PREFAZIONE
LA GUERRA DI TROIA
Cos'è il mito?
«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.»
Gian Battista Vico
Nella mitologia greca, la guerra di Troia viene narrata come una guerra
combattuta tra gli Achei e la potente città di Troia per il controllo
dell'Ellesponto.
Secondo la tradizione, il conflitto ebbe inizio a causa del rapimento di
Elena, la regina di Sparta, ritenuta la donna più bella del mondo, da parte di
Paride, principe troiano. Il marito di Elena, Menelao, grazie all'aiuto del
fratello Agamennone radunò un incredibile esercito, formato dai maggiori
comandanti dei regni greci e dai loro sudditi, muovendo così guerra contro
Troia.
Gli eventi del conflitto troiano sono narrati principalmente nell'Iliade
di Omero e in altri testi letterari, noti come «Ciclo Troiano», ormai perduti e
conosciuti solo tramite citazioni successive.
Ulteriori fonti di conoscenza possono considerarsi anche le tragedie
antiche di Eschilo, Sofocle ed Euripide. La distruzione di Troia è invece
narrata nel secondo libro dell'Eneide di Virgilio (Ilíou Pérsis). Altre
citazioni sono reperibili in varie opere della letteratura latina e greca.
La veridicità storica degli avvenimenti della guerra di Troia è ancora
oggi oggetto di discussione: per non appesantire troppo la presente
introduzione, per ora basti sapere che quanti reputano la guerra di Troia un
fatto realmente accaduto collocano i fatti verso la fine dell'età del Bronzo
(data tradizionale: 1184 a.C.), in parte accettando la datazione proposta dallo
studioso Eratostene. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla Parte Quarta del
presente volume.
Scopo del presente libro è quello di narrare gli eventi di questo ciclo
mitico, che appassiona da oltre tre millenni, in modo tale da poter essere
fruito ed apprezzato anche da chi si avvicina per la prima volta a quella che a
ragione è stata definita la «Storia delle storie del mondo».
L'entusiasmo di chi ha letto i precedenti volumi della serie dei
Racconti senza tempo mi spinge ad andare senz'altro avanti in questa immane
fatica di tradurre in poche pagine la passione e gli studi di tanti anni
trascorsi in compagnia di libri oggi ingialliti.
La semplicità dello stile (è bene ricordarlo) è il punto di arrivo di un
percorso che ha come unico obiettivo quello di far riscoprire il patrimonio,
troppo spesso dimenticato, che ci hanno voluto tramandare i nostri avi: nella
consapevolezza che di questo patrimonio (e dei relativi insegnamenti) abbiamo
particolarmente bisogno ora, in un momento così delicato per il futuro
dell'umanità.
Daniele Bello
Aprile 2011
...a mia moglie Catia,
senza la quale questo (e molto altro di me) mai sarebbe stato. |
I
LE ORIGINI DEL CONFLITTO
.
Ab ovo
ome
è possibile iniziare la narrazione di una delle epopee più
famose della storia? Naturalmente… partendo ab ovo!
Questa frase latina significa letteralmente «dall'uovo» e
quindi, in senso metaforico, «da molto lontano», «dalle più
remote origini».
|
Il poeta Orazio |
Tale espressione risale al poeta latino Orazio che
nella sua Ars poetica avvisava di non mettersi a
parlare della guerra di Troia cominciando dalle origini
(appunto, ab ovo). L'uovo in questione era quello che
era stato generato da Leda, dopo essere stata sedotta
da Zeus in forma di cigno.
Dall'uovo di Leda nacque la bellissima Elena, che
– come vedremo in seguito – sarà una delle cause scatenanti
della guerra di Troia.
Non ce ne voglia Orazio, ma noi riteniamo che per
comprendere le origini più remote della storia che ha
appassionato per secoli i poeti e i letterati dell'Occidente
occorre risalire agli antefatti, per così dire, «cosmici»
degli eventi che seguiranno.
Il nostro racconto, quindi, partirà addirittura dalla lotta
per il dominio dell'universo…
Secondo la mitologia greca il sovrano assoluto del Cosmo era
Zeus, signore del tuono e del fulmine, il quale tuttavia era
riuscito ad assurgere al trono celeste solamente dopo aver
sconfitto e spodestato il padre Crono, il dio del
tempo. Del resto, lo stesso Crono aveva imposto il suo
dominio sull'universo dopo aver mutilato il padre Urano,
dio del firmamento.
È facile comprendere che questo passato cupo e sinistro
fatto di congiure ed intrighi esasperasse il nuovo tiranno
del cielo, che viveva nel terrore che un suo discendente
potesse detronizzarlo.
Il titano Prometeo, il cui nome significa il
«Preveggente», era l'unico a sapere che un giorno anche Zeus
sarebbe stato spodestato dal suo trono qualora si fosse
unito in nozze fatali con una dea (di cui solo il titano
conosceva il nome) capace di generare un figlio destinato a
diventare il nuovo sovrano dell'universo.
Zeus aveva ordinato a Prometeo di rivelare il nome fatale,
minacciando il Titano di terribili vendette e supplizi
qualora non avesse obbedito al suo volere.
Prometeo oppose un solenne rifiuto; da tempo, infatti, egli
era stato incatenato ad una parete di roccia sui monti della
Scizia, perché aveva rubato dall'Olimpo le faville del
fuoco, rivelandone il segreto agli uomini. Il titano
dichiarò con orgoglio che mai avrebbe reso noto il nome
della dea se prima Zeus non si fosse deciso a liberarlo.
Alla fine, fu con l'intervento della Madre Terra che i due
immortali giunsero a riconciliarsi; Prometeo venne liberato
e solo allora rivelò il nome fatidico: la divinità in grado
di partorire un figlio capace di dominare il mondo era
Teti ①, una ninfa del mare (di cui, tra l'altro, Zeus si
era già invaghito).
① |
Alcuni autori riportano il nome
di Tetide, per distinguere la ninfa da Teti,
sposa di Oceano e appartenente alla stirpe dei Titani. |
.
Le nozze di Teti e Peleo
l
dio del tuono e del fulmine decretò che Teti venisse data in
moglie ad un semplice mortale e la scelta ricadde su
Peleo, re di Ftia (una regione della Tessaglia).
Figlio di Eaco, re di Egina (un sovrano famoso per il
suo grande senso di giustizia, tanto da essere chiamato dopo
la morte a giudicare della sorte delle anime dei defunti
nell'oltretomba assieme a Minosse e Radamanto),
Peleo era stato diseredato e scacciato dal padre assieme al
fratello Telamone per essersi macchiato dell'omicidio
del fratellastro Foco.
In seguito, Peleo aveva partecipato assieme al fratello ad
imprese celebri, come la ricerca del vello d'oro e la caccia
al cinghiale calidonio; per purificarsi dal suo terribile
crimine, aveva trovato rifugio presso il re di Ftia, di cui
aveva ereditato il regno dopo essersi unito in matrimonio
con la figlia.
Peleo era un sovrano ormai vecchio e stanco, quando venne
designato dal sovrano del cielo come futuro consorte di Teti.
Le fonti più antiche non ci fanno capire esattamente se la
ninfa avesse accolto di buon grado tale decisione: secondo
alcuni, ella obbedì sin da subito al volere divino, anche
per non inimicarsi Hera, moglie di Zeus, che l'aveva
allevata da bambina.
Altre fonti riportano, invece, che Teti cercò in tutti i
modi di sfuggire a Peleo, il quale dovette rincorrerla per
vari lidi e non senza difficoltà, in quanto la ninfa (come
molte creature del mare, del resto) aveva il potere di
cambiare forma in qualsiasi momento, sfuggendo così al suo
inseguitore. Il re di Ftia riuscì comunque a raggiungerla e
a stringerla così forte da non consentir alcuna via di fuga
alla dea, neppure facendo uso della metamorfosi. Solo a quel
punto, Teti si rassegnò al matrimonio forzato con un
mortale. ①
|
Nozze di Peleo e Teti |
Calyx Krater. Spina, Ferrara (±430 a.C.) |
Alle nozze di Teti e Peleo, che venne celebrato sul monte
Olimpo, vennero invitati tutti gli dèi, maggiori e minori, i
quali parteciparono alla cerimonia portando ciascuno un
regalo speciale per gli sposi. Si racconta, ad esempio, che
Poseidon offrì in dono una coppia di cavalli
immortali, Bàlio e Xanto, mentre il centauro
Chirone portò una lancia dalle dimensioni smisurate,
che solo il più forte tra i mortali avrebbe potuto
scagliare.
Come spesso capita in queste occasioni, gli sposi si
dimenticarono di invitare un'ospite importante: la dea
Eris (la Discordia), compagna nelle battaglie di Ares,
il dio della guerra.
Sentendosi umiliata, la dea andò su tutte le furie e decise
di presentarsi comunque al convito nuziale esclamando con
rabbia: — Vi ho portato anch'io il mio dono. — Detto ciò,
ella gettò nel bel mezzo della tavolata una mela d'oro con
la scritta Tei Kallistei, «Alla più bella» ②.
Sorse quindi un gran litigio tra le massime dee dell'Olimpo
Hera, Pallade Atena e Afrodite,
ciascuna delle quali riteneva che quel pomo le spettasse di
diritto.
Al fine di evitare che la lite degenerasse, Zeus sentenziò
che il giudizio dovesse essere affidato al più bello tra
tutti i mortali; e questi era Paride, figlio di
Priamo, re di Troia, di cui dovremo occuparci più
diffusamente.
Di Teti e Peleo è doveroso comunque dire che dalla loro
unione nacque un figlio maschio, cui venne dato il nome di
Achille. Alla sua nascita, un oracolo predisse che
sarebbe morto di vecchiaia dopo una vita tranquilla e priva
di imprese, oppure giovanissimo su di un campo di battaglia,
dopo aver compiuto imprese tali da guadagnarsi l'immortalità
attraverso la poesia dei cantori di tutte le epoche.
Spaventata da un tale responso, Teti tentò di rendere
immortale il figlio, immergendolo nel fiume Stige e
facendolo così diventare invulnerabile.
Si racconta, tuttavia, che la ninfa del mare avesse
effettuato il rituale tenendo il piccolo per il tallone
sinistro che, non essendo stato sfiorato dalle acque stigee,
rimase l'unica parte del corpo del figlio di Peleo a non
essere immune da ferite (da qui deriva il proverbiale
«tallone di Achille», locuzione spesso utilizzata per
indicare il punto debole di un persona) ③.
Va comunque detto che la fama della invulnerabilità di
Achille è nata in epoca posteriore ad Omero: nell'Iliade
e negli altri poemi del Ciclo Troiano infatti, non vi è
alcuna traccia di questa leggenda, ragion per cui anche noi
ci permetteremo di ignorarla nel proseguimento della nostra
storia.
Per ora ci basti sapere che il re Peleo, disapprovando i
metodi della ninfa del mare, la rimproverò aspramente
proibendole di sottoporre ulteriormente il bambino a simili
rituali magici: la dea Teti, infuriata, se ne andò sdegnata
abbandonando per sempre il marito.
Il giovane Achille venne affidato dal padre alle cure del
centauro Chirone assieme a quello che sarebbe diventato il
suo amico del cuore: Patroclo.
Achille venne addestrato nell'arte della caccia, dell'uso
delle armi e nell'addestramento dei cavalli; egli venne
inoltre istruito nell'arte della musica e della pittura;
imparò anche l'arte medica e tutte le antiche virtù degli
antenati.
Il centauro lo nutriva e lo educava per farne uno degli eroi
destinati ad alimentare una delle leggende più affascinanti
che la storia ci abbia mai tramandato. ④
① |
Il tema del ratto
ovvero della conquista violenta della sposa non è insolito
nella mitologia e ritorna anche nel poema medievale
Nibelungenlied, in cui è
la stessa Brunilde ad annunciare di voler sposare solo
chi saprà vincerlo in battaglia. |
② |
Anche in questo caso, il
tópos letterario del rancore della dea/fata non invitata
verrà rielaborato nella favolistica più moderna: tutti
ricordano la storia di Rosaspina (meglio nota come La bella
addormentata nel bosco) (Grimm ~
Grimm 1865). |
③ |
La leggenda della
invulnerabilità di Achille trova un interessante parallelo
nella figura dell'eroe germanico Sigfrido, il quale al
pari di Achille poteva essere ucciso solamente se colpito alla
schiena, in mezzo alle scapole. |
④ |
La storia del rapporto tra
Achille ed il centauro Chirone non ha, purtroppo, un lieto
fine; il figlio di Peleo, infatti, colpì il suo maestro
accidentalmente con una freccia provocandogli una ferita
mortale. Vinti dalle preghiere di Achille, gli dèi decisero di
accogliere nel firmamento il vecchio centauro, che divenne
così la costellazione del Sagittario. |
.
Il giudizio di Paride
Per
dirimere la controversia, sorta durante le nozze di Teti e
Peleo, su chi fosse la più bella tra le dee dell'Olimpo,
Zeus ordinò a Hermes, il messaggero degli dèi, di
condurre Hera, Pallade Atena e Afrodite da Paride, un
principe troiano che trascorreva la propria vita umilmente
come un comune pastore, ignaro delle proprie origini.
Il giovane era stato abbandonato appena nato, poiché la
madre Ecuba (sposa del re di Troia, Priamo)
prima di partorire aveva avuto un terribile incubo: aveva
infatti sognato di mettere al mondo una torcia, che aveva
dato fuoco all'intera città; gli indovini interpretarono
quel presagio come un segno premonitore, profetizzando che
il nascituro sarebbe stato la causa della rovina del suo
popolo.
Questa fu la ragione per cui la famiglia reale decise di
abbandonare alla nascita il principe tra le aspre montagne
circostanti, dove tuttavia il piccolo venne ritrovato da un
pastore, che decise di allevarlo come un figlio. ①
Quando Hermes e le tre dee apparvero davanti al giovane,
Paride stava facendo pascolare come suo solito il suo gregge
e non si aspettava certamente di dover fare da arbitro in
una disputa tra divinità.
Il messaggero degli dèi consegnò al figlio di Ecuba la mela
d'oro scagliata dalla dea Eris con tanta rabbia,
chiedendogli di consegnarla a quella che gli fosse apparsa
come la più bella di tutte.
Poiché Paride non sembrava in grado di dare un giudizio
nell'immediato, ciascuna delle tre divinità si avvicinò di
soppiatto al principe troiano per promettergli doni preziosi
in cambio della consegna del frutto della discordia.
Pallade Atena gli offrì la sapienza e la invincibilità in
guerra, mentre Hera avrebbe garantito a Paride il potere
politico e il controllo su tutta l'Asia, qualora fosse stata
dichiarata la più bella tra le dee; Afrodite, invece, gli
promise l'amore della donna più bella del mondo.
Paride, d'impulso, consegnò la mela d'oro alla dea Afrodite
e fuggì via per non incorrere nell'ira delle due divinità
che non aveva favorito.
Hera e Pallade Atena tornarono nell'Olimpo, sdegnate e
desiderose di vendetta: da allora, esse furono acerrime
nemiche di tutta la stirpe troiana, mentre Afrodite ne
divenne, da allora, la protettrice.
|
Il giudizio di Paride
(✍ 1515-1516) |
Raffaello Sanzio (1483-1520)
Staatsgalerie, Stoccarda (Germania) |
Del resto, la dea Afrodite aveva anche più di un motivo per
essere legata alla città di Troia, in quanto tempo addietro
si era invaghita del giovane Anchise, figlio di Capi,
un nobile appartenente ad un ramo collaterale della famiglia
reale troiana, e aveva con lui generato un figlio cui venne
il dato il nome di Enea; di questo rampollo dovremo
parlare più diffusamente in seguito, in quanto destinato ad
essere il capostipite di una importante dinastia.
La storia d'amore con Anchise non venne tuttavia gradita
molto nell'Olimpo, anche perché il padre di Enea si era
spesso vantato in pubblico della sua unione con la dea; ciò
gli valse l'ira del sommo Zeus, che gli scagliò
rabbiosamente addosso uno dei fulmini forgiati dai Ciclopi,
rendendo il figlio di Capi zoppo per il resto della sua
vita.
In seguito, il giovane Paride si recò nella città di Troia,
perché gli araldi del re avevano portato via il suo toro
migliore per darlo in premio al vincitore di alcune gare
sportive.
Per riuscire a riprendersi l'animale, Paride decise di
partecipare ai giochi atletici e riuscì a vincere
ripetutamente tutte le gare superando gli altri contendenti
e meritando così il premio tanto ambito. I giovani troiani,
umiliati da quella sconfitta, meditarono di ucciderlo ma non
riuscirono a portare a compimento il loro piano perché
Cassandra, figlia del re Priamo, riconobbe in lui il
fratello abbandonato in tenera età.
Priamo, commosso per aver ritrovato il figlio che credeva
perduto, decise di accoglierlo nella famiglia reale,
nonostante gli indovini gli avessero consigliato caldamente
di non farlo. ②
A questo punto, l'autore sente il bisogno di spendere
qualche parola in più sulle origini della casata di Paride e
della città di Troia, che tanta importanza è destinata ad
avere negli eventi che seguiranno.
Le origini di questa città si perdono, neanche a dirlo,
nella leggenda: si racconta, infatti, che il primo
insediamento umano nella regione, nota in seguito come
Troade (quella parte dell'Asia Minore sita in prossimità
dello stretto del Bosforo e dei Dardanelli, allora chiamato
come Ellesponto), si fosse stabilito lì sotto la guida del
mitico Teucro, da cui presero il nome tutti gli
abitanti di quella che era destinata a diventare una
fiorente comunità (Omero è solito, infatti, dare loro
l'appellativo di Teucri).
TABELLA n. 1 |
|
|
GENEALOGIA DEI RE DI TROIA |
Sembra invece che le fondamenta della futura città di Troia
venissero erette dal genero di Teucro, Dàrdano (che
ne aveva sposato la figlia Bateia), il quale divenne
il capostipite della famiglia reale.
A Dàrdano succedette quindi Erittonio e poi Tròo
(da cui deriva il nome della città), che trasmise il trono
ai figli Assaraco e Ilo; quest'ultimo, noto
per avere costruito la rocca della cittadella, cuore del
centro urbano e dimora della famiglia reale nonché sede
degli edifici di culto più importanti ③, viene citato anche
per aver generato un figlio dalla fama a dir poco
discutibile.
La storia di Laomedonte, figlio di Ilo, è infatti
legata ad una serie di episodi, tutti contraddistinti dal
mancato rispetto della parola data…
Si racconta, al riguardo, che il re di Troia volesse
ricostruire le mura della città e che, per questo, si fosse
messo alla ricerca di artigiani provetti e fidati. Il caso
volle che, a presentarsi da lui per realizzare cotanta opera
fossero nientemeno che due divinità: Poseidon, il dio
del mare, e Apollo, il dio del sole.
Laomedonte fu onorato della proposta dei due numi e concordò
ben presto il giusto compenso per la realizzazione di quell'opera
immane.
I due dei, con l'aiuto del fedele Eaco, padre di Peleo,
riuscirono ad edificare le mura più superbe e maestose che
il mondo avesse mai visto; essendo state costruite da due
immortali, esse erano pressoché indistruttibili. ④
Quando, tuttavia, Apollo e Poseidon si presentarono dal re a
reclamare il compenso pattuito, Laomedonte si rifiutò di
consegnare quanto aveva loro promesso: per puro caso,
infatti, egli era venuto a scoprire che i due numi non si
erano presentati di loro spontanea volontà per la
costruzione delle mura, ma erano stati inviati lì da Zeus in
persona. Il tiranno del cielo aveva inteso umiliare in tal
modo l'arroganza dei due dei dell'Olimpo, che avevano osato
mettere in discussione l'autorità del figlio di Crono.
Il re Laomedonte ritenne che nessuna ricompensa fosse dovuta
per quello che, in realtà, era una punizione inflitta ad
Apollo e Poseidon e congedò in malo modo i due immortali.
Orbene, se il buon Apollo fece buon viso a cattiva sorte e
se ne andò senza particolare rancore, altrettanto non si può
dire della reazione del signore dei mari, che inviò un
mostro marino a devastare le coste della Troade.
La popolazione era letteralmente terrorizzata da questa
terribile creatura, che divorava tutti i malcapitati che
incontrava durante le sue scorrerie. Ormai nessuno osava
mettere il naso fuori di casa durante l'oscurità e in molti
temevano per la propria incolumità persino di giorno.
Il caso volle che, a passare da quelle parti vi fosse il
fortissimo e coraggiosissimo Eracle, figlio di Zeus e
Alcmena, noto in tutto il mondo allora conosciuto
come eroe impavido ed uccisore di mostri.
Il re Laomedonte scongiurò Eracle di liberare la Troade da
quel flagello e gli promise in cambio una pariglia dei suoi
cavalli, tra i più belli al mondo.
Eracle accettò l'offerta del re di Troia e affrontò con
coraggio il mostro marino, di cui ebbe ragione senza
difficoltà: un'impresa da nulla, per chi aveva già
combattuto con creature come il Leone di Nemea, l'Idra di
Lerna e il gigante Anteo…
Evidentemente, però, il re dei Teucri doveva aver preso
gusto a non rispettare la parola data, tanto è vero che
ancora una volta si rifiutò di consegnare quanto pattuito. ⑤
Eracle, tuttavia, non era disposto a mandare giù questa
umiliazione tanto facilmente: in poco tempo, egli radunò un
esercito e si preparò a mettere la città a ferro e fuoco.
Ad aiutare l'eroe in questa impresa furono due fratelli,
Peleo e Telamone, di cui abbiamo avuto occasione di fare
cenno nel capitolo precedente.
Si racconta che, prima di partire per la spedizione contro
Troia, Telamone avesse chiesto ad Eracle di avvolgere il
figlio Aiace, appena nato, nella pelle di leone con cui il
figlio di Alcmena era solito vestirsi: in tal modo, il padre
sperava che una parte della forza vitale di Eracle potesse
trasmettersi al piccolo. La leggenda narra che il figlio di
Telamone crebbe forte e vigoroso e fu anch'egli protagonista
delle epopee che andremo a narrare con il nome di Aiace
Telamonio.
Inutile aggiungere che, sotto l'impeto ed il vigore di
Eracle, la resistenza dei Troiani fu vana: la città venne
presto espugnata e completamente distrutta. La famiglia
reale venne massacrata, compreso l'infame Laomedonte; a
salvarsi fu solamente la di lui figlia Esione, che fu
risparmiata per intercessione di Telamone, il quale si era
invaghito della bellissima principessa (dalla passione tra i
due nacque un figlio al quale, in ricordo delle sue origini,
venne dato il nome di Teucro).
Esione implorò Eracle di poter riscattare almeno il più
piccolo dei suoi fratelli, Podarce, e il figlio di
Alcmena acconsentì, in cambio di una magnifica tela che la
giovane figlia di Laomedonte aveva avuto modo di tessere e
decorare con le sue mani; fu così che Podarce ebbe salva la
vita e prese il nome di Priamo, che nella lingua
degli Elleni significa appunto «il riscattato».
Toccò a Priamo l'onere di rifondare la città di Troia e di
riportarla all'antico splendore, allietato da una splendida
e numerosa famiglia reale (si narra che la moglie Ecuba e le
sue concubine gli dettero più di cinquanta figli, tra cui il
valoroso Ettore e l'infelice Cassandra).
① |
Non è inutile osservare come il
ritrovamento di un fanciullo abbandonato, spesso di nobili
origini o comunque destinato ad un futuro importante, sia uno
schema tipico della storia leggendaria: da Sargon il
grande, il re di Akkad, al Mosè biblico, da Edipo,
re di Tebe, sino ai gemelli Romolo e Remo. |
② |
La storia di Cassandra merita
senz'altro di essere raccontata, sia pure per sommi capi,
anche per la rilevanza che avrà questa figura nelle storie che
seguiranno. Figlia di Priamo, Cassandra aveva suscitato
l'ardore del dio Apollo, che per ottenerne i favori le conferì
il dono della profezia; essendo stato respinto, il dio la
maledì e sancì che Cassandra avrebbe mantenuto il dono di
predire il futuro, ma sarebbe stata destinata a non essere mai
creduta. |
③ |
Stiamo parlando appunto della
rocca di Ilio, che viene rievocata nel titolo del primo dei
poemi attribuiti ad Omero, l'Iliade. |
④ |
In realtà, vi era un'unica parte
delle mura che poteva essere scalfita da un assedio ed era
quella costruita dal solo Eaco, il quale – in quanto mortale –
non poteva competere con la perizia di due divinità. Inutile
aggiungere che fu proprio il tratto edificato da Eaco ad
essere distrutto per primo durante la guerra di cui parleremo
in seguito… |
⑤ |
La trista reputazione del figlio
di Ilo divenne proverbiale nell'antichità; la regina di Cartagine, Didone, nell'accusare Enea di tradimento, lo
aggredirà etichettandolo in modo sprezzante come «stirpe di Laomedonte». |
.
I pretendenti di Elena
a
nostra storia si sposta ora nella città di Sparta, la
capitale della regione della Laconia ①, dove regnavano
Tindaro e sua moglie Leda.
Si racconta che Leda fosse una donna talmente bella da far
invaghire di sé persino gli dèi dell'Olimpo; il padre di
tutti gli immortali, Zeus, la sedusse infatti prendendo le
sembianze di un cigno e trasformando anche l'amata in un
bellissimo esemplare dell'uccello palmipede; Leda partorì
quattro gemelli (due maschi e due femmine): Castore e
Clitennestra (figli di Tindaro), Elena e
Polluce (figli di Zeus). ②
Dei due maschi, Castore e Polluce, si racconta che essi
erano pressoché inseparabili; noti in tutto il mondo antico
come i Dioscuri, assieme compirono grandi ed audaci
imprese (come l'impresa degli Argonauti e la caccia al
cinghiale calidonio), tali da meritarsi fama imperitura.
Essi dovettero anche soccorrere la sorella Elena, rapita
quando era ancora una fanciulla da Teseo, re di
Atene, e dal suo inseparabile amico Piritoo; i
Dioscuri riuscirono a trarre in salvo la figlia di Zeus e di
Leda ma non perdonarono mai questo sgarbo al sovrano di
Atene e fecero di tutto perché fosse un giorno spodestato
dal loro fedele amico Menesteo.
Altro non vogliamo raccontarvi dei gemelli, il cui culto fu
particolarmente sentito nella città di Roma, se non questo
aneddoto che tanto piacque all'Autore quando sfogliò per la
prima volta i suoi libri di mitologia.
Dopo aver avuto un diverbio con i cugini e rivali Idas
e Linceo, degenerato in una sfida all'ultimo sangue,
rimase in vita il solo Polluce che – in quanto figlio di
Zeus – aveva ricevuto il dono dell'immortalità, mentre
Castore venne chiamato a far parte del regno dei morti; non
volendo negare al gemello la possibilità di vivere ancora,
Polluce scongiurò Ade, il signore dell'oltretomba, di
concedere una qualche grazia per l'amato fratello,
mostrandosi disposto anche a rinunciare alla propria vita.
Ade si commosse per l'amore che legava tra loro i due
Dioscuri e decretò che entrambi meritassero clemenza; egli
concesse pertanto ai fratelli di rimanere nel regno dei vivi
a turno; per questo, per un giorno Polluce dimorava nella
casa dei morti, mentre Castore conduceva la sua esistenza
tra i vivi; il dì successivo, invece, i due gemelli si
scambiavano i ruoli. Così i fratelli si avvicendarono per
anni sino a quando non vennero assunti tra le divinità
olimpiche.
Diversa storia, invece, dobbiamo narrare per le due figlie
di Leda.
Crescendo, Elena divenne sempre più bella e si meritò la
fama di essere la donna più affascinante del mondo allora
conosciuto; quando giunse in età da marito ella attirò alla
corte del re Tindaro una moltitudine di pretendenti
desiderosi di prenderla in sposa. Il re di Sparta si trovava
in grande imbarazzo, ben sapendo che, dovendo scegliere come
genero uno solo tra quanti aspiravano alla mano di sua
figlia, si sarebbe sicuramente inimicato tutti gli altri…
Infine, fu uno dei pretendenti a proporre un piano per
risolvere il dilemma: Odisseo, figlio di Laerte
e re di Itaca, la cui astuzia era destinata ad essere nota
in tutto il mondo antico.
In cambio dell'appoggio di Tindaro per ottenere in sposa la
bella e saggia Penelope, figlia di Icario e nipote
dello stesso re di Sparta, Odisseo propose il seguente
stratagemma: Elena avrebbe potuto scegliere il marito in
piena libertà, ma tutti i pretendenti vennero prima
costretti a giurare solennemente, dopo aver sacrificato un
cavallo agli dèi, di rispettare la scelta della figlia di
Zeus (qualunque marito venisse scelto) e di difendere la
vita e i diritti di chiunque fosse diventato lo sposo di
Elena, anche a costo della vita.
Alla fine venne scelto come marito Menelao, figlio di
Atreo, membro della stirpe regale di Micene; in
realtà sembra che quest'ultimo non si fosse presentato in
prima persona come pretendente ma si fosse fatto avanti in
suo nome il fratello maggiore Agamennone.
Menelao aveva promesso di sacrificare cento buoi ad Afrodite
se avesse avuto in moglie Elena (questa forma di sacrificio
era nota nell'antichità come «ecatombe») ma, non appena
seppe di essere il prescelto, dimenticò la promessa fatta,
provocando l'ira della dea.
Vennero così celebrate le nozze tra Elena e l'Atride,
destinate ad arrecare tanta sventura agli Elleni; il
fratello di Menelao, Agamennone, si unì invece in matrimonio
con la figlia di Tindaro, Clitennestra.
① |
Gli abitanti della regione erano
noti per essere poco loquaci, tanto è vero che ancora oggi
siamo soliti definire «laconica» una persona di poche parole. |
② |
Come accennato, secondo alcuni
mitografi Leda non partorì i figli avuti da Zeus ma questi
vennero al mondo da un uovo che ella generò quando era ancora
trasformata in cigno; secondo un'altra versione del mito,
infine, Elena era figlia di Nemesi, la dea della
vendetta. |
.
Gli Atridi
u
Agamennone e Menelao, tuttavia, è opportuno spendere qualche
parola in più, visto il rilievo che essi avranno nel corso
della nostra storia; all'epoca, essi vivevano alla corte di
Tindaro perché esiliati dalla loro terra natia dallo zio
Tieste: ma la stirpe cui appartenevano (quella dei
Pelopidi) era già turpemente nota in tutta l'Ellade.
A dare il proprio nome alla infelice dinastia fu Pelope,
figlio di Tantalo; quest'ultimo commise un delitto
così efferato da suscitare orrore e raccapriccio per secoli
e secoli.
Potendo vantare di discendere direttamente dal grande
Zeus, il tiranno del cielo, Tantalo invitò tutti gli dèi
dell'Olimpo ad un banchetto: per mettere alla prova la loro
onniscienza, Tantalo fece a pezzi il figlio ancora bambino
e, dopo averlo cucinato, lo imbandì sulla mensa degli
immortali; ovviamente, gli dèi si accorsero del turpe
inganno e respinsero inorriditi quel piatto di carne (tutti
eccetto Demetra, dea delle messi, che senza badarvi
ne mangiò una spalla).
L'ira di Zeus non si fece attendere; Tantalo venne
scaraventato negli inferi e condannato ad un atroce
supplizio che Omero così descrive: «Soffriva ritto dentro
uno stagno: l'acqua lambiva il suo mento. Pareva sempre
assetato e non poteva attingere e bere: ogni volta che,
bramoso di bere, quel vecchio si curvava, l'acqua
risucchiata spariva, la nera terra appariva ai suoi piedi.
Un dèmone la prosciugava. Alberi dall'alto fogliame gli
spargevano frutti sul capo, peri e granati e meli con
splendidi frutti, fichi dolcissimi e piante rigogliose
d'ulivo: ma appena il vecchio tendeva le mani a sfiorarli,
il vento glieli lanciava alle nuvole ombrose»
(Odissea [XI, -]).
Dopo aver punito Tantalo, gli dèi risuscitarono Pelope e, al
posto della spalla mancante, gliene fecero una di avorio. Il
figlio di Tantalo, tuttavia, non si dimostrò meno scellerato
del padre. Giunto nell'età virile, infatti, Pelope si mise
alla ricerca di una moglie di stirpe regale e venne a sapere
che Enomao, re di Pisa nell'Elide, avrebbe concesso
la mano della figlia Ippodamia solamente a colui il
quale fosse riuscito a sconfiggerlo in un agone sportivo.
In realtà, il re di Pisa voleva evitare in tutti i modi che
la propria figlia convolasse a giuste nozze, perché un
oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto proprio per
mano del genero.
Enomao possedeva dei cavalli divini pressoché invincibili,
per cui proponeva ai pretendenti della figlia di gareggiare
con lui in una corsa di carri: se avessero vinto, avrebbero
conquistato la mano di Ippodamia.
Già tredici giovani avevano perso la vita in questo modo
quando Pelope giunse alle porte del palazzo di Enomao: il
figlio di Tantalo ricorse così al tradimento per essere
sicuro di vincere.
Mirtilo, figlio del dio Hermes e auriga del carro di
Enomao, era infatti innamorato di Ippodamia, per cui Pelope
promise di fargli passare una notte con lei se l'auriga
avesse consentito allo sfidante di vincere la corsa; poiché
Enomao guidava personalmente il carro quando gareggiava con
i pretendenti, Mirtilo tolse i perni degli assali del carro
e li sostituì con dei pezzi di cera.
|
Corsa di Pelope e Ippodamia |
.
Pelope e Ippodamia
urante
la corsa le ruote si staccarono, il carro si rovesciò ed
Enomao mori: Pelope ne uscì quindi vincitore e conquistò la
mano di Ippodamia ma, non avendo nessuna intenzione di
mantenere la promessa fatta a Mirtilo, lo gettò in mare,
facendolo annegare; in punto di morte, tuttavia, lo
sfortunato auriga maledisse Pelope e la sua stirpe e le sue
parole vennero colte dal di lui padre, Hermes.
Pelope diventò re, accumulò ricchezze e onori, ma i suoi
discendenti, vittime della maledizione degli dèi, erano
destinati a non conoscere mai la pace, sebbene il figlio di
Tantalo avesse tentato di conciliarsi i favori degli dèi
istituendo i giochi olimpici (Olimpia si trovava, appunto,
nell'Elide, a poca distanza da Pisa).
I figli di Pelope e di Ippodamia, Atreo e Tieste,
vennero chiamati a succedere al trono di Micene, una delle
città più importanti di tutta l'Ellade; la prima dinastia di
reggitori, quella dei Perseidi (dal nome di Perseo,
il mitico fondatore), si era infatti estinta a seguito di
una faida che aveva opposto l'ultimo re Euristeo ai
discendenti di Eracle (detti, appunto, gli Eraclidi).
Il solito oracolo aveva prescritto agli abitanti di Micene
di prendere come re un discendente di Pelope, ragion per cui
i due fratelli si recarono nella città, assieme alla loro
servitù e al bestiame, in attesa della scelta del popolo. ①
Il dio Hermes, subdolamente, aggiunse un agnello dal vello
d'oro agli armenti che Tieste ed Atreo avevano ereditato dal
padre, sapendo che ciò avrebbe provocato tra i due una
disputa fatale. Infatti Atreo pretese nella sua qualità di
primogenito l'agnello, che venne sacrificato alla dea
Artemide.
Tieste, dal canto suo, riuscì a trafugare la pelle
dell'animale sacrificato poco prima che gli anziani
proclamassero l'erede al trono di Micene; e quando il
consiglio offrì la corona al possessore del vello d'oro,
Tieste poté esibire il magnifico tesoro ed ottenere il
trono.
Lo stesso Zeus, indignato per un inganno così turpe (per
ottenere il suo scopo, Tieste era giunto sino a sedurre la
moglie di Atreo, Erope), intervenne nel conclave
rivelando sia il furto del vello che le infedeltà della
moglie del maggiore dei Pelopidi. Il trono andò quindi al
primogenito, mentre Tieste veniva condannato all'esilio.
Una volta re di Micene, Atreo cercò il modo di vendicarsi
del fratello; dapprima uccise la moglie Erope e poi mandò a
Tieste un messaggio distensivo, dissimulando una volontà di
riconciliazione.
L'ignaro Tieste fu ben lieto di ritornare a Micene: il
fratello lo accolse con ipocrite esibizioni di affetto e
l'invitò ad un banchetto per celebrare il suo ritorno;
durante il pranzo, si svolse una scena macabra: Atreo esibì
le teste mozzate dei figli di Tieste (Tantalo e
Plistene) e rivelò al fratello che gliene aveva servito
le carni come pietanza.
Folle di dolore, il secondo figlio di Pelope maledisse Atreo
e fuggì verso l'oracolo di Delfi per chiedere in che modo
potersi vendicare; su suggerimento della Pizia (la
sacerdotessa di Apollo che parla per bocca del dio), Tieste
generò un altro figlio (frutto, pare, della relazione
incestuosa che egli ebbe con la figlia Pelopia), cui
venne dato il nome di Egisto.
TABELLA n. 2 |
|
|
GENEALOGIA DEGLI ATRIDI |
Padre e figlio riconquistarono il trono di Micene uccidendo
Atreo e condannando all'esilio i suoi due figli maschi, che
ripararono a Sparta; e qui si riallacciano le fila della
nostra storia.
① |
In realtà il mito attribuisce a
Pelope anche un altro figlio, Pitteo; re di Trezene,
egli è famoso per aver dato alla luce la bella Etra,
madre dell'eroe Teseo. [Racconti
senza tempo, vol. I]►. |
.
Il ratto di Elena
Alla
morte di Tindaro, poiché i figli maschi di quest'ultimo
(stiamo parlando dei due Dioscuri, Castore e Polluce; ve ne
ricordate?) erano stati assunti fra le divinità, il regno
passò a Menelao, mentre Agamennone riuscì a riprendersi il
trono di Micene scacciando Egisto e Tieste; in seguito, il
maggiore degli Atridi riuscì ad allargare il suo dominio
anche alla città di Argo e Tirinto e
diventando così il padrone di tutta l'Argolide. Il Fato,
tuttavia, aveva in serbo per la stirpe dei Pelopidi un
destino che non era fatto solo di onore e gloria, ma che
avrebbe portato gravi lutti agli Elleni.
Alcuni anni dopo le nozze di Elena, infatti, a Sparta venne
ricevuta con tutti gli onori una missione diplomatica
proveniente dalla fiorente città di Troia, rappresentata dal
nobile Enea e dal giovane rampollo della casata di Priamo,
il giovane ed aitante Paride.
Durante il loro soggiorno in Laconia, Menelao dovette
recarsi a Creta per celebrare i funerali di un suo avo.
Complice l'influsso di Afrodite (che – ricorderete – aveva
promesso a Paride l'amore della donna più bella del mondo in
cambio del pomo della discordia), in assenza del marito
Elena si invaghì del giovane troiano.
Tra i due nacque una insana passione: Paride conquistò il
cuore della figlia di Leda e, nonostante il parere contrario
di Enea, riuscì a convincerla a lasciare la casa paterna per
partire alla volta della città di Troia; Elena, accecata
dalla passione, seguì il figlio di Priamo portando con sé
anche una buona parte del tesoro di Menelao.
Il viaggio verso l'Ellesponto non fu privo di pericoli anche
perché la dea Hera, ancora adirata con Paride per il suo
fatale giudizio, riuscì a convincere le divinità marine a
scatenare una tempesta contro le navi troiane,
costringendole a sbarcare in Egitto. ①
La flotta dei Teucri giunse quindi a Sidone, nella terra dei
Cananei, prima di giungere a Troia e di presentare a tutta
la famiglia reale la sposa di Paride.
Quando Menelao tornò a Sparta e scoprì l'inganno, pieno di
furore chiese al fratello Agamennone di far valere il
giuramento che i pretendenti di Elena avevano religiosamente
pronunciato davanti al re Tindaro.
Il re di Micene inviò emissari in tutta l'Ellade per
richiamare tutti i principi della Grecia, invitandoli a
rispettare il patto solenne; la parte migliore della nobiltà
ellenica era così chiamata a radunarsi davanti al porto di
Aulide, nell'isola di Eubea, con il proprio esercito.
① |
Secondo una versione della
leggenda, riferita dal poeta Stesicoro e poi ripresa nella
tragedia Elena di
Euripide, in Egitto la bella figlia di Leda venne sostituita
da un fantasma con le sue sembianze. Paride condusse quindi
con sé un mero simulacro, mentre la bella Elena – pentita del
tradimento – rimase in Egitto in attesa del marito. |
|
II
LA GUERRA
.
Il porto di Aulide
e
forze degli Elleni si radunarono dunque nel porto di Aulide,
in Beozia. Tutti i pretendenti spedirono i propri eserciti
eccetto re Cinira di Cipro (egli spedì una flotta di
cinquanta navi, di cui soltanto una era vera, mentre le
altre erano di fango).
Si racconta che tra i nobili più restii a partecipare alla
guerra vi fosse l'esponente della casa regnante di Itaca:
Odisseo, figlio di Laerte, che pure era stato il consigliere
principale di Tindaro e promotore del giuramento dei
pretendenti alla mano di Elena.
Odisseo – lo ricordiamo – si era sposato con la saggia
Penelope da cui aveva avuto un figlio, cui venne dato il
nome di Telemaco. Per evitare di partecipare alla
guerra, egli si finse pazzo e cominciò a seminare sale per i
campi.
Venne perciò inviato in missione ad Itaca Palamede,
re di Nauplia, famoso per il suo ingegno; egli, giunto
nell'isola, afferrò il piccolo Telemaco e lo posizionò nel
solco su cui stava passando Odisseo, intento a dissimulare
la sua presunta follia; non volendo uccidere il figlio
passandoci sopra con la lama dell'aratro, l'erede al trono
di Itaca cambiò tragitto, rivelando in questo modo di essere
sano di mente e quindi in grado di partecipare alla guerra.
Il giovane Achille, che all'epoca dell'adunata in Aulide
aveva solo quindici anni, era stato invece nascosto dalla
madre nell'isola di Sciro, mascherato con abiti femminili
per non essere riconosciuto dai messaggeri inviati da
Agamennone (la ninfa Teti intendeva in questo modo
scongiurare l'avverarsi della profezia che aveva predetto
una vita breve e gloriosa per il figlio di Peleo).
Gli storici ci riferiscono che a Sciro Achille ebbe una
storia con Deidamia, la figlia del re dell'isola
Licomede, la quale gli diede un figlio cui venne dato il
nome di Pirro (o Neottòlemo); avremo modo di
parlare di lui nel corso della nostra storia.
Secondo la leggenda si recarono nell'isola Odisseo e il suo
fedele amico Diomede, reggitore di Argo, allo scopo
di persuadere il giovane Achille a partire per Troia.
Odisseo si spacciò per mercante e portò con sé un cesto
contenente ornamenti femminili e una spada. Le fanciulle di
Sciro accorsero per ammirare i gioielli e i vestiti che il
misterioso viaggiatore aveva portato con sé: solo una
fanciulla si mostrò invece interessata all'arma e si rivelò
quindi per chi era realmente: il figlio di Peleo travestito
da donna.
Odisseo e Diomede utilizzarono tutta la loro eloquenza per
convincere Achille a prendere le armi e vendicare
l'oltraggio di Paride (il rampollo di Laerte era maestro
nell'arte della persuasione); il figlio di Teti, in realtà,
si fece pregare ben poco e decise di partire alla volta di
Aulide.
TABELLA n. 3 |
|
|
GENEALOGIA DEGLI EACIDI |
L'ultimo comandante a giungere al raduno fu quindi il
giovane Achille, assieme al fedele amico Patroclo. Le forze
degli Elleni vengono descritte in dettaglio nell'Iliade di
Omero nel cosiddetto «Catalogo delle navi»; noi ci
limiteremo a menzionare solo i condottieri più famosi.
La famiglia dei Pelopidi la faceva da padrone con
Agamennone, re di Micene (nonché signore dell'Argolide,
dell'Arcadia e della Corinzia), e Menelao, re di Sparta e
signore della Laconia.
Poi vi era il forte Diomede, figlio di Tideo, il
quale pur potendo vantare il titolo di re d'Argo era in
realtà un vassallo di Agamennone ed esercitava un dominio
diretto su una sola parte dell'Argolide.
Partecipò alla guerra anche Odisseo, signore delle isole
occidentali (Itaca, Zacinto e Cefalonia); il vecchio e
saggio Nestore, re di Pilo e signore della Messenia;
Achille e il suo esercito di Mirmidoni ①, al comando della Ftiotide; Toante,
re dell'Etolia; Idomeneo, re
di Creta e nipote di Minosse; Tlepolemo, principe di
Rodi; il valoroso ma arrogante Aiace Oileo, principe
della Locride; Protesilao, re di Filache; Palamede,
principe di Nauplia (nell'Eubea); Tersandro, re di
Tebe ②, ed altri centri minori della Beozia; anche l'Attica
diede il suo contributo con Menesteo, re di Atene, e
con i due principi di Salamina, figli di Telamone: il
fortissimo Aiace Telamonio e l'abilissimo arciere Teucro.
Faceva parte della spedizione anche Filottete, il
quale non poteva vantare un blasone regale ma era noto in
tutta la terra di Grecia per la sua abilità nell'uso
dell'arco, avendo egli ereditato le armi di Eracle.
③
Omero cita anche numerosi altri nobili condottieri
provenienti da Samo, dalle isole Sporadi, nonché dalle città
indipendenti dell'Arcadia, dell'Elide, della Focide, della
Locride, della Tessaglia e dell'Eubea; ragioni di tempo e di
spazio ci impediscono, ovviamente, di andare troppo in
dettaglio (anche per non annoiare il lettore, già forse
provato dai troppi personaggi…). ④
Completavano la spedizione il medico Macaone e
l'indovino Calcante, quest'ultimo destinato ad un
ruolo tristemente decisivo per le sorti della guerra.
Mentre gli Elleni sacrificavano al dio Apollo per confermare
il proprio giuramento, un serpente divorò gli otto piccoli
di un nido di passeri e la loro madre; secondo Calcante
questo evento era un sinistro presagio: la guerra sarebbe
durata a lungo.
① |
Erano un antico popolo
della Tessaglia. Secondo la tradizione il popolo traeva
il nome dalle formiche (in greco, *myrmes),
trasformate in uomini da Zeus su preghiera di Eaco, per
ripopolare l'isola di Egina devastata da una pestilenza;
essi avevano poi seguito Peleo, figlio di Eaco, esule a
Ftia. |
② |
La città di Tebe, un tempo
uno dei centri urbani più fiorenti della Grecia, stava
vivendo all'epoca delle guerra di Troia un periodo di
decadenza; la città era stata infatti dilaniata da una
lunga guerra civile che aveva opposto i due eredi al
trono, Eteocle e Polinice (figli di
Edipo). Il conflitto era culminato con l'assedio
della città da parte di Polinice, il quale dopo essere
stato esiliato dal fratello si era alleato con altri sei
nobili condottieri (tra cui Adrasto, re d'Argo)
per riprendersi il trono: la famosa guerra dei «Sette
contro Tebe». La guerra finì con il sacco della città ad
opera di Tersandro, figlio di Polinice. |
③ |
Secondo la tradizione,
infatti, il grande eroe e semidio Eracle decise di porre
fine alle atroci sofferenze che gli aveva causato un
sortilegio erigendo per se stesso una pira funebre.
Nessuno, tuttavia, ebbe il coraggio di appiccare il
fuoco per aiutare l'eroe a morire, tranne un pastore di
nome Peante, cui Eracle donò per gratitudine il suo arco
e le sue frecce. Le armi vennero poi trasmesse a
Filottete, figlio primogenito di Peante. La morte di
Eracle è argomento di una tragedia di Sofocle,
Le Trachinie. |
④ |
Per ci avesse voglia di
approfondire, si rimanda al secondo libro dell'Iliade
ovvero alla lettura del sito: <http://it.wikipedia.org/wiki/Catalogo_delle_navi>. |
.
Telefo e la Misia
e
navi salparono quindi dal porto di Aulide per raggiungere la
città di Troia; l'imbarazzo dei Greci, nel narrare
l'episodio che sto per raccontare, è evidente tanto è vero
che alcuni storici omettono spudoratamente di farne
menzione; la verità è che gli Elleni, a quell'epoca, non
avevano grandissima dimestichezza con i viaggi per mare e
nessuno conosceva con esattezza la rotta per Troia.
Alla fine di un lungo viaggio, dunque, la flotta dei Greci
approdò in Misia, una regione dell'Asia Minore, dove regnava
Telefo, figlio di Eracle.
Gli Elleni attaccarono subito battaglia e, nello scontro che
ne seguì, perse la vita Tersandro, il re di Tebe, mentre il
re di Misia venne ferito da Achille; ben presto, tuttavia,
l'esercito al comando di Agamennone si rese conto del
terribile errore commesso e ripiegò verso la costa: le navi
presero ancora una volta il largo ma, non riuscendo a
trovare la città di Troia, non poterono fare a meno di
ritornare in terra di Grecia.
Dopo quello scontro cruento, il re Telefo rimase gravemente
menomato: egli non riusciva infatti a guarire dalla ferita
causatagli dal figlio di Peleo; per quanti sforzi facessero
i suoi medici, la piaga non si rimarginava e gli provocava
terribili dolori.
Un oracolo gli predisse che solamente colui che l'aveva
ferito sarebbe stato in grado di guarirlo. Telefo si recò
quindi in Grecia, travestito da mercante, e si diresse alla
corte di Agamennone chiedendo di poter essere guarito.
Su consiglio di Odisseo, Achille riuscì a guarire il re di
Misia raschiando sulla ferita alcuni frammenti della lancia
con cui l'aveva colpito: la piaga si rimarginò
miracolosamente. Per gratitudine, Telefo mostrò agli Elleni
la rotta giusta per giungere a Troia.
.
Il secondo raduno
lcuni
anni dopo lo sbarco in Misia, l'esercito greco venne
radunato nuovamente avanti al porto di Aulide.
Un'improvvisa bonaccia, tuttavia, impediva alle navi di
partire, ragion per cui fu consultato ancora una volta
l'indovino Calcante; egli vaticinò che la dea Artemide
era adirata con gli Elleni e non avrebbe consentito alla
flotta di partire se Agamennone non avesse sacrificato sua
figlia Ifigenia ①.
|
Mappa dell'antica Grecia |
Agamennone, sdegnato, rifiutò la proposta ma gli altri
principi minacciarono di fare comandante Palamede se il re
di Micene non avesse avuto il coraggio di uccidere la
figlia. Il figlio di Atreo fu costretto, suo malgrado, ad
accettare le pressioni degli altri capi e richiamò la figlia
e la moglie Clitennestra in Aulide, adducendo come pretesto
le nozze di Ifigenia con Achille.
|
Sacrificio di Ifigenia
(✍ 45-79) |
Affresco romano (particolare)
Casa del Poeta Tragico, Pompei (Italia) |
Odisseo e Diomede vennero mandati quindi a Micene per
condurre la giovane figlia di Agamennone con il suo seguito.
Clitennestra, però, venne ben presto a sapere dell'inganno
(ella si era infatti recata da Achille salutandolo come suo
genero, ma questi – ignaro delle macchinazioni degli Atridi
– aveva negato candidamente di aver fatto una qualsiasi
proposta di matrimonio).
La regina di Micene andò su tutte le furie; messo sotto
pressione, Agamennone era già sul punto di rinunciare al
comando della spedizione pur di salvare la figlia, mentre
Odisseo sobillava l'esercito chiedendone il sacrificio.
Alla fine fu la stessa Ifigenia, in uno slancio di amore
patriottico, a consentire di immolarsi per il bene di tutta
la Grecia. Artemide, tuttavia, ebbe pietà della fanciulla
ragion per cui la dea sostituì la figlia di Agamennone con
una cerva sull'ara del sacrificio.
Ifigenia venne quindi condotta nella regione della Tauride
(l'odierna Crimea) dalla stessa dea Artemide, che la designò
come sua sacerdotessa ②.
La moglie di Agamennone, tuttavia, non volle assistere al
sacrificio e tornò a Micene convinta che la figlia fosse
stata effettivamente uccisa; per questo motivo Clitennestra
concepì un odio feroce nei confronti del marito che ebbe poi
fatali conseguenze alla fine della guerra.
① |
Le vicende narrate qui di
seguito ispireranno ad Euripide la tragedia
Ifigenia in Aulide. |
② |
Così ci narra Euripide
nella sua tragedia Ifigenia in
Tauride. |
.
Filottete
a
flotta degli Elleni poté quindi partire verso Troia; durante
il viaggio, la flotta fece una sosta presso un'isola
dell'Egeo sacra alla ninfa Crisa.
Filottete sbarcò nell'isola, intenzionato a rifornirsi di
cibo ed acqua, portando con sé arco e frecce per andare a
caccia di selvaggina; giunto nei pressi di un'ara consacrata
alle divinità del luogo, il possessore delle armi di Eracle
venne morso da un serpente.
Il dolore provocato dalla ferita fu così atroce che
Filottete cadde svenuto e venne ritrovato dai suoi compagni
privo di sensi; ricondotto alla sua nave, egli venne curato
dal medico Macaone, che tentò in tutti i modi di salvarlo
dal terribile veleno del rettile: la ferita, tuttavia, si
infettò e cominciò ad emanare un odore nauseabondo.
Tutti gli Elleni erano in forte imbarazzo, non sapendo se
l'abile arciere sarebbe stato in grado di sostenere la
guerra in quelle condizioni; il terribile fetore
dell'infezione, inoltre, non faceva che abbattere il morale
dei soldati. Su consiglio di Odisseo, Agamennone decise di
abbandonare l'arciere nella vicina isola di Lemno;
Medonte, fratellastro di Aiace Oileo, prese il controllo
degli uomini di Filottete.
Quando il possessore delle armi di Eracle venne condotto
nell'isola, egli era ancora privo di sensi a causa del
terribile dolore che gli provocava il morso del serpente;
Filottete aprì finalmente gli occhi per scoprirsi solo e
abbandonato in un'isola deserta.
A nulla valsero le urla e gli improperi nei confronti di
tutti i suoi compagni e dei comandanti greci: per l'abile e
sfortunato arciere cominciava un lungo esilio, destinato a
finire solo qualora una nave fosse approdata, per caso, in
quell'isola.
Filottete andò alla ricerca di erbe per lenire il dolore
della sua ferita e si preparò ad affrontare una vita grama
da naufrago, meditando ogni giorno la vendetta nei confronti
di chi lo aveva abbandonato in modo così vile.
.
Lo sbarco dei Greci
a
flotta degli Elleni giunse infine a Tenedo, un'isola posta
di fronte al lido di Troia, mettendone a ferro e a fuoco
l'unico centro abitato nonostante la strenua difesa del suo
reggitore, Tenete.
Venne poi organizzata una delegazione (formata da Menelao,
Odisseo e Palamede), con lo scopo di richiedere formalmente
la restituzione di Elena al re Priamo; questi, tuttavia,
rifiutò seccamente le istanze dei Greci e li cacciò in malo
modo; tra tutti i Troiani, l'unico a trattare con rispetto
gli ambasciatori degli Elleni fu il nobile Antenore,
facente parte di un ramo collaterale della famiglia reale.
Era quindi evidente che nessuna alternativa allo scontro in
armi era ormai possibile.
Il solito Calcante, tuttavia, profetizzò che il primo tra i
Greci a sfiorare il suolo troiano sarebbe stato anche il
primo a cadere in battaglia per mano del nemico; quando la
flotta giunse, infine, nei pressi dei lidi della Troade, vi
fu un certo imbarazzo tra tutti i guerrieri, poiché nessuno
aveva l'ardire di scendere a terra. Alla fine fu Protesilao,
re di Filache, a sbarcare per primo, incurante degli oscuri
presagi degli dèi.
Non appena gli Elleni misero piede in suolo troiano,
trovarono l'esercito dei Teucri pronto a fronteggiarli; ne
nacque subito uno scontro, in cui a distinguersi
particolarmente furono Achille, che cominciò a mietere le
prime vittime nell'esercito nemico (tra cui tale Cicno
di Colono, figlio del dio del mare Poseidon), e lo stesso
Protesilao.
|
Achille e Aiace Telamonio giocano a dadi |
Exēkías (attivo tra
il 545-530 a.C.).
Anfora a figure nere |
Il vaticinio di Calcante era tuttavia destinato ad essere
veritiero: il re di Filache fu, infatti, il primo a trovare
la morte tra gli Elleni, colpito dalla lancia di Ettore, il
maggiore e il più valoroso tra i figli di Priamo (le truppe
di Protesilao passeranno quindi sotto il comando del
fratello del re defunto, Podarce).
I Greci riuscirono comunque a far ripiegare i Troiani e a
conquistare una fascia di territorio costiero, nella quale
posero il proprio accampamento: tra la rocca di Ilio e il
campo degli Elleni si estendeva una vasta pianura, nella
quale si svolsero molte delle battaglie campali nel corso
della guerra.
Gli Elleni si trovarono di fronte una città ben protetta
dalle sue mura e che poteva contare sull'appoggio di
numerosi alleati sia in Europa (in particolare in Tracia,
l'attuale Bulgaria) che in Asia Minore, con i quali i Teucri
riuscivano a mantenere comunque i contatti: armi,
rifornimenti e truppe giungevano infatti a difesa di Troia
dalla Frigia, dalla Misia, dalla Licia, dalla Paflagonia,
dalla Caria e dalla Peonia.
.
I primi anni di guerra
…i Troiani avanzarono lanciando grida e richiami, come gli uccelli, così gridano le gru sotto il cielo, quando fuggendo l'inverno e le piogge incessanti, esse volano stridenti verso l'Oceano, portando ai Pigmei la distruzione e la morte.
Iliade [III,
-]
li
Elleni tentarono di sconfiggere Troia per ben nove anni,
senza tuttavia riuscire ad espugnare la città; in realtà,
questa è la fase della guerra di cui le fonti parlano meno,
per cui diventa arduo stabilire cosa successe esattamente in
quel periodo.
Quello che è probabile è che i capi greci non si
concentrarono sempre sull'assedio della città nemica:
dovendo approvvigionarsi di cibo e schiavi per mantenere un
cospicuo esercito, essi preferirono compiere scorrerie nelle
città vicine, anche per tagliare i ponti tra i Teucri ed i
loro alleati provenienti dalla Tracia e dall'Asia Minore
(gli Elleni, allora, controllavano solamente lo stretto dei
Dardanelli).
|
Achille e Troilo
(540-530 a.C.) |
Anfora etrusca, Vulci (Italia) |
Achille fu senza dubbio il più attivo fra tutti i Greci:
secondo Omero il figlio di Peleo conquistò undici città e
dodici isole; egli uccise anche Troilo, giovane
figlio di Priamo, quando questi aveva solo diciannove anni
poiché un oracolo aveva predetto che, se il ragazzo avesse
raggiunto il ventesimo anno di vita, la città di Troia non
sarebbe mai stata espugnata.
Dalla divisione del bottino proveniente dalle città
conquistate, Achille ottenne come schiava personale la bella
Briseide di Lirnesso, mentre Agamennone ottenne
Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo;
queste due schiave furono, loro malgrado, strumenti
inconsapevoli di uno degli episodi più importanti di tutta
la guerra di Troia.
|
Aiace Telamonio sacrifica un prigioniero troiano |
Cratere a calice a figure rosse, Vulci (Italia)
Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles, Parigi (Francia) |
A fare la parte del leone in questo primo periodo di guerra
fu anche il prode e coraggioso Aiace Telamonio, il quale
invase le città della penisola tracia dove regnava il re
Polinestore, che si era imparentato con la famiglia
reale dei Teucri. Quest'ultimo aveva come ospite a corte il
giovane Polidoro, figlio di Priamo; per evitare di
compromettersi con i Greci, durante l'assedio dell'esercito elleno egli preferì disfarsi di una presenza così
imbarazzante, per cui si risolse ad uccidere a tradimento il
principe troiano, violando i sacri doveri dell'ospitalità.
Il principe di Salamina attaccò anche le città della Frigia,
dominate dal re Teleuto (che morì in combattimento) e
prese come bottino di guerra la figlia di quest'ultimo,
Tecmessa, che divenne sua concubina.
Un altro evento molto rilevante in questo periodo fu la
morte di Palamede, re di Nauplia. Lo scaltro Odisseo non gli
aveva mai perdonato il fatto di avere smascherato le sue
finte manifestazioni di pazzia, costringendolo a prendere le
armi contro Troia.
Palamede, inoltre, aveva umiliato Odisseo, essendo riuscito
ad ottenere gli approvvigionamenti di grano per l'esercito,
laddove il figlio di Laerte aveva fallito nella stessa
missione.
Spalleggiato da altri capi greci che mal sopportavano
l'astuzia e la popolarità di Palamede, Odisseo fece
ritrovare all'interno della tenda del re di Nauplia un sacco
pieno d'oro e una falsa lettera di Priamo, che lasciava
intendere una segreta alleanza tra i Troiani e lo stesso
Palamede (il re di Troia ringraziava per le notizie
ricevute).
La lettera e l'oro furono scoperti: Agamennone e i capi
greci ordinarono che il figlio di Nauplio venisse condannato
a morte per tradimento mediante lapidazione.
Il padre di Palamede, venuto a conoscenza della ignominiosa
morte del suo erede, navigò verso la Troade a chiedere
giustizia per il figlio ma gli venne rifiutata; cercando
vendetta, egli viaggiò verso le città greche, calunniando i
sovrani presso le loro mogli; si racconta che, proprio in
quel periodo, alcune tra le nobili spose degli Elleni
decisero di tradire i propri mariti lontani; in particolare,
Clitennestra si unì in una fosca relazione con il figlio di
Tieste, Egisto, che da tempo meditava vendetta contro i
discendenti di Atreo.
La flotta degli Elleni giunse infine a Tenedo, un'isola
posta di fronte al lido di Troia, mettendone a ferro e a
fuoco l'unico centro abitato nonostante la strenua difesa
del suo reggitore, Tenete.
Venne poi organizzata una delegazione (formata da Menelao,
Odisseo e Palamede), con lo scopo di richiedere formalmente
la restituzione di Elena al re Priamo; questi, tuttavia,
rifiutò seccamente le istanze dei Greci e li cacciò in malo
modo; tra tutti i Troiani, l'unico a trattare con rispetto
gli ambasciatori degli Elleni fu il nobile Antenore,
facente parte di un ramo collaterale della famiglia reale.
Era quindi evidente che nessuna alternativa allo scontro in
armi era ormai possibile.
Il solito Calcante, tuttavia, profetizzò che il primo tra i
Greci a sfiorare il suolo troiano sarebbe stato anche il
primo a cadere in battaglia per mano del nemico; quando la
flotta giunse, infine, nei pressi dei lidi della Troade, vi
fu un certo imbarazzo tra tutti i guerrieri, poiché nessuno
aveva l'ardire di scendere a terra. Alla fine fu Protesilao,
re di Filache, a sbarcare per primo, incurante degli oscuri
presagi degli dèi.
Non appena gli Elleni misero piede in suolo troiano,
trovarono l'esercito dei Teucri pronto a fronteggiarli; ne
nacque subito uno scontro, in cui a distinguersi
particolarmente furono Achille, che cominciò a mietere le
prime vittime nell'esercito nemico (tra cui tale Cicno
di Colono, figlio del dio del mare Poseidon), e lo stesso
Protesilao.
Il vaticinio di Calcante era tuttavia destinato ad essere
veritiero: il re di Filache fu, infatti, il primo a trovare
la morte tra gli Elleni, colpito dalla lancia di Ettore, il
maggiore e il più valoroso tra i figli di Priamo (le truppe
di Protesilao passeranno quindi sotto il comando del
fratello del re defunto, Podarce).
I Greci riuscirono comunque a far ripiegare i Troiani e a
conquistare una fascia di territorio costiero, nella quale
posero il proprio accampamento: tra la rocca di Ilio e il
campo degli Elleni si estendeva una vasta pianura, nella
quale si svolsero molte delle battaglie campali nel corso
della guerra.
Gli Elleni si trovarono di fronte una città ben protetta
dalle sue mura e che poteva contare sull'appoggio di
numerosi alleati sia in Europa (in particolare in Tracia,
l'attuale Bulgaria) che in Asia Minore, con i quali i Teucri
riuscivano a mantenere comunque i contatti: armi,
rifornimenti e truppe giungevano infatti a difesa di Troia
dalla Frigia, dalla Misia, dalla Licia, dalla Paflagonia,
dalla Caria e dalla Peonia.
.
L'ira di Achille
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei
①, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l'alto consiglio s'adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille...
Iliade [I, -]
②
el
decimo anno di guerra si diffuse nel campo dei Greci una
terribile epidemia: era il castigo decretato da Apollo come
punizione per aver sottratto Criseide al vecchio Crise,
sacerdote del dio; poco tempo prima, il padre della giovane
era giunto all'accampamento degli Achei implorandone la
liberazione in cambio di un riscatto, ma Agamennone lo aveva
cacciato via in malo modo; al sacerdote altro non rimaneva
che invocare il dio Apollo per sperare di ottenere giustizia
e questi si era vendicato contro l'empietà dei Greci
flagellando l'esercito con i suoi dardi avvelenati.
Su consiglio dell'indovino Calcante, Agamennone si rassegnò
infine a restituire Criseide alla famiglia, ma in cambio
ordinò ai capi Achei di consegnargli un'altra schiava; il re
di Micene, in particolare, pretese la bella Briseide, la
schiava preferita di Achille. Scoppiò quindi un feroce
litigio tra Achille ed Agamennone, nel quale i due per poco
non vennero alle mani: il figlio di Peleo, alla fine, si
rassegnò ad obbedire al comando del duce di tutti Greci e
consentì alla consegna di Briseide, ma da allora si ritirò
nella sua tenda e giurò che non avrebbe preso più parte ai
combattimenti assieme ai suoi Mirmidoni.
|
Patroclo conduce Briseide da Agamennone |
Bertel Torvaldsen (1770-1844) |
L'ira di Achille è l'argomento del poema principale
attribuito ad Omero: l'Iliade,
che qui cercheremo di riassumere sia pure per sommi capi
(anche perché non vogliamo togliere al lettore appassionato
il piacere di leggere, un domani, tutta la storia per
intero).
Si narra che Teti, madre di Achille, salì sul Monte Olimpo
per chiedere riparazione per la grave umiliazione subita dal
figlio; il padre di tutti gli dèi in persona, Zeus dalla
folgore tonante, promise di accontentarla.
La mattina dopo, il re Agamennone – ispirato da un sogno che
egli credeva premonitore ma che in realtà era frutto
dell'inganno ordito da Zeus – convocò i duci achei e li
istruì sul suo piano: per spronare l'esercito, egli avrebbe
annunciato la sua intenzione di voler tornare in patria; in
tal modo, avrebbe fatto leva sull'amor proprio dei guerrieri
greci inducendoli a combattere con maggior vigore.
I soldati, però, accolsero la proposta di tornare con gioia
ed entusiasmo; incoraggiati da Tersite, il più brutto
e il più vile di tutti gli Achei, essi si stavano
apprestando a lasciare la costa quando Odisseo, dopo aver
zittito lo stesso Tersite percuotendolo con uno scettro, li
convinse a rinnovare la battaglia contro Troia.
① |
Il poeta greco si
riferisce spesso agli Elleni chiamandoli «Achei», dal
nome della popolazione che, assieme agli Ioni e agli
Eoli, invase la penisola ellenica nel II millennio a.C.,
acquisendo una posizione di egemonia; sono detti anche
Argivi dal nome della città di Argo, che fu il primo
fiorente centro urbano della regione. Per omaggio ad
Omero, anche noi d'ora in poi utilizzeremo questi
termini. |
② |
Traduzione di Vincenzo
Monti (Monti 1825). |
.
Le imprese di Diomede
e
due schiere si preparavano quindi ad affrontarsi a viso
aperto ancora una volta: il superbo Paride marciava in prima
fila ostentando coraggio e baldanza ma, alla vista di
Menelao, fuggì nelle retrovie.
Ettore lo rimproverò aspramente per la sua codardia e
Paride, per non perdere la faccia, decise di sfidare a
duello il re di Sparta: al vincitore sarebbe toccata in
sorte la bella Elena e la guerra avrebbe avuto così termine.
I due acerrimi nemici si accanirono l'uno contro l'altro
senza risparmiarsi: Menelao era sul punto di uccidere il
rivale, ma la dea Afrodite intervenne per salvare Paride
avvolgendolo in una nebbia divina e riportandolo a Troia.
Agamennone decretò la vittoria per il fratello e chiese la
restituzione di Elena; gli dèi dell'Olimpo, tuttavia, che
osservavano dall'alto le sorti della guerra, spinti da Hera
(che covava un odio intenso per la città di Troia, non
avendo ancora perdonato l'umiliazione del giudizio di
Paride) decisero per la continuazione della battaglia.
La dea Atena venne inviata nell'accampamento troiano per far
riprendere le ostilità: ella si avvicinò ad un arciere dei Teucri, Pandaro, persuadendolo a scagliare una
freccia contro Menelao, che incedeva superbo tra i Troiani
reclamando la restituzione di Elena.
Il dardo viene tuttavia deviato dalla stessa dea Atena per
cui l'Atride venne ferito solo di striscio; gli Achei
gridarono al tradimento e la battaglia si rianimò.
Gli Elleni, guidati dal valore del prode Diomede,
inizialmente ebbero la meglio, ma la loro furia venne
arginata ancora una volta da Pandaro, che riuscì a ferire
l'eroe.
Con l'aiuto di Atena, Diomede riuscì riprendere il
combattimento; salito sul suo carro da battaglia sospinto a
piene forze dal suo auriga, il figlio di Tideo si scontrò
ancora una volta con Pandaro e lo uccise con un colpo di
giavellotto.
Diomede ingaggiò quindi una furiosa lotta con Enea: il
figlio di Anchise stava per essere ucciso nel duello, quando
intervenne ancora una volta la dea Afrodite, che riuscì a
salvare il figlio con il suo velo magico.
Il figlio di Tideo non si perse d'animo e scagliò nuovamente
il giavellotto contro la dea, ferendola alla mano; in
seguito, si scontrò per ben tre volte con il dio Apollo, che
era accorso in aiuto della sorella e di Enea, prima di
venire però respinto. Il dio rimproverò aspramente l'eroe
greco per avere osato confrontarsi con i numi.
|
Diomede e Atena abbattono Ares (1793) |
John Flaxman (1755-1826) |
Diomede, spaventato, indietreggiò consentendo ad Apollo di
mettere definitivamente in salvo Enea; nel frattempo, era
sceso nel campo di battaglia a dare il sostegno ai Troiani
Ares, il dio della guerra, che ridiede forza e vigore
all'esercito dei Teucri.
A questo punto la dea Atena intervenne a rincuorare Diomede,
spronandolo a riprendere le armi senza temere gli immortali.
Il figlio di Tideo balzò nuovamente sul suo carro da guerra
per affrontare i Troiani e subito gli si parò davanti il
terribile Ares. Lo scontro tra i due è uno dei momenti più
alti della poesia epica, per cui lasciamo la parola ad
Omero:
«Quando poi furono a fronte, venutisi incontro, Ares tirò
per primo, al di sopra del giogo e delle briglie, con la
lancia di bronzo, bramoso di togliergli la vita; ma la dea
dagli occhi azzurri, Atena, l'afferrò con la mano e la
spinse al di sotto del carro, in modo che cadesse a vuoto. Poi tirò Diomede, possente nel grido di guerra con la
lancia di bronzo; l'indirizzò Pallade Atena al basso ventre…
dette un ruggito Ares di bronzo, quanto gridano forte nove o
diecimila combattenti durante la guerra»
(Iliade [V, -]). ①
Dopo il ferimento di Ares, le sorti della battaglia erano
tornate decisamente a favore dei Greci; su consiglio del
fratello Eleno (che aveva doti divinatorie), Ettore
tornò in città invitando la madre Ecuba e tutte le altre
matrone a fare offerte agli dèi per scongiurare la
sconfitta.
Dopo aver portato a termine la sua missione, Ettore si recò
a salutare la moglie Andromaca e il piccolo
Astianatte, suo figlio: il colloquio tra moglie e marito
è uno dei passi più commoventi di tutto il poema. «Ettore,
tu per me sei padre e madre adorata ed anche fratello, e sei
il mio splendido sposo: ma allora, su, abbi pietà e resta
qui sulla torre, non rendere orfano il figlio, non fare
della tua donna una vedova» (Iliade [VI, -])
②
Prima di tornare a combattere, il primogenito di Priamo
incontrò anche il fratello Paride, che dopo essere stato
tratto in salvo dalla dea Afrodite si trovava nei suoi
appartamenti in compagnia della bella moglie Elena; dopo gli
aspri rimproveri di Ettore, che lo accusò di vigliaccheria,
Paride si risolse a raggiungere di nuovo il campo di
battaglia.
Una volta tornato nella mischia, Ettore sfidò a duello uno
dei capi achei: tra gli Elleni venne estratto il nome di
Aiace Telamonio, che si preparò quindi a combattere contro
il campione dei Teucri. I due tentarono di uccidersi a
vicenda a colpi di giavellotto e di spada, in uno scontro
aspro che proseguì sino al calare delle tenebre e che venne
sospeso solo dall'intervento degli araldi di entrambi gli
eserciti. I due guerrieri presero commiato scambiandosi dei
doni, mentre i portavoce dei due schieramenti acconsentirono
ad una tregua di un giorno per recuperare i corpi dei
caduti; i Greci ne approfittarono per costruire un muro
difensivo in legno a protezione delle navi.
① |
Traduzione di Giovanni Cerri
(Cerri 1996). |
② |
Traduzione di Giovanni Cerri
(Cerri 1996). |
.
La ritirata dei Greci
opo
la breve tregua, la battaglia tra i due eserciti ricominciò
con maggior vigore; dall'alto del Monte Olimpo, Zeus impose
agli dèi di non intervenire nella guerra e decretò che i
Troiani avrebbero avuto i favori della battaglia, sino a
quando Achille non avesse ottenuto la giusta riparazione per
l'umiliazione subita.
Ettore, quel giorno, fece strage tra gli Achei; tutti i
Greci batterono in ritirata incalzati dai Teucri e dai
fulmini scagliati da Zeus; il vecchio Nestore, rimasto
indietro, stava per essere ucciso ma venne salvato da un
tempestivo intervento di Diomede, il solo a non fuggire
davanti ai Troiani.
I Greci furono costretti a trovare rifugio all'interno della
mura in legno, costruite a difesa delle navi. Al calar della
notte, per non perdere il terreno conquistato, i Teucri si
accamparono davanti agli Achei.
Agamennone, sconsolato per la cocente sconfitta, provò a
riconciliarsi con Achille, offrendo di restituire Briseide
assieme ad altri doni; ma il figlio di Peleo, dopo aver
ascoltato l'ambasceria, rifiutò sdegnato e annunciò la sua
imminente partenza per Ftia.
Nottetempo, Diomede ed Odisseo uscirono per spiare il campo
nemico e raccogliere informazioni utili; durante la loro
sortita, i due incontrarono Dolone, un araldo dei
Troiani che si muoveva tra i caduti per il medesimo scopo.
Pur di avere salva la vita, egli tradì i compagni rivelando
ai due Achei notizie preziose sull'accampamento troiano, ma
Diomede lo uccise per punirlo della delazione. I due greci
penetrarono così nel campo dei Traci, facendo strage dei
nemici addormentati (tra le vittime anche il loro re, il
giovane Reso); Odisseo e Diomede riuscirono infine a
raggiungere le loro tende, dopo aver trafugato un carro ed
una bellissima pariglia di cavalli traci ①.
Il giorno dopo, i due eserciti attaccarono nuovamente
battaglia; nonostante il valore degli Achei, essa si
trasformò ben presto in un vero e proprio assedio dei
Troiani alle mura dell'accampamento ellenico.
Ettore fece strage di nemici, mentre numerosi duci tra gli
Achei (tra cui Diomede, Odisseo, Agamennone e persino il
medico Macaone) dovettero abbandonare il campo di battaglia
perché gravemente feriti.
I Greci, in particolare i due Aiaci, cercarono in tutti i
modi di resistere agli attacchi dei nemici, alla testa dei
quali vi erano i Lici guidati dal re Sarpedonte ②;
preso un macigno, Ettore lo scagliò contro la porta delle
mura dei Greci consentendo ai Troiani di sciamare nel campo
avversario.
Dall'Olimpo, la dea Hera architettò un inganno contro Zeus
convincendo Hypnos, il Sonno, ad addormentare il
sovrano di tutti gli dèi; di ciò approfittò Poseidon, il dio
del mare, per dare man forte agli Achei; Aiace Telamonio
riuscì così a colpire Ettore, facendolo cadere a terra privo
di sensi.
Quando Zeus si accorse dell'inganno, egli intimò a tutti gli
dèi di abbandonare la battaglia, minacciando terribili
punizioni in caso di disobbedienza. I Troiani si rianimarono
e, spinti da Ettore (riavutosi dalla ferita), travolsero i
Greci arrivando fino alle loro navi, giungendo persino ad
incendiarne una (quella che fu di Protesilao); il solo Aiace
Telamonio, armato di una trave, tentò di ergersi a baluardo
degli Achei e di respingere i nemici.
A quel punto, Patroclo entrò nella tenda di Achille,
scongiurandolo di tornare a combattere per respingere i
Troiani; ottenuto un netto rifiuto, egli chiese di poter
almeno vestire le armi del figlio di Peleo e di guidare così
i Mirmidoni alla riscossa.
Achille acconsentì, ma chiese all'amico di limitarsi ad
incutere timore nel nemico e di ricacciare i Troiani
dall'accampamento, senza correre rischi eccessivi.
Vestite le splendide armi di Achille, Patroclo si mise alla
guida dei Mirmidoni e guidò la riscossa dei Greci; i Teucri,
ritenendo che al comando delle truppe scese in battaglia ci
fosse il figlio di Peleo, vennero presi da un momento di
sconcerto; Patroclo ne approfittò per ricacciare indietro i
Troiani, che furono così allontanati definitivamente
dall'accampamento acheo.
Contravvenendo alle raccomandazioni di Achille, tuttavia,
Patroclo incalzò l'esercito nemico sino alle mura, compiendo
molte gesta eroiche e uccidendo, tra gli altri, il re dei
Lici Sarpedonte.
Le Moire stavano però già tessendo il destino del migliore
amico di Achille: il dio Apollo colpì a tradimento Patroclo,
provocandone il momentaneo stordimento, consentendo in tal
modo ad Ettore di dargli il colpo di grazia; poco prima di
morire, tuttavia, l'agonizzante Patroclo profetizzò ad
Ettore la morte imminente per mano di Achille.
|
Menelao sorregge il corpo di Patroclo
(✍ ±190 a.C.) |
Loggia dei Lanzi, Firenze (Italia) |
Si accese quindi un'aspra mischia per impadronirsi del corpo
di Patroclo e – soprattutto – delle armi di Achille; Menelao
si mise a difesa delle spoglie del compagno, aiutato dai due
Aiaci e da Idomeneo.
Nel mentre, Achille venne a sapere della morte dell'amico da
Antiloco, figlio di Nestore. Sconvolto dal dolore,
egli scoppiò in un pianto disperato, che venne udito dalla
madre Teti.
La ninfa subito accorse per cercare di rincuorare il figlio:
Achille palesò così alla madre la sua intenzione di tornare
a combattere e vendicare la morte dell'amico fraterno. Teti
capì in questo modo che si stava avverando la profezia che
aveva tentato in tutti i modi di scongiurare.
Achille, a questo punto, uscì dalla tenda e si presentò al
margine del fossato che cingeva le mura erette dagli Achei;
per tre volte, egli fece riecheggiare il suo grido di
battaglia: i Troiani, atterriti, volsero in fuga.
Nel tumulto che ne seguì, Menelao riuscì a trasportare il
corpo di Patroclo all'interno del campo greco, mentre le
armi furono appannaggio del prode Ettore.
Nel frattempo, Teti si recò da Efesto, il fabbro divino,
chiedendogli di forgiare nuove armi per il figlio; il dio si
mise subito al lavoro e in breve tempo riuscì a plasmare
corazza, elmo, spada e giavellotto, nonché uno splendido
scudo d'oro intarsiato.
Achille, dopo aver pianto amaramente il cadavere dell'amico
perduto, si affrettò a riconciliarsi con il duce di tutti
gli Achei; ispirato dagli dèi, Agamennone chiese
pubblicamente il perdono del figlio di Peleo e gli offrì dei
doni come riparazione; i Greci si prepararono quindi ad una
nuova battaglia.
① |
Questo episodio dell'Iliade
(raccontato nel Libro X e secondo alcuni
studiosi aggiunto in un momento successivo) ha ispirato
a un poeta greco – erroneamente identificato,
all'inizio, con Euripide – la tragedia
Reso. |
② |
Il re dei Lici si era già
distinto più volte in battaglia, arrivando ad uccidere
il re di Rodi, Tlepolemo. |
.
Il duello tra Ettore e Achille
erribile
nelle sue nuove armi, Achille si preparò a salire sul suo
carro da guerra, guidato dai due superbi cavalli donati da
Poseidon alle nozze di Teti e Peleo, Bàlio e Xanto: ispirato
dagli dèi, quest'ultimo acquisì per pochi istanti il dono
della parola, rivelando al suo padrone la sua fine
imminente.
I Troiani e gli Achei si prepararono così allo scontro;
Zeus, avendo adempiuto alla sua promessa nei confronti di
Teti, acconsentì che gli dèi intervenissero in battaglia:
così Apollo, Artemide, Ares ed Afrodite scesero dall'Olimpo
per schierarsi a fianco dei Troiani, mentre Hermes, Atena,
Poseidon ed Hera stavano dalla parte dei Greci.
Achille si mise subito alla testa dell'esercito acheo e
cominciò a mietere vittime; il figlio di Peleo, dopo aver
ucciso molti rampolli della nobiltà troiana, si scagliò
contro Enea, ma a salvarlo intervenne Poseidon: pur essendo
ostile ai Teucri, infatti, il dio del mare sapeva che il
figlio di Anchise era destinato dal Fato a far rinascere la
stirpe di Priamo.
Achille, nel frattempo, continuava a seminare terrore tra i
nemici, gettando sprezzante i cadaveri nel fiume Scamandro ①;
indignato per tanta impudenza, il dio del fiume intimò al
figlio di Peleo di continuare la strage altrove, poiché le
sue acque erano già intrise di sangue; Achille non diede
ascolto alla divinità fluviale, che gli scatenò contro la
sua potenza; Achille stava per rischiare una fine ingloriosa
ma venne in suo aiuto il dio Efesto, che placò la furia
dello Scamandro con una tempesta di fuoco.
Achille proseguì così la sua strage di nemici, ma venne
ingannato dal dio Apollo che, prese le sembianze di un
guerriero troiano in fuga, si fece inseguire lontano dalle
mura consentendo ai Teucri di riparare all'interno della
città. Il solo Ettore, ormai, si ergeva come baluardo
dell'esercito troiano davanti alle Porte Scee.
Quando scoprì l'inganno del dio, Achille scorse la figura
del figlio di Priamo e, colto da una rabbia furiosa, puntò
deciso verso di lui: preso dal panico, Ettore si diede alla
fuga e per tre volte fece il giro della mura incalzato dal
figlio di Peleo sino a quando Atena, sotto le mentite
spoglie di Deifobo (fratello dello stesso Ettore), non
persuase l'eroe troiano ad affrontare il nemico.
Ettore si preparò al duello proponendo ad Achille un
giuramento; il vincitore avrebbe reso in ogni caso alla
famiglia il cadavere dello sconfitto: il figlio di Peleo
rifiutò.
Achille scagliò quindi l'asta contro Ettore, che schivò il
colpo; il figlio di Priamo allora prese il suo giavellotto e
provò a ferire l'avversario, ma l'asta centrò in pieno lo
scudo forgiato da Efesto.
Ettore, a quel punto, cercò sostegno nel fratello Deifobo
ma troppo tardi comprese che l'immagine che gli si era
parata davanti un istante prima era solo un inganno degli
dèi; l'eroe troiano capì che per lui non vi era più speranza
ed esclamò: — So che è giunta la fine, ma non mi ritirerò!
Lotterò fino all'ultimo perché io possa morire gloriosamente
così che i miei posteri mi possano stimare.
I due guerrieri estrassero così le spade acuminate; Achille
partì per primo all'attacco, con il cuore carico di collera;
la spada del figlio di Peleo risplendeva nella sua mano
destra.
Le armi bronzee ricoprivano tutto il corpo di Ettore, ma vi
era una parte scoperta, nella fessura tra il collo e la
spalla: Achille lo colpì proprio nell'unico punto debole ed
Ettore si accasciò a terra. Il figlio di Peleo esclamò
furente: — Mentre spogliavi Patroclo delle sue armi credevi
forse di sfuggirmi. Ora cani e uccelli ti sbraneranno.
|
Il duello tra Ettore e Achille |
Senza più forze, Ettore implorò il nemico: — Ti prego per la
tua vita, per le ginocchia, per i tuoi genitori, non
lasciare che venga sbranato dai cani degli Achei, ma accetta
oro e bronzo senza fine, i doni che ti verranno dati da mio
padre e dalla mia nobile madre: rendi il mio corpo alla mia
patria, perché possa ricevere gli onori della sepoltura.
Al netto rifiuto di Achille, il figlio di Priamo poco prima
di spirare sussurrò: — Bada che la mia morte non ti porti
l'odio degli dèi quel giorno che Paride, guidato da Apollo,
ti ucciderà sopra le porte Scee. ②
Il figlio di Peleo fece scempio del cadavere di Ettore: dopo
avergli forato i tendini dietro ai due piedi dalla caviglia
al tallone, ci passò due cinghie e lo legò al cocchio;
balzato sul carro, lo trascinò nella polvere senza alcuna
pietà.
Dall'alto delle mura, i genitori Priamo ed Ecuba scoppiarono
in lacrime disperati, mentre la moglie Andromaca svenne per
il dolore.
Dopo i solenni funerali di Patroclo, Achille organizzò dei
giochi funebri in onore dell'amico; gli eroi Greci si
sfidarono nella lotta, nella corsa, nel lancio del
giavellotto, nel pancrazio ③ e nella corsa con i carri.
Nel frattempo tutti i numi dell'Olimpo, mossi a compassione
per la morte di Ettore, decretarono che il suo corpo dovesse
essere restituito ai familiari.
Ispirato dagli dèi, il re Priamo si mise in cammino verso
l'accampamento dei Greci, sotto la protezione del dio
Hermes. Non appena giunto nella a tenda di Achille, il re si
prostrò ai suoi piedi, implorandolo di rendergli le spoglie
del figlio.
Impietosito dalle lacrime del vecchio sovrano, il figlio di
Peleo acconsentì alla restituzione del corpo di Ettore e a
concedere un periodo di tregua di dodici giorni per rendere
le onoranze funebri all'eroe troiano.
Con i funerali di Ettore e i pianti di Andromaca, Ecuba ed
Elena si chiude l'Iliade di Omero.
① |
Lo Scamandro (o Xanto) era
– assieme al Simoenta – uno dei due fiumi che scorrevano
presso la pianura di Troia. |
② |
Omero non lo dice
espressamente, ma nella mitologia i morituri
acquisivano, sia pure per pochi istanti, il dono della
profezia. |
③ |
Il pancrazio era una
antica forma di pugilato. |
.
La morte di Achille
nche
dopo la morte del suo condottiero più valoroso, Troia
resisteva ancora e sempre agli assedianti.
Si racconta che, in quel periodo, giunse in aiuto dei Teucri
la regina delle Amazzoni, la valorosa Pentesilea,
figlia di Ares.
Le Amazzoni erano una famosa stirpe guerriera, il cui
temibile esercito era composto di sole donne; la bella
regina seminò morte e distruzione tra le fila dei Greci,
arrivando ad uccidere anche Podarce di Filache, il medico
Macaone e, secondo alcune fonti, anche il re di Atene
Menesteo.
Ad affrontare la terribile regina delle Amazzoni fu, ancora
una volta, il valoroso figlio di Peleo che, al termine di un
epico scontro, la uccise e la spogliò delle sue armi.
|
Achille uccide Pentesilea
(✍ ±525 a.C.) |
British Museum, Londra (Regno Unito) |
Fu solo quando Achille tolse l'elmo al nemico ucciso che
egli realizzò che il suo avversario era una donna e, per
giunta, dalla bellezza incomparabile.
Il figlio di Peleo si innamorò perdutamente della regina
delle Amazzoni e, commosso, pianse calde lacrime sulla salma
dell'avversario ucciso.
Il vile e subdolo Tersite, giunto nei pressi, derise Achille
per quelle manifestazioni di tenerezza che a lui apparivano
sciocche ed inutili; per sfregio, egli cavò gli occhi di
Pentesilea. Il vilipendio del cadavere della valorosa
guerriera costò la vita al meschino Tersite, che venne
ucciso da un micidiale pugno di Achille, irritato da una
tale bassezza d'animo.
Anche Memnone, re dell'Etiopia e nipote di Priamo
(era infatti figlio di Titone e di Eos, la dea
dell'aurora «dalle dita rosate», come dice Omero) venne col
suo esercito ad aiutare lo zio. Egli giunse nella Troade
portando con sé un esercito formato da etiopi e indiani e
indossando una corazza forgiata da Efesto, proprio come
Achille.
Nella prima battaglia che seguì al suo arrivo, Memnone
uccise Antiloco, figlio di Nestore, che si fece colpire per
salvare il padre.
Ad affrontare il re etiope fu ancora una volta il prode
figlio di Peleo, che sfidò il nuovo alleato dei Teucri; come
aveva già fatto al tempo del duello tra Ettore ed Achille,
Zeus posò sui piatti della sua bilancia d'oro il destino dei
due eroi; il Fato si pronunciò a favore dell'eroe acheo, che
uccise l'avversario ed inseguì i Troiani sino alle mura
della città. Gli dèi, a questo punto, disgustati dagli
orribili massacri compiuti dal figlio di Peleo, decisero che
fosse giunta l'ultima ora anche per Achille. Come Ettore
aveva previsto in punto di morte, infatti, egli venne ucciso
da una freccia scagliata dall'imbelle Paride e guidata dal
dio Apollo.
Dopo la morte di Achille, si scatenò una furiosa battaglia
per recuperare il corpo e le armi dell'eroe, che terminò
solo con l'intervento di Zeus in persona, il padre di tutti
gli dèi. Solo a questo punto Aiace Telamonio e Odisseo
riuscirono a trasportare via la salma e le sue favolose
armi.
La madre Teti stabilì a questo punto che l'armatura di
Achille venisse destinata al guerriero più valoroso tra i
Greci: il grande Aiace si fece avanti, ritenendo – forse non
a torto – di essere il più forte degli Elleni, dopo Achille.
Lo scaltro Odisseo, tuttavia, grazie alla sua parlantina
riuscì ad irretire tutti gli altri duci achei e a farsi
assegnare le armi.
Umiliato e furente, Aiace Telamonio impazzì per il dolore:
sguainata la spada, egli cercò di scagliarsi contro i suoi
compagni, che gli avevano negato le armi forgiate da Efesto.
La dea Atena, tuttavia, gli offuscò totalmente il senno,
ragion per cui il figlio di Telamone sfogò la sua rabbia
contro un gregge di pecore: nella sua furia, egli fece a
pezzi due arieti ritenendo che fossero i due Atridi,
Agamennone e Menelao.
All'alba, l'eroe greco rinsavì ma, accortosi di quanto
accaduto, ritenendo di essere stato motivo di scherno per i
Greci durante la sua follia, si tolse la vita con la spada
che gli aveva donato Ettore.
Il fratello Teucro chiese allora di poter dare gli onori
della sepoltura al corpo di Aiace il Grande, ma Agamennone
si oppose fermamente poiché il figlio di Telamone, poco
prima di morire, si era comportato come un nemico degli
Achei in quanto aveva rivolto la spada contro gli armenti
nella convinzione di uccidere i guerrieri greci.
Alla fine, fu Odisseo a risolvere la contesa, imponendo agli
Elleni di concedere a Teucro di seppellire il fratello con i
rituali funebri prescritti. ①
Secondo una tradizione, ripresa dal Foscolo, il figlio di
Laerte non poté comunque gloriarsi a lungo delle armi di
Achille; alla fine della guerra, infatti, una tempesta
suscitata dagli dèi dell'oltretomba le strappò alla nave di
Odisseo portandole sulla tomba dell'eroe suicida:
Né senno astuto, né favor di regi all'Itaco le spoglie ardue serbava, ché alla poppa raminga le ritolse l'onda incitata dagli inferni Dèi.
I sepolcri [-]
Quando, nel corso delle sue peripezie per ritornare in
patria, Odisseo giunse nel regno dei morti[36], egli
incontrò l'ombra del figlio di Telamone ancora corrucciato e
provò a rivolgergli la parola: «Aiace, neppure da morto
dovevi scordare la collera contro di me per quelle armi
maledette? A rovina degli Argivi le posero là gli dèi;
peristi tu, così forte baluardo per loro. E ci rattristammo
continuamente, noi Achei, per la tua scomparsa, come per la
sorte del Pelide Achille. Vieni avanti, sovrano, ascolta le
mie ragioni: frena il tuo impulso e l'animo superbo».
Ma l'ombra di Aiace non rispose e si allontanò tra le altre
anime giù nell'Erebo.
① |
Il suicidio e la sepoltura
di Aiace Telamonio ispirarono a Sofocle la tragedia
Aiace. |
.
La profezia di Eleno
el
decimo anno di guerra Calcante rivelò che l'unica persona in
grado di profetizzare come espugnare Troia era Eleno, figlio
di Priamo e dotato del dono della preveggenza.
Odisseo tese quindi un'imboscata all'indovino e lo catturò,
costringendolo a rivelare tutto quello che il figlio di
Priamo conosceva sulle sorti della sua città.
Secondo la profezia, quattro erano le condizioni che
dovevano avverarsi perché Troia crollasse: innanzi tutto,
era necessario portare in guerra Neottolemo, il figlio di
Achille e di Deidamia; in secondo luogo, era indispensabile
riportare nell'esercito acheo l'arco e le frecce di Eracle
(conservate da Filottete, abbandonato nell'isola di Lemno);
i Greci, inoltre, per vincere la guerra avrebbero dovuto
ritrovare le ossa di Pelope e trafugare dal tempio troiano
di Atena il Palladio, una statua dedicata alla dea.
Odisseo venne quindi condotto a Sciro, presso il re Licomede,
per persuadere il figlio di Achille a unirsi alla spedizione
degli Achei; Neottolemo seguì senza indugio il principe di
Itaca e, nonostante la giovane età, divenne ben presto uno
dei condottieri più audaci di tutto l'esercito ellenico e
una delle voci più autorevoli durante le assemblee dei duci
achei; egli uccise, tra gli altri, Euripilo, figlio
di Telefo re della Misia, che era giunto a sostegno dei
Troiani.
Odisseo e Neottolemo si recarono quindi nell'isola di Lemno
a recuperare Filottete ①; per ovvi motivi, l'arciere della
Tessaglia, dopo dieci anni di esilio in un'isola deserta,
non aveva alcuna intenzione di unirsi nuovamente alla
spedizione degli Achei.
Al contrario, egli scagliò tutta la sua rabbia nei confronti
di Odisseo, che riteneva (non a torto) il principale
responsabile del suo abbandono: Filottete stava per scoccare
un freccia in direzione del suo mortale nemico, quando un
nuovo attacco epilettico causatogli dalla ferita lo fece
stramazzare al suolo, svenuto.
I Greci volevano impossessarsi delle armi di Eracle mentre
il figlio di Peante giaceva privo di sensi, ma Neottolemo
oppose un orgoglioso rifiuto; colpito dalla lealtà del
figlio di Achille e persuaso che il suo destino e le sue
sventure facessero parte di un disegno divino, Filottete si
rassegnò a seguire gli Achei a Troia.
Tornato sul campo di battaglia, Filottete riprese il comando
delle sue truppe (Medonte, il fratellastro di Aiace Oileo
che era stato nominato duce in sua assenza, era stato ucciso
da Enea); grazie alle cure dei medici, la sua ferita guarì
del tutto consentendogli di combattere di nuovo: con le sue
frecce invincibili, egli giunse ad uccidere Paride,
vendicando in questo modo la morte di Achille.
Narrano le leggende, a questo punto, che Elena decise di
riprendere marito e che la sua scelta ricadde su Deifobo,
un altro dei figli di Priamo ②.
In seguito, gli Achei riuscirono a recuperare l'osso della
spalla di Pelope nella città di Pisa, in Elide, e a condurlo
presso l'accampamento greco.
Travestito da mendicante, Odisseo penetrò quindi all'interno
della città di Troia per scoprire dove fosse nascosta la
statua del Palladio; in quella occasione, egli venne
riconosciuto da Elena, che non lo denunciò ai Teucri: forse
venne ingannata dalle lacrime ipocrite di Odisseo, forse
ella presagì la imminente caduta della città e preferì
crearsi dei nuovi alleati. Fatto sta che, grazie alle
informazioni apprese dal sovrano di Itaca, quest'ultimo e
Diomede riuscirono in seguito a trafugare il Palladio.
Neppure adempiendo alla profezia di Eleno, tuttavia, i Greci
riuscirono ad espugnare la rocca di Ilio.
① |
Omero,
Odissea [XI, -]. |
② |
Secondo un'altra versione
del mito, Eleno – furioso per non essere stato prescelto
come marito di Elena – si ritirò nelle montagne
circostanti e lì venne catturato dai Greci, rivelando
come conquistare Troia. La necessità delle armi di Eracle, in questa variante, venne profetizzata da
Calcante e a recarsi a Lemno furono Odisseo e Diomede (Neottolemo
sarebbe subentrato tempo dopo). |
.
L'Ilíou Pérsis
lla
fine, non con la forza ma con l'inganno venne conquistata la
città di Troia ①; l'astuzia di Odisseo fu, ancora una volta,
decisiva.
Il re di Itaca escogitò uno stratagemma destinato a divenire
proverbiale: il famoso «cavallo di Troia».
Su consiglio del prudente figlio di Laerte, venne costruito
da Epeo (ispirato dalla dea Atena) un gigantesco
cavallo di legno (animale sacro ai Troiani), con un'enorme
cavità all'interno e una scritta votiva: «I Greci dedicano
questa offerta di ringraziamento ad Atena per un buon
ritorno».
All'interno della cavità si nascosero alcuni tra i migliori
uomini tra gli Achei; il resto dell'esercito abbandonò
invece il campo e si diresse con tutta la flotta nella
vicina isola di Tenedo.
All'alba del nuovo giorno, quando i Troiani videro che il
nemico aveva levato le tende vi furono scene di giubilo: la
guerra sembrava ormai finita e la città appariva salva, dopo
anni di assedio.
La vista del cavallo di legno turbò non poche persone:
secondo i più, si trattava di una offerta votiva agli dèi;
altri, invece, ritenevano che la statua costituisse una
minaccia e pertanto andava distrutta o bruciata.
|
Cavallo di Troia
(✍ ±670 a.C.) |
Un prigioniero acheo, Sinone, venne catturato sulla
costa ed interrogato: egli disse che era fuggito
dall'esercito dei Greci perché questi volevano sacrificarlo
per ingraziarsi gli dèi in vista del viaggio di ritorno (in
realtà, era una spia abilmente addestrata da Odisseo).
Quando i Troiani gli chiesero a che scopo fosse stato
costruito il cavallo di legno, egli rispose che si trattava
di una offerta dedicata alla dea Atena e che sarebbe stato
blasfemo distruggere un oggetto così sacro.
A quel punto, la folla si stava ormai persuadendo a
trascinare il cavallo nella città, malgrado alcuni tra i
Troiani fossero di diverso avviso.
Tra i più accaniti sostenitori della pericolosità del
cavallo di legno vi erano la profetessa Cassandra e il
sacerdote Laocoonte, figlio di Antenore (famoso il
suo Timeo Danaos et dona ferentes, che può essere
così tradotto: «Temo gli Achei anche se portano doni»); egli
arrivò addirittura a scagliare una lancia contro il ventre
cavo della statua, per dimostrare che poteva nascondere
un'insidia.
Cassandra non venne però creduta, a causa della maledizione
di Apollo; Laocoonte venne invece punito dal dio Poseidon
(che, come noto, parteggiava per i Greci), il quale fece
emergere dalle acque due enormi serpenti marini che
divorarono il sacerdote e i suoi due figli.
I Troiani decisero allora di portare in città il cavallo ②,
abbattendo una parte delle mura per farlo entrare, e
passarono tutta la notte festeggiando la fine della guerra.
Sinone, che era stato accolto dai Teucri come un fratello,
diede il segnale alla flotta, ferma a Tenedo, e fece uscire
dal cavallo i soldati che erano nascosti all'interno. Questi
uccisero le sentinelle e aprirono le porte della città,
consentendo al resto dell'esercito acheo di entrare in
città.
|
Gruppo del Laocoonte
(✍ I Sec. a.C.) |
Musei Vaticani, Roma Italia) |
Gli Elleni iniziarono quindi a saccheggiare la città e a
massacrarne gli abitanti, in gran parte ancora addormentati.
I Troiani si riebbero ben presto e, alimentati dalla
disperazione, organizzarono un contrattacco, lottando
strenuamente o lanciando oggetti sulle teste dei nemici che
passavano.
Ne seguì una lotta senza quartiere in ogni vicolo, in cui i
Teucri resistettero sino alla fine. Ma il destino della
città era ormai segnato dal momento in cui i Greci erano
riusciti a penetrare all'interno delle mura.
Gli Achei diedero alle fiamme Troia e si dimostrarono
spietati nella strage dei nemici. A mettersi particolarmente
in luce fu Neottolemo, il figlio di Achille; del giovane
leale e coraggioso che non aveva osato rubare le armi di
Eracle a Filottete era rimasto ben poco: ormai esisteva solo
un guerriero crudele e assetato di sangue; egli uccise senza
pietà Polite, il più giovane dei figli di Priamo, e
lo stesso re di Troia, che aveva trovato rifugio nell'altare
di Zeus del proprio palazzo.
Menelao uccise Deifobo, marito di Elena dopo la morte di
Paride, mentre questi dormiva e avrebbe anche ucciso Elena
se non fosse rimasto abbagliato dalla sua bellezza; gettò
così la spada e la riportò sulla sua nave.
Aiace Oileo stuprò Cassandra sull'altare di Atena mentre la
sventurata si aggrappava alla statua della dea, provocando
il disgusto dei suoi stessi compagni e l'ira dei numi.
Il giorno dopo, della fiorente città di Troia rimaneva solo
un cumulo di ceneri e macerie ③; gli Achei si divisero il
bottino: l'infelice Cassandra venne fatta schiava dal re
Agamennone, mentre la regina Ecuba fu destinata a far parte
della servitù di Odisseo; la vedova di Ettore, Andromaca,
venne invece assegnata a Neottolemo.
Alle donne troiane non venne risparmiato neppure l'ultimo
strazio; la giovane Polissena, una delle ultime
figlie di Priamo, venne sacrificata sulla tomba di Achille,
mentre il piccolo Astianatte, figlio di Ettore, venne ucciso
nel modo più barbaro e crudele che si potesse concepire nei
confronti di un infante: Neottolemo lo gettò infatti dalle
mura di Troia provocandone così la morte ④.
Gli Achei si prepararono quindi a raggiungere la patria
lontana; ma gli dèi non avrebbero dimenticato tanto presto
l'orrore dei saccheggi e le crudeltà gratuite…
① |
Il sacco di Troia, narrato nel
poema La distruzione di Troia
(in greco Ilíou pérsis, attribuito a tale Arctino), andato oggi perduto, viene
ampiamente descritto nel Libro II dell'Eneide
di Virgilio. |
② |
Alcuni pensano che il
cavallo di Troia rappresenti in realtà un terremoto che
indebolì le mura, permettendo ai Greci di poterle
sfondare (tale fenomeno è confermato anche dagli studi
archeologici). Altri ritengono che il cavallo fosse un
pezzo di un apparato di assedio. |
③ |
Questi eventi sono oggetto
di un'altra famosa tragedia di Euripide,
Le Troiane. |
④ |
Secondo l'Orlando
innamorato [III, 5] di Matteo Maria Boiardo,
Andromaca avrebbe sostituito Astianatte con un altro
bambino che fu ucciso al posto suo, lasciando il vero
figlio nascosto in un bosco. Successivamente Astianatte
sarebbe stato portato in Sicilia; dalla sua stirpe
nacque il famoso cavaliere Ruggero, capostipite della
famiglia degli Estensi, i duchi di Ferrara. |
|
III
I NÓSTOI
.
Il ritorno in patria degli Achei
'epopea
dei Nóstoi (vale a dire i «Ritorni», dal nome di un
poema facente parte del Ciclo Troiano, attribuito a tale
Agoa di Trezene e andato ormai perduto) è, per certi versi,
affascinante tanto quanto le leggende dedicate alla guerra.
Gli dèi dell'Olimpo, adirati per gli eccessi e gli atti
sacrileghi cui si erano lasciati andare gli Achei durante il
sacco di Troia (non ultima, la distruzione di tutti i templi
dedicati alle divinità), decisero che gli Elleni non
sarebbero tornati in patria se non a prezzo di lunghe
peripezie ①.
La flotta degli Achei venne travolta da un terribile
temporale nelle vicinanze di Tenedo. Nauplio, padre di
Palamede, desideroso di vendetta per l'ignominiosa morte del
figlio, fece collocare dei fuochi luminosi in cima al capo Capareo, ingannando i nocchieri delle navi (che ritennero il
luogo un porto sicuro per un tranquillo approdo).
In realtà, la zona era tristemente famosa a causa del
fondale roccioso: gli Elleni cercarono tutti riparo nella
baia, ma questa manovra avventata causò il naufragio di
molte delle navi della flotta achea. Palamede era stato così
vendicato.
A seguito di quella sventura, i comandanti greci si divisero
cercando ognuno di raggiungere per proprio conto la patria
lontana.
Nestore di Pilo, che aveva dimostrato una condotta
integerrima durante la guerra e non si era lasciato andare
ad eccessi sotto le mura di Troia (né prese parte al
saccheggio), fu l'unico eroe ad avere un ritorno veloce e
indolore; il sovrano fece ritorno nell'Elide sano e salvo e
regnò ancora per molti anni; nessuno, tuttavia, poté
consolarlo per la morte del figlio Antiloco, caduto a Troia
per mano di Memnone, re d'Etiopia.
Aiace Oileo, che più di ogni altro aveva causato l'ira degli
dèi a causa dello stupro di Cassandra, non tornò mai più in
patria; la sua nave fu infatti ridotta a pezzi a causa di
una terribile tempesta (scatenata, pare, su richiesta della
dea Atena, che non aveva perdonato al capo acheo le violenze
nei confronti della figlia di Priamo, avvenute all'interno
del suo tempio).
Poseidon ebbe pietà di lui e gli consentì di raggiungere la
salvezza facendolo approdare su uno scoglio; il condottiero
della Locride, tuttavia, fu talmente impudente da gridare al
cielo che sarebbe stato capace di salvarsi da solo, anche
senza l'aiuto degli immortali. Il dio del mare, sdegnato,
fece sprofondare lo scoglio con un colpo del suo tridente e
così Aiace Oileo annegò miseramente.
Teucro, figlio di Telamone e fratello del grande Aiace
Telamonio (morto suicida a causa dell'umiliazione subita a
causa della mancata assegnazione delle armi di Achille),
giunse in patria ma venne esiliato dal padre per non aver
saputo difendere o vendicare il fratello maggiore.
Teucro non si perse d'animo e, con i suoi compagni, salpò
alla volta dell'isola di Cipro, dove fondò una nuova città
cui dette il nome di Salamina, in onore della terra natia.
L'audace e valoroso Diomede giunse, dopo un temporale, in
terra di Licia e poi in Attica prima di raggiungere Argo,
dove trovò la moglie Egialea nel pieno di un
adulterio (secondo altre versioni, ella cercò addirittura di
ucciderlo in più di un'occasione). Disgustato, egli partì
per l'Etolia e, in seguito, raggiunse l'Italia Meridionale
dove fondò diverse città tra cui Brindisi e Benevento.
Chiamato in seguito dalle popolazioni italiche a prendere le
armi contro Enea, che pure era giunto in Italia con i
Troiani superstiti, egli si rifiutò di dichiarare guerra al
vecchio nemico, avendo già sperimentato gli orrori della
guerra e il valore dell'avversario.
Filottete riuscì a raggiungere sano e salvo la sua patria
(la penisola di Magnesia), ma in seguito ne venne scacciato
a causa di una sedizione; egli riparò in Italia dove fondò
diverse città fra cui Crotone. Si narra che egli fece
costruire un tempio dedicato ad Apollo in Lucania, cui offrì
in sacrificò le armi di Eracle.
Idomeneo, re di Creta, riuscì a tornare nella sua isola;
secondo una tradizione, tuttavia, la sua flotta venne
colpita da una tempesta durante il viaggio di ritorno, per
cui egli promise a Poseidon di sacrificargli il primo essere
vivente che avesse visto dopo essere sbarcato se il dio del
mare gli avesse concesso la salvezza.
Il caso volle che la prima persona a venirgli incontro al
momento dell'approdo fosse suo figlio; il re di Creta non se
la sentì di celebrare il sacrificio e gli dèi, adirati,
mandarono una pestilenza che devastò tutti gli abitanti
dell'isola. Quando gli oracoli rivelarono la vera causa
dell'epidemia, Idomeneo fu mandato in esilio dapprima in
Italia e poi in Asia minore, dove morì.
Nessuna notizia certa, invece, si ha riguardo al re di
Atene, Menesteo; secondo alcune fonti, egli fu ucciso da
Pentesilea mentre altri riferiscono che sarebbe
sopravvissuto alla guerra tornando poi in patria; di certo
c'è soltanto che a regnare sulla città durante le scorrerie
dei Dori (che avvennero almeno una generazione dopo) vi era
un tale Codro, che si immolò in prima persona per
salvare la città dall'invasione; non è possibile tuttavia
accertare l'esistenza di legami di parentela tra i due
sovrani.
Fra i re minori sopravissuti alla guerra furono ben pochi a
raggiungere le proprie terre, fatta forse eccezione per
Toante, che ritornò in Etolia anche se a seguito di un lungo
viaggio.
Il profeta Calcante, invece, si mosse via terra e giunse a
Colofone (in Asia Minore), dove venne sfidato in una gara di
divinazione dal veggente Mopso; essendo stato
sconfitto, per l'umiliazione egli preferì suicidarsi.
Diverso discorso va fatto per il casato di Atreo, le vicende
dei quali ispireranno poeti e tragici di molte generazioni.
Secondo quanto ci riferisce Omero nell'Odissea, Menelao e la
sua flotta patirono molte peripezie prima di giungere
dapprima a Creta e poi in Egitto: solamente cinque delle sue
navi sopravvissero alla furia degli elementi.
In Egitto, tuttavia, le navi non riuscirono a ripartire a
causa della totale assenza di venti. Menelao decise quindi
di chiedere consiglio a Proteo, una antica divinità
marina dotata del dono della profezia (nonché del potere di
trasformarsi in qualsiasi essere vivente).
Il vecchio dio del mare rivelò a Menelao la rotta giusta per
ritornare in patria e quali sacrifici celebrare per avere il
favore degli dèi nel viaggio di ritorno.
Va ricordato che, secondo una tradizione posteriore ad Omero
②, la vera Elena sarebbe rimasta sempre in Egitto, fedele al
marito, mentre Paride avrebbe portato con sé un semplice
simulacro della donna, fatta della stessa materia delle
nuvole. Quando il re di Sparta approdò nei lidi africani,
egli avrebbe ritrovato e riconosciuto la sua vera moglie,
riconciliandosi definitivamente con lei; il falso sembiante
che il figlio di Atreo aveva portato con sé da Troia si
volatilizzò del tutto.
Menelao ed Elena ritornarono infine in Laconia dopo ben otto
anni dalla fine della guerra di Troia, dove poterono
trascorrere una vecchiaia serena.
Nell'Odissea si narra
che Telemaco, figlio di Odisseo, si recò proprio a
Sparta per avere notizie del padre e che, in tale occasione,
Menelao rassicurò il principe di Itaca sulla sorte del
padre; il vecchio Proteo, infatti, gli aveva rivelato che
anche Odisseo sarebbe tornato in patria, anche se a seguito
di un lungo e periglioso viaggio (di cui parleremo più
diffusamente nel capitolo 2).
Ben diversa fu invece la sorte del maggiore degli Atridi,
Agamennone, il quale ritornò i Grecia con tutti gli onori
portando con sé un cospicuo bottino di guerra (tra cui la
profetessa Cassandra, di cui il re di Micene si era
invaghito facendone la sua concubina).
Sua moglie Clitennestra, come noto, durante l'assenza del
marito si era unita ad Egisto, cugino di Agamennone,
governando la città con il suo ausilio.
Probabilmente ancora adirata per il sacrificio di Ifigenia,
la figlia di Tindaro venne istigata dall'amante a togliere
di mezzo lo scomodo sovrano. Cassandra presagì il futuro
delitto e tentò di avvertire il suo padrone e gli anziani di
Micene; la maledizione che su di lei incombeva fece sì che
ancora una volta nessuno volle ascoltarla.
|
Clitennestra esita prima di uccidere Agamennone
addormentato
(✍ 1817) |
Pierre-Narcisse Guérin (1774-1833) |
Agamennone venne così ucciso a tradimento, mentre faceva il
bagno, insieme alla infelice Cassandra. Clitennestra ed
Egisto governarono da allora l'Argolide con giustizia, ma la
popolazione non riuscì mai ad amare due sovrani che si erano
macchiati di un tale atroce delitto.
La giovane figlia del re Agamennone, Elettra, per evitare
che l'ira di Egisto si accanì anche nei confronti dei
discendenti del defunto re di Micene e riuscì a nascondere
l'unico erede maschio, Oreste, presso il re
Strofio nella
Focide.
Diventato adulto, il giovane Oreste si recò all'oracolo di
Delfi per conoscere il suo destino; per bocca del dio, la
Pizia gli ordinò di tornare in Argolide per vendicare la
morte del re suo padre. Egli tornò quindi a Micene assieme
all'amico del cuore Pilade, figlio di Strofio, e si rivelò
alla sorella Elettra, che per anni era vissuta ai margini
della vita di corte in attesa del ritorno del fratello
minore. Insieme essi cospirarono per vendicare la morte di
Agamennone: Oreste trucidò Egisto e la madre Clitennestra,
diventando così il nuovo re di Micene ③.
Anche se il matricidio gli era stato comunque imposto
dall'oracolo, per il suo delitto Oreste venne tormentato per
anni dalle terribili Erinni, mostruosi esseri alati che
perseguitano quanti si rendono colpevoli dei crimini più
efferati: quelli tra consanguinei.
Perché la Moira inflessibile ci filò questa sorte per sempre: chi dei mortali incorra in furore di strage consanguinea, incalzarlo finché non scenda sotterra. E neppure morto sarà libero del tutto.
Eschilo,
Le Eumenidi [Stasimo I,
Antistrofe I]
Ovunque andasse, il figlio di Agamennone era sempre
accompagnato dalla macabra danza delle repellenti creature.
Mi scelsi lo sterminio delle case quando nella pace domestica Ares abbatte un parente. Di lui, oh, allora balziamo in traccia, e per vigoroso che sia, ugualmente lo anneghiamo sotto nuovo sangue.
Eschilo,
Le Eumenidi [Stasimo I,
Antistrofe II].
Sulla pazzia di Oreste esistono numerose versioni: secondo
la tradizione ripresa da Euripide, Apollo predisse che per
trovare pace il nuovo re dell'Argolide avrebbe dovuto
trafugare una statua lignea consacrata ad Artemide nella
Tauride (l'odierna Crimea); qui, egli incontrò la sorella
Ifigenia, che salvò il fratello e l'amico Pilade da morte
certa (nella Tauride, gli stranieri venivano catturati e
sacrificati agli dèi) e lo aiutò ad appropriarsi della
preziosa statua; in tal modo Oreste riconquistò finalmente
il senno perduto.
Secondo Eschilo, invece, ascoltando i vaticini del dio
Apollo l'infelice Oreste si sarebbe recato nella città di
Atene, dove gli anziani giudicarono del suo crimine
nell'antico tribunale dell'Aeropago.
Apollo ebbe il ruolo di difensore di Oreste mentre le Erinni
quello delle accusatrici. Nel processo le parti sostennero
con fermezza le rispettive ragioni: le Erinni, in quanto
divinità più arcane, difendevano le antiche leggi tribali
che consideravano più sacri i legami di sangue, ragion per
cui il figlio di Agamennone doveva essere condannato in
quanto omicida di un consanguineo (la madre, appunto).
Apollo, nume della nuova generazione, perorava le nuove
leggi delle divinità olimpiche così come erano state
consacrate nelle poleis greche; sotto questo profilo, il
matrimonio era altrettanto sacro del vincolo di sangue e di
conseguenza il delitto di Clitennestra (che aveva ucciso il
marito) era altrettanto grave del matricidio; Oreste non
poteva quindi essere considerato colpevole in quanto aveva
vendicato la morte del padre, obbedendo all'oracolo di
Delfi.
A seguito della discussione i voti della giuria furono pari;
con il suo voto, Atena (chiamata ad esprimersi in quanto
presidente dell'Areopago) dichiarò Oreste innocente.
Le Erinni si tramutarono così nelle Eumenidi (le «Benevole»)
e non tormentarono più l'ultimo discendente degli Atridi;
questi poté finalmente ricoprire il suo ruolo di sovrano di
Micene, Argo e Tirinto (alla morte di Menelao, egli ereditò
anche il trono di Sparta).
Neottolemo, il figlio di Achille, fu l'unico ad affrontare
il viaggio di ritorno sulla terraferma portando con sé i
propri uomini, il proprio bottino e i propri schiavi (tra
cui l'indovino Eleno e la vedova di Ettore, Andromaca, che
divenne sua concubina).
Giunto in patria, egli conquistò l'Epiro e, alla morte del
nonno Peleo, ereditò il trono di Ftia.
Il figlio di Achille volle a questo punto prendere moglie e
chiese la mano dell'unica figlia di Elena e Menelao,
Ermione.
I re di Sparta acconsentirono a queste nozze, anche se la
bella Ermione era stata già promessa in precedenza al cugino
Oreste (il quale, all'epoca, era ancora in preda alla follia
a causa della persecuzione delle Erinni).
Non ancora rinsavito, il figlio di Agamennone incontrò il
rivale Neottolemo presso l'oracolo di Delfi e qui lo colse
di sorpresa uccidendolo senza pietà: «Né pietà alcuna
meritava il tristo figlio di Achille; per mano di Oreste lo
colpiva la giustizia degli dèi e quella del Fato, al quale
neppure gli dèi possono sottrarsi» ④.
Dopo la morte di Neottolemo, il regno dell'Epiro passò ad
Eleno, il quale sposò Andromaca e fondò una nuova città (Butroto,
oggi Butrinto), dove accolsero i rifugiati troiani. Per
loro, la vita riservava quanto meno una vecchiaia serena,
nella malinconia e nel ricordo dei cari ormai perduti.
① |
Abbiamo comunque già visto
che alcuni tra i più famosi guerrieri Greci (Achille,
Aiace Telamonio, Antiloco, Macaone, Medonte, Palamede,
Patroclo, Podarce, Protesilao e Tlepolemo) erano periti
durante la guerra. |
② |
Tale tradizione è ripresa
nella tragedia Elena
di Euripide. |
③ |
La saga di Agamennone e
dei suoi discendenti è stata raccontata, sia pure in
modo diverso, da tutti e tre i grandi tragici della
letteratura greca; si leggano, al riguardo, la trilogia
dell'Orestea di Eschilo (Agamennone,
Le Coefore,
Le Eumenidi), la
tragedia Elettra di
Sofocle e le altrettanto famose
Oreste ed Elettra
di Euripide. |
④ |
Il destino di Andromaca,
Oreste e Nettolemo sono narrati anche nella tragedia
Andromaca di
Euripide. Cfr. (Morpurgo 1953). |
.
L'Odissea
l
viaggio di ritorno di Odisseo, che trascorse dieci anni
prima di poter raggiungere la propria patria, è l'argomento
dell'Odissea, il secondo
grande poema epico attribuito ad Omero; numerosi, tuttavia,
sono gli autori successivi ① che si sono occupati del
carattere e delle imprese dell'eroe natio di Itaca.
Dopo il sacco di Troia, il figlio di Laerte e i suoi
compagni partirono con una flotta di dodici navi cariche di
bottino per raggiungere l'isola di Itaca.
Essi giunsero quindi ad Ismaro, nel paese dei Ciconi (una
regione della Tracia);
poiché essi erano stati alleati dei Teucri durante la
guerra, Odisseo decise di mettere a ferro e a fuoco la
città.
Gli Achei depredarono tutta la regione, prendendo donne e
ricchezze in abbondanza; essi tuttavia si attardarono troppo
nei saccheggi e diedero il tempo al nemico di
riorganizzarsi; i Ciconi tornarono alla riscossa e
ricacciarono indietro i Greci: ben sei compagni per ogni
nave non fecero più ritorno e caddero sul campo di
battaglia.
Avviliti per le perdite subite, Odisseo e i suoi guerrieri
ripresero il mare in direzione sud e giunsero sino a Capo
Malea, dove avrebbero potuto completare la circumnavigazione
della penisola ellenica e spingersi a settentrione, verso
Itaca. Una terribile tempesta e il vento di Borea, tuttavia,
respinsero la flotta itacese per ben nove giorni; nel decimo
giorno, le navi giunsero nella terra dei Lotofagi. ②
I compagni di Odisseo scesero a terra per attingere acqua e
procurarsi cibo; quindi, vennero inviati degli araldi per
raccogliere informazioni.
Poiché i messi non tornavano, il figlio di Laerte si allarmò
e andò alla ricerca dei compagni; egli scoprì che gli
abitanti del luogo avevano dato agli Achei il dolce frutto
del loto da mangiare; chi ne assaggiava, dimenticava del
tutto la patria lontana e non desiderava altro se non
masticare ancora loto.
Odisseo ordinò di portare via i compagni a viva forza e
tornò sulle navi; ripreso il largo, i guerrieri di Itaca
giunsero in un'isola di fronte alla terra dei Ciclopi. ③
Dopo essere andati a caccia, i compagni di Odisseo
banchettarono a base di carne, bevendo il dolce vino dei
Ciconi; il giorno successivo, il figlio di Laerte decise di
esplorare le terre circostanti, avvicinandosi alla costa con
una sola delle navi e sbarcando con dodici uomini al
seguito.
Ben presto, Odisseo giunse all'ingresso di una vasta
spelonca: all'interno, erano stipati agnelli e capretti; i
graticci erano carichi di latte e di formaggio in
abbondanza; senza curarsi delle preghiere dei compagni (che
lo spingevano a portar via cibo ed armenti e a fuggire), il
figlio di Laerte volle rimanere per conoscere chi abitava
quelle terre misteriose.
Di lì a poco, giunse un mostro immane; alto come una
montagna, setoloso ed irsuto, il gigante aveva un solo
occhio tondo in mezzo alla fronte; il Ciclope, che portava
con sé le sue greggi e una carico di legna secca, levò in
alto un grosso pietrone e lo posò all'ingresso dell'antro.
Il gigante scorse i forestieri e li apostrofò: — Stranieri,
chi siete? Da dove venite? Per affari o alla ventura vagate
sul mare, come i predoni che vagano rischiando la vita,
portando danno agli stranieri?
Astutamente, Odisseo riferì che lui e i suoi compagni erano
dei naufraghi, scampati per miracolo ad una tempesta, e che
imploravano dal gigante l'ospitalità gradita a Zeus e alle
altre divinità.
Il Ciclope rispose con arroganza: — Sei sciocco, o
straniero, o vieni da molto lontano, tu che mi inviti a
temere o a schivare gli dèi. Ma i Ciclopi non curano Zeus né
gli dèi beati, perché siamo molto più forti. Per schivare
l'ira di Zeus non risparmierei né te né i compagni, se
l'animo non me lo ordina. — Detto ciò, egli afferrò due dei
compagni di Odisseo e li sbatté a terra provocandone la
morte: poi cominciò il suo macabro pasto e in breve tempo
divorò le carni dei due sventurati.
Quando il Ciclope si fu riempito il gran ventre mangiando
carne umana e bevendoci sopra il suo purissimo latte, si
mise a giacere nell'antro, disteso in mezzo alle sue bestie.
Odisseo fu tentato di colpire a morte l'orrenda creatura con
la sua lama, ma si trattenne pensando che mai egli e i suoi
uomini avrebbero potuto rimuovere l'enorme lastrone di
pietra che chiudeva l'imboccatura della grotta.
Il giorno dopo, il Ciclope si svegliò ed accese il fuoco;
prima di portare gli animali al pascolo, egli ghermì altri
due uomini per farne il suo pasto; poi, sollevò la pietra
con grande facilità e richiuse l'antro lasciando prigionieri
Odisseo e i compagni superstiti.
A quel punto, il figlio di Laerte ideò un piano: poiché il
Ciclope aveva lasciato nella caverna un enorme tronco di
ulivo, l'eroe acheo dapprima lo fece raschiare sino a farlo
diventare liscio; poi, fece appuntire una delle estremità
sino a farla diventare ben aguzza, arroventandola nelle
braci del fuoco ardente; quindi, il tronco venne nascosto in
mezzo al letame degli animali.
Giunta la sera, il Ciclope tornò con il suo gregge e ancora
una volta afferrò due uomini, divorandoli avidamente.
Odisseo si fece quindi avanti con un'anfora di vino di Ismaro, offrendolo alla gigantesca creatura e invocando
ancora una volta le leggi dell'ospitalità. Il Ciclope lo
tracannò con un sorso e ne pretese dell'altro; con i sensi
del tutto annebbiati a causa del liquido inebriante, egli
chiese allo sconosciuto il suo nome, promettendogli in
cambio un dono; l'astuto Odisseo rispose di chiamarsi
Nessuno, in greco, Outís.
Poco prima di sprofondare in un sonno profondo, il Ciclope
si era beffato ancora una volta dell'eroe acheo gridando: —
Vuoi sapere quale sarà il mio dono, Nessuno? Ti divorerò per
ultimo.
A questo punto Odisseo e i suoi compagni presero il tronco
di ulivo e lo resero incandescente a contatto con il fuoco;
quindi, lo conficcarono violentemente nell'unico occhio
della orrenda creatura.
Le urla di dolore del gigante risuonarono per tutta la
caverna, facendo tremare le pareti. I Ciclopi che vivevano
nelle vicinanze accorsero, chiedendo a Polifemo (solo a quel
punto Odisseo venne a sapere il nome dello spaventoso essere
con un occhio solo) la causa di quelle grida.
Il Ciclope accecato, con voce rotta, rispose: — Nessuno mi
uccide! Nessuno è causa del mio dolore!
Le altre mostruose creature dell'isola, a questo punto,
cominciarono a schernire Polifemo: — Se nessuno è causa del
tuo dolore, allora il tuo male proviene dagli dèi; perciò,
rassegnati o prenditela con loro; noi non possiamo fare
nulla per te. — E si allontanarono sghignazzando.
All'alba, il Ciclope aprì l'entrata della sua caverna per
portare il gregge al pascolo; Odisseo e i suoi compagni si
aggrapparono sotto il ventre delle pecore in modo tale che
Polifemo, che tastava il dorso degli animali che uscivano,
non si accorgesse della loro presenza.
Una volta in salvo, Odisseo non poté trattenersi dal gridare
al Ciclope il suo vero nome; Polifemo scagliò con rabbia dei
macigni nella direzione da cui proveniva la voce dell'eroe
acheo, mancando per poco le navi. Poi, invocando il dio
Poseidon (che era suo padre), maledisse il figlio di Laerte
e chiese vendetta: da quel momento, il dio del mare sarebbe
stato nemico giurato di Odisseo.
|
L'accecamento di Polifemo
(✍ I sec.) |
Gruppo marmoreo degli scultori Agesandro, Atanodoro e
Polidoro
Villa di Tiberio, Sperlonga. Museo Archologico di Sperlonga (Latina, Italia) |
Gli Achei ripresero il mare e giunsero nell'isola
galleggiante ④ dove dimorava Eolo, il dio dei venti, il
quale prese in simpatia la causa di Odisseo e dei suoi
compagni; per aiutarli, il nume chiuse i venti contrari in
un otre di cuoio, che affidò all'eroe itacese, lasciando
libera solamente una brezza favorevole, in grado di spingere
le navi verso casa.
Odisseo portò con sé a bordo il prezioso otre e si mise al
timone; dopo dieci giorni di navigazione le coste di Itaca
si profilarono all'orizzonte; il figlio di Laerte, stremato
da un così lungo periodo alla guida della nave senza
prendere sonno, si addormentò.
I compagni di Odisseo, immaginando che l'otre di cuoio
contenesse un tesoro donato da Eolo, decisero di aprirlo: i
venti contrari si scatenarono e sospinsero le navi lontano
da Itaca, nuovamente verso la dimora del nume.
Il figlio di Laerte cercò di farsi ricevere nuovamente dal
dio dei venti, raccontando le sue disavventure; ma Eolo,
avendo compreso che Odisseo era in odio agli dèi beati, lo
respinse sdegnato, rifiutandosi di concedergli nuovamente il
suo aiuto. Abbattuti e demoralizzati, gli Achei si misero
nuovamente in mare.
Dopo sei giorni di navigazione, gli Achei approdarono
nell'isola dei Lestrigoni ⑤. Tutte le navi entrarono nel
porto, tranne quella di Odisseo che, reso più prudente a
causa delle precedenti disavventure, decise di ormeggiare la
sua imbarcazione in un'ansa fuori dell'imboccatura
principale.
Una delegazione venne inviata per raccogliere informazioni
sulla popolazione; gli araldi vennero accolti a palazzo,
solo per scoprire che gli abitanti del posto erano degli
orribili giganti che si nutrivano di carne umana.
Guidati dal loro re Antifate, che afferrò uno degli
ambasciatori per farne il suo pranzo, i Lestrigoni dall'alto
delle rupi scagliarono enormi macigni sulle navi ancorate,
poi trafissero a colpi di lancia i marinai caduti in mare,
infilzandoli come pesci prima di divorarli. Solamente la
nave di Odisseo riuscì a levare in tempo gli ormeggi della
propria nave e a fuggire.
Con la flotta ridotta a una sola imbarcazione, Odisseo ed i
suoi compagni giunsero nell'isola di Eea ⑥, ricoperta da
una fitta foresta.
Il figlio di Laerte sbarcò nell'isola alla ricerca di
selvaggina; durante l'esplorazione, egli riuscì ad abbattere
un grosso cervo dalla alte corna e a scorgere del fumo
provenire dalle fitte boscaglie.
Dopo essersi rifocillati, gli Achei (memori delle sventurate
vicende di Polifemo e dei Lestrigoni) decisero di dividersi
in due gruppi: uno al comando di Odisseo e l'altro al
comando di suo cugino Euriloco; la sorte decise che
quest'ultimo drappello avrebbe esplorato l'isola, mentre gli
altri sarebbero rimasti a bordo.
Gli esploratori giunsero in prossimità di un palazzo
costruito con pietre lisce e levigate; intorno ad esso vi
erano diversi animali selvaggi come leoni, orsi e lupi;
lungi dall'attaccare i visitatori, le fiere sembravano
festose ed amichevoli.
All'interno del palazzo, gli Achei vennero accolti da una
voce melodiosa; di lì a poco, fece il suo ingresso la
signora del luogo: la bella maga Circe ⑦ dai capelli
scuri, figlia di Helios, che invitò gli ospiti a seguirla.
Tutti i compagni di Odisseo seguirono quella donna
ammaliatrice; tutti tranne Euriloco, il quale si trasse in
disparte, insospettito dal comportamento degli animali
selvatici che li avevano accolti.
La bella Circe offrì cibo e vino ai suoi ospiti, poi li
toccò con una verga e li trasformò in porci; la maga li fece
quindi uscire dal palazzo, spingendoli verso una stalla e
gettando loro sdegnosamente delle ghiande.
Inorridito, Euriloco ritornò di corsa verso la nave per
avvertire Odisseo.
Incurante degli avvertimenti dei suoi amici, il figlio di
Laerte decise si recarsi da solo verso il palazzo di Circe,
armato unicamente della propria spada. Lungo il cammino,
egli incontrò il dio Hermes, che lo mise in guardia contro i
sortilegi della maga donandogli un'erba magica (il moly) in
grado di renderlo immune dai poteri della figlia di Helios.
Accolto dalla maga e dalle sue ancelle con tutti gli onori,
Odisseo bevve tranquillamente il vino drogato che gli venne
offerto, fiducioso nelle virtù della pianta che gli aveva
donato il messaggero degli dèi; quindi Circe lo colpì con la
sua verga gridando: — Va' ora nel porcile e coricati in mezzo
agli altri compagni. — Grande fu la sorpresa di tutti nel
constatare che il misterioso ospite non solo non si era
trasformato in un maiale, ma sguainava minacciosamente la
sua spada.
Circe riconobbe di trovarsi di fronte ad un uomo protetto
dagli dèi; dopo aver giurato solennemente di non ordire più
inganni nei confronti degli Achei, ella restituì la forma
umana ai compagni di Odisseo e li invitò a rimanere nel suo
palazzo.
Odisseo, Euriloco e tutti i loro compagni rimasero un anno
intero nell'isola di Eea come ospiti della maga, sino a
quando non vennero presi nuovamente dalla nostalgia di casa;
quando il figlio di Laerte (che, in quel periodo, aveva
convissuto con la maga Circe) chiese la via migliore per
tornare ad Itaca, gli venne risposto di visitare prima il
regno degli inferi per consultarvi l'ombra dell'indovino
Tiresia.
La nave solitaria ed il suo equipaggio partì ancora una
volta verso terre sconosciute, lasciandosi dietro uno dei
marinai, Elpenore, il quale (avendo bevuto più del dovuto)
si era addormentato sul tetto del palazzo di Circe e,
svegliatosi di soprassalto, era caduto dall'alto della
terrazza, morendo sul colpo.
Attenendosi alle istruzioni di Circe, Odisseo giunse infine
nel regno delle ombre, nella terra dei Cimmeri (ai confini
dell'Oceano) ⑧.
Camminando lungo la corrente dell'Oceano, il figlio di
Laerte giunse nel luogo che gli aveva indicato la maga ⑨:
scavò una fossa, che riempì dapprima con una bevanda di
latte e miele, poi con dolce vino e infine con acqua,
spargendo sopra bianca farina di orzo.
Vennero immolati agli dèi un montone ed una pecora nera; le
anime dei defunti si radunarono fuori dall'Erebo
avvicinandosi al luogo del sacrificio; quanti si accostavano
al sangue degli animali per berne, riacquistavano sia pure
per pochi istanti il dono della parola.
Odisseo riuscì così a consultare l'indovino Tiresia, il
quale gli predisse il suo ritorno a casa sano e salvo, ma lo
avvertì di stare attento a non attirarsi l'ira degli dèi,
soprattutto nell'isola di Trinacria.
|
Odisseo nel regno dei morti
(✍
±380 a.C.) |
Calyx-krater a figure rosse. Lucania (Italia).
Musée des monnaies, médailles et antiques, Parigi (Francia) |
Tiresia istruì anche Odisseo sui rituali da seguire per
placare l'ira del dio Poseidon, una volta giunto in patria;
egli infine lo informò che ad Itaca avrebbe trovato una
situazione di grande disordine, da cui avrebbe tratto
comunque la sua vendetta: — Troverai nella tua causa dei
guai: vi troverai uomini prepotenti che ti divorano i beni e
aspirano a sposare tua moglie… Ma ti vendicherai delle loro
offese —. E lo informò che sarebbe morto sulla terra ferma, in età
avanzata.
Il figlio di Laerte incontrò quindi l'ombra della madre Anticlea, morta di crepacuore nell'attesa del ritorno del
figlio; più volte Odisseo cercò di abbracciarla, riuscendo a
stringere solo fumo. Altre ombre si avvicinarono al luogo
del sacrificio: quella di Elpenore, che chiese all'eroe
acheo di rendergli gli onori della sepoltura; quella di
Agamennone, che gli narrò delle sue disavventure al rientro
nell'Argolide; quella di Achille, struggente nella sua
malinconia: — Oh non consolarmi della morte, glorioso Odisseo;
preferirei da vivo e sulla terra essere servo di un altro,
stare presso un uomo privo di mezzi, piuttosto che dominare
su tutti i defunti. — Solamente l'ombra di Aiace Telamonio si rifiutò di parlargli, ancora sdegnato.
Il figlio di Laerte vide anche le ombre dei grandi del
passato, il giudice dell'oltretomba Minosse e gli eterni
castighi cui erano condannati gli empi: il supplizio di
Tantalo, di Sisifo e del gigante
Tizio ⑩; quando la folla dei morti sconosciuti cominciò ad
accalcarsi intorno a lui, Odisseo lasciò il regno degli
inferi.
La nave degli Itacesi tornò quindi nell'isola di Eea, dove
finalmente vennero dati gli onori della sepoltura allo
sventurato Elpenore. Prima della partenza, la maga Circe
mise in guardia il figlio di Laerte dalle ultime insidie del
viaggio.
Gli Achei si apprestarono quindi ad attraversare i mari
infestati dalle Sirene, creature alate che incantavano i
naviganti con la loro voce melodiosa, facendoli
annegare ⑪.
|
Odisseo e le sirene
(✍
500-480 a.C.) |
Vaso attico a figure rosse.
British Museum, Londra (Regno Unito) |
Seguendo i consigli di Circe, Odisseo fece colare cera molle
nelle orecchie dei suoi compagni, per impedire che venissero
attirati dal canto delle misteriose creature; egli si fece
invece legare saldamente all'albero della nave, per poterne
ascoltare il canto.
Durante la traversata, funestata dalla visione di numerosi
scheletri adagiati sugli scogli, le Sirene cercarono di
sedurre il signore di Itaca: — Vieni, Odisseo, glorioso vanto
degli Achei; ferma la nave, se vuoi ascoltare la nostra
voce. Nessuno è mai passato di qui con la nave senza udire
la nostra voce dal dolce suono.
Nonostante le preghiere del figlio di Laerte, che implorava
di essere sciolto, gli Achei passarono oltre e si lasciarono
alle spalle l'isola delle Sirene.
Improvvisamente, Odisseo e i suoi compagni videro dinanzi a
loro del fumo e un gran vortice d'acqua, udendone lo
spaventoso fragore; ai naviganti atterriti sfuggirono di
mano i remi, che ricaddero nella corrente. Due scogli si paravano di fronte agli Achei; uno dalla vetta
aguzza e avvolto da una nuvola scura, l'altro più basso,
distanti un tiro di freccia l'uno dall'altro ⑫. Odisseo
spronò i suoi a superare quel tratto di mare, raccomandando
di tenersi lontano dal vortice che proveniva dallo scoglio
più basso. In realtà, il figlio di Laerte era il solo a sapere che la
nave si stava appressando alla dimora di Scilla e Cariddi;
la maga Circe gli aveva detto che all'interno dello scoglio
più alto, in un antro nebbioso rivolto verso l'Erebo,
dimorava Scilla «che latra in modo pauroso».
Dodici ha piedi, anteriori tutti, sei lunghissimi colli e su ciascuno
spaventosa una testa, e nelle bocche di spessi denti un triplice giro,
e la morte più amara di ogni dente. Per metà si cela dentro la cava spelonca profonda, ma fuori sporge le teste, spiando bramosa foche, delfini e mostri marini. Di là nessun marinaio riesce
a scampare, illeso, con la sua nave: con ognuna delle sue teste essa afferra un uomo.
Odissea
[XII, -]
Sotto l'altro scoglio dimorava la divina Cariddi «che
inghiotte l'acqua scura. Tre volte, durante il giorno, la
inghiotte e la rigetta tre volte, orrendamente»
(Odissea [XII, -]); neppure
il dio Poseidon sarebbe stato in grado di sottrarre alla
morte gli sventurati che si fossero avvicinati troppo al
gorgo.
La maga Circe aveva quindi consigliato ad Odisseo di
navigare tenendosi più accostato allo scoglio di Scilla.
Quando la nave degli Achei cominciò a percorrere lo stretto,
i marinai osservavano con terrore il gorgo di Cariddi che
ribolliva, mentre la roccia risuonava orrendamente e sotto
appariva il fondo nero di sabbia.
|
Scilla
(✍
460-450 a.C.) |
Placca di terracotta, di Melos (Grecia)
British Museum, Londra (Regno Unito) |
Un tremendo terrore colse Odisseo e i suoi compagni quando
la spaventosa, selvaggia ed invincibile Scilla afferrò sei
uomini con i suoi tentacoli e li divorò mentre ancora
urlavano tendendo le braccia verso il figlio di Laerte,
nella loro straziante quanto inutile lotta.
Alla fine gli Achei giunsero sull'isola di Trinacria, dove
pascolavano gli armenti del titano Iperione, padre del dio
Helios. Seguendo i consigli di Circe e dell'indovino Tiresia,
Odisseo dette ordine di non sbarcare nell'isola e di
proseguire la rotta.
Gli Achei, tuttavia, stremati dalla stanchezza,
supplicarono il re di Itaca di consentire l'approdo: il
figlio di Laerte acconsentì, facendosi però promettere che
nessuno avrebbe toccato gli armenti sacri al dio Iperione.
Giunto nell'isola, Odisseo si appartò in un luogo al riparo
dei venti per pregare gli dèi dell'Olimpo e cadde in un
sonno profondo.
Quando il figlio di Laerte si destò e raggiunse la spiaggia,
scoprì che i suoi compagni, guidati da Euriloco, avevano
ucciso e mangiato le mucche sacre.
L'ira degli dèi per il sacrilegio compiuto non si fece
attendere: quando gli Achei si misero di nuovo al largo,
Zeus scatenò una grande tempesta che ridusse l'imbarcazione
in pezzi. Odisseo sfuggì al naufragio, aggrappandosi
all'albero di fico sopra lo scoglio di Cariddi; i suoi
compagni e la nave vennero invece inghiottiti dal gorgo.
Il figlio di Laerte riuscì a costruirsi una zattera e, dopo
nove giorni di navigazione, giunse nell'isola di Ogigia ⑬,
dove viveva la ninfa Calipso. Quest'ultima, essendosi
invaghita dell'eroe acheo, l'aveva costretto a restare
nell'isola come suo amante per sette lunghi anni,
promettendogli l'immortalità qualora avesse deciso di unirsi
in nozze divine con lei. Invano: la nostalgia della patria
impediva a Odisseo di accettare un qualsiasi dono (fosse
anche quello dell'eterna giovinezza!) se il prezzo da pagare
era quello di non rivedere più l'amata famiglia e la tanto
rimpianta Itaca.
Dopo sette anni di esilio, la dea Atena (da sempre alleata
di Odisseo), approfittando di un momento in cui il dio del
mare Poseidon si era allontanato dall'Olimpo, chiese ed
ottenne da Zeus la grazia per il suo protetto.
Il messaggero degli dèi, Hermes, si recò quindi ad Ogigia
per annunciare la volontà degli dèi; la bella Calipso, pur
essendo innamorata di Odisseo, si vide costretta a cedere di
fronte ad un ordine proveniente dai numi dell'Olimpo; ella
diede quindi al figlio di Laerte i mezzi per costruire una
zattera e viveri per affrontare il viaggio.
Ancora una volta, il nobile di Itaca prese la via del mare,
ma l'ira del dio Poseidon continuava a perseguitarlo;
l'ennesima tempesta, infatti, lo scagliò sulle coste
dell'isola di Scheria ⑭, dimora del pacifico popolo dei Feaci; nudo ed esausto, Odisseo cadde addormentato presso la
foce di un piccolo fiume.
Il mattino dopo, la principessa Nausicaa, la graziosa figlia
del re Alcinoo, scese verso la spiaggia con le sue ancelle;
il rumore dei loro passi svegliò Odisseo, il quale pensò di
trovarsi di fronte ad un gruppo di ninfe. Alla vista del
naufrago, tutte le fanciulle fuggirono tranne Nausicaa, che,
dopo aver sentito la storia dello straniero, ne ebbe pietà
richiamò le ancelle. Queste gli diedero da mangiare e gli
trovarono una tunica ed un mantello per vestirsi. ⑮
Odisseo giunse quindi al palazzo del re dei Feaci, Alcinoo,
e della sua sposa, la regina Arete; qui, venne ricevuto con
cortesia e con generosità dai suoi ospiti, ai quali però il
figlio di Laerte non disse il proprio nome.
Giunta la sera, al palazzo il rapsodo ⑯ cieco Demodoco
cantò le gesta della guerra di Troia; Odisseo non riuscì a
frenare la propria commozione e il proprio dolore. Vedendo
lo stato di angoscia dell'ospite, Alcinoo lo pregò di
raccontare tutte le sue avventure: il nobile di Itaca si
decise quindi a rivelare la propria identità e a narrare del
suo avventuroso viaggio. ⑰
Dopo aver ascoltato con grande interesse e curiosità la sua
lunga storia, i Feaci decisero di aiutare Odisseo a tornare
a casa. Venne messa a disposizione dell'eroe acheo una nave
con un equipaggio di volontari, che raggiunse Itaca poco
prima dell'aurora; i Feaci sbarcarono così l'eroe acheo in
una baia riparata e lo adagiarono sulla spiaggia, colmo di
doni e ancora addormentato.
|
Odissea. Itinerario ipotetico |
Al suo risveglio, la dea Atena trasformò Odisseo in un
vecchio mendicante, per evitare di essere riconosciuto e
difendersi così dalle insidie che lo attendevano (come
profetizzato da Tiresia). Egli si incamminò verso la capanna
di Eumeo, il guardiano dei porci, per scoprire che questi
gli era rimasto fedele anche dopo così tanti anni. Il
porcaro lo fece accomodare, ospitandolo presso la sua umile
dimora ⑱.
Nel frattempo Telemaco, il figlio di Odisseo, si stava
recando proprio in quel momento presso la capanna di Eumeo;
egli era reduce da un lungo viaggio che aveva intrapreso per
avere notizie del padre e che lo aveva condotto a Pilo,
presso il vecchio re Nestore, e a Sparta, dove aveva
ricevuto notizie rassicuranti sul ritorno in patria del
genitore da parte di Elena e Menelao (i quali avevano
appreso tali conoscenze direttamente dal saggio Proteo).
Dai racconti di Telemaco e di Eumeo, Odisseo apprese cosa
era accaduto in quei vent'anni nella sua isoletta di Itaca,
«dove invecchiava fino alla decrepitezza suo padre Laerte,
dove cresceva a gagliarda gioventù il figlio Telemaco; dove
l'attendeva, intrepida nella sua proverbiale fedeltà, la
moglie Penelope, assediata dall'orda famelica e oltraggiosa
dei Proci, i giovinastri prepotenti di Itaca e delle isole
vicine, che avevano occupato la reggia dell'eroe, che essi
davano per morto, e pretendevano di usurpargli anche la
sposa. Ed ella li deludeva promettendo che avrebbe scelto un
nuovo marito tra loro quando avesse finito di tessere una
sua grande tela – la famosa tela di Penelope! La tesseva di
giorno, in loro presenza, e nel silenzio della notte
disfaceva tutto il lavoro compiuto nel giorno, così che
quella tela non sarebbe mai finita». ⑲
Finalmente, Odisseo si rivelò a Telemaco (ma non ancora ad
Eumeo); dopo essersi abbracciati con commozione ed affetto,
insieme i due decisero di uccidere i Proci.
Il figlio di Laerte, accompagnato da Eumeo, fece ritorno
nella sua casa; incontrò per primo il suo cane Argo (l'unico
a riconoscerlo!), che dopo un ultimo sussulto di gioia morì
felice per aver rivisto il padrone.
Gli immortali versi di Omero rendono il giusto onore ad uno
degli episodi più commoventi del poema:
Così dicevano tra loro, quando Argo, il cane, che ivi giaceva […] la testa sollevò ed ambedue le orecchie.
[…] Com'egli vide il suo signor più presso, benché tra quei cenci, lo riconobbe e squassò la coda festeggiando.
[…] Ulisse, riguardatolo, si asciugò con mano furtiva dalla guancia il pianto.
Odissea
[XVII, -]
Entrato nella reggia sempre travestito da mendicante,
Odisseo fu spesso vittima degli scherni e delle risa dei
Proci arroganti, ma preferì non reagire, limitandosi ad
osservarne il comportamento violento e tracotante e ad
elaborare un piano per ucciderli.
Nessuno riconobbe il figlio di Laerte (neppure la moglie
Penelope!), tranne la vecchia nutrice Euriclea, che comprese
la vera identità del mendicante quando egli si spogliò per
fare un bagno, mostrando una cicatrice sulla coscia che
l'eroe acheo si era procurato da bambino; Odisseo, però, la
costrinse a giurare di mantenere il segreto.
Il giorno dopo, su suggerimento di Atena, Penelope sfidò i
Proci a cimentarsi in una gara: la saggia moglie di Odisseo
spiegò che avrebbe sposato solamente il giovane in grado di
tendere l'arco appartenuto al marito, scagliando quindi una
freccia all'interno dell'occhiello dell'impugnatura di
dodici scuri.
Nessuno dei pretendenti riuscì a superare la prova e a quel
punto, tra l'ilarità generale, il vecchio mendicante chiese
di partecipare: Odisseo riuscì a tendere l'arma e a colpire
il bersaglio, lasciando tutti stupefatti. Egli si spogliò
quindi dei cenci che indossava e balzò sulla grande soglia
della sala tenendo in mano l'arco e la faretra piena di
frecce: ne tirò fuori i veloci dardi proprio davanti ai
piedi, e disse ai pretendenti di Penelope: — Questa gara è
finita. Ora voglio vedere se raggiungo un altro bersaglio
che mai nessun uomo colpì, se Apollo mi concede questo
vanto.
|
La strage dei proci
(✍
1882) |
(Schwab 1882) |
Quindi rivolse quindi l'arco contro Antinoo, il più
arrogante dei nobili di Itaca, e lo uccise trafiggendolo
alla gola; gli altri Proci, indignati, per vendicare
l'affronto si misero alla ricerca delle loro armi, ma
Telemaco aveva già provveduto a farle sparire.
Odisseo si rivelò allora per chi era veramente e gridò
indignato: — Ah, cani! Pensavate che non sarei più tornato a
casa, dunque… — Poi, con l'aiuto di Telemaco e dei servi
fedeli (Eumeo e Filezio, il guardiano dei buoi), fece strage
di tutti i Proci. Odisseo si rivelò finalmente a Penelope: la donna dapprima
esitò (non riusciva a credere che il marito fosse tornato,
dopo tanto tempo); ella si convinse solo dopo che il marito
descrisse alla perfezione il letto nuziale che lui stesso
aveva costruito in occasione del loro matrimonio ⑳. I due
sposi poterono finalmente riabbracciarsi dopo tanto tempo. Il giorno dopo, insieme a Telemaco, Odisseo andò ad
incontrare suo padre Laerte, che si era ritirato in
campagna: anche il vecchio sovrano non riusciva a credere al
ritorno del figlio e si convinse quando l'eroe gli descrisse
il frutteto che un tempo il padre gli aveva donato. Odisseo dovette anche fronteggiare un'insurrezione degli
abitanti di Itaca, intenzionati a vendicare le uccisioni dei
Proci loro figli. Solamente l'intervento della dea Atena
riuscì a sedare la disputa e a riportare finalmente la
serenità e la pace a Itaca. Sulla morte di Odisseo le fonti greche sono ambigue e
discordanti, quasi che agli Elleni ripugnasse descrivere la
fine del loro eroe più rappresentativo: secondo alcune
versioni, alcuni anni dopo le vicende narrate sbarcò ad
Itaca Telegono, il figlio che l'eroe acheo ebbe dalla maga
Circe.
Poiché i visitatori vennero scambiati per predoni ne nacque
una rissa, in cui Odisseo morì, ucciso proprio dal figlio
non riconosciuto. Secondo la versione del poeta medievale Dante Alighieri
(che, non conoscendo il greco, non aveva letto i poemi di
Omero), dopo aver lasciato la maga Circe, Odisseo volle
partire verso il mare aperto, oltre lo stretto di Gibilterra
dove Eracle aveva segnato i confini «a ciò che l'uom più
oltre non si metta» (Inferno [XXVI,
]).
Memorabili le parole che il
condottiero acheo usò per spronare i propri compagni:
Non vogliate negar l'esperienza di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.
Inferno
[XXVI, -]
Cominciò così il «folle volo» sull'infinito del mare che
nessun mortale aveva osato sfidare prima: l'imbarcazione di Odisseo, dopo cinque mesi, giunse in prossimità di una
montagna, che l'immaginario medievale identificò con il
colle del Purgatorio. Una terribile tempesta, tuttavia, si
scatenò all'improvviso facendo naufragare la nave degli
Itacesi, «infin che 'l mar fu sopra noi richiuso»
(Inferno
[XXVI, ]). Una leggenda, questa, che ha ben poco a che fare con
l'universo dei miti greci ma che non si può non citare per
la suggestione che essa ebbe per poeti antichi e moderni.
① |
Oltre ad Omero (con i già
citati poemi Iliade
e Odissea), si
possono menzionare l'anonimo autore della
Telegonia, Pindaro (Seconda
Nemea), Sofocle (Aiace,
Filottete), Euripide
(Ifigenia in Aulide,
Ciclope), Platone (Ippia
Minore), Cicerone (Tuscolane,
I doveri), Virgilio
(Eneide), Properzio
(Elegie), Ovidio (Metamorfosi,
Lettere di eroine),
Seneca (Troiane),
Stazio (Achilleide)
e Luciano (Storia vera). |
② |
Gli studiosi si sono
affannati per secoli nel cercare di identificare le
tappe del viaggio di Odisseo, proponendo di volta in
volta uno o più siti (il paese dei Lotofagi, ad esempio,
viene collocato nel golfo della Sirte, nell'odierna
Libia). Ci limitiamo ad osservare che le nozioni
geografiche dell'epoca erano molto vaghe e affidate
soprattutto ai racconti dei naviganti: le avventure di
Odisseo erano quindi sentite da Omero e dai suoi
contemporanei come un viaggio nell'ignoto e nel
fantastico, senza avere necessariamente una precisa
connotazione e collocazione geografica. Di seguito
verranno comunque menzionate le interpretazioni più
note, anche se non manca chi colloca il viaggio di
Odisseo in siti alternativi, come il mare Adriatico o il
mar Baltico. |
③ |
La terra dei Ciclopi, pur
tenendo conto di quanto scritto alla nota precedente, è
tradizionalmente identificata con la Sicilia (non
mancano interpretazioni diverse, che fanno riferimento
alla Tunisia ovvero al basso Lazio). |
④ |
L'isola di Eolo viene
normalmente identificata con l'arcipelago delle Eolie.
Altri ritengono che essa coincida con l'isola di Malta. |
⑤ |
Omero colloca quest'isola
a nord: è stata di volta in volta identificata con una
regione della penisola italica, con la Sicilia
occidentale, con la Sardegna ovvero con la Corsica. |
⑥ |
Omero si limita ad
annotare che nell'isola sorge il sole, per cui è
possibile desumere solamente che essa è posta ad
Oriente. Successivamente, venne identificata con il
promontorio del Circeo (nel Lazio) ovvero con un'isola
del Tirreno. |
⑦ |
Circe era anche la sorella
di Pasifae, sposa di Minosse (re di Creta), e di Eete
(re della Colchide), nonché zia di Medea, un'altra
famosa e terribile maga. |
⑧ |
Ancora una volta è
praticamente impossibile identificare la terra dei
Cimmeri; la tradizione tende a collocarlo nell'estremo
nord. |
⑨ |
«Là dove c'è una costa
bassa e ci sono i boschi di Persefone, alti pioppi
sterili salici, tu fai approdare la nave, proprio in
riva all'Oceano e vai nella casa di Ade. Essa è
squallida e piena di muffa e là, dentro l'Acheronte,
scorrono il Flegetonte e il Cocito, che è un ramo
dell'acqua dello Stige» (Odissea
[X, -]). |
⑩ |
Sisifo fu un famoso ladro;
per aver tentato di imprigionare la dea della morte,
venne condannato per l'eternità a spingere su per un
colle un macigno, che giunto in cima rotolava sempre giù
verso la pianura. Tizio era un gigante, figlio della
dea-terra Gea; per aver tentato di violentare Leto,
madre di Apollo, venne incatenato negli inferi, dove due
avvoltoi gli rodevano continuamente il fegato. |
⑪ |
L'iconografia classica,
che raffigura le sirene («vergini simili a cigni») come
esseri metà donne e metà pesce, è posteriore ad Omero. |
⑫ |
L'insidioso tratto di mare
è tradizionalmente identificato con lo stretto di
Messina. |
⑬ |
Ancora una volta gli
studiosi si sono ingegnati, identificando il sito ora
con Gozo (nell'arcipelago maltese), ora con un'isola
delle Lipari; la tesi tradizionale la pone in prossimità
dello stretto di Gibilterra. |
⑭ |
Secondo la tesi
tradizionale, l'isola di Scheria coincide con l'isola di
Corfù; alcuni studiosi la collocano invece nell'Oceano
Atlantico ovvero la fanno coincidere con la penisola
della Calabria. |
⑮ |
L'incontro tra Odisseo e
Nausicaa è uno dei passi più celebrati e citati
dell'Odissea. |
⑯ |
Il rapsodo era un cantore
professionista che nell'antico mondo greco recitava e
cantava, di solito a memoria, poesie epiche. |
⑰ |
Il lettore dell'Odissea,
che ci presenta per la prima volta il figlio di Laerte
quando è in procinto di lasciare l'isola di Ogigia,
apprende del viaggio di ritorno di Odisseo proprio dalla
storia che lui stesso narrò ai Feaci (Libri IX-XII). |
⑱ |
L'ospitalità sobria ma
dignitosa del porcaro Eumeo divenne proverbiale, tanto
da essere citata da Goethe nel romanzo
I dolori del giovane Werther. |
⑲ |
Morpurgo,
Le favole antiche, Petrini,
Torino 1953, p. 168. |
⑳ |
Penelope disse alla
nutrice Euriclea: — Prepara un buon letto fuori dalla
stanza nuziale: il letto, voglio dire, che fece lui. — E
Odisseo rispose: — E chi mi collocò il letto da un'altra
parte? Sarebbe difficile, penso, anche per uno molto
esperto. C'è un gran segreto nel letto lì, ben lavorato.
Lo feci io, non un altro. Ricordo bene: cresceva dentro
il cortile una macchia d'ulivo dall'ampio fogliame. Era
un ulivo in pieno rigoglio: aveva un tronco massiccio
come una colonna. E appunto intorno a questo tronco ci
misi la stanza nuziale. |
.
La sorte dei Troiani
e
fonti ci riferiscono che ben pochi furono i Teucri che
riuscirono a sopravvivere all'eccidio degli Achei e che i
pochi superstiti vennero fatti schiavi (nel capitolo 1 si è
già narrato della sorte di Eleno e Andromaca, cui il Fato
consentì di fondare una nuova Troia in Epiro).
Il solo ad essere risparmiato fu Antenore, l'unico a
trattare con rispetto gli Achei durante le loro ambascerie,
per cui a lui e a alla sua famiglia fu concesso di lasciare
il suolo troiano senza essere ridotto in schiavitù. Si narra
che egli si recò nella penisola italica, dove fondò diverse
città, tra cui Padova ①.
Ecuba, moglie del defunto re di Troia, venne fatta schiava
dai Greci ed assegnata a Odisseo; gli Achei non le
risparmiarono lo strazio della morte del marito e dei figli,
del sacrificio di Polissena e della barbara uccisione del
nipotino Astianatte.
Si racconta che la vedova di Priamo implorasse il duce degli
Achei, Agamennone, di concedergli un'ultima grazia: potersi
vendicare di Polinestore, che le aveva barbaramente ucciso
il figlio Polidoro, nonostante il giovane fosse ospite nella
reggia del re di Tracia; il re di Micene acconsentì.
Polinestore ed i suoi figli vennero convocati nella tenda di
Ecuba, attratti da una falsa promessa: la vedova del re di
Troia aveva infatti palesato di voler rivelare dove fosse
nascosto il tesoro della famiglia reale. Una volta entrati
negli alloggi delle prigioniere troiane, il re di Tracia e i
suoi rampolli vennero immobilizzati: Ecuba, resa furente
dalla collera, uccise i due figli del re Polinestore ed
accecò il sovrano. Le fonti a questo riportano che la regina
di Troia sarebbe stata trasformata in una cagna: l'Autore
ritiene invece che ella sicuramente preferì il suicidio alla
schiavitù e questo spiegherebbe come mai non si faccia più
menzione di Ecuba nella epopea dei «Ritorni».
Ben più rilevante appare la leggenda che racconta delle
peripezie di Enea e dei suoi seguaci, che ispirarono a
Virgilio il poema epico più celebrato della letteratura
latina: l'Eneide.
Durante il sacco di Troia, il figlio di Afrodite provò ad
organizzare una resistenza ma, essendosi reso conto della
imminente fine della sua città, riuscì a fuggire portando
sulle spalle il padre Anchise e tenendo per mano il figlio
Julo; la moglie Creusa, invece, non riuscì a seguire i passi
del marito e perì nel disastro generale del saccheggio
acheo. Il giorno dopo, Enea raccolse i pochi profughi
sfuggiti al massacro e fece costruire sette navi, con le
quali i Troiani superstiti partirono alla ricerca di una
nuova patria.
|
Enea porta sulle spalle Anchise
(✍
1514 a.C.) |
Particolare dell'affresco L'incendio di Borgo,
Stanze Vaticane, Roma (Italia).
Raffaello Sanzio (1483-1520). |
Cominciò così il viaggio dei Teucri nel Mediterraneo, che li
condusse prima in Tracia, per incontrare il fantasma dello
sventurato Polidoro (ucciso con l'inganno, come abbiamo
visto, dal re di Tracia), e poi nell'isola di Delo, dove
l'oracolo di Apollo sentenziò: — Cercate l'antica madre.
Qui
la stirpe d'Enea dominerà su tutte le terre e su tutti i
discendenti [Antiquam exquirite matrem. Hic domus
Aeneae cunctis dominabitur oris et nati natorum et qui
nascentur ab illis].
Anchise, il padre di Enea, ritenne che la terra d'origine
dei Troiani fosse Creta (la patria di Teucro); ma quando
Enea ed i suoi compagni raggiunsero l'isola, i raccolti si
seccarono e una pestilenza colpì tutti gli abitanti; gli dèi
apparvero in sogno ad Enea e gli rivelarono che la loro vera
patria originaria era l'Italia (da cui proveniva Dardano).
Ancora una volta i Teucri ripresero il mare e approdarono su
un isola dell'arcipelago delle Strofadi, dove furono
assaliti dalle Arpie, mostri alati con viso di donna dal
corpo di uccello: esse cacciarono i Troiani pronunciando
anche sinistre maledizioni nei confronti di Enea e dei suoi
compagni.
Il figlio di Anchise fece quindi rotta verso nord e giunse
in Epiro, dove incontrò Eleno e Andromaca, che – come si è
detto – avevano fondato una nuova Troia a Butroto; i
compagni di Enea vennero accolti con gioia.
Eleno profetizzò ad Enea che avrebbe dovuto fondare la sua
città sulle rive di un fiume della costa più remota
d'Italia; egli diede al suo conterraneo dei preziosi
consigli su come evitare i pericolosi scogli di Scilla e di
Cariddi, raccomandandogli di consultare la Sibilla Cumana,
una sacerdotessa di Apollo che viveva in una grotta.
Dopo essersi rimessi in mare, la flotta dei Troiani giunse
in Sicilia, dove i compagni di Enea scamparono a stento ad
un attacco del ciclope Polifemo ma riuscirono a salvare
Achemenide (un compagno di Odisseo, abbandonato per errore
dai suoi compagni), che venne accolto dai Teucri come un
fratello. Una volta sbarcato nell'isola, Enea dovette
soffrire l'ennesimo lutto: anche se serenamente, si spense
infatti il vecchio Anchise.
Ripreso il mare, i Troiani erano intenzionati a
circumnavigare la Sicilia per giungere nella penisola
italica, quando una tempesta fatta scatenare da Hera (la dea
che perseverava nel suo odio contro la città di Ilio) li
sospinse verso il continente africano; qui Enea e i suoi
compagni vennero accolti benevolmente da una comunità di
Fenici, intenti a fondare una nuova città: Cartagine.
A questo punto l'Autore, pur consapevole dello sforzo del
lettore a districarsi tra tanti eventi e personaggi, non può
fare a meno di raccontare qualcosa in più sugli abitanti di
questa città e sulla loro regina: la famosa Didone.
Primogenita di Belo, re di Tiro, la bella Didone era la
felice sposa di Sicheo; destinata a succedere al trono
paterno, ella venne tuttavia osteggiata dal crudele fratello
Pigmalione; questi le uccise il marito in un complotto e
conquistò il potere assoluto sulla città.
Didone, a questo punto, lasciò la patria natia con un gruppo
di seguaci e prese il largo, giungendo infine sulle coste
dell'attuale Tunisia; qui la bella vedova di Sicheo ottenne
da Iarba, il re del luogo, il permesso di fondare una città,
prendendo tanto terreno «quanto ne poteva contenere una
pelle di bue».
Astutamente, Didone tagliò una pelle di bue in tante
striscioline sottili e le mise in fila, in modo da
delimitare quello che sarebbe stato il territorio della
città di Cartagine.
Tra Enea e la regina della nuova città nacque subito un
sentimento profondo, che si trasformò ben presto in amore;
il figlio di Anchise, rasserenato da quei momenti di
felicità dopo anni di sofferenze (tra guerre e
peregrinazioni), meditava di stabilirsi a Cartagine dove
Fenici e Troiani avrebbero potuto fondare un nuovo popolo.
Gli dèi avevano tuttavia in serbo per lui un altro destino:
il padre dei numi dell'Olimpo inviò così Hermes, il suo
messaggero, per ricordargli i suoi doveri; Enea, rassegnato,
si apprestò quindi a partire con il suo seguito verso
l'Italia.
La regina Didone, quando scoprì che la flotta dei Troiani
aveva preso il largo, preparò una pira funebre; invocando
gli dèi, ella maledisse Enea e i suoi discendenti,
presagendo odio eterno tra la sua stirpe e quella dei
Troiani; quindi, si trafisse con la spada, ponendo così fine
ad una vita funestata da tanti dolori.
Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vide il
fumo della pira e ne comprese il significato: pur con la
morte nel cuore, egli aveva deciso comunque di seguire il
richiamo del destino.
I Troiani, quindi, sbarcarono nuovamente in Sicilia, dove
Enea organizzò dei giochi funebri in memoria del padre
Anchise.
Quindi, la flotta fece rotta verso la penisola italica,
lasciando in terra sicula quei compagni che, stanchi di
tante peregrinazioni, avevano deciso di stabilirsi
nell'isola.
Durante la navigazione, il timoniere Palinuro vinto dal
sonno precipitò in mare presso il Capo che prenderà il suo
nome; avvicinatosi agli scogli delle sirene, Enea prese il
controllo dell'imbarcazione e condusse la nave sino alla
Città di Cuma.
Il figlio di Anchise, memore dei consigli di Eleno, si recò
quindi presso la sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Cumana,
che gli profetizzò la nascita di una nuova patria nonostante
l'inimicizia della dea Hera nei confronti della sua stirpe.
La Sibilla accompagnò quindi Enea nel regno dei morti: dal
lago di Averno, essi giunsero sulle rive del fiume Stige,
dove incontrarono Palinuro, cui non era stato consentito di
fare ingresso nell'aldilà perché non gli erano stati resi
gli onori della sepoltura: Enea gli promise che al suo
ritorno avrebbe provveduto a celebrare il rito funebre.
Il nocchiere dei morti, Caronte, inizialmente si rifiutò di
traghettare sulla sua barca il figlio di Anchise in quanto
ancora appartenente al mondo dei vivi; si rassegnò a
trasportarli solo quando la Sibilla mostrò un ramo d'oro, il
simbolo chiave degli inferi.
Dopo aver superato l'ostacolo di Cerbero, il cane a tre
teste custode del regno dei morti, Enea incontrò le anime
dei suicidi (tra cui Didone, che al passaggio dell'eroe
troiano si rifiutò di rivolgergli la parola) e si trovò
quindi di fronte alla diramazione tra il Tartaro, dove
vengono punite le anime dei malvagi, e i Campi Elisi, la
dimora dei saggi e dei virtuosi dopo la morte.
Enea incontrò quindi l'anima del padre Anchise, che gli
mostrò le ombre dei suoi discendenti, i Romani, destinati a
dominare il mondo anche con la sapienza delle loro leggi;
Enea e la Sibilla risalirono quindi nel mondo dei vivi,
passando per la porta dei sogni ingannevoli.
I Troiani, dopo aver seppellito Caieta, la nutrice di Enea,
nella terra che prenderà il suo nome (Gaeta), giunsero
infine alla foce del fiume Albula.
|
Eneide. Itinerario |
Il figlio di Anchise decise di inviare un araldo presso il
re del luogo, Latino, che accolse con favore gli stranieri:
suo padre, il dio italico Fauno, gli aveva infatti
preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia
Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa: per
questo motivo il re aveva in precedenza rifiutato di
concedere Lavinia in moglie al giovane sovrano dei Rutuli,
il bellicoso Turno.
La prospettiva di un matrimonio tra Enea e Lavina non
piacque alla dea Hera (che persisteva nel suo feroce odio
nei confronti di Troia e dei suoi discendenti), la quale
riuscì a fomentare l'odio delle popolazioni locali nei
confronti degli stranieri.
Il sovrano dei Rutuli, furioso per essersi visto negare la
mano della figlia del re Latino, riuscì a portare dalla sua
parte una coalizione che comprendeva tutti gli Italici, con
l'eccezione delle città governate da Diomede (l'eroe acheo
che, dopo aver raggiunto la sua Argo, aveva fondato un regno
nell'Italia Meridionale), che preferirono mantenersi
neutrali; Enea riuscì invece ad allearsi con il popolo degli
Etruschi e con Evandro, un vecchio sovrano proveniente dalla
regione dell'Arcadia che si era stanziato con i suoi sudditi
sul colle del Palatino.
Lo scontro tra Rutuli e Troiani è argomento dei Libri
VII-XII dell'Eneide
virgiliana; non è certamente possibile raccontare, in questo
libro, tutte le gesta e le battaglie che ebbero luogo
durante la guerra: lasciamo al lettore più curioso la gioia
di leggere della morte eroica di Eurialo e Niso, due giovani
guerrieri Troiani che fecero incursione nel campo nemico;
delle imprese di Camilla, la vergine regina dei Volsci,
alleata dei Rutuli; del duello tra Turno e Pallante, il
giovane figlio di Evandro, conclusosi con la tragica morte
di quest'ultimo.
A noi basterà sapere che la guerra, in pieno stile epico,
venne risolta con un duello finale tra Enea e Turno, i due
contendenti principali; quando i due eroi si trovarono
faccia a faccia, gli dèi decisero di non intervenire: Zeus
ancora una volta pesò sulla sua bilancia d'oro il destino
dei due eroi e le Moire decretarono la sconfitta per il re
dei Rutuli.
Anche la dea Hera si rassegnò ad interrompere le sue trame e
chiese al consorte un'ultima grazia: che, d'ora in poi, la
stirpe dei Troiani non venisse più nominata nelle fonti e i
discendenti di Enea fossero conosciuti dalla storia
solamente con l'appellativo di Romani.
Zeus acconsentì e, un istante dopo, Enea riuscì a ferire
mortalmente Turno: sguainata la spada per sferrare il colpo
fatale, egli stava quasi per risparmiare il nemico vinto,
quando si avvide che il re dei Rutuli indossava ancora il
cinturone strappato a Pallante dopo il duello fatale; nel
ricordo dell'amicizia che l'aveva legato al figlio di
Evandro, Enea non esitò più e affondò la spada nel petto di
Turno, ponendo così fine alla guerra e conquistando
definitivamente la mano di Lavinia.
① |
Secondo un'altra
tradizione più tarda, Antenore ebbe salva la vita perché
tradì i suoi compatrioti; per tale motivo Dante
Alighieri chiama «Antenora» il cerchio infernale dove
vengono puniti i traditori della patria. |
.
I discendenti di Enea
opo
la fine della guerra con i Rutuli (con la quale termina il
poema virgiliano, l'Eneide),
il figlio di Anchise si adoperò per riunire sotto una stessa
autorità i Troiani e le popolazioni aborigene affinché
diventassero un unico popolo: i Latini.
Di Enea si racconta che dal matrimonio con Lavinia ebbe un
altro figlio maschio, cui venne dato il nome di Ascanio
(l'altro figlio, nato dalla madre Creusa, fu il capostipite
della gens Iulia, una delle famiglie più importanti
dell'antica Roma; ne faceva parte anche il famoso Giulio
Cesare), e che in omaggio alla sua sposa fondò la città di
Lavinio.
Lo storico Tito Livio (che citeremo spesso nel corso di
questo capitolo) nella sua opera Ab
Urbe condita ci riferisce anche che il principe
dei Troiani perì durante uno scontro tra Latini ed Etruschi,
lasciando i figli ancora giovani.
Ascanio, il secondo figlio di Enea, dopo aver passato la
giovinezza sotto la tutela della madre Lavinia, una volta
giunto alla maggiore età decise di fondare una nuova città
sotto il monte Albano, cui venne dato il nome di Alba Longa;
si dice anche che tra la fondazione di Lavinio e la
costituzione della nuova colonia, secondo la tradizione,
trascorsero trent'anni. A quell'epoca venne sancita una pace
tra Etruschi e Latini e fu stabilito che il fiume Albula
diventasse il confine naturale tra i due popoli.
Alla morte di Ascanio, su Alba Longa regnò suo figlio
Silvio; quindi sul trono salirono Enea Silvio,
Alba, Ati, Capi, Capeto e
Tiberino, che annegò nel fiume Albula dandogli il
proprio nome.
Poi la città venne governata da Agrippa, da Romolo
Silvio – che perì colpito da un fulmine – e da
Aventino, che venne sepolto in quel colle che ancora
oggi porta il suo nome; in seguito regnò Proca, che
generò due figli maschi: Numitore e Amulio.
Secondo le volontà paterne, il trono sarebbe dovuto passare
a Numitore; riferisce però Tito Livio, cui lasciamo
volentieri la parola, che «la violenza valse più della
volontà del padre o della deferenza dovuta all'età. Esiliato
il fratello prese il potere Amulio, che aggiunse delitto a
delitto: egli eliminò la discendenza maschile di Numitore e
fece vestale la di lui figlia Rea Silvia; con la
scusa dell'onore, le venne tolta la speranza di generare
figli, con il vincolo di una verginità eterna» ①.
La vestale Rea Silvia, tuttavia, diede alla luce due figli;
forse perché era più decoroso ritenere un dio autore della
colpa, la paternità dei gemelli venne attribuita al dio Ares
(Marte).
Il crudele Amulio, a quel punto, ordinò che la sacerdotessa
venisse rinchiusa in prigione e che i figli fossero gettati
nelle acque del fiume Tevere; egli affidò quindi i bambini a
due schiavi, con l'ordine di metterli in una cesta, portarli
nella parte più alta del fiume e affidarli alla corrente.
|
Lupa Capitolina (✍
trad. V-III sec. a.C.; prob. XIII sec.) |
Musei Capitolini, Roma (Italia) |
A causa delle recenti piogge, il fiume era straripato ed
aveva allagato i campi circostanti, ragion per cui i due
schiavi abbandonarono i due neonati in uno degli stagni che
si erano formati, confidando che la corrente li trascinasse
facendoli annegare.
Il caso volle, tuttavia, che la cesta nella quale i gemelli
erano stati adagiati si arenasse in una pozza d'acqua sulla
riva, ai piedi di un albero di fico detto Ruminale.
Si racconta, a questo punto, che una lupa assetata, scesa
dai monti al fiume per abbeverarsi, fu attirata dai vagiti
dei due bambini, li raggiunse e si mise ad allattarli.
Di lì a poco un pastore di nome Faustolo scorse i due
fanciulli, ne ebbe pietà e li porto con sé, facendoli
allevare dalla moglie Acca Larenzia ②.
I bambini crebbero così nella capanna di Faustolo e di Acca
Larenzia e vennero chiamai Romolo e Remo. Sempre a sentire
Tito Livio, essi «irrobustitisi nel corpo e nello spirito,
non affrontavano solo le fiere, ma tendevano imboscate ai
banditi carichi di bottino. Dividevano il bottino delle
rapine con i pastori e dividevano con loro cose serie e
ludiche, mentre cresceva giorno dopo giorno il numero dei
giovani al loro seguito».
Si racconta che i due fratelli, un giorno furono assaliti
dai predoni, adirati per la perdita dei bottini più volte
perduti. Romolo si difese energicamente, ma Remo fu
catturato e condotto di fronte al re Amulio, con l'accusa di
aver compiuto numerose scorribande nelle terre di Numitore.
Remo venne quindi consegnato a Numitore perché lo punisse;
questi, mentre teneva in prigionia il giovane, venne a
sapere che aveva un fratello gemello; comparando la loro età
ed il carattere per nulla sottomesso, fu toccato nell'anima
e capì di trovarsi di fronte al nipote.
Nel frattempo, Faustolo (che aveva intuito da tempo che i
gemelli da lui salvati fossero i discendenti del re, esposti
alle insidie del fiume per ordine di Amulio), si era deciso
a raccontare a Romolo le sue vere origini. Romolo radunò,
pertanto, un gruppo consistente di compagni e si diresse da
Amulio; raggiunto da Remo, che era stato liberato dal nonno
e portava anche lui con sé una schiera di seguaci, i due
sobillarono le genti contro il crudele prozio. L'usurpatore
venne quindi ucciso e Numitore ritornò re di Alba Longa.
Romolo e Remo furono quindi presi dal desiderio di fondare
una città nei luoghi in cui erano stati esposti e poi
cresciuti.
Siccome i due erano gemelli e il rispetto per la
primogenitura non poteva funzionare come criterio selettivo,
Romolo e Remo ritennero che toccasse agli dèi del luogo
indicare, attraverso gli auspici, chi dovesse dare il nome
alla nuova città e regnarvi dopo la fondazione. Così, per
interpretare gli auspici divini, Romolo scelse il colle
Palatino e Remo l'Aventino.
La tradizione riferisce che, per primo, fu Remo a scorgere
sei avvoltoi (segno benaugurale), mentre Romolo ne scorse
subito dopo un numero doppio.
A quel punto, la folla si mise ad acclamare come sovrano
ciascuno dei due gemelli: alcuni ritenevano più importante
la priorità nel tempo del presagio, mentre altri ritenevano
più rilevante il numero degli uccelli intravisti; ne nacque
una zuffa, al termine della quale prevalsero i seguaci di
Romolo.
Secondo una leggenda assai diffusa, mentre Romolo stava
tracciando il solco delle future mura della città, Remo ne
scavalcò i confini in segno di scherno. Romolo, preso
dall'ira, avrebbe ucciso il fratello, gridando: — Così
patisca chiunque abbia ad oltrepassare le mie mura!
Romolo conquistò quindi il comando e diede il suo nome
(Roma) alla città appena fondata: era il giorno 21 aprile
del 753 a.C.
A questo punto la mitologia passa il testimone alla storia;
l'Autore ritiene di aver ultimato l'ambiziosa opera di
tradurre in un linguaggio semplice un'epopea che parte dal
dominio del cosmo per giungere alla fondazione della città
in cui è nato; non me ne voglia chi si è annoiato sfogliando
queste pagine che parlano di eventi trapassati e distanti;
mi auguro invece che il lettore più attento mi ricordi in
futuro tra coloro i quali lo hanno aiutato ad aprire un
piccolo spiraglio nella porta della curiosità; ai più
pazienti si chiederà ancora un piccolo sforzo per cercare di
scoprire cosa si nasconde dietro il mantello delle leggende
narrate sinora…
① |
Le Vestali, sacerdotesse
della dea Vesta, dovevano vigilare affinché il fuoco nel
tempio della dea continuasse ad ardere; per tradizione,
esse facevano voto di castità. |
② |
Secondo alcune
interpretazioni, la figura di Acca Larentia andrebbe
identificata con la «lupa», espressione che in latino
significa anche «prostituta». |
|
IV
OLTRE LA LEGGENDA
.
La città di Troia e il mondo ellenico
a
maggior parte delle leggende narrate sinora ruotano attorno
alla guerra di Troia, che culminò nel sacco della città da
parte degli Achei.
Per secoli, l'autenticità e la storicità del conflitto è
stata oggetto di discussione; la maggior parte degli Elleni
vissuti in età storica (dal VII sec. a.C. in poi) non
dubitava che gli avvenimenti narrati fossero autentici,
anche se non mancava chi (Tucidide) ritenesse che
l'importanza degli eventi fosse stata ingigantita a scopi
poetici.
In epoca moderna, invece, gli studiosi – che avevano a
disposizione solamente i poemi di Omero senza l'ausilio di
altre prove documentali o archeologiche – per lungo tempo
concordarono sul fatto che la guerra di Troia non fosse mai
accaduta, essendo unicamente il frutto di una mente
ingegnosa: un'eccezionale opera di pura fantasia, ma senza
alcun fondamento storico.
In questo contesto si inserisce la figura di un archeologo
dilettante, il tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890):
abile e spregiudicato commerciante, egli riuscì ad
accumulare una fortuna che gli permise, a soli quarant'anni,
di dedicarsi alla passione della sua vita: la ricerca
storica.
Nel 1870, Schliemann si recò nella Troade e concentrò i suoi
studi nella collina di Hisarlık, che – a suo giudizio – corrispondeva al luogo descritto da Omero come il sito della
città di Troia. L'intuizione si rivelò giusta; gli scavi da
lui diretti portarono alla luce i resti di una città
antichissima, i cui insediamenti si erano stratificati nel
tempo, uno sopra l'altro; era infatti molto diffusa, in
epoca antica, l'abitudine di ricostruire un centro urbano
dopo un evento catastrofico (un cataclisma o un conflitto)
edificando sopra i resti della vecchia città, che fungeva
così da fondamenta per le costruzioni successive.
Schliemann portò alla luce ben nove strati della città che
identificò con Troia; essendo a corto di una preparazione
scientifica (era pur sempre un dilettante), egli ritenne che
la città descritta da Omero coincidesse con lo strato più
basso e quindi più antico; per questo motivo, egli fece
scavare in maniera poco metodica, danneggiando gli strati
intermedi, fino a quando non scoprì quello che venne poi
chiamato il «tesoro di Priamo».
Nel 1876, seguendo lo stesso metodo, Schliemann portò alla
luce nel Peloponneso nord-orientale altri reperti; a Micene,
egli ritrovo una serie di tombe reali dislocate all'interno
di un doppio recinto di lastre di pietra, ricche di corredi
funerari e opere di oreficeria. Schliemann si convinse di
aver scoperto la tomba di Agamennone e di aver rinvenuto (in
quello che venne chiamato il «tesoro di Atreo») anche la
maschera di Agamennone.
|
Maschera funebre detta di Agamennone
(✍
1550-1500 a.C.) |
Museo Archeologico Nazionale [Ethnikó Archaiologikó
Mouseío], Atene (Grecia) |
In realtà, l'entusiasmo tradì la lucidità delle analisi del
dilettante studioso, che giunse spesso a conclusioni errate;
ricerche successive accertarono che le tombe scoperte a
Micene precedevano di alcuni decenni l'epopea degli Atridi,
mentre il «tesoro di Priamo» si riferiva ad un re vissuto
molti secoli prima della guerra di Troia cantata da Omero.
L'intuizione del geniale archeologo tedesco era, comunque,
giusta e gli studi successivi confermarono che la città
scoperta nella collina di Hissarlik era la Troia di Omero e
che il tesoro rinvenuto nel Peloponneso apparteneva ai re di
Micene.
Negli anni successivi, venne appurato che i primi
insediamenti nel sito risalivano addirittura all'età
neolitica e proseguivano sino all'epoca romana; i reperti
del secondo insediamento (quello, per intenderci, del c.d.
«tesoro di Priamo») si riferiscono ad una civiltà anatolica
che prosperò nel periodo che va dal 2600 a.C. al 2250 a.C.
La città di Troia corrispondente al sesto strato («Troia VI»,
1800-1300 a.C.) coincide con il periodo di massimo splendore
della città e ci rimanda al mondo descritto da Omero ①; essa
era munita di bastioni e la sua zona abitata occupava circa
venti chilometri quadrati. La città venne distrutta da un
terremoto, attestato dall'archeologia. Questa catastrofe
naturale potrebbe essere stata all'origine della leggenda
del cavallo di Troia (la statua costituiva forse un'offerta
a Poseidon, che era anche il dio dei terremoti); più
probabilmente, la Troia VI corrispondeva alla città che,
dopo una catastrofe naturale, era stata messa a ferro a
fuoco, creando così il mito di Laomedonte, del mostro marino
scatenato dal dio del mare e della conquista da parte di
Eracle.
La città venne poi caparbiamente ricostruita e tornò
all'antico splendore, per poi essere nuovamente saccheggiata
da invasori esterni dopo un assedio (evento anche questo
confermato dall'archeologia) ②.
Le conclusioni cui sono giunti gli archeologi sono state
suffragare anche dall'analisi di antichi testi provenienti
dall'Egitto e dal regno degli Ḫittiti, un popolo indoeuropeo
che fondò un impero in Asia Minore e raggiunse il suo
massimo splendore nel II millennio a.C., per poi sprofondare
completamente nell'oblio dopo la sua distruzione.
Negli archivi dell'impero ḫittita si parla di un regno di
Aḫḫiyawa (Acaia), che giace oltre il mare
(identificabile con l'Egeo) e controlla Milliwanda,
nome con cui è riconoscibile Mileto. Viene inoltre
menzionata la cosiddetta confederazione di Assuwa,
formata da 22 città, di cui fa parte anche Wilusa, la
Ilio (o Troia) omerica ③; l'identificazione di Wilusa
con Troia fu a lungo controversa ma guadagnò credibilità
quando venne scoperto un trattato risalente al 1280 a.C.,
nel quale il re della città è chiamato Alaksandu
(Alessandro è uno dei nomi con il quale Omero chiama
Paride).
È probabile dunque che la guerra contro Troia sarebbe stato
un conflitto sorto fra il re di Aḫḫiyawa e la
confederazione di Assuwa per il controllo di una rotta
commerciale strategica (questa interpretazione è stata
sostenuta anche perché l'intera guerra include lo sbarco in
Misia e le campagne di Achille e di Aiace Telamonio in
Tracia ed in Frigia, regioni che facevano parte della
confederazione di Assuwa).
La maggioranza degli studiosi oggi concorda sul fatto che la
guerra di Troia sia un fatto realmente accaduto; dubitano
però sul fatto che gli scritti di Omero narrino fedelmente
la vicenda.
Il fatto poi che la maggior parte degli eroi achei, tornati
dalla guerra, abbiano affrontato enormi difficoltà prima di
tornare in patria (alcuni fondarono colonie al di fuori
della penisola ellenica) viene interpretato come un eco dei
tumulti sorti alla fine di quell'epoca.
Nella seconda metà del XIII sec. a.C., infatti, tutta
l'Europa fu interessata da grandi movimenti migratori,
dovuti forse alla pressione di nomadi provenienti dal nord
(è un dato accertato, infatti, che a quell'epoca dei bruschi
cambiamenti climatici spinsero intere popolazioni a
spostarsi).
In questo periodo, a causa sia della spinta delle genti del
nord che dei periodi di carestia che si verificarono, nonché
a seguito della inondazione che devastò la Sardegna
costringendo una parte della popolazione autoctona (gli
Šardana) a migrare, il Mediterraneo fu sconvolto dalle
invasioni di una coalizione di predoni guerrieri noti come
«Popoli del Mare».
I Popoli del Mare ④ invasero la penisola ellenica, già
indebolita da guerre intestine, e cancellarono la civiltà
degli Achei (risparmiando solo Atene); quindi, proseguirono
verso l'Asia Minore, saccheggiando forse per l'ennesima
volta la città di Troia.
|
Il faraone Ramses III sconfigge i Popoli del Mare
(✍
XII sec. a.C.) |
Iscrizione di Madinat Hābū (particolare) |
In Asia Minore ai Popoli del Mare si aggiunsero anche una
massa di profughi che avevano abbandonato le loro terre a
causa delle precedenti invasioni e che le fonti chiamarono
Danuna (Danai), Akawasa (Achei) e Tjeker (Teucri).
Essi devastarono l'Anatolia, distruggendo l'impero ḫittita,
la Siria e Cipro e vennero fermati solamente dal faraone
d'Egitto Ramses III.
Dopo l'invasione del 1220, alcuni degli invasori tornano in
patria carichi di bottino, mentre altri si stabilirono nelle
terre conquistate: i Peleset (i Filistei della Bibbia,
per intenderci) si insediarono nel territorio che dal loro
nome verrà chiamata Palestina; altre popolazioni di invasori
si fusero con i Cananei dando origine alla civiltà dei
Fenici; secondo la tradizione, i Tereš (o Turša) e gli
Šardana si fermarono in Lidia (dove fondarono la città di
Sardi); in seguito, i Tereš (Tirreni) sbarcarono in Italia,
dando origine alla civiltà degli Etruschi ⑤.
E gli Elleni? A seguito dell'ultima invasione di popoli
provenienti da nord (i Dori, di origine indoeuropea), le
monarchie crollarono e i centri urbani vennero abbandonati.
Il potere si concentrò nelle mani delle aristocrazie rurali
dei nuovi dominatori, spesso in lotta tra di loro; di
quest'epoca buia (nota anche come «Medioevo ellenico») non
abbiamo a disposizione alcuna testimonianza, fatta eccezione
per i reperti archeologici, poiché in quel periodo anche
l'utilizzo della scrittura andò perduto.
La cultura e la civiltà greca tornarono poi alla ribalta
dopo oltre quattrocento anni di barbarie con la rinascita
delle arti figurative e l'invenzione della letteratura.
Nel VII-VI sec. a.C. fioriscono le póleis ⑥ greche e
si diffonde il poema epico, ispirato al passato eroico degli
Elleni: di questa produzione artistica, a noi contemporanei
sono giunti solamente l'Iliade e l'Odissea, attribuiti al
poeta Omero.
① |
I fondatori della città
erano, secondo Omero, i Dardani, popolo giunto dai
Balcani (di origine quindi indoeuropea). Ad essi,
probabilmente, si unì un gruppo di cretesi fuggiti dalla
loro isola; a conferma di ciò, si osserva che nei pressi
di Troia si trovava un monte chiamato Ida (nell'isola di
Creta sorge una montagna, sacra a Zeus, con lo stesso
nome). |
② |
Le evidenze archeologiche
hanno permesso di ricostruire la storia della città, che
qui riportiamo in modo sintetico:
- Troia I (3000-2600 a.C.): villaggio neolitico,
con ritrovamenti di utensili in pietra e di
abitazioni dalla struttura elementare.
- Troia II (2600-2250 a.C.): città con mura
caratterizzate da porte enormi, presenza del
mégaron (il salone principale del palazzo reale) e case in mattoni crudi
che recano segni di distruzione da incendio.
- Troia III-IV-V (2000-1800 a.C.): tre villaggi
distrutti ognuno dopo poco tempo dalla fondazione.
- Troia VI (1800-1300 a.C.): grande città a pianta
ellittica, fortificata da alte e spesse mura,
costituite da enormi blocchi di pietra squadrati e
levigati, con torri e porte. La distruzione della
città avvenne intorno alla metà del XIII secolo
a.C., forse a causa di un terremoto.
- Troia VIIa (1300-1170 a.C. ): la città fu
immediatamente ricostruita. I segni di distruzione
da incendio hanno indotto gli studiosi ad
identificare questo strato come quello
corrispondente alla Troia omerica.
- Troia VIIb-VIIb-VIIb (XII-X secolo a.C.).
- Troia VIII (VIII secolo a.C.): colonia greca
priva di fortificazioni.
- Troia IX (dall'età romana al IV secolo):
costruzioni romane edificate sulla sommità spianata
della collina.
|
③ |
Di questa confederazione
sappiamo che, pur essendo uno Stato vassallo degli
Ḫittiti, disertò dopo la battaglia di Qadeš combattuta
tra gli Egiziani e gli stessi Ḫittiti (1274 a.C.). |
④ |
La coalizione dei Popoli
del Mare comprendeva, oltre agli Šardana, i Lukka
(Lici), i Peleset (Filistei), i Libu (Libici), gli
Šekeleš (Sicani) e i Tereš o Turša, antenati dei Tirreni
o Etruschi; la radice del nome deriva forse da
tyrsenoí («costruttori di torri»): sarebbero quindi
discendenti del popolo che ha costruito i Nuraghi di
Sardegna. |
⑤ |
Queste interpretazioni
sono tratte principalmente dalle tesi dello studioso
Leonardo Melis. |
⑥ |
Pólis (plurale
póleis) è il nome dato alla città-stato nell'antica
Grecia. |
.
I poemi di Omero
a
Grecia classica ha trasmesso alle epoche successive i testi
dell'Iliade e dell'Odissea
che vengono considerati non solo un patrimonio della cultura
e della identità ellenica, ma anche un capolavoro assoluto
della letteratura universale.
Salvo rare eccezioni, gli eruditi antichi non dubitavano che
l'autore dei due poemi fosse Omero, ma sulla vita e l'epoca
dell'autore fornivano informazioni lacunose e spesso
contrastanti.
Ad aprire quella che fu poi nota nel mondo accademico come
la «questione omerica» furono studiosi come François Hédelin,
abate d'Aubignac, Giambattista Vico e soprattutto il
filologo tedesco Friedrich August Wolf, i quali misero in
discussione l'esistenza di un poema di nome Omero e
attribuirono l'opera a più generazioni di cantori popolari,
che avrebbero creato più episodi slegati tra di loro, in
seguito confluiti in un unico testo.
Ne nacque una lunga diatriba tra studiosi, divisi in due
correnti di pensiero: gli «unitari» (coloro i quali
attribuiscono ad un unico poeta la paternità di almeno una
delle due opere, se non di entrambe) e gli «analitici»
(coloro che disconoscono Omero come autore dei due poemi).
La questione omerica ebbe una svolta grazie agli studi di
Milman Parry, il quale partì dall'analisi del testo
linguistico dell'Iliade
e dell'Odissea per
evidenziare la esistenza di formule, appellativi e frasi
fatte nei due poemi, che vengono ripetuti in presenza di
situazioni identiche ①.
Tale modalità di narrazione, che appare inconcepibile per
l'artista moderno, costituiva invece la normalità in un
contesto culturale in cui l'uso della parola scritta per
comunicare costituiva l'eccezione e non la regola; forse,
solo comprendendo la cultura dell'oralità si può capire la
genesi dei poemi omerici.
In epoca micenea, verosimilmente, il poema in versi era
l'unico strumento per ricordare e celebrare le grandi
imprese del presente e del passato (la scrittura era, al
tempo, utilizzata principalmente utilizzata per la stesura
di documenti burocratici e non per fini letterari).
Gli antichi cantori (gli aedi) facevano probabilmente
parte della stessa classe dominante che intendeva
autocelebrarsi, come avvenne secoli dopo anche in epoca
medievale; illuminante, al riguardo, appare un frammento del
poema epico anglosassone Bēowulf,
redatto nell'VIII sec. (è opinione diffusa tra gli studiosi
che la genesi dei poemi medievali sia molto simile a quella
dell'epos dell'antica Grecia):
A volte un vassallo del re, un uomo
carico
di frasi superbe, di canzoni a memoria,
che rievocava a stormi lontane leggende
di ogni tipo possibile, inventava parole
nuove, legate a norma. Poi l'uomo prese a dire
dell'avventura di Bēowulf
con perizia e a comporre
rapidamente un racconto sapiente,
a variare le frasi...
Bēowulf
[-]
In seguito, la classe dei cantori cominciò a diventare una
vera e propria casta separata dai guerrieri (composta,
inizialmente, da quanti erano inabili alla guerra: Omero e i
poeti descritti nell'Odissea
sono ciechi o menomati), destinata a specializzarsi sempre
di più.
Quando la civiltà micenea fu costretta a soccombere, gran
parte dei depositari della cultura greca dovette riparare
nelle colonie dell'Asia Minore; i nuovi cantori (i rapsodi)
vissero in un'epoca in cui l'uso della scrittura era stato
ormai dimenticato ed in cui la comunicazione orale era
l'unico veicolo per la trasmissione dell'arte e della
cultura (intesa, in questo caso, soprattutto, come ricordo
delle ormai trascorse glorie del passato).
I rapsodi elaborarono quindi forme sempre più complesse e
raffinate di composizione; intere generazioni di cantori
trasmettevano da maestro e discepolo migliaia di versi da
imparare a memoria; essi comprendevano una discreta mole di
epiteti uniformi, che agevolavano sia l'apprendimento del
rapsodo, ma anche l'ascoltatore, il quale in presenza di
certi modelli riconosceva una determinata situazione o un
certo personaggio.
Poiché la recitazione del verso era affidata interamente
all'oralità ②, il singolo cantore faceva affidamento sia su
un patrimonio di frasi imparate a memoria, sia su una
capacità di improvvisazione, che contribuiva di volta in
volta ad arricchire e modificare le epopee narrate ③.
Quando il mondo ellenico risorse a nuova vita con la
riscoperta della scrittura, il patrimonio della poesia epica
aveva raggiunto una notevole complessità ed era ormai
diventato patrimonio comune della penisola greca, grazie
anche all'opera dei rapsodi, che avevano ormai lasciato le
corti per frequentare anche le feste religiose e popolari.
L'origine micenea dei poemi si era stratificata con secoli e
secoli di elaborazione successiva. Nella totale ignoranza
del senso della prospettiva storica, ogni poeta aveva
aggiunto al nucleo originario il proprio contributo, così
che ogni epopea conteneva versi ed episodi frutto della
fantasia di epoche diverse ④, rendendo impossibile per lo
storico e l'erudito comprendere a quale periodo appartenga
ciascun apporto, così come risulta arduo stabilire la mano
di un pittore in un affresco medievale, rimaneggiato e
modificato più volte ⑤.
Un lungo lasso di tempo (dal fiorire della civiltà micenea
sino almeno all'VIII sec. a.C.) separò dunque gli eventi
descritti nella guerra di Troia dalla stesura dei due poemi.
È assai probabile che la poesia epica abbia riunificato in
un unico épos letterario tutte le guerre avvenute nel corso
del II millennio a.C. tra Greci e Troiani (l'archeologia ne
ha documentate almeno tre, come abbiamo visto).
Nello stesso periodo in cui i Greci adottarono la scrittura
alfabetica, un poeta (o un gruppo di poeti) si preoccupò di
selezionare, ordinare, rielaborare e infine fissare su
papiro in forma coerente ed unitaria la gran massa di storie
circolanti sulla guerra avvenuta cinque secoli prima e sulle
disavventure occorse ai protagonisti principali dopo la
caduta della città.
Un'ulteriore stesura in forma scritta avvenne per ordine
del tiranno Pisistrato di Atene (VI sec. a. C.); i redattori
incaricati tuttavia non si astennero dall'effettuare
ulteriori rielaborazioni ed aggiunte, come nel caso ad
esempio di un capitolo dell'Iliade (libro X), dove si parla
della spia troiana Dolone scoperta e uccisa da Odisseo e
Diomede.
Ma le manomissioni del testo non cessarono nemmeno dopo tale
data e nel corso dei secoli successivi diversi critici e
letterati rimaneggiarono più volte i due poemi. Si ritiene
che solo negli ultimi due secoli prima dell'era cristiana
venne fissata la versione che possiamo leggere ancora oggi.
E nonostante secoli di riedizioni, correzioni e
rielaborazioni varie, tanto l'Iliade quanto l'Odissea
risultano ancora pieni di incoerenze, contraddizioni ed
anacronismi geografici e temporali ⑥.
Alla luce di quanto sopra illustrato, è evidente che
la questione relativa all'esistenza di un poeta di nome Omero
diventa secondaria.
L'apporto creativo di uno o più artisti principali alla
stesura definitiva dei poemi è indubbia (anche se i critici
non escludono interpolazioni successive); certo è che Omero
o chi per lui non arrivò a comporre l'Iliade o
l'Odissea
avvalendosi unicamente della propria creatività individuale,
ma attinse ad un patrimonio preesistente, frutto della
tradizione orale degli aedi e dei rapsodi, che si era
stratificata da secoli.
Solamente in quest'ottica è possibile considerare l'epopea
come «poesia ereditaria», che sta nel mezzo fra la libera
poesia d'arte e la poesia popolare ligia alla tradizione.
Ed è proprio questa tipologia di poesia e di creatività,
inconcepibile per una idea di arte ispirata ai canoni
moderni, che ha prodotto alcuni tra i capolavori indiscussi
dell'arte universale, capaci di far sognare ancora oggi
intere generazioni di lettori e appassionati.
① |
Tipico della poesia
omerica è, ad esempio, il ripetersi della formula
Êmos d' ērigéneia phánē rhododáktylos Ēṓs («Quando
apparve l'Aurora dalle dita rosee»), che accompagna il
sorgere del sole. |
② |
Gli aedi e i rapsodi erano
soliti accompagnarsi con uno strumento musicale e dare
al verso una cadenza ritmica che ne agevolava
l'apprendimento e la recitazione. |
③ |
«I cantori usavano questi
espedienti formulari per comporre a mente, senza il
supporto della scrittura, lunghi poemi che quando poi
erano recitati in pubblico venivano ogni volta ricreati
con una combinazione di memoria, di improvvisazione e di
impiego accorto di frasi fatte prefabbricate»
(Griffin 1982). Si tratta
di un fenomeno molto più spontaneo di quanto possa
apparire a prima lettura: anche ai giorni nostri può
capitare che, dopo aver letto una fiaba per i nostri
figli o nipoti, ci venga chiesto di raccontarla
nuovamente senza il testo davanti; in tal caso, il
narratore si sente libero di integrare la storia con
particolari che contribuiscano a rendere più
interessante la storia, pur rimanendo fedele alla
struttura fondamentale del racconto. La genesi del poema
epico deriva proprio da un fenomeno analogo a quello
descritto, elaborato nel corso di secoli e secoli. |
④ |
Non è inutile osservare
come la guerra di Troia venga descritta principalmente
come una battaglia in campo aperto, come doveva
normalmente avvenire tra clan confinanti nel Medioevo
ellenico, mentre per la presa di una città ci si
aspetterebbe soprattutto una guerra d'assedio. |
⑤ |
Per citare le parole di un
illustre studioso: «L'età micenea e stata individuata
nelle sue caratteristiche solo nella nostra epoca; il
poeta credeva dunque di cantare il passato eroico del
suo stesso mondo, del mondo greco: un passato che egli
conosceva attraverso la trasmissione orale dei cantori
che l'avevano preceduto. La materia grezza dei poemi era
perciò quella massa di formule e di episodi che,
passando attraverso generazioni di cantori, avevano
subito una serie di mutamenti, in parte per iniziative
dei poeti […] in parte per indifferenza nei riguardi
dell'esattezza storica. A queste si aggiungevano gli
errori inevitabili di un'epoca priva di scrittura come
quella che segui la fine della civiltà micenea. [...].
Non si può dubitare che nell'Iliade e nell'Odissea vi
sia un nucleo «miceneo», ma si tratta di un piccolo
nucleo, che per giunta e stato deformato sino ad essere
quasi irriconoscibile» (Finley
1978). |
⑥ |
A titolo meramente
esemplificativo: nell'Iliade
il guerriero Plymene viene ucciso nel Libro V, salvo poi
piangere il figlio morto nel Libro XIII; il muro degli
Achei viene ora descritto, ora ignorato da Omero; nel
corso di un notte, Odisseo cena per ben tre volte (Libri
IX-X); durante una ambasceria ad Achille, la delegazione
appare composta ora di due, ora di tre persone. |
|
Bibliografia
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sviluppo della città (Il medioevo greco). Bompiani, Milano. 1989.
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La misteriosa storia di Troia. Newton &
Compton, Roma 2004.
- CERRI Giovanni [cura]: OMERO, Iliade.
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Il mondo di Odisseo. Laterza, Bari, 1978.
- FRAU Sergio, Le Colonne d’Ercole. Nur
Neon, Roma 2002.
- GRIFFIN Jasper, Homer. Oxford University
Press, Oxford 1980. → I., Omero.
Dall'Oglio, Varese 1982.
- GRIMM Jacob ~ GRIMM Wilhelm, Kinder- und
Hausmärchen. 1857. → I., Fiabe del focolare.
Einaudi, Milano 1951
- HAUSER Arnold, Sozialgeschichte der Kunst und
Literatur. Monaco 1951. → I., Storia sociale dell'arte.
Einaudi, Torino 1983.
- LATACZ Joachim: Homer. Der erste Dichter des
Abendland. 1985.
→ I.,
Omero. Il primo poeta dell'occidente.
Laterza, Bari 1998.
- MONTI Vicenzo [traduzione]: Omero, Iliade.
1825.
- MORPURGO Giuseppe, Le favole antiche. Petrini,
Torino 1953.
- SCHWAB Gustav, Sagen des Klassischen Altertums.
1882.
- STRAUSS Barry, The Trojan War. A New History.
Simon & Schuster, New York 2006.
→ I., La
guerra di Troia. Laterza, Bari 2007.
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