DANIELE BELLO
RACCONTI SENZA TEMPO
 
 
VOLUME PRIMO
FRAMMENTI DI MEMORIE
 

PREFAZIONE

 

Cos'è il mito?

«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.
»

Gian Battista Vico
 

Ricordo ancora, come se fosse oggi, il giorno in cui lessi per la prima volta in un fumetto un termine che per me, all'epoca, non aveva praticamente senso: «Titano».

avevo all'incirca sei anni e le mie letture erano basate soprattutto sui personaggi di Walt Disney e sul Corriere dei piccoli (sì, lo so: sono passati molti anni da allora; ho vissuto la mia infanzia durante i lontanissimi anni '70 del secolo ormai trascorso). Ragion per cui corsi subito da mio padre a chiedere il significato di quella parola tanto strana.

Di lì a poco, da non so quale anfratto della biblioteca uscì fuori un libro le cui pagine erano ingiallite già da allora : — Volevi sapere dei Titani? — disse mio padre e, senza neppure darmi il tempo di rispondere, cominciò a leggere...

— Creature immortali come gli Dei, ma privi dell'onnipotenza divina, i Titani erano giganti di colossale statura; la più alta quercia avrebbe appena toccato coi suoi rami il loro fianco, ed essi avrebbero potuto schiantarne il tronco con facilità...

Questo era l'incipit del capitolo che mi venne letto quella sera di tanti anni fa; e da lì cominciò il mio viaggio nel mondo dei miti e delle leggende del passato, viaggio che a tutt'oggi non si è ancora concluso.

Scopo di questo libro è quello di ricordare ai ragazzi di oggi, spesso anestetizzati da computer e videogiochi, che è possibile ancora sognare come facevano i nostri antenati, seduti di fronte al fuoco e ascoltando un vecchio e saggio narratore di favole.

Un mestiere così importante, quello dello storyteller, che in epoche antiche era degno di altissima considerazione e che ora è pressoché dimenticato. Al punto tale che in Irlanda, una delle culle del patrimonio fiabesco dell'umanità, per timore di perdere questa ricchezza, l'Università sovvenziona i ricercatori per andare di villaggio in villaggio ad ascoltare le favole degli anziani e per metterle per iscritto, affinché sopravvivano ancora a beneficio delle generazioni future.

Lascio ora senz'altro spazio alla lettura, rivolta a grandi e piccini, delle «favole antiche», augurandomi che possa aiutare genitori e figli a passare qualche istante in più in compagnia di una bella storia.

E che la lettura serva a riscoprire che, dall'alba dei tempi, gli uomini amano raccontare e raccontarsi e che, in fondo, al giorno d'oggi siamo ancora debitori di quel patrimonio. Per dirla con le parole del grande sceneggiatore Giancarlo Berardi: — Che senso avrebbe continuare a scrivere dopo le opere di Omero e la Bibbia? In realtà, noi continuiamo a riscrivere quelle storie, adattandole alla nostra sensibilità e a quella dei nostri tempi.
 

...Conservo gelosamente quel volume ancora oggi, anche se le pagine negli ultimi trent'anni sono diventate ancora più gialle. Il titolo del libro è: Le favole antiche, scritto da Giuseppe Morpurgo, ed edito dalla G.B. Petrini di Torino nel 1953.

I
PROMETEO

 

Questa leggenda, tramandataci dai Greci e menzionata già nella Teogonia di Esiodo, fu il primo racconto di mitologia che riuscii a leggere per intero da solo (complice la partenza di mio padre per un viaggio di lavoro e la mia irresistibile curiosità di sapere... come sarebbe andata a finire). Sono pertanto particolarmente affezionato a questo mito e per questo intendo iniziare questo piccolo viaggio nei racconti del passato con la storia del Titano indomabile.


ei tempi in cui gli dèi camminavano ancora tra i mortali e bussavano di casa in casa chiedendo ospitalità per la notte, i nostri avi ci hanno tramandato la storia dell'indomabile Prometeo.

Narrano le leggende che all'alba dei tempi i Titani, primi tra gli dèi, dominassero il mondo; creature immortali, giganti dalla voce possente e dalla colossale statura, essi erano stati tuttavia maledetti dal padre Urano perché con la loro tracotanza lo avevano spodestato dal dominio dell'universo.

Ci fu, in quei tempi, una guerra terribile tra gli dèi che oppose tra di loro i due pretendenti al trono celeste. Da una parte, Crono (SATURNO) e i suoi seguaci che si erano stanziati sul Monte Otri; dall'altra, suo figlio Zeus (GIOVE) con i suoi alleati, dal Monte Olimpo; la maggior parte dei Titani prese le parti del dio Crono.

Uno solo fra di essi, tuttavia, parteggiò per Zeus; non per amore per il nuovo dio, ma perché si racconta che egli conoscesse gli eventi futuri e fosse in grado di discernere da subito il corso del Fato (il nome del destino secondo gli antichi): questi era Prometeo, il cui nome pare significhi appunto il «Preveggente».

Come egli aveva previsto, infatti, la vittoria arrise a Zeus, che si vendicò dei Titani che non l'avevano sostenuto precipitandoli nelle più profonde cavità degli abissi.

Uno di essi, il mostruoso Tifeo, era stato abbattuto da un fulmine e seppellito sotto un vulcano, che sussulta e provoca terribili terremoti ed eruzioni di fuoco e lava ogni volta che il mostro si agita e tenta di liberarsi; il fortissimo Atlante, invece, era stato condannato a reggere sulle sue spalle la volta del cielo; analoghi supplizi sarebbero toccati agli altri seguaci del dio Crono.

Il giorno della sua vittoria, Zeus organizzò un grande banchetto a Mekone, cui fu invitato anche Prometeo; al Titano venne richiesto di fare le parti di un grosso bue e, dopo averlo diviso, per irridere il nuovo padrone dell'universo pose da una parte carni e interiora nascondendole nel ventre dell'animale e dall'altra ossa bianche avvolte nel grasso. Zeus beffardo scelse con ambedue le mani la porzione che credeva più grossa e prese così il mucchio delle ossa e del grasso; adirato per l'inganno, Zeus meditò a lungo la sua vendetta nei confronti del Titano, che aveva osato tentare di metterlo in ridicolo davanti a tutti gli immortali.

Prometeo, intanto, era disceso sulla terra per recare conforto agli uomini mortali, che allora vivevano ancora allo stato ferino e insegnò loro come costruire una casa e gli arnesi per sopravvivere, l'arte dell'agricoltura, l'importanza della famiglia e della solidarietà.

Zeus aveva però negato loro il privilegio del fuoco e ordito, un ulteriore inganno nei confronti del genere umano,

...formò con la terra un'immagine di vergine vereconda,
per il volere del figlio di Crono,
l'ornò di cintura e la vestì di candida veste;
dall'alto del capo un velo dai mille ricami
di sua mano la fece cadere, meraviglia a vedersi.

(Esiodo, Teogonia [571-577])

Pandora fu il nome che venne dato alla creatura che Zeus aveva plasmato e da lei sembra che discenda la razza di tutte le donne; ella venne tra gli uomini reggendo sul capo una grande anfora d'oro, dicendo che il padre di tutti gli dèi l'aveva inviata sulla terra per diffondere gioia e serenità.

Il Fato volle che fu Epimeteo, l'ingenuo fratello di Prometeo, a tentare di aprire con forza l'anfora di Pandora, convinto che in essa vi fosse il nettare che gli dèi bevono alla loro mensa; ma quando l'anfora si aprì da essa fuoriuscirono, come fantasmi, tutti i mali che affliggono oggi il mondo: la vecchiaia, le malattie, gli affanni, l'odio e la violenza.

In fondo al vaso, tuttavia, gli dèi vollero che albergasse comunque un sollievo per tutte le sofferenze dell'umanità, nonostante i mali che l'avrebbero afflitta.

Quando Prometeo venne a trovare l'ingenuo fratello, l'anfora giaceva ancora a terra, e attorno ad essa aleggiavano sinistre forme dall'aspetto minaccioso; ma quando il Titano tentò di richiuderla di nuovo, una dolcissima voce femminile richiamò la sua attenzione.

Fu così che Prometeo poté vedere, in fondo all'anfora, lo sguardo della più giovane delle dee; il nome della piccola creatura era Elpis, che nel linguaggio antico significa la Speranza; ella uscì dal vaso da cui erano usciti tutti i mali, perché da allora è scritto che in fondo ad ogni sventura c'è sempre la speranza a darci conforto.

Il Titano venne colpito da enorme sdegno per tutte le sciagure che Zeus aveva afflitto agli uomini e, pur consapevole di quanto fosse grave sfidare apertamente il nuovo tiranno del cielo, Prometeo giurò a se stesso che Zeus avrebbe dovuto pagare per il grave torto commesso nei confronti dei mortali.

Il Titano organizzò uno stratagemma per carpire agli dèi il segreto del fuoco: egli si recò infatti con rapidi balzi alle pendici dell'Olimpo, la dimora di tutti gli dèi, portando con sé un'anfora di vino rosso.

Una volta giunto, notò che tutti dormivano tranne il fabbro degli dèi, Efesto, il quale vegliava affinché il fuoco che ardeva sul Monte Olimpo non si spegnesse mai.

Prometeo parlò con cordialità ad Efesto e gli offrì il vino della sua anfora, cui era stato tuttavia mischiato del succo di papavero; Efesto ne bevve e venne colto improvvisamente dal sonno.

Il Titano ne approfittò per ghermire dall'Olimpo le faville del fuoco e per portarlo tra gli uomini; da allora e solo da allora i nostri antenati riuscirono a carpire il segreto della fiamma e a cessare di tremare per il freddo e per la paura di notte, poiché Prometeo sfidò la inevitabile vendetta degli dèi per rischiarare le tenebre dell'umanità.

Così non si può di Zeus ingannare il volere
né ad esso sottrarsi:
né infatti il figlio di Giapeto, Prometeo benefico,
sfuggì l'ira profonda di lui.

(Esiodo, Teogonia [613-615])

Come egli aveva comunque previsto, infatti, la vendetta di Zeus non tardò ad abbattersi su Prometeo. Fu Efesto con i suoi Ciclopi, esseri giganteschi con un occhio solo sulla fronte, a trascinare il Titano sui Monti della Scizia e ad incatenarlo ad una parete di roccia.

A nulla valsero i lamenti dell'Oceano e delle ninfe del mare; la vendetta del signore di tutti gli dèi era implacabile e non conosceva la misericordia.

Prometeo, tuttavia, non si abbassò mai a chiedere pietà al suo carnefice; egli, invece, gridò al cielo che un giorno anche Zeus sarebbe stato spodestato dal suo trono qualora si fosse unito in nozze fatali con una dea che avrebbe generato un figlio più forte di lui; il Preveggente conosceva il nome della donna che avrebbe potuto partorire una creatura così potente, ma mai ne avrebbe rivelato il nome se prima Zeus non si fosse deciso a liberarlo.

Zeus minacciò rabbiosamente Prometeo di terribili vendette e di supplizi inenarrabili, qualora il Titano non avesse rivelato subito il nome fatale, ma questi non cedette; il signore dell'Olimpo, allora...

...legò Prometeo dai vari pensieri
con inestricabili lacci,
con legami dolorosi,
che a mezzo d'una colonna poi avvolse,
e sopra gli avventò un'aquila,
ampia d'ali, che il fegato
gli mangiasse immortale,
che ricresceva altrettanto
la notte quanto nel giorno
gli aveva mangiato l'uccello dalle ampie ali.

(Esiodo, Teogonia [521-523])

Le rocce cui era stato incatenato il coraggioso Titano vennero tormentate da terribili scosse di terremoto, che squarciarono le rocce e fecero tremare tutte le creature viventi, ma mai il cuore di Prometeo tremò, né il suo fermo intento vacillò sia pure per un istante.

Alla fine, non i supplizi di Zeus, non i lamenti delle ninfe, non le preghiere degli uomini riuscirono a vincere la caparbietà del Titano, ma l'intervento della stessa Madre Terra, che si offrì ad agire da paciere tra i due immortali affinché l'armonia tornasse a regnare nel cosmo.

Prometeo ubbidì alla madre di tutti gli esseri immortali e rivelò al messaggero di Zeus che la donna che avrebbe potuto generare un figlio destinato ad essere il nuovo padrone del cielo era Tetide, una dea del mare.

Zeus procurò che Tetide fosse promessa in sposa ad un uomo mortale, affinché mai potesse generare prole divina, e mantenne la sua promessa fatta alla dea Terra: l'aquila che tormentava ogni giorno il fegato di Prometeo venne uccisa dal più forte di tutti i figli di Zeus, il giovane Eracle che i popoli dell'Occidente conobbero anche con il nome di Ercole.

Eracle spezzò le catene che tenevano ancora prigioniero il Titano e a quel punto si compì un prodigio: il corpo di Prometeo divenne roccia e si fuse completamente con la montagna cui era stato incatenato così a lungo; la sua anima, invece, che mai era stata schiava o prigioniera di alcuno, spiccò il volo verso il Sole.

Le leggende dei nostri avi raccontano che Prometeo sopravvisse al cosmo di Zeus e a quello degli dèi che si sono via via succeduti a lui nel cuore degli uomini; egli vive ancora: è sempre accanto a noi tutte le volte in cui qualcuno si adopera per il bene degli altri, compie una grande impresa o quando viene fatta una scoperta in grado di aiutare l'umanità.

Egli ci assiste e ci consola nei momenti di difficoltà e ci sopporta pazientemente quando dimentichiamo i suoi insegnamenti.

Gli antichi Elleni (oggi meglio noti con il nome di Greci) tramandano da secoli la storia del Titano Prometeo e credono che finché al mondo vi sarà qualcuno degno di commemorarne la memoria e di tentarne l'emulazione, le faville del fuoco che vennero portate dall'Olimpo per riscaldare l'anima dei mortali continueranno ad ardere.

Atlante e Prometeo
Figura laconica nera, da un amphoriskos (±530 a.C.).
Musei Vaticani, Roma.

II
TESEO E IL MINOTAURO

 

Il nostro percorso tra i miti del passato prosegue con la leggenda del Minotauro; questo è stato il primo racconto che ho letto a mia figlia Beatrice, sicuro di annoiarla a morte… Invece, a distanza di qualche giorno, la sorpresi a parlare con la nostra portiera, che ci stava raccontando della recente nascita di una bambina, di nome Arianna. Gli occhi di Beatrice si illuminarono e chiese: «Ma chi, quella di Teseo?» Allora capii che io e mia moglie stavamo percorrendo il sentiero giusto… Questo racconto è dedicato a mia figlia Beatrice.

 

anto tempo fa regnava nell'Attica un re chiamato Egeo; la tradizione ci dice che la città più importante di questa regione fosse Atene, per la quale è opportuno spendere qualche parola in più.

Si narra, infatti, che subito dopo la sua fondazione due divinità si contendessero l'onore di dare il nome alla città: Poseidone (Nettuno), dio del mare, sperando di ingraziarsi il favore degli abitanti dell'Attica offrì il dono per lui più prezioso: il cavallo; Pallade Atena (Minerva), dea della sapienza e della guerra eroica, cercò di guadagnarsi il patronato recando a beneficio della popolazione l'albero dell'ulivo.

La dea Atena venne dichiarata vincitrice, per cui alla città appena fondata venne dato il nome di Atene; al fine di placare la collera dello sconfitto dio Poseidone, tuttavia, gli abitanti del luogo edificarono un tempio in suo onore a strapiombo sul mare, a Capo Synion; ancora oggi, è possibile ammirare da quel monumento uno dei tramonti più belli del mondo.

Il primo re di Atene fu Cecrope, figlio della dea Terra e fondatore della prima dinastia di reggitori della città, il quale a causa delle sue origini veniva spesso raffigurato con la parte inferiore del corpo a forma di serpente (animale particolarmente sacro per i Greci in quanto aveva il privilegio di vivere più di tutti a contatto con la terra).

Fondatore della seconda dinastia di regnanti fu, invece, Erittonio, figlio della stessa dea Atena (che, però, per una strana alchimia che solo i miti possono alimentare, si è sempre dichiarata Parthenos, cioè vergine), di cui Egeo era un pronipote.

Egeo regnò su Atene per molti anni, ma il destino per lungo tempo lo privò della gioia di un erede maschio. Per paura di non poter trasmettere il trono ad un suo discendente, Egeo si recò a chiedere consiglio nel luogo più sacro di tutta l'antichità: l'oracolo di Delfi, dove – si diceva – il dio Apollo, nume solare nonché protettore della poesia e delle arti, parlava per il tramite della sua sacerdotessa, la Pizia. Le parole dell'oracolo («Tieni chiuso il tuo otre di vino finché non avrai raggiunto il punto più alto della città di Atene, altrimenti un giorno ne morirai di dolore») non vennero comprese da Egeo, il quale sconsolato si recò a Trezene, alla reggia del re Pitteo.

Il re di Trezene presentò Egeo a sua figlia Etra; tra i due, complice anche un improvviso stato di ubriachezza del re di Atene (favorito, a quanto si racconta, dallo stesso re Pitteo), sbocciò una passione travolgente a seguito della quale Etra rimase incinta, anche se alcuni mormorarono che fu in realtà il dio Poseidone a fecondare la figlia del re di Trezene.

Quando seppe dello stato di Etra, Egeo decise di tornare ad Atene, ma volle nascondere i suoi calzari, lo scudo e la spada sotto una roccia; prima di partire, il re di Atene disse alla principessa di Trezene che il loro figlio avrebbe potuto presentarsi al padre solo quando fosse riuscito a sollevare la pietra e a riportare indietro le armi e i calzari.

Alcuni mesi dopo, Etra diede alla luce un figlio maschio, cui diede il nome di Teseo: il fanciullo crebbe forte e coraggioso e in breve tempo riuscì a sollevare l'enorme pietra che nascondeva le armi del padre; solo allora, la madre rivelò a Teseo la verità sulle sue origini.

Il giovane rampollo del re di Atene decise di mettersi subito in marcia per raggiungere la dimora paterna, pur sapendo che il tragitto che lo separava da Atene era infestato da ladri e banditi. Giovane, coraggioso e ambizioso, Teseo decise di andare ad Atene per la via di terra. Si narra che, durante il viaggio che lo separava dalla città paterna, molti furono i briganti che tentarono di sbarrargli la strada, ma senza successo. Il più famoso di questi avversari si chiamava Procuste ed era solito stendere quanti gli capitavano tra le grinfie su di un letto: se la sua vittima era più lunga del giaciglio, gli amputava le gambe; in caso contrario, gli stiracchiava gli arti sino a farla morire di dolore; il giovane Teseo lo uccise praticandogli lo stesso trattamento che era solito riservare ai suoi prigionieri.

Giunto ad Atene, Teseo si presentò alla reggia ma non rivelò la sua vera identità. All'epoca, un Egeo molto invecchiato era praticamente alla mercé della sua consigliera Medea, una maga molto potente originaria della Colchide (l'odierno Caucaso) e famosa per una serie di delitti efferati; dopo aver funestato la città di Corinto uccidendo con le proprie mani i figli che aveva generato dall'eroe Giasone, ella era riuscita a trovare asilo in Attica, dove si era guadagnata comunque una fama di donna saggia e divinatrice presso il re.

Medea, sospettosa per l'arrivo dello straniero e temendo di perdere la posizione di potere che aveva ormai consolidato in Atene, cercò di persuadere Egeo ad uccidere il giovane. Per fortuna, il re riconobbe i calzari pochi istanti prima che Teseo bevesse dal calice di vino avvelenato che aveva preparato Medea. Padre e figlio si erano finalmente riconosciuti e riuniti dopo tanto tempo e la maga malvagia venne esiliata per sempre da Atene.

Teseo venne associato al trono dal padre e questi lo ripagò sconfiggendo tutti i fieri nemici della città, consolidando il potere della sua dinastia in tutta la regione; ben presto, tuttavia, anche per Teseo venne il momento di confrontarsi con eventi decisamente tragici.

Alcuni anni prima, infatti, era giunto a far visita ad Atene il nobile Androgeo, figlio di Minosse, re della potentissima Creta. Poiché il giovane principe nel corso di giochi ginnici organizzati in suo onore era riuscito a umiliare gli Ateniesi in ogni disciplina, Egeo lo uccise, in preda alla gelosia.

Il sovrano di Creta Minosse, infuriato per questo terribile oltraggio, aveva dichiarato guerra agli Ateniesi e li aveva sconfitti imponendo loro terribili condizioni: ogni nove anni, infatti, sette giovinetti e sette fanciulle dovevano essere inviati a Creta per essere offerti in sacrificio al Minotauro, un feroce mostro di cui è bene parlare più diffusamente.

La nostra storia a questo punto si sposta nell'isola di Creta, dove regnava il potente Minosse, padrone incontrastato del mare che dominava dalla sua fastosa reggia di Cnosso; egli era figlio di Zeus (Giove) e della bella Europa, che il padre di tutti gli dei era riuscito a sedurre solo prendendo le sembianze di un toro. Sua moglie Pasifae era figlia di Helios, il dio del sole, e sorella del sovrano della Colchide (nonché zia della terribile Medea di cui abbiamo fatto cenno poco fa).

Minosse era particolarmente devoto a Poseidone, il dio del mare, al quale aveva promesso di offrire in sacrificio il toro più bello di tutta l'isola; si narra, a questo punto, che lo stesso Poseidone facesse sorgere dai flutti marini un animale dalla bellezza incomparabile. Il sovrano ne fu talmente ammirato che decise di sacrificare un altro toro in sua vece, destinando il dono di Poseidone ai suoi armenti privati; dimenticava, l'ignaro ed ingenuo Minosse, che gli dei raramente dimenticano o perdonano un torto subito.

La vendetta del dio del mare non si fece attendere: la bella Pasifae, infatti, venne posseduta da un immondo desiderio nei confronti del toro emerso dalle onde; per placare il suo ardore, la regina chiese all'artigiano più famoso dell'isola, l'abilissimo Dedalo, di costruirle una mucca di legno dove nascondersi; quello stratagemma consentì a Pasifae di ingannare il toro e di sedurlo.

Da quella folle ed insana passione amorosa nacque una creatura deforme ed atroce, cui venne dato il nome di Minotauro: il corpo gigantesco era quello di un uomo, la testa enorme era quella di un toro; si nutriva di carne umana ed emetteva terrificanti muggiti.

Il re Minosse, inorridito, ordinò a Dedalo di trovare il modo di nascondere quel terribile mostro dalla vista di tutti; e quell'abile artefice costruì attorno alle stanze presso cui dimorava il Minotauro un Labirinto, un bislacco edificio pieno di stanze, viuzze e cunicoli dalla pianta così complicata che era impossibile per chiunque entrare e ritrovare l'uscita prima di essere scoperto e divorato da quella terribile creatura affamata di carne umana; ancora oggi, quando ci perdiamo, non facciamo alcuna fatica a dire che ci troviamo all'interno di un labirinto oppure (se siamo particolarmente raffinati) a parlare di un «dedalo» di viuzze in riferimento alla pianta di un quartiere o di una cittadina particolarmente complessi.

Per evitare che svelasse il terribile segreto del Labirinto, Minosse aveva proibito al suo artefice di uscire da quell'edificio, cosicché Dedalo si trovava a vivere praticamente da prigioniero, assieme al figlio Icaro, nella costruzione che lui stesso aveva progettato.

L'abile artigiano non si diede per vinto e riuscì a costruire due immense paia di ali con le penne di volatili, assicurandole al proprio corpo e a quello del figlio con la cera.

Padre e figlio riuscirono a spiccare il volo e furono i primi ad accarezzare un sogno che ha sedotto l'umanità sino ai tempi più moderni: volare! Dedalo ed Icaro riuscirono così a fuggire dal Labirinto.

Nonostante le raccomandazioni del padre, il giovane Icaro fu talmente inebriato dall'esperienza del volo da dimenticare ogni prudenza; questi saliva sempre più su, sempre più su verso il sole, deciso a coglierne l'incomparabile bellezza come nessuno aveva potuto prima di lui.

Disgraziatamente per Icaro, il calore dei raggi del sole sciolse la cera che teneva le ali attaccate alle sue scapole; il giovane precipitò così in mare e trovò la morte. Dedalo, invece, aveva guadagnato la libertà raggiungendo le coste della Sicilia, ma l'aveva pagata comunque ad un prezzo altissimo: la perdita dell'unico figlio.

Ma è tempo di ritornare al protagonista di questa storia, vale a dire al giovane Teseo in procinto di salpare verso Creta assieme ai quattordici giovinetti destinati al sacrificio.

Il vecchio Egeo aveva chiesto al figlio di issare delle vele bianche al ritorno in patria, qualora fosse riuscito a sconfiggere il Minotauro; in caso contrario, le vele da issare sulla barca dovevano essere di color nero. Teseo salutò il padre con affetto e promise di ritornare vittorioso.

I poeti raccontano che, quando la nave proveniente da Atene approdò nel porto di Cnosso, tutti notarono la fierezza e la nobiltà del giovane figlio del re Egeo, che si presentò davanti a Minosse con la dignità che si addice agli uomini impavidi, coraggiosi e dall'animo nobile.

Il destino, che spesso aiuta i giovani e gli audaci, venne in soccorso di Teseo nelle sembianze del dio Eros, un fanciullo alato che si diverte a sconvolgere la vita delle persone istillando in loro il germe di un sentimento travolgente: l'amore. Arianna, la giovane e bella figlia di Minosse, si invaghì del principe ateniese e cercò in tutti i modi di trovare il modo di salvarlo da un triste destino che appariva a tutti inevitabile: la morte per mano del terribile Minotauro.

In realtà, il vero nemico di Teseo era l'inestricabile Labirinto, da cui mai l'eroe sarebbe riuscito ad uscire anche una volta ucciso il mostro dalla testa di toro. Lo stratagemma utilizzato da Arianna per salvare il suo amato è talmente famoso e noto da essere divenuto proverbiale, anche a distanza di tanti secoli.

Teseo ebbe in dono dalla principessa cretese un gomitolo di filo rosso (il «filo di Arianna», appunto); mentre il figlio del re di Atene si inoltrava nel Labirinto, questi svolgeva il gomitolo, sicuro di ritrovare la via del ritorno perché Arianna reggeva l'altro capo del filo.

Alla fine, quel gigantesco e immondo essere dalla testa taurina si parò di fronte al giovane eroe e i due ingaggiarono una terribile lotta al termine della quale solo uno dei contendenti sarebbe sopravvissuto. Dopo un combattimento fiero e al limite della resistenza, fu Teseo a sferrare il colpo fatale e a lasciare il Minotauro a terra, privo di vita.

Dopo la morte del mostro, Teseo fuggì a bordo della sua nave assieme ai quattordici giovinetti destinati al sacrificio e portando con sé la bella Arianna.

Le leggende che ci vengono tramandate dai poeti, a questo punto, sono in imbarazzo nel riferirci quanto accadde durante il viaggio di ritorno. Teseo, infatti, sbarcò per una notte nell'isola di Nasso e il mattino dopo riprese il viaggio abbandonando la giovane Arianna. Nessuno ha mai compreso il significato di un gesto così sconsiderato, che getta sicuramente un'ombra sulla reputazione di un eroe tanto amato.

Fatto sta che Arianna rimase sola nell'isola di Nasso e stava per cadere preda della disperazione quando venne notata dal giovane e allegro Dioniso (Bacco), dio del vino e dei piaceri sfrenati, che ne fece la sua sposa e celebrò ben presto con lei una festa nuziale che i poeti ricordarono anche dopo secoli e secoli; ci piace credere che Dioniso si fosse innamorato della bella principessa sin da subito e che lui stesso avesse ordinato a Teseo di abbandonare Arianna sull'isola; solo in questo modo (con l'obbedienza dovuta sempre e comunque alla divinità) riusciremmo a giustificare l'azione insensata del figlio di Egeo.

Giunto in prossimità della madrepatria, Teseo spiegò le vele ma sciaguratamente si scordò della promessa fatta al padre e utilizzò le vele nere.

Quando Egeo, che ogni giorno fissava il mare nell'attesa di suo figlio, vide il colore nero all'orizzonte, preso dalla disperazione si gettò in mare nell'errata convinzione che suo figlio fosse stato ucciso, compiendo così la profezia. Il mare in cui si gettò divenne in seguito noto come Mare Egeo.

La vita e le imprese di Teseo non si esauriscono certo con la lotta contro il Minotauro; asceso al trono di Atene al posto del defunto padre, egli consolidò il potere in tutta la regione dell'Attica e governò saggiamente, grazie anche ai consigli dell'eroe Edipo, che era stato una volta re di Tebe (prima di essere scacciato dalla popolazione e abbandonato dai suoi figli maschi), il quale riparò a Colono, nei pressi di Atene e dispensò al suo protettore parole di eterna saggezza.

Altre avventure lo attendevano: insieme all'inseparabile amico Piritoo, Teseo affrontò e sconfisse i Centauri, esseri metà uomo e metà cavallo; partecipò alla caccia del cinghiale di Calidone, una terribile fiera che imperversava in Grecia; tentò di rapire Elena, principessa di Sparta, che i poeti già cantavano come la donna più bella del mondo; scese negli Inferi per cercare di sottrarre al signore dell'oltretomba, il dio Ades (Plutone), la sua legittima sposa. Il dio dei morti si vendicò terribilmente e solo l'intervento di un altro eroe dei miti greci, Eracle (Ercole), consentì a Teseo di rivedere la luce del sole; non fu altrettanto fortunato l'amico Piritoo, che giace ancora oggi seduto sul trono dell'oblio a scontare la sua superbia.

La vita di Teseo fu anche funestata da terribili lutti: tra tutti, la perdita del figlio Ippolito (generato da un amore tra il re di Atene e Ippolita, regina della Amazzoni), calunniato dalla matrigna Fedra e poi ucciso da un mostro marino creato dal dio Poseidone.

Si narra, infatti, che Fedra, moglie di Teseo, si fosse invaghita del figliastro ma, essendone stato respinto, aveva riferito al marito di essere stata vittima di violenza da parte di Ippolito; avendo prestato fede alle menzogne di Fedra, l'ignaro figlio di Egeo aveva chiesto vendetta ai numi e invocato il suo padre putativo Poseidone, che lo aveva subito accontentato; troppo tardi Teseo apprese la verità ascoltando la confessione di Fedra, che per la vergogna si impiccò.

Le sventure non erano finite per l'eroe ateniese, che venne spodestato dal trono in vecchiaia e venne ucciso a tradimento da un suo antico alleato mentre cercava di reclutare un esercito che gli consentisse di combattere l'usurpatore.

La triste e malinconica fine di Teseo ricorda quella di molte altre figure mitologiche, cui il Fato (cioè il destino, potere arcano cui neppure gli dèi possono sottrarsi) assegnò di compiere imprese gloriose ma anche di affrontare dolori e avversità.

Noi non siamo certo in grado di spiegare perché i nostri progenitori avessero questa concezione della vita; a noi basti sapere che, grazie alla memoria e alla fantasia degli antichi Greci, i poeti del passato ci hanno tramandato una favola che non perde di fascino da oltre tremila anni. E questo ci spinga a raccontarla una volta ancora ai nostri figli.

Teseo e il Minotauro
Figura attica rossa, da un kylix (±510-500 a.C.).
Attribuita al pittore Euergides.
Musée du Louvre, Parigi (Francia).

III
FILEMONE E BAUCI

 

Tra i tanti legami che mi uniscono a mia moglie Catia, faro e punto di riferimento della mia vita nel caotico oceano dell'esistenza, ci sono proprio le favole: ricordo ancora quando, appena fidanzati, trascorrevamo ore ed ore a passeggiare mentre io le raccontavo miti e leggende del passato, che lei mi chiedeva in continuazione senza darmi neppure il tempo di riprendere fiato; una delle sue storie preferite era, senz'altro, quella che viene descritta nelle pagine che seguono. Ricordare oggi questi momenti significa per me ringraziare ancora una volta la mia compagna di vita per tutto l'amore che ha saputo darmi in questi anni.



anto tempo fa, gli dèi erano soliti camminare sulla terra tra i comuni mortali e andare a bussare di porta in porta per sondarne la bontà d'animo; per questo l'ospitalità era sacra presso i Greci: perché dietro le sembianze di un viandante o di un semplice mendicante poteva nascondersi un dio.

Questa tradizione non era evidentemente nota agli abitanti di un villaggio della Frigia (una regione dell'Asia Minore), sito non molto distante dalla città di Troia; qui, infatti, presero sembianze umane il padre di tutti gli dèi Zeus (Giove) e uno dei suoi figli prediletti, Hermes (Mercurio).

I due viaggiatori, stanchi per il lungo viaggio a piedi, bussavano di porta in porta in cerca di ospitalità, ma invano. Nessuno concedeva loro né carità, né ristoro.

Zeus ed Hermes giunsero infine di fronte ad un'umile casetta dove vivevano Filemone e Bauci: due poveri vecchietti dalle facce rugose, sposati da oltre cinquant'anni e che tuttavia continuavano a volersi bene come il primo giorno in cui si erano conosciuti.

Quando i due sconosciuti bussarono alla porta di quella coppia di sposi così straordinariamente affiatata, Filemone e Bauci non ebbero altro pensiero se non quello di accogliere quei pellegrini e dar loro ospitalità. Venne acceso il fuoco e preparata una zuppa d'erbe, venne affettato il prosciutto serbato per le grande occasioni.

I quattro si misero tutti a tavola, apparecchiata in modo semplice ma sobrio ed elegante; durante la cena, avvenne un fenomeno straordinario: di tanto in tanto, Bauci versava del latte di capra dalla sua anfora per dissetare gli ospiti, che Zeus ed Hermes trovarono entrambi squisito; eppure, per quante volte la vecchietta riempiva il bicchiere dei due viandanti, l'anfora in luogo di svuotarsi si riempiva da sola.

Al termine della cena, Filemone e Bauci rinunciarono al loro letto coniugale per far dormire più comodamente gli ospiti e si sistemarono per la notte in un giaciglio di paglia. La mattina dopo Zeus si alzò dopo aver dormito il sonno del giusto e si rivelò ai due sposi per chi era veramente; disse che aveva trovato la gente del luogo arida e meschina e che l'avrebbe punita a dovere.

Hermes invitò quindi Filemone e Bauci ad uscire dalla loro casa per raggiungere la sommità del colle più vicino: i due vecchietti si misero in marcia e, anche se arrancando, giunsero alla fine in cima all'altura assieme alle due divinità.

Zeus stava stendendo la mano su quel paese tanto ingrato, che venne immediatamente sommerso da una palude; solo la casetta di Filemone e Bauci venne risparmiata ma essa si era miracolosamente trasformata in un tempio di marmo bianco e dal tetto d'oro.

Zeus rivolse il suo sguardo benigno ai due vecchi e disse: Voi siete le uniche persone dall'animo buono e gentile che abbiamo incontrato e per questo meritate la mia gratitudine; ditemi quello che desiderate e vi verrà concesso.

Filemone e Bauci rimasero un po' interdetti e si misero a confabulare tra di loro, sotto lo sguardo tollerante di Hermes e Zeus; con le persone anziane, si sa, ci vuole pazienza.

I due sposi si scambiarono uno sguardo d'intesa e, come ci riferisce Ovidio nelle Metamorfosi, formularono il loro desiderio:

Chiediamo d'essere sacerdoti
e di custodire il vostro tempio;
e poiché in dolce armonia
abbiamo trascorso i nostri anni,
vorremmo andarcene nello stesso istante,
ch'io mai non veda la tomba di mia moglie
e mai lei debba seppellirmi.

Il desiderio di Filemone e Bauci venne esaudito da Zeus: i due vecchi, infatti, furono i custodi di quello splendido tempio per tutto il resto della loro vita.

Ma un giorno avvenne un altro straordinario prodigio; mentre, sfiniti dallo scorrere degli anni, i due vecchi stavano davanti alla sacra gradinata del tempio, narrando la storia del luogo ai pellegrini, Bauci vide Filemone coprirsi di fronde e crescere di statura; e la stessa cosa stava succedendo a lei.

I due sposi capirono che stava succedendo qualcosa di misterioso, ma continuarono a parlare tra di loro sussurrandosi parole d'amore. Infine, dissero assieme: Addio, amore mio , pochi istanti prima di perdere del tutto la voce; un ultimo bacio suggellò le loro bocche.

Bauci si mutò in un tiglio, e Filemone in una quercia; le fronde e i rami dei due alberi erano intrecciati tra di loro in un ultimo ed eterno abbraccio; erano diventati due alberi sacri a Zeus, destinati a stare ancora insieme per i secoli a venire e a fare ombra ai viandanti accaldati.

Ai piedi dei due alberi vi era ancora l'anfora che Bauci aveva utilizzato per dissetare Hermes e Zeus, tanti anni prima; essa aveva ancora il miracoloso potere di riempirsi da sola senza svuotarsi mai.

Tutti i pellegrini dall'animo semplice e gentile che assaggiavano quel latte lo trovavano il liquido più fresco e zuccherino che avessero mai assaggiato. Le persone dall'animo gretto e malvagio, invece, percepivano solo un sapore rancido ed amaro non possedendo il dono di gustare il bello della vita.

È questa, forse, una delle storie più tenere e delicate della mitologia greca, che mi piace dedicare a tutte le persone che si vogliono bene.

Filemone e Bauci
Stampa di Nicolaes Lauwers (1600-1652)

IV
BĒOWULF

 

Il poema di Bēowulf risale all'VIII sec. d.C. ed è uno dei primi esempi di epica medievale. Per me la lettura di questa leggenda significò accedere ad un mondo sino ad allora sconosciuto: quello della mitologia nordica, che non era contemplata dai programmi dei miei studi classici. Ricordo ancora le notti in cui, dopo l'esame di maturità, divoravo le pagine del libro che mi avrebbe condotto in un'atmosfera di sogno affascinante come poche; oltre quella storia c'erano tanti altri personaggi ad attendermi: da Re Artù a Sigfrido, da Cú Chulainn a Finn Mac Cumaill. Ma di loro vi racconterò un'altra volta… per ora vi basti sapere che, all'epoca, leggevo di nascosto per non farmi scoprire da mia madre, che vigilava affinché non leggessi di notte per non compromettere una già avanzante miopia; ignorava, forse, che quella smania di leggere era frutto di una vivacità intellettuale che lei stessa aveva contribuito a far germogliare. A distanza di anni, ringrazio ancora mia madre per il dono più prezioso che potesse farmi: la curiosità.



anto tempo fa, in una regione fredda ed inospitale chiamata Danmörk, a lungo regnò sugli Scyldingas il potente Hrōðgār, famoso tra i popoli e amato dai suoi sudditi.

Arrisero allora, a Hrōðgār,
grandi successi militari,
segni di prestigio in guerra,
tanto che amici e parenti gli ubbidivano lieti,
mentre i giovani si facevano un seguito,
grande e forte.
Gli venne in mente la voglia di ordinarsi
una reggia di corte, di costruire un'immensa
casa per l'idromele, da parlarne in eterno.

Venne così costruita una reggia, cui venne dato nome «il Cervo»; tanto largo potere aveva tale parola a quei tempi.

La corte visse felicemente per anni tra gioie, banchetti e musiche, sino a quando un Nemico Infernale non interruppe quel periodo di pace e prosperità.

Aveva nome Grendel,
quell'Orco feroce: infame vagabondo
della marca, infestava putrescenti acquitrini,
terraferma e paludi. Per un certo periodo
quel personaggio nefasto si tenne nella regione
della razza dei mostri, da che il Signore
l'aveva proscritto con la razza di Caino.

La Creatura immonda, infatti, discendeva direttamente dalla stirpe di Caino il fratricida, razza degenerata e maledetta dalla divinità; ogni notte funestava la reggia di Hrōðgār facendo strage dei vassalli e dei guerrieri che abitavano la corte. Per dodici inverni la regione del Danmörk subì le angherie dell'orco Grendel, causando lutti e lacrime amare, sino a quando dal mare non giunse il principe Bēowulf, figlio di Hygelāc, dalla terra dei Geati, che si presentò a Hrōðgār offrendo il suo valore e il suo coraggio per sconfiggere il Nemico Infernale.

Quella notte Bēowulf si stese sul pavimento della corte in attesa dell'arrivo del mostro che infestava (oscuro viandante dell'Ombra) le notti del Danmörk; quando il perfido Grendel, dagli occhi iniettati di fuoco e di sangue, giunse dalle paludi nebbiose nella reggia del Cervo, il figlio di Hygelāc lo attaccò a mani nude ingaggiando una furiosa lotta corpo a corpo.

Si aprì una piaga, sul corpo del Mostro spaventoso:
gli apparve sulla spalla una vasta ferita.

L'Orco Grendel fuggì urlando per il dolore e trovando rifugio nel suo covo senza gioia, solo per trovarvi la morte ormai dissanguato.

Bēowulf affisse come trofeo il braccio sotto la volta del tetto della reggia.

Il giorno dopo tutta la corte del Cervo celebrò l'impresa del figlio di Hygelāc. Nei giorni successivi venne servita carne in abbondanza e versato idromele; i bardi, oltre a cantare le imprese dei grandi del passato, dedicarono i loro versi anche alle imprese del giovane guerriero che aveva osato opporsi a Grendel.

Ma era destino che la gioia e la serenità non dovessero durare a lungo nella reggia del re Hrōðgār: erano trascorse solo alcune notti dalla grande vittoria di Bēowulf sul terribile Orco, quando giunse la madre di Grendel a funestare i sogni degli Scyldingas, seminando ancora morte e disperazione.

Bēowulf non si rassegnò e raggiunse la tana dei Cainidi seguendo le tracce di sangue che la madre di Grendel lasciava prima di immergersi nuovamente nella palude mefitica che aveva eletto come sua dimora.

Il figlio di Hygelāc si tuffò in acqua e si immerse nei flutti, lottando contro il freddo gelido e la mancanza d'aria, alla ricerca della tana del nuovo Nemico. Gli dèi proteggevano il coraggio di quel giovane guerriero, che riuscì a riemergere appena in tempo per scoprire la tana della scellerata stirpe di Caino.

Bēowulf brandì la sua spada e affrontò ancora una volta le forze del Caos nella immane ed eterna lotta per la salvaguardia dell'ordine cosmico. La madre di Grendel era dotata di forza sovrumana e di tutte le subdole armi del Maligno, ma infine fu la lama del valoroso principe dei Geati ad avere la meglio.

Il figlio di Hygelāc tornò alla corte del Cervo, mostrando la testa dell'Orchessa come trofeo; presso gli Scyldingas ancora una volta vennero celebrate le gesta del grande guerriero giunto dal mare a salvare il futuro del Danmörk. Bēowulf venne congedato con tutti gli onori e ricordato nelle saghe dei popoli del Nord come uno dei più grandi eroi mai vissuti.

Ritornato nella sua madrepatria, altre imprese attendevano il valente e coraggioso Bēowulf; succeduto al padre sul trono del Götaland, egli regnò con saggezza e giustizia, reggendo le sorti del suo popolo.

Quando la vecchiaia si approssimò a lambire anche la forza e il valore di quel grande re, un drago dal soffio mortale solcò i cieli della terra dei Geati, seminando morte e distruzione.

Re Bēowulf avanzò con virile e cupa rassegnazione verso quel nuovo nemico, accompagnato dai fidati guerrieri della sua guardia personale, che per anni lo avevano aiutato a mantenere l'ordine nel suo regno.

Di fronte alle spaventose fauci del drago, a ben pochi resse il cuore ed il coraggio per tenere testa a quel demone malvagio. Solo uno dei suoi guerrieri, Wīglāf figlio di Wēohstān, nipote del re, ebbe la forza di rimanergli a fianco reggendogli lo scudo mentre affrontava quel terribile mostro.

Alzò la mano,
il signore dei Geati, colpì l'Orrore lucente
con la spada ancestrale,
[…]
Sollevò il pugnale mortale, amaro,
affilato in battaglia, che aveva sulla cotta,
squarciò… il ventre del serpente.

Le esalazioni venefiche del drago furono però fatali per re Bēowulf, la cui anima dipartì, diretta al giudizio di chi è fermo nel giusto.

Il popolo dei Geati eresse per lui un tumulo degno di un grande re; i poeti lo cantarono e lo celebrarono come è giusto celebrare un sovrano e un amico. Tutti dissero che era stato...

...fra tutti i re del mondo,
il più generoso con i suoi
e il più cortese degli uomini,
il più gentile con la sua gente,
il più smanioso di gloria.

V
IL DRAGO DI CRACOVIA

 

Concludo il mio rapido excursus mitologico con una favola tratta dal folklore della cultura slava; anche questa storia, ovviamente, ha dietro un aneddoto che mi fa piacere raccontare per sommi capi. Diversi anni fa decisi di raggiungere la Polonia con un folle viaggio in pullman e durato quasi ventiquattro ore; giunto a Cracovia rimasi particolarmente colpito dalle bellezze di quella città; acquistai un libro di fiabe popolari e un drago di péluche per mio fratello, che allora aveva poco meno di due anni. Ricordo ancora la faccia sorridente che fece quando glielo regalai al mio ritorno e l'orgoglio con cui lo portava in giro (all'epoca il pupazzo era alto quasi quanto lui) sussurrando quella parola difficile: «Dhaago! Dhaago!» Questo racconto è dedicato a mio fratello Massimiliano.



anto tempo fa, quando le grandi città non erano state ancora edificate dagli umani e dai giganti e il solco degli antichi sentieri non era stato tracciato dal passo degli abitanti del nostro mondo, ancora quasi totalmente disabitato, alcuni dei nostri antenati vivevano in una terra brulla ed inospitale, funestata dal vento e da un clima ostile che rendeva ardua la sopravvivenza: ma era la loro patria e come tale essi la amavano e la cantavano nei loro inni.

I nostri predecessori la chiamarono Sarmazia o Polonia e ci raccontano che all'inizio la popolazione era nomade e viveva di caccia e di pastorizia; i più coraggiosi avevano fatto della vita a cavallo la propria ragione di vita, vivendo in simbiosi con quell'animale che veneravano come l'amico più fidato.

Il rapporto con il proprio cavallo era di fondamentale importanza anche per gli adepti della prestigiosa casta dei guerrieri: questi riuscivano ad avere sempre ragione del loro nemico travolgendolo con micidiali cariche guidate da squadre compatte di uomini armati di arco, lancia e spada; alcuni storici sostengono addirittura che i Sarmati sarebbero i veri progenitori degli antichi Cavalieri, che sono stati protagonisti di tante storie e leggende popolari, sopravvissute sino al giorno d'oggi.

Con il passare dei secoli, tuttavia, parte della popolazione rinunciò al nomadismo per dedicarsi alla coltivazione dei prodotti della terra. Una piccola comunità decise di stanziarsi ai piedi del colle di Wawel, presso il fiume Vistola, fondando il villaggio di Kraków (Cracovia).

Con il trascorrere del tempo, divenne una città fiorente che visse il periodo di massimo splendore durante il regno del principe Krak, che elargiva benessere ai suoi sudditi dall'alto del suo castello edificato sul Wawel.

Smok Wawelski
Immagine di Sebastian Münster (1488-1552), dalla Cosmographie Universalis.

Un triste giorno, tuttavia, un orribile mostro apparve dalle cave sotterranee che si celavano al di sotto delle fondamenta del maniero: un drago sputafuoco dalle fauci enormi e dalla pelle coriacea ricoperta di scaglie di ferro.

Il drago imperversava tutte le notti, devastando la città e le campagne circostanti con il suo soffio portatore di morte e divorando i malcapitati che incontrava sul suo cammino.

Il principe Krak, ormai troppo vecchio per affrontare il mostro, aveva promesso metà del suo regno e la mano della propria figlia in sposa a chiunque fosse riuscito a liberare la città da quell'incubo.

Molti furono gli eroi e i cavalieri che tentarono l'impresa, ma tutti morirono miseramente senza riuscire neppure a scalfire il drago: la sua armatura di scaglie lo rendeva pressoché invulnerabile contro lance, spade, asce e frecce, mentre le fiamme che fuoriuscivano dalle sue fauci erano letali per tutti. Le ossa dei guerrieri caduti, sparse sul limitare della tana del mostro, erano un orribile monito per chiunque osasse solo sperare di sfidarlo.

Il caso volle che un giovane ed astuto ciabattino, di nome Dratewka, concepì per primo l'idea di combattere il drago facendo uso non della forza, ma dell'astuzia. Questi decise di immolare un grasso montone e, una volta estratte le interiora, di farcirlo con grosse quantità di zolfo; poi avvolse l'animale con la sua stessa pelle in modo tale che, agli occhi del drago, potesse sembrare ancora vivo e lo collocò proprio davanti alle cave sotterranee del Wawel.

Il drago si risvegliò dal suo sonno e, appena uscito dalla tana, vide un animale ben pasciuto, apparentemente intento a pascolare; in un attimo, il mostro lo ghermì e lo divorò avidamente in pochi bocconi.

Ben presto, però, il drago cominciò a sentire un bruciore di stomaco, che cresceva via via con il trascorrere del tempo. Tormentato dal dolore e da una terribile sete, il mostro si precipitò verso il fiume Vistola e cominciò a bere enormi quantità di acqua per placare quella insopportabile sensazione che sentiva dentro le viscere.

Il drago beveva e beveva senza posa, ma non riusciva a placare il suo dolore; alla fine, il suo stomaco si riempì d'acqua in quantità inimmaginabile.

All'improvviso, una terribile esplosione squarciò il cielo della città, terrorizzando gli abitanti; il principe Krak e tutta la popolazione di Kraków accorsero per vedere cos'era mai successo e una scena incredibile si parò loro davanti: di fronte al ciabattino Dratewka giaceva il corpo dilaniato del drago, che aveva bevuto così tanta acqua sino al punto di esplodere.

Dratewka sposò così la figlia del principe Krak e, alla morte di quest'ultimo, divenne il reggitore di Kraków, che tornò al suo antico splendore.

Gli abitanti, tuttavia, non vollero scordare i tempi in cui erano stati funestati dal drago, che divenne da allora in poi il simbolo della città e venne esposto in tutti i vessilli e i blasoni del principe regnante.

Cracovia [Kraków]
Stampa del XV sec.
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Sezione: Rielaborazioni - Chat de Carabas.
Narrazioni:
Racconti senza Tempo - Pen Beird.
Testi di Daniele Bello.
Racconti senza Tempo è proprietà intellettuale di Daniele Bello, pubblicato su licenza da Bifröst.
Creazione pagina:01.08.2011
Ultima modifica: 17.02.2014
 
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