MITI

ALTAICI
Altai

MITI ALTAICI
QAYRA QAN & ÄRLIK QAN
SCENE DA UNA CREAZIONE DUALISTA
I miti cosmogonici e antropogonici, tra i popoli altaici, vedono due protagonisti contendersi il diritto di dare forma alla terraferma e assumersi la potestà dei primi uomini. Il dio-cielo Täŋärä Qayra Qan e il signore infero Ärlik Qan si oppongono l'uno all'altro per il dominio del mondo e delle anime umane
1 - CREAZIONE DI KIŞI

rima che il cielo e la terra fossero, tutto era acqua. Da nessuna parte si stendeva la terraferma, e in alto il cielo ancora non esisteva. Non c'erano né la luna né il sole. Un oceano sconfinato riempiva l'universo. Allora Täŋärä Qayra Qan, il più alto degli dèi, principio di tutto ciò esiste, creò un essere simile a lui, che gli fosse compagno, e lo chiamò Kişi «uomo».

2 - GEOGONIA CON OCHE NERE

Le due oche nere. Kişi riemerge recando il fango ( 1995)
Nilesh Mistry, illustrazione (Philip 1995)

äŋärä Qayra Qan e Kişi aleggiavano silenziosamente sulla superficie delle acque, come due oche nere. Tutto era silenzio, pace, ma Kişi non era soddisfatto. Egli sentiva l'ambizione di compiere grandi opere: e innanzitutto si sentiva superiore a Qayra Qan.

A causa della superbia, Kişi perse la capacità di volare e precipitò nelle acque. Sentendosi sul punto di annegare, pieno di angoscia, chiese l'aiuto di Täŋärä Qayra Qan. Il misericordioso signore del cielo ordinò a una pietra di salire in superficie e vi depose sopra a sedere Kişi.

Perché l'uomo non poteva volare, Täŋärä Qayra Qan comprese che bisognava creare una superficie su cui gli esseri umani potesse vivere e camminare.

Si rivolse a Kişi: — Immergiti e vedi se c'è della terra sul fondo delle acque.

Kişi si tuffò e, dopo un po', risalì alla superficie, recandogli una manciata di fango. Täŋärä Qayra Qan lo raccolse e lo distese sulla superficie delle acque, creando la terraferma. Ordinò poi a Kişi di immergersi di nuovo. Kişi obbedì. Raccolse altro fango tra le mani ma un po' lo nascose in bocca, con la segreta intenzione di crearsi una terra tutta sua. Ma quando, ricevuto il fango, Qayra Qan distese un nuovo tratto di terraferma, anche il fango nella bocca di Kişi cominciò a gonfiarsi e minacciò di soffocarlo.

Kişi sputò il fango sulla terra appena creata, formando le paludi. Bay Ülgän comprese l'inganno che aveva ordito, e gli disse: — Tu hai peccato, e le tue opere saranno malvagie. Le mie invece saranno grandi e sante, esse vedranno il sole e la luce. Io sarò chiamato Qurbïstan, il creatore. Tu invece sarai chiamato Ärlik, e sarai bandito dal mondo della luce.

3 - LA RICHIESTA DI ÄRLIK

Maledetto da Täŋärä Qayra Qan e bandito dal mondo, Kişi piantò a terra il proprio bastone.

— Lasciami almeno un pezzo di terra non più grande di quello coperto dalla punta di questo bastone.

Täŋärä Qayra Qan acconsentì. Ridendo Kişi scomparve subito nel foro formato dal bastone, appropriandosi così di tutto ciò che si trovava sotto la superficie della terra. Da quel giorno egli sarebbe stato Ärlik Qan, signore del mondo infero.

4 - ANTROPOGONIA CON CANE INFEDELE

Ärlik Qan insuffla la vita nei primi esseri umani ( 1995)
Nilesh Mistry, illustrazione (Philip 1995)

reata la terraferma, Bay Ülgän diede forma ad altri esseri umani, ricavando la carne dalla terra e le ossa dalle pietre. Poi risalì al terzo cielo per attingere le loro anime nel lago di latte Süt-aq-Köl, ma non prima di aver lasciato un cane a guardia delle sue creature.

Ma il cane era nudo, privo di pelo, e tremava freddo. Si avvicinò allora Ärlik Qan e gli promise in dono una pelliccia se avesse abbandonato la custodia dei corpi. Il cane si lasciò corrompere e Ärlik, dopo avergli dato da leccare il proprio sputo, gli fece crescere addosso un bel manto di pelo. Dopo di che, Ärlik animò gli uomini, insufflandogli la vita con una canna.

Per tale ragione è Ärlik Qan, e non Qayra Qan, il padre del genere umano.

Quando Täŋärä Qayra Qan tornò dal cielo, si avvide di quanto era accaduto. Il suo primo impulso fu quello di distruggere gli uomini, animati dallo spirito malevolo di Ärlik, ma una rana lo vide intento a riflettere e gli disse di non preoccuparsi: — Se vivono, lasciali vivere. Se muoiono, lasciali morire. — Fu così che Bay Ülgän lasciò vivere gli uomini da lui creati, sebbene il contatto con Ärlik Qan li avrebbe inevitabilmente condotti alla morte.

Altri dicono ancora che Ärlik leccò il corpo dell'uomo, rendendolo immondo con la proprio saliva. Bay Ülgän riparò al malfatto volgendo all'interno la parte sudicia, e questa è la ragione per cui gli intestini umani contengono immondizia e saliva. In quanto al cane, Bay Ülgän lo maledisse. D'allora in poi sarebbe stato condannato a fare la guardia per il genere umano e avrebbe sempre vissuto fuori al freddo. E se veniva trattato male dagli uomini era solo colpa sua.

5 - MAITÄRÄ CREA LA DONNA

Il mito di creazione in Siberia ( ?)
Autore non identificato

lcuni dicono che, in principio, Täŋärä Qayra Qan creò sette esseri umani, e poi creò sette alberi, ciascuno corrispondente a una persona.

Poi Qayra Qan creò un ottavo uomo, e lo portò sulla cima aurea del monte Sürö, dove si ergeva il grande albero cosmico Altï Bürlü Bay Tärä. E lì collocò quest'ultimo uomo, Maitärä.

Tornato dopo sette anni, Täŋärä Qayra Qan si accorse che, mentre ogni albero aveva messo sette rami, gli uomini non si erano ancora riprodotti. Maitärä gli fece candidamente notare che essi erano impossibilitati a generare dei figli, non avendo delle compagne con cui accoppiarsi. Gli chiese il permesso di foggiare lui stesso la femmina della specie umana, e Qayra Qan gli diede il suo consenso.

Così Maitärä scese dal monte Sürö, plasmò la prima donna e tornò in cielo per cercare lo spirito di vita. Ma di nuovo sopraggiunse Ärlik Qan, e soffiò nelle narici della femmina con un flauto a sette suoni e suonò nel suo orecchio con un liuto a nove corde. E questa è l'origine dei sette capricci e dei nove umori delle donne. Quando Maitärä tornò, comprese che la natura femminile era stata ormai corrotta da Ärlik Qan e non avrebbe mai più essere ripristinata.

Per questo motivo, tre dei sette uomini si rifiutarono di unirsi alla donna e, salita la montagna, cercarono ricovero e conforto presso Maitärä. Gli altri quattro restarono sulla terra, e fu da loro che nacquero le stirpi umane.

6 - TÄŊÄRÄ QAYRA QAN ABBANDONA IL MONDO

Täŋärä Qayra Qan e Ärlik Qan si contendono la potestà sugli uomini
Autore non identificato, illustrazione

ltri dicono che furono nove, non sette, i primi esseri umani creati da Täŋärä Qayra Qan, ciascuno per ciascun ramo del grande albero Altï Bürlü Bay Tärä. Essi erano destinati ad essere i progenitori dei nove popoli che ancora oggi abitano il mondo.

Ärlik Qan vide che gli esseri umani erano inclini al bene, fu preso da invidia e chiese a Qayra Qan di affidargli la potestà delle nuove creature. Qayra Qan acconsentì, ma quando si avvide con quale e quanta facilità Ärlik riusciva a corrompere le sue creature e a trascinarle sulla via del male, ne rimase grandemente deluso.

Gli uomini erano talmente stolti che non meritavano la sua benevolenza. Perciò Täŋärä Qayra Qan sovrappose diciassette taptï al di sopra del cielo e sul più alto stabilì la sua residenza, lontanissimo dal mondo e dagli uomini. Ad altri dèi e spiriti lasciò i cieli inferiori, affinché amministrassero l'universo in suo vece. Presso gli uomini lasciò però, quale maestro e custode, il saggio Maytärä.

7 - ÄRLIK ROVESCIATO DAL CIELO

Ärlik Qan esiliato nel Paşka Çär
Autore non identificato, illustrazione

Come Ärlik Qan vide i meravigliosi regni celesti innalzati da Täŋärä Qayra Qan, felicemente abitati dai suoi divini figli, decise di costruire anche per sé stesso un simile paradiso. Ottenuto il permesso da Qayra Qan, costruì un taptï per lui e per i propri figli, i corrotti spiriti del male.

Qayra Qan vide che le genti di Ärlik vivevano immeritatamente bene, rispetto alle tristi condizioni in cui versavano gli uomini sulla terra, Allora chiamò l'eroe Mandïşirä affinché abbattesse il taptï di Ärlik. Sotto i possenti colpi di lancia di Mandïşirä, il cielo rimbombò, venne frantumato e i suoi pezzi precipitarono sulla terra. È questa la ragione per cui la superficie della terra, fino ad allora liscia e regolare, si riempì di montagne invalicabili e profonde gole, e impenetrabili boschi crebbero lungo i sentieri.

In quanto ad Ärlik Qan, venne cacciato nel Paşka Çär, nel più profondo pūdak dell'universo, dove non penetra né luna né sole, dove nemmeno arriva la luce delle stelle, e là Qayra Qan gli ordinò di rimanere fino alla fine del mondo, quale giudice e sovrano delle anime dei morti.

Fonti

1-6 Miti altai raccolti da Vasilij Vasil'evič Radlov (Radlov 1897)

I - LE PERPLESSITÀ DELLA COSMOGONIA ALTAICA

Siamo poco e male informati sulle antiche cosmogonie altaiche, tanto che l'altaista Jean-Paul Roux ha dovuto osservare, tristemente, che non si possa trarre altra conclusione che i popoli altaici si siano quasi del tutto disinteressati alla formazione dell'universo (Roux 1984). Una affrettata quanto affascinante genesi altaica è accennata in una delle iscrizioni dell'Orxon:

ÜZE KÖK TŊRI SRA YGZ YR KILNDUKDA KIN RA KIŞI OGLI KILNM KIŞI OGLNDA ÜZE ÇIM PAM BUMN KGN ISTMI KGN OLRMŞ OLRPN TÜRK BODNŊ ILIN TÖRÜSIN TUTA BIRMŞ ITI BIRMŞ

Öze kök teŋіri asïra yağïz yer qïlïntaquda ekin ara kişi oğulï qïlïnmïs kişi oğulïnta öze eçüm apam Bumïn qağan Estemi qağan olurmïş olurupan Türük budunïğ Elin törüsün tuta bermis iti bermis.

Quando furono formati il cielo azzurro in alto e in basso la terra bruna, l'uomo [Kişi] fu formato tra di essi. Sugli esseri umani, regnarono i miei antenati, Bumïn qağan ed Istemi qağan. Li governarono con le leggi dei Türük, li guidarono ed ebbero successo.
Xöšȫ Cajdam > Iscrizione di Kül Tiğin [I: 1]

I primi studiosi, cercando inconsciamente di estendere ai popoli altaici le stesse concezioni della creatio ex nihilo tardivamente sviluppate in occidente, avevano inizialmente tradotto il verbo qïl- con «creare» («quando furono creati...», «l'uomo fu creato...»). In realtà, come sottolineò René Giraud alla fine degli anni '30, la forma verbale utilizzata, un passivo riflessivo, non permetteva di definire il senso sicuro di quel verbo qïl-, che più che «creare» è «fare, formare, plasmare» (Giraud 1939 | Roux 1984). Più che di un creatore, dunque, conviene parlare di un demiurgo che dà forma alla materia caotica e conferisce un ordine all'universo.

Jean-Paul Roux non nasconde tuttavia la sua perplessità: la mancanza di interesse dei popoli altaici di fronte ai miti di creazione dipende forse dal fatto che essi avessero preliminarmente rinunciato a una spiegazione del mondo, accettando l'universo come qualcosa di increato? Alcune tradizioni registrate presso i Saxa suggeriscono che essi credessero che il mondo esista da sempre; analogamente, in epoca mongola il cielo veniva definito köke möŋke «azzurro eterno» (cfr. altai kögö möŋkö), sebbene possa sempre trattarsi di un'idea di indefinita durevolezza, non di una concezione ontologica. (Roux 1984 | Roux 1990)

Il problema è che – fatta eccezione per la genesi dell'Orxon – non possiamo risalire a epoche troppo remote. La maggior parte dei miti cosmogonici dei popoli dell'Asia centro-settentrionale sono stati raccolti dagli etnologi nel corso delle loro spedizioni. Non esistono in questo caso fonti «primarie», cioè elaborate direttamente nell'ambito della cultura di riferimento, e gli studiosi fanno riferimento perlopiù ai rilievi del russo Vasilij Vasil'evič Radlov (Friedrich Wilhelm Radloff, 1837-1918) e del finlandese Uno Holmberg-Harva (1882-1949). Dalle osservazioni di questi e altri ricercatori è venuta alla luce una vasta serie di cosmogonie tra loro concorrenti, di cui non è sempre facile definirne gli schemi o rintracciarne l'origine. Si possono accertare motivi di origine cristiana, iranica o buddhista, ma rimangono elementi dagli sconcertanti tratti arcaici, assenti nei contesti delle religioni «importate».

È forse troppo radicale la tesi sostenuta da Uno Harva, secondo la quale nessuno dei miti cosmogonici registrati al di qua e al di là degli Urali possa essere detto autoctono, tranne forse la leggenda saxa secondo la quale l'universo sia esistito da sempre. Ma sebbene sia indubitabilmente complicato stabilire come e dove certi mitemi si siano formati, quali vie abbiano seguito e con quali tempistiche abbiano potuto diffondersi in un'area tanto vasta, nondimeno si può cercare di isolare e analizzare i singoli motivi e cercare di capire la loro origine e provenienza.

II - CONFRONTO DUALISTICO TRA IL DEMIURGO E IL SUO AVVERSARIO

La principale costante dei miti cosmogonici dell'Asia centro-settentrionale è la presenza di un oceano primordiale: l'universo prima della creazione è concepito come un'infinita, sconfinata distesa liquida. In proposito si è parlato di un motivo di origine indiana, passato ai popoli altaici attraverso la mediazione buddhistico-mahāyāṇica; ed è attestata presso i Calmucchi una variante del mito indiano dell'Amṛtamanthana (Harva 1938 | Eliade 1950). Ma pur non negando che la mitologia altaica abbia subito nel corso della loro storia profonde influenze iraniche, indiane, cinesi, etc., rimane il fatto che l'idea del cháos liquido è remotissima, attestata in Mesopotamia, in Egitto, in Grecia, nella Bǝrēʾšîṯ biblica, nonché presente nelle mitologie di tutto il mondo ①. Non possiamo escludere che un mitema così antico e pervasivo non possa essere stato conosciuto da tempo immemorabile anche presso le popolazioni proto-asiatiche.

Abbiamo dunque, uno cháos originario costituito da un oceano primordiale. Il processo creativo, in tale contesto, si configura come formazione di un tratto di terraferma che garantisca un ordine cosmico e funga da sostegno al mondo che conosciamo. La materia prima viene recuperata sotto forma di fango dal fondo delle acque e opportunamente plasmata in modo da ricoprire parte dell'oceano con uno strato di terra emersa. Un dato caratteristico di questi miti cosmogonici è che la nascita del mondo viene solitamente espressa come risultato del confronto di due principi opposti e complementari.

Esemplificativi, i miti altai registrati da Radlov alla fine dell'Ottocento, alcuni dei quali sono stati resi noti soprattutto grazie all'opera di Mircea Eliade. I personaggi sono generalmente un «dio» celeste (a seconda dei testi, Täŋärä Qayra Qan o Bay Ülgän) e il primo «uomo» (Kişi). In una versione conosciuta in tutto l'Altai, al principio dei tempi «dio» crea per prima cosa l'«uomo», poi li vediamo entrambi volare sull'oceano primordiale in forma di oche nere. Ma l'«uomo», sentendosi superiore a «dio», precipita in acqua e rischia di annegare. «Dio» lo recupera, fa uscire una pietra dal fondo del mare, vi fa sedere sopra l'«uomo». Dopo di che gli chiede di immergersi per cercare della terra. L'«uomo» gli riporta il fango in una mano. «Dio» lo distende sulla superficie del mare, creando un primo tratto di terraferma. Ordina poi all'«uomo» di immergersi ancora per portare altro fango. Questi obbedisce, ma ne nasconde un poco in bocca, con l'intenzione di creare per sé una propria terra. Ma quando «dio» lo distende per farne dell'altra terraferma, il fango nella bocca dell'«uomo» si gonfia e minaccia di soffocarlo. L'«uomo» sputa il fango che viene a formare, sulla terraferma appena creata, paludi e gobbe di muschio. (Radlov 1893 | Eliade 1961 | Di Nola 1970 | Eliade 1976). A questo punto, «dio» maledice l'«uomo» e i due si dividono le proprie sfere di influenza: il primo sarà Qurbïstan, e regnerà dall'alto del cielo, l'altro sarà Ärlik Qan, e sarà bandito nel buio del sottosuolo. In questa identificazione tra il primo uomo e il signore degli inferi, Eliade scorge un riferimento a un mitema di origine iranica o indiana (ad es. il destino di Yama nel mito vedico) (Eliade 1961 | Eliade 1976).

Nella variante degli Altai-kiži, il contrasto tra i due antagonisti è ugualmente marcato. Qui, «dio» scende sull'oceano primordiale per creare la terraferma, ma non sa come fare. A questo punto si avvicina l'«uomo». “Chi sei?” gli chiede «dio». “Io sono qui per creare la terra” risponde l'altro. “Se non so io come fare, come potresti saperlo tu?” si irrita «dio». “Eppure io saprei trovare il materiale necessario” ribatte l'«uomo». Allora «dio» lo invia sul fondo del mare. L'«uomo» si immerge e, giunto a una montagna sottomarina, ne stacca un pezzo tra i denti e risale in superficie. Consegna la materia a «dio», il quale la stende sull'oceano e crea la piatta distesa della terraferma. Tuttavia, l'«uomo», che ha tenuto segretamente in bocca parte della materia, la sputa tra i denti e crea così le montagne, le forre e le imperfezioni del paesaggio. A questo punto l'«uomo» chiede per sé tanta terra quanta potrebbe essere coperta dalla punta del suo bastone e, ottenutala, si introduce nel foro così formato e scompare, lasciando intendere che sia divenuto Ärlik Qan. (Radlov 1893 | Eliade 1961 | Di Nola 1970)

Nella versione dei Saxa, Ürüŋ Ay Toyon, mentre avanza sopra le acque dell'oceano primordiale, vede emergere una bolla, le chiede chi sia e, dalla risposta, apprende che essa è il «diavolo», dimorante nella terra, ancora sommersa dalle acque. Ürüŋ Ay Toyon sfida il «diavolo» a dimostrargli la verità di quanto asserisce e lo invita a immergersi e a portargli un poco di terra dal fondale. Il «diavolo» risale dal fondo con un pezzo di terra in bocca, che Ürüŋ Ay Toyon assottiglia e stende sulla superficie delle acque. Il «diavolo» tenta, allora, di distruggere l'opera compiuta e tira da ogni lato la terra, per farla sempre più sottile e provocare l'annegamento di Ürüŋ Ay Toyon. Ma la terra, distendendosi, diviene invece sempre più solida e copre una parte della superficie del mare (Di Nola 1970). Sempre presso i Saxa, una variante cristianizzata ne tradisce l'origine ortodossa o bogomila: protagonisti sono qui Satan e suo fratello maggiore Īsus Xristos. Xristos sfida Satan, che ha l'aspetto di una rondine, a portargli la terra che è sotto l'acqua, e questi vi riesce soltanto dopo la terza immersione. Xristos, con il fango recatogli dalla rondine-Satan, forma la terra, liscia e piatta. Indi si accorge che Satan ha nascosto in gola un frammento di fango, con l'intenzione di creare un'altra terraferma. Gli dà un colpo sul collo: Satan sputa il frammento e da questo vengono a formarsi le montagne e le irregolarità del terreno. (Di Nola 1970)

Nel mito burjato, Sombol Burxan, sceso dal cielo, incontra Šolmo, il «diavolo», che si offre di portare a galla dal fondo dell'oceano primordiale la materia necessaria alla creazione della terra. Una volta ricevutala, il dio la benedice e forma il mondo. Ma, richiestone da Šolmo, gli concede un pezzetto di terra, in cui questo pianta il suo bastone facendone uscire i serpenti e tutti gli altri rettili, inquinando così la creazione. Una versione analoga, che Eliade ha tratto dai rilievi dell'etnografo russo Grigorij Nikolaevič Potanin (1835-1920), ha per protagonisti il burxan Očirvānï (versione mongola del bellicoso bodhisattva Vajrapāṇi ) e lo spirito maligno Šolmus. (Eliade 1976)

Concludendo, la cosmologia altaica si avvia per processo di interazione tra due esseri: uno ordinatore e l'altro disorganizzatore. Il dio ordinatore non può prescindere in ogni caso dall'intervento del suo antagonista, che si concreta costantemente nel recupero di un frammento di terra sommerso. Il confronto tra due principi tanto opposti racchiude in un unico mito sia la creazione del mondo sia la ragione delle sue imperfezioni. Le montagne e le paludi erano infatti considerate un «difetto» della creazione in quanto, interrompendo la regolarità della superficie terrestre, impedivano la libera circolazione delle genti nomadi. Nello stesso mito è anche presente la scissione dicotomica tra i due principi regolatori dell'universo: il dio-cielo, che garantisce l'ordine cosmico, e il signore degli inferi, che è la causa del disordine e dell'imperfezione.

Gli studiosi sono convinti che il dualismo presente nella cosmogonia altaica, rappresentato dalla compresenza del creatore e del suo antagonista («uomo», «diavolo», etc.), derivi da un qualche prestito culturale, ma non sono stati in grado di stabilirne con certezza l'origine e i tramiti di diffusione. Si è naturalmente pensato all'azione religiosa dei coloni russi che si sono stanziati nel territorio siberiano, sebbene in tal caso il tema dualistico sarebbe troppo recente per presentare una diffusione tanto capillare e tenace. Gli studiosi hanno esaminato le varie correnti dualistiche che, in epoca ben più remota, hanno attraversato l'Asia centrale per irradiarsi in quella settentrionale: Aleksandr Nikolaevič Veselovskij ha insistito sulla rilevanza della componente dualistica nella sette dei Bogomili, presente in alcune versioni del mito di creazione (Veselovskij 1890); Mykola Sumcov ha ipotizzato la presenza di componenti zoroastriane o zǝrvanistiche, arrivate attraverso il Manicheismo iranico o cinese; Oskar Dänhardt ha pensato all'influenza di sette gnostiche siriache e armene (Dänhardt 1907). I nomi di Maŋdïşirä e Maitärä rivelano inoltre rapporti con il buddhismo mahāyāṇico, trattandosi delle versioni altaizzate dei bodhisattva Mañjuśrī e Maitreya. (Di Nola 1970 | Sagaster 1987).

Ma sebbene miti e personaggi presentino evidenti segnali di inquinamento culturale (la trasformazione di «dio» e del «diavolo» in Xristos e Satan presso i Saxa è un caso emblematico), il rapporto tra i due protagonisti sembra ben lontano dal generare un'opposizione di stampo manicheo. L'antagonista non è mai inteso come un elemento distruttivo, un ostacolo alla creazione, ma piuttosto come un necessario elemento dialettico per la continuità e l'evoluzione del mondo.

Detto questo, il problema dell'origine del dualismo altaico rimane non soltanto insoluto, ma anche ulteriormente complicato dalla presenza di altri influssi, come ora vedremo.

III - IL MOTIVO DELL'«UCCELLO PESCATORE»

Un particolare interessante è che in alcuni dei miti sopra riportati compaiono immagini di uccelli. Nel mito altai, ad esempio, sia «dio» che l'«uomo» compaiono all'inizio sotto forma di oche nere (ed è solo alla fine del racconto che sembrano assumere la loro identità); nel mito saxa il «diavolo» compare in forma di rondine. Sono attestati molti casi in cui l'antagonista di «dio» ha un aspetto ornitomorfo. Questo dettaglio, come vedremo, tradisce la presenza di un substrato mitico assai più antico.

Secondo un mito registrato da Radlov presso i Tatari Lebedini, «dio» invia un cigno bianco a recuperare la terra sul fondale dell'oceano; l'uccello si tuffa e torna con un po' di fango nel becco. Allora «dio» manda un altro uccello, e con la materia che questi riporta, può innalzare le montagne. Solo più tardi si presenta il «diavolo» che compone le paludi. (Radlov 1893 | Eliade 1961 | Di Nola 1970). Nella variante dei Burjati di Balagansk, Sombol Burxan, mentre giace sulle acque primordiali, scorge un uccello acquatico con i suoi dodici piccoli. Gli ordina di portare la terra nera nel becco e il fango rosso nelle zampe e, ricevutili, plasma la terraferma. Poi benedice l'uccello e i suoi discendenti. In un mito saxa, la «madre di dio», avendo deciso di creare la terra, fa nascere il pettirosso tuffatore e l'anatra selvatica. L'anatra riesce a portare su la terra dal fondo del mare, ma il pettirosso fallisce nell'impresa e viene maledetto. (Di Nola 1970)

Un altro mito riportato sempre da Radlov, questa volta tra i Tartari dell'Abakan, presenta fin dall'inizio il creatore sotto forma di anatra. Egli crea accanto a sé un'altra anatra, e manda quest'ultima a cercare terra sul fondo del mare. La seconda anatra si tuffa tre volte prima di riuscire a portare in superficie un po' di sabbia. Allora l'anatra-creatore trasforma la sabbia in pietra e può così creare la terraferma. Poi la seconda anatra chiede – secondo il copione – la quantità di terra che possa essere coperta dalla punta del suo bastone. Questo mito è piuttosto interessante in quanto le due anatre occupano esattamente i ruoli che altrove sono di «dio» e del suo compagno/antagonista, che infine assumerà il ruolo del signore degli inferi. Il racconto si presenta però piuttosto confuso, soprattutto nel seguito, dove interviene Ärlik Qan per sporcare l'uomo che «dio» ha appena creato. (Radlov 1866-1907 | Eliade 1961).

Presso gli Ǝvenki, troviamo il dio celeste Ǝkšǝrī aleggiare sulle acque primordiali, accompagnato da uno svasso. Stanco, chiede così al suo compagno di tuffarsi e portargli del limo con il becco. Lo svasso risputa la melma sulla superficie dell'acqua e si forma la terra. Gli Ǝvenki aggiungono che Ǝkšǝrī aveva un fratello maggiore nefasto, che in seguito diviene signore del mondo ipoctonio e guasta l'opera di creazione. (Roux 1981)

Il motivo dell'«uccello pescatore» non è però limitato all'area altaica. Ne troviamo esempi assai significativi presso i popoli uralici. In un mito samoiedo, Num ordina a dei cigni e delle oche di immergersi nell'oceano primordiale per accertarsi se esista della terra sul fondo delle acque. Gli uccelli eseguono, ma tornano senza aver trovato nulla. Num invia allora un uccello artico, il quale, dopo sei giorni di immersione, torna in superficie e riferisce di aver intravisto la terra sul fondale ma di non aver avuto la forza di raccoglierne nemmeno un pezzetto. Infine Num invia l'uccello ljuru, che torna il settimo giorno con un frammento di fango nel becco. Num può così plasmare la terraferma. Poi si presenta un vecchio, il quale chiede il permesso di riposarvi. Num vorrebbe rifiutare, ma il misterioso individuo lo avverte che, se non gli darà il permesso di fermarsi, creerà lui stesso una propria terra. Num è costretto a cedere ma, quando ritorna, il mattino successivo, il vecchio sta già smantellando e danneggiando la terraferma. Num gli ordina di andarsene, ma il vecchio gli chiede un pezzo di terra per sé, tanto grande quanta ne può coprire la punta del suo bastone. Num accetta ma il vecchio, dopo aver fatto un foro nel terreno con il bastone, ci sguscia dentro. (Lehtisalo 1924 | Eliade 1967). Questo racconto è assai simile alle varianti altaiche, ma distingue nettamente i cooperatori del creatore, in questo caso gli uccelli, dal suo antagonista, il vecchio che diviene signore del mondo ipoctonio.

Presso i Mansi, Kors Torum, figlio di Num Torem, invia successivamente più uccelli a cercare frammenti di terra sul fondo del mare (Veselosvskij 1890 | Dänhardt 1907 | Eliade 1967). In un mito dei Mari, è Keremet, il fratello del dio-cielo Yumē, a nuotare in forma di anatra nell'oceano primordiale. Quando porta in superficie un po' di fango dal fondale, Yumē lo utilizza per plasmare la terra piatta e liscia. Ma sputando un frammento che ha tenuto in bocca, Keremet crea le montagne. (Strauss 1898 | Eliade 1967).

Nei miti uralici l'attenzione è riservata in maggiore misura agli «uccelli pescatori», ed è interessante notare che molte versioni affidano all'uccello l'intero compito creativo. Secondo i samoiedi Ŋanasan, è un'anatra a creare la terraferma, portando il fango dal fondale dell'oceano primordiale. Secondo i Mansi è invece una strolaga dal corpo di ferro: dopo aver volteggiato sette volte sulla distesa del mare, si tuffa tre volte, prima di portare in superficie il fango necessario per formare il primo lembo di terraferma. Per i Nivxi (paleosiberiani), l'uccello creatore è un'alzavola (Anas crecca) o un mestolone (Spatula clypeata): non trovando dove deporre le sue uova, si strappa le piume dal petto e con quelle mette insieme il primo nido; i suoi pulcini, dopo essere cresciuti, fanno altrettanto, e col tempo ecco la terraferma. (Saccorotti 1994).

Il tema dell'«uccello pescatore» è certamente un tema più arcaico rispetto alla cosmogonia dualistica. Non è facile però definirne l'origine, soprattutto per la sua ampia diffusione: è infatti attestato dalla Finlandia (una versione è presente nel primo runo del Kalevala) alla Kamčatka, dove un importante ruolo cosmogonico è affidato al corvo Kutx (itel'meno Kutq, korjako KútqI, etc., an'kalyt Kúrkil). Certamente denuncia l'esperienza diretta delle popolazioni stanziate sulle coste marine, le quali hanno rilevato il comportamento degli uccelli tuffatori. Conosciuto presso uralici, paleosiberiani e čukčo-kamčadali, il tema dell'«uccello pescatore» è probabilmente un mito di substrato presente da tempo immemorabile in tutta la fascia settentrionale dell'Eurasia (senza parlare dell'America settentrionale). È dunque presumibile che sia stato incorporato nella cosmologia dei popoli altaici fin dalla loro formazione.

IV - MODALITÀ ANTROPOGONICHE NEL MONDO ALTAICO E URALICO

Il più antico mito antropogonico altaico è anch'esso compreso nelle iscrizioni dell'Orxon, nella stessa affrettata genesi già citata sopra, e che qui riportiamo ancora una volta:

ÜZE KÖK TŊRI SRA YGZ YR KILNDUKDA KIN RA KIŞI OGLI KILNM KIŞI OGLNDA ÜZE ÇIM PAM BUMN KGN ISTMI KGN OLRMŞ OLRPN TÜRK BODNŊ ILIN TÖRÜSIN TUTA BIRMŞ ITI BIRMŞ

Öze kök teŋіri asïra yağïz yer qïlïntaquda ekin ara kişi oğulï qïlïnmïs kişi oğulïnta öze eçüm apam Bumïn qağan Estemi qağan olurmïş olurupan Türük budunïğ Elin törüsün tuta bermis iti bermis.

Quando furono formati il cielo azzurro in alto e in basso la terra bruna, l'uomo [Kişi] fu formato tra di essi. Sugli esseri umani, regnarono i miei antenati, Bumïn qağan ed Istemi qağan. Li governarono con le leggi dei Türük, li guidarono ed ebbero successo.
Xöšȫ Cajdam > Iscrizione di Kül Tiğin [I: 1]

Questo testo può essere messo in parallelo con un mito raccolto da Vasilij Vasil'evič Radlov mille anni dopo, sui monti Altai: «Prima che il cielo e la terra esistessero, tutto era acqua. La terra non c'era, il cielo neppure. Allora Täŋärä Qayra Qan, il più alto degli dèi, il principio di ogni creazione, il padre e la madre della razza umana, creò all'inizio un uomo simile a lui e lo chiamò Kişi» (Radlov 1893 | Roux 1984 | Eliade 1976). In realtà il parallelismo è solo superficiale, vista l'estrema concisione dei due testi. C'è ovviamente una radice comune, ma l'enorme distanza in termini di tempo e spazio dovrebbe metterci sull'avviso. Tra l'altro, il mito raccolto da Radlov presenta delle evidenti influenze cristiane (si veda, ad esempio, il principio di somiglianza tra il creatore e l'uomo). Il racconto altai prosegue – lo abbiamo visto – con l'immersione di Kişi nelle acque primordiali, la creazione della terraferma e la trasformazione di Kişi in Ärlik Qan.

Valgono per i miti antropogonici le stesse considerazioni che abbiamo avanzato nel caso di quelli cosmogonici. Il materiale a nostra disposizione è stato raccolto solo tra l'Ottocento e il Novecento ed è molto vario. Vi si riscontrano elementi arrivati dall'esterno (Īrān, India, Cina; buddhismo, manicheismo, cristianesimo, etc.), ma vi è anche del materiale autoctono. Il nostro sunto è stato ricostruito a partire da due miti paralleli raccolti da Radlov presso gli Altai. Nella prima variante, «dio» dopo aver dato forma al primo uomo, deve allontanarsi per procurarne l'anima (nella tradizione altai essa andava attinta nel lago di latte Süt-aq-Köl), e lascia un cane a guardia del corpo. L'animale è privo di pelo, ed Ärlik Qan lo corrompe donadogli una pelliccia, quindi rovina l'opera antropogonica insozzando il primo corpo umano con la propria saliva. Il secondo testo segue il medesimo schema, tranne che qui i corpi umani sono sette. La differenza sostanziale è che Ärlik interviene insufflando lui stesso la vita agli uomini, in luogo di «dio» (Radlov 1893 | Di Nola 1970). La conclusione è la medesima: l'intervento di Ärlik Qan guasta l'opera antropogonica introducendo un elemento di disordine. Il fatto che sia stato lui a insufflare la vita agli uomini, nel secondo racconto, è la causa che condanna l'umanità alla malattia e alla morte.

In un complesso racconto dei Burjati di Balagansk, che riflette alcune componenti di origine indiana, i tre creatori, Esege Malān Täŋri, Čibegeni Burxan e Madari Burxan (cioè il bodhisattva Maitreya), formano la carne dell'uomo con l'argilla rossa, il sangue con l'acqua, le ossa con lo pietra. Indi si fermano, dovendo stabilire a chi di loro sarebbe toccato dare la vita al corpo inanimato. Si stendono allora a dormire, ponendo dinanzi a ogni giaciglio una lampada e una conca d'acqua. Sarebbe spettato il compito di concedere la vita all'uomo, a quello fra i tre la cui lampada si sarebbe accesa da sola nel corso della notte e nella cui conca sarebbe nata una pianta. Nottetempo, Čibegeni si sveglia e si accorge che la lampada di Madari si è accesa e che nella conca di lui è germogliata una pianta. Allora pone furtivamente l'una e l'altra accanto al suo giaciglio, mettendo la sua lampada e la sua conca presso il giaciglio di Madari. Il giorno seguente Madari si accorge dell'inganno, ma non dice nulla. Annuncia soltanto che, qualora gli uomini vengano animati da un dio ingannatore, si deruberanno l'un l'altro, seguendo l'esempio del loro creatore. Madari ed Esege ritornano in cielo, dopo aver lasciato a Čibegeni gli uomini, originariamente coperti di pelo. Čibegeni sale a sua volta il cielo per procurare l'anima degli uomini e lascia il cane a guardia dei corpi. Sopraggiunge Čitkur, il diavolo, che convince il cane ad accettare una pelliccia che lo avrebbe difeso dal freddo. Il cane si lascia corrompere e abbandona la guardia. Čitkur spunta allora sul corpo degli uomini, insozzandoli. Čibegeni torna dal cielo, maledice il cane e pulisce gli uomini. Ma la folta pelliccia di cui costoro erano originariamente coperti è caduto dal loro corpo, a parte pochi punti che la saliva di Čitkur non ha raggiunto. Questa è la ragione per cui gli uomini oggi soffrono il freddo e sono soggetti alle malattie e alla morte. Un analogo mito compare anche presso i Burjati di Alarsk, con semplici varianti nei nomi. (Di Nola 1970)

Oltre che in area altaica, il racconto è diffuso anche presso i popoli uralici. Secondo i Mari, quando Jumē sale al cielo per cercare l'anima dell'uomo, suo fratello Keremet promette al cane – ancora una volta lasciato a guardia dei corpi – una bella pelliccia calda, quindi sporca l'uomo con la sua saliva. Al suo ritorno, Jumē insuffla la vita negli esseri umani, ma non può nulla contro la caducità, le malattie e l'inevitabilità della morte, dovute alla saliva di Keremet. Secondo una variante assai diffusa, qui dalla mitologia dei Mansi di Losva, Kors Torum aveva originariamente munito l'uomo di una pelle cornea ma Kul' Otyr, il dio degli inferi, approfittando dell'assenza del creatore, insozza l'uomo, che perde la pelle spessa e la conserva soltanto nelle unghie. (Di Nola 1970)

Nella versione dei Nenėc (samoiedi), il dio celeste Num, dopo aver plasmato la terra a partire dal limo che Ŋa, lo spirito della morte, gli ha condotto dal fondale oceanico, e averla fissata con i monti Urali, plasma l'uomo. Dopo di che crea il cane e gli ordina di sorvegliare il corpo umano da lui foggiato. Ma in sua assenza, il cane si lascia convincere dal dio infero ad abbandonare la guardia, in cambio di una pelliccia. Ŋa si avvicina al corpo umano e lo divora. Num deve creare un'altra coppia, e condanna il cane a nutrirsi di escrementi. (Lehtisalo 1924)

Questa serie di miti tratti da popoli tanto altaici quanto uralici, e quindi da molte zone dell'Asia centro-settentrionale, presenta una serie di tratti in comune che possiamo segnalare in questo modo:

  1. L'opera del dio creatore si sviluppa sempre in due momenti: quella della formazione del corpo inanimato e quella dell'ascesa al cielo alla ricerca dell'anima.
  2. Il dio creatore si serve del cane come cooperatore, ma questi, per suo istinto, tradisce il dio e l'uomo.
  3. Il mito accoglie un motivo tipico dei paesi dai climi freddi: l'avversario convince il cane al tradimento donandogli un pelo che lo protegge dal gelo, ma allo stesso tempo spoglia l'uomo del suo pelo (o della pelle cornea originaria).
  4. L'intervento dell'avversario spiega anche, secondo l'analisi di Uno Harva, l'origine delle debolezze, della caducità e delle malattie che affliggono l'uomo, oltre alla presenza della morte; se il dio creatore avesse completato l'opera, l'uomo sarebbe stato immune dal male e dal freddo.
  5. L'uomo era stato creato originariamente perfetto, ma viene suggestivamente guastato dall'intervento dell'antagonista. Nel guasto ha funzione preminente la saliva, che in molte aree primitive costituisce il tramite (insieme ad altri liquidi e secreti del corpo) di magie malefiche. Con la stessa saliva, in alcune varianti, l'antagonista produce il pelo del cane.
  6. La caratterizzazione dualistica del mito antropogonico è analoga a quella dualistica del mito cosmogonico. (Di Nola 1970)
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BIBLIOGRAFIA ►
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Altaica - Dede Qorqut
Ricerche e testi di Oliviero Canetti.
Cura di Dario Giansanti.
Creazione pagina: 01.11.2013
Ultima modifica: 25.02.2017
 
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