrido, da Cú Chulainn a Finn
Mac Cumaill. Ma di loro vi racconterò un'altra volta… per ora
vi basti sapere che, all'epoca, leggevo di nascosto per non
farmi scoprire da mia madre, che vigilava affinché non
leggessi di notte per non compromettere una già avanzante
miopia; ignorava, forse, che quella smania di leggere era
frutto di una vivacità intellettuale che lei stessa aveva
contribuito a far germogliare. A distanza di anni, ringrazio
ancora mia madre per il dono più prezioso che potesse farmi:
la curiosità.
anto tempo fa, in una regione fredda ed inospitale chiamata Danmörk, a lungo regnò sugli Scyldingas il potente Hrōðgār,
famoso tra i popoli e amato dai suoi sudditi.
Arrisero allora, a Hrōðgār, grandi successi militari, segni di prestigio in guerra, tanto che amici e parenti gli ubbidivano lieti, mentre i giovani si facevano un seguito, grande e forte. Gli venne in mente la voglia di ordinarsi una reggia di corte, di costruire un'immensa casa per l'idromele, da parlarne in eterno.
Venne così costruita una reggia, cui venne dato nome «il
Cervo»; tanto largo potere aveva tale parola a quei tempi.
La corte visse felicemente per anni tra gioie, banchetti
e musiche, sino a quando un Nemico Infernale non interruppe
quel periodo di pace e prosperità.
Aveva nome Grendel, quell'Orco feroce: infame vagabondo della marca, infestava putrescenti acquitrini, terraferma e paludi. Per un certo periodo quel personaggio nefasto si tenne nella regione della razza dei mostri, da che il Signore l'aveva proscritto con la razza di Caino.
La Creatura immonda, infatti, discendeva direttamente
dalla stirpe di Caino il fratricida, razza degenerata e
maledetta dalla divinità; ogni notte funestava la reggia di
Hrōðgār facendo strage dei vassalli e dei guerrieri che
abitavano la corte. Per dodici inverni la regione del
Danmörk subì le angherie dell'orco Grendel, causando lutti e
lacrime amare, sino a quando dal mare non giunse il principe
Bēowulf, figlio di Hygelāc, dalla terra dei Geati, che si
presentò a Hrōðgār offrendo il suo valore e il suo coraggio
per sconfiggere il Nemico Infernale.
Quella notte Bēowulf si stese sul pavimento della corte
in attesa dell'arrivo del mostro che infestava (oscuro
viandante dell'Ombra) le notti del Danmörk; quando il
perfido Grendel, dagli occhi iniettati di fuoco e di sangue,
giunse dalle paludi nebbiose nella reggia del Cervo, il
figlio di Hygelāc lo attaccò a mani nude ingaggiando una
furiosa lotta corpo a corpo.
Si aprì una piaga, sul corpo del Mostro spaventoso: gli apparve sulla spalla una vasta ferita.
L'Orco Grendel fuggì urlando per il dolore e trovando
rifugio nel suo covo senza gioia, solo per trovarvi la morte
ormai dissanguato.
Bēowulf affisse come trofeo il braccio sotto la volta del
tetto della reggia.
Il giorno dopo tutta la corte del Cervo celebrò l'impresa
del figlio di Hygelāc. Nei giorni successivi venne servita
carne in abbondanza e versato idromele; i bardi, oltre a
cantare le imprese dei grandi del passato, dedicarono i loro
versi anche alle imprese del giovane guerriero che aveva
osato opporsi a Grendel.
Ma era destino che la gioia e la serenità non dovessero
durare a lungo nella reggia del re Hrōðgār: erano trascorse
solo alcune notti dalla grande vittoria di Bēowulf sul
terribile Orco, quando giunse la madre di Grendel a
funestare i sogni degli Scyldingas, seminando ancora morte e
disperazione.
Bēowulf non si rassegnò e raggiunse la tana dei Cainidi
seguendo le tracce di sangue che la madre di Grendel
lasciava prima di immergersi nuovamente nella palude
mefitica che aveva eletto come sua dimora.
Il figlio di Hygelāc si tuffò in acqua e si immerse nei
flutti, lottando contro il freddo gelido e la mancanza
d'aria, alla ricerca della tana del nuovo Nemico. Gli dèi
proteggevano il coraggio di quel giovane guerriero, che
riuscì a riemergere appena in tempo per scoprire la tana
della scellerata stirpe di Caino.
Bēowulf brandì la sua spada e affrontò ancora una volta
le forze del Caos nella immane ed eterna lotta per la
salvaguardia dell'ordine cosmico. La madre di Grendel era
dotata di forza sovrumana e di tutte le subdole armi del
Maligno, ma infine fu la lama del valoroso principe dei
Geati ad avere la meglio.
Il figlio di Hygelāc tornò alla corte del Cervo,
mostrando la testa dell'Orchessa come trofeo; presso gli
Scyldingas ancora una volta vennero celebrate le gesta del
grande guerriero giunto dal mare a salvare il futuro del
Danmörk. Bēowulf venne congedato con tutti gli onori e
ricordato nelle saghe dei popoli del Nord come uno dei più
grandi eroi mai vissuti.
Ritornato nella sua madrepatria, altre imprese
attendevano il valente e coraggioso Bēowulf; succeduto al
padre sul trono del Götaland, egli regnò con saggezza e
giustizia, reggendo le sorti del suo popolo.
Quando la vecchiaia si approssimò a lambire anche la
forza e il valore di quel grande re, un drago dal soffio
mortale solcò i cieli della terra dei Geati, seminando morte
e distruzione.
Re Bēowulf avanzò con virile e cupa rassegnazione verso
quel nuovo nemico, accompagnato dai fidati guerrieri della
sua guardia personale, che per anni lo avevano aiutato a
mantenere l'ordine nel suo regno.
Di fronte alle spaventose fauci del drago, a ben pochi
resse il cuore ed il coraggio per tenere testa a quel demone
malvagio. Solo uno dei suoi guerrieri, Wīglāf figlio di
Wēohstān, nipote del re, ebbe la forza di rimanergli a
fianco reggendogli lo scudo mentre affrontava quel terribile
mostro.
Alzò la mano, il signore dei Geati, colpì l'Orrore lucente
con la spada ancestrale, […] Sollevò il pugnale mortale, amaro, affilato in battaglia, che aveva sulla cotta, squarciò… il ventre del serpente.
Le esalazioni venefiche del drago furono però fatali per
re Bēowulf, la cui anima dipartì, diretta al giudizio di chi
è fermo nel giusto.
Il popolo dei Geati eresse per lui un tumulo degno di un
grande re; i poeti lo cantarono e lo celebrarono come è
giusto celebrare un sovrano e un amico. Tutti dissero che
era stato...
...fra tutti i re del mondo, il più generoso con i suoi
e il più cortese degli uomini, il più gentile con la sua gente, il più smanioso di gloria.
|
V
IL DRAGO DI CRACOVIA
Concludo il mio rapido excursus mitologico con
una favola tratta dal folklore della cultura slava; anche
questa storia, ovviamente, ha dietro un aneddoto che mi fa
piacere raccontare per sommi capi. Diversi anni fa decisi di
raggiungere la Polonia con un folle viaggio in pullman e
durato quasi ventiquattro ore; giunto a Cracovia rimasi
particolarmente colpito dalle bellezze di quella città;
acquistai un libro di fiabe popolari e un drago di péluche
per mio fratello, che allora aveva poco meno di due anni.
Ricordo ancora la faccia sorridente che fece quando glielo
regalai al mio ritorno e l'orgoglio con cui lo portava in
giro (all'epoca il pupazzo era alto quasi quanto lui)
sussurrando quella parola difficile: «Dhaago! Dhaago!»
Questo racconto è dedicato a mio fratello Massimiliano.
anto tempo fa, quando le grandi città non erano state
ancora edificate dagli umani e dai giganti e il solco degli
antichi sentieri non era stato tracciato dal passo degli
abitanti del nostro mondo, ancora quasi totalmente
disabitato, alcuni dei nostri antenati vivevano in una terra
brulla ed inospitale, funestata dal vento e da un clima
ostile che rendeva ardua la sopravvivenza: ma era la loro
patria e come tale essi la amavano e la cantavano nei loro
inni.
I nostri predecessori la chiamarono Sarmazia o Polonia e
ci raccontano che all'inizio la popolazione era nomade e
viveva di caccia e di pastorizia; i più coraggiosi avevano
fatto della vita a cavallo la propria ragione di vita,
vivendo in simbiosi con quell'animale che veneravano come
l'amico più fidato.
Il rapporto con il proprio cavallo era di fondamentale
importanza anche per gli adepti della prestigiosa casta dei
guerrieri: questi riuscivano ad avere sempre ragione del
loro nemico travolgendolo con micidiali cariche guidate da
squadre compatte di uomini armati di arco, lancia e spada;
alcuni storici sostengono addirittura che i Sarmati
sarebbero i veri progenitori degli antichi Cavalieri, che
sono stati protagonisti di tante storie e leggende popolari,
sopravvissute sino al giorno d'oggi.
Con il passare dei secoli, tuttavia, parte della
popolazione rinunciò al nomadismo per dedicarsi alla
coltivazione dei prodotti della terra. Una piccola comunità
decise di stanziarsi ai piedi del colle di Wawel, presso il
fiume Vistola, fondando il villaggio di Kraków (Cracovia).
Con il trascorrere del tempo, divenne una città fiorente
che visse il periodo di massimo splendore durante il regno
del principe Krak, che elargiva benessere ai suoi sudditi
dall'alto del suo castello edificato sul Wawel.
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Smok Wawelski |
Immagine di Sebastian Münster (1488-1552), dalla
Cosmographie Universalis. |
Un triste giorno, tuttavia, un orribile mostro apparve
dalle cave sotterranee che si celavano al di sotto delle
fondamenta del maniero: un drago sputafuoco dalle fauci
enormi e dalla pelle coriacea ricoperta di scaglie di ferro.
Il drago imperversava tutte le notti, devastando la città
e le campagne circostanti con il suo soffio portatore di
morte e divorando i malcapitati che incontrava sul suo
cammino.
Il principe Krak, ormai troppo vecchio per affrontare il
mostro, aveva promesso metà del suo regno e la mano della
propria figlia in sposa a chiunque fosse riuscito a liberare
la città da quell'incubo.
Molti furono gli eroi e i cavalieri che tentarono
l'impresa, ma tutti morirono miseramente senza riuscire
neppure a scalfire il drago: la sua armatura di scaglie lo
rendeva pressoché invulnerabile contro lance, spade, asce e
frecce, mentre le fiamme che fuoriuscivano dalle sue fauci
erano letali per tutti. Le ossa dei guerrieri caduti, sparse
sul limitare della tana del mostro, erano un orribile monito
per chiunque osasse solo sperare di sfidarlo.
Il caso volle che un giovane ed astuto ciabattino, di
nome Dratewka, concepì per primo l'idea di combattere il
drago facendo uso non della forza, ma dell'astuzia. Questi
decise di immolare un grasso montone e, una volta estratte
le interiora, di farcirlo con grosse quantità di zolfo; poi
avvolse l'animale con la sua stessa pelle in modo tale che,
agli occhi del drago, potesse sembrare ancora vivo e lo
collocò proprio davanti alle cave sotterranee del Wawel.
Il drago si risvegliò dal suo sonno e, appena uscito
dalla tana, vide un animale ben pasciuto, apparentemente
intento a pascolare; in un attimo, il mostro lo ghermì e lo
divorò avidamente in pochi bocconi.
Ben presto, però, il drago cominciò a sentire un bruciore
di stomaco, che cresceva via via con il trascorrere del
tempo. Tormentato dal dolore e da una terribile sete, il
mostro si precipitò verso il fiume Vistola e cominciò a bere
enormi quantità di acqua per placare quella insopportabile
sensazione che sentiva dentro le viscere.
Il drago beveva e beveva senza posa, ma non riusciva a
placare il suo dolore; alla fine, il suo stomaco si riempì
d'acqua in quantità inimmaginabile.
All'improvviso, una terribile esplosione squarciò il
cielo della città, terrorizzando gli abitanti; il principe Krak e tutta la popolazione di Kraków accorsero per vedere
cos'era mai successo e una scena incredibile si parò loro
davanti: di fronte al ciabattino Dratewka giaceva il corpo
dilaniato del drago, che aveva bevuto così tanta acqua sino
al punto di esplodere.
Dratewka sposò così la figlia del principe Krak e, alla
morte di quest'ultimo, divenne il reggitore di Kraków, che
tornò al suo antico splendore.
Gli abitanti, tuttavia, non vollero scordare i tempi in
cui erano stati funestati dal drago, che divenne da allora
in poi il simbolo della città e venne esposto in tutti i
vessilli e i blasoni del principe regnante.
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Cracovia [Kraków] |
Stampa del XV sec. |
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