MITI

ALTAICI
Altai

MITI ALTAICI
GLI DÈI DELL'ALTAI
SOTTO LA VOLTA DI KÖGÖ MÖŊKÖ
Täŋärä Qayra Qan, il «misericordioso signore del cielo», dimora nel diciassettesimo strato celeste, perfettamente distacco dai bisogni e le necessità degli esseri umani. Sotto di lui, un ricco organigramma divino organizza e dirige ogni livello dell'essere.

1 - TÄŊÄRÄ QAYRA QAN, IL MISERICORDIOSO SIGNORE DEL CIELO

Il comando del cielo ( 1915)
Dipinto di Nikolaj K. Roerich (1874-1947), tempera su carta.

econdo gli Altai, un supremo dio celeste si erge al vertice di tutto il creato creato.

È chiamato Täŋärä Qayra Qan, il «misericordioso signore del cielo». Risiede nel diciassettesimo e più alto taptï del mondo celeste, nel punto più alto e inaccessibile dell'universo, in un örgö dalle porte d'oro, maestosamente assiso su un trono d'oro.

Più che il dio del cielo, egli è il cielo stesso. È chiamato anche e semplicemente Quday, il «superiore». Un altro dei suoi innumerevoli epiteti è Kögö Möŋkö, l'«azzurro eterno».

Täŋärä Qayra Qan è un dio fuori-casta, ben al di sopra di tutti gli altri spiriti e dèi.

2 - ORGANIZZAZIONE DEL MONDO DIVINO ALTAI

Gli dèi del cielo ( ?)
Azat Şamil'eviç Minnekaev (1958-). Acrilico su tela.

äŋärä Qayra Qan è una figura lontana e inaccessibile, totalmente distaccata dalle faccende umane. Se egli interviene nelle cose del mondo lo fa tramite gli dèi inferiori.

Sotto di lui si trovano due gruppi di divinità, tra i quali possiamo innanzitutto distinguere un gruppo celeste e uno infero. Al vertice del gruppo celeste si trovano il supremo Bay Ülgän e i suoi sette figli, i quday. Alcune di queste divinità, in particolare Bay Ülgän, Märgän Täŋärä e Qïsuğan Täŋärä, sono considerate dirette emanazioni di Täŋärä Qayra Qan.

Al vertice del gruppo infero vi sono il supremo Ärlik Qan e i suoi sette figli.

Oltre a queste due principali famiglie divine, vi sono inoltre molti dèi e spiriti che popolano il «mondo reale», gli spiriti-signori preposti ai fiumi, alle montagne e ai venti. Ma parleremo tra poco di tutti costoro.

Fonti

1-2

Fonti secondarie

I - *TEŊRI, IL CIELO

Termine fondamentale del vocabolario religioso altaico, la lezione TŊRI è attestata nelle iscrizioni dell'Orxon (VIII sec.) con il significato di «cielo», nel probabile senso di «cielo divinizzato». La parola compare anche negli annali cinesi del IV secolo, nella trascrizione Chēnglí (撑犁), con il significato di «supremo dio del cielo» dei Xiōngnú. La forma paleoturca era probabilmente *teŋri. Da questa sono derivati gli esiti nelle varie lingue altaiche: tŋri/teŋri in mongolo e calmucco (tenger in xalxa), täŋri in burjato, taŋir in xaka (beltiro), taŋara in saxa. La forma turcica, tengri, è attestata nel dizionario di Maḥmūd al-Kāšġarī (Kâşgarlı Mahmud, 1005-1102?), dove al tengri è attribuita la capacità di far crescere le piante e scatenare i lampi. È inoltre tengrı in turco e azǝrbaycano, taňry in turkmeno, tangri in uzbeko, täŋiri in qazaqo, teñir in kyrgyzo, täñre in tataro, täŋärä/täŋäri in altai (i grafemi <ŋ>, <ñ>, <ň>, <ng> indicano, nei vari alfabeti nazionali o nelle rispettive traslitterazioni, la nasale velare [ŋ]).

Diffuso da almeno due millenni per tutto il continente asiatico, dai confini della Cina alla Russia meridionale, dalla Kamčatka al mar di Marmara, il termine *teŋri è sicuramente antichissimo e non sono mancati tentativi di ricondurlo a qualche remota radice asiatica. Lo si è voluto avvicinare al proto-ieniseiano *tɨŋgVr- «alto» (George 2001), sebbene i linguisti considerino con un certo sospetto eventuali collegamenti tra lingue altaiche e paleosiberiane. Se *teŋri indicava inizialmente il cielo fisico (e in tal caso può aver lasciato tracce persino nel cinese tiān «cielo»), in seguito il teonimo Teŋri (con tutti i suoi esiti locali) è venuto a rappresentare il cielo soprannaturale, divinizzato, e dunque il supremo dio-cielo altaico.

Se il dio celeste dei Çăvaši, Tură, deriva probabilmente il nome dalla medesimi radice *teŋri, altri popoli usano parole diverse per indicare il medesimo mitema di dio-celeste. Presso i Mari (finni del Volga) il dio-cielo si chiama Jum «cielo». In finlandese il termine corrispondente, Jumala, passato a indicare il Dio cristiano, significa in realtà «paese del cielo», indicando dunque tanto il cielo come luogo fisico tanto il dio che vi si identifica.

Per gli ugrici dell'Ob', il nome più frequente è il hanti Nŭm Turem Ási o mansi Num Torem Ás, il «cielo alto padre». Più a sud, presso i Hanty dell'Irtyš, il nome è Säŋke, il «luminoso», dal quale derivano i titoli di Nūm Säŋke, l'«alto brillante», e Yem Säŋke, il «buono brillante». Al nome del dio-cielo sono anche collegati gli epiteti hanty Puiršo o Pairkse, e mansi Paireks, «regolatore». Si noti che il termine num (nim, ŋa) in samoiedo indica una forza numinosa impersonale, che può manifestarsi sia come cielo, sia come tuono e, infine, come dio personale celeste Num. Il termine viene anche usato per indicare gli spiriti guardiani della mitologia samoieda, i Num.

Presso la maggior parte degli Ǝvenki si usa il nome Buḡa «cielo», ma anche «mondo, terra. luogo». Fra gli Ǝvenki dello Enisej ricorre il nome di Mayin, «[colui che] dà la vita» (da ma «donare» e in «vita»), una sorta di antico dio celeste «riattivato» in favore dell'allevamento intensivo delle renne. Presso i Nani il dio celeste ha invece nome Ǝndurī o Ǝkšǝrī; quest'ultimo nome è ben conosciuto anche tra gli Ǝvenki dello Enisej.

I titoli del dio-cielo altaico sono innumerevoli, ma una breve enumerazione di essi è utile per definire la sua natura e le sue funzioni. I più comuni derivano da alcuni degli attributi naturali del cielo, quale «azzurro» (turco gök/kök, altai kögö, mongolo köke), «elevato» (üze), ma anche «forte» (küč). In epoca posteriore, si aggiungerà l'aggettivo «eterno» (mongolo möŋke, altai möŋkö). Per i Mongoli, la parola tŋri/teŋri, usata originariamente per indicare il cielo materiale, divenne anche un titolo del qan (xalxa xān) «signore, sovrano, imperatore». Tra altri gruppi mongoli, titoli accessori del dio-cielo erano aq qayas «luce chiara» e qayas qan «signore luminoso».

Tra gli Altai, il dio cielo è rappresento dall'immagine di Täŋärä Qayra Qan, il «misericordioso signore del cielo» (o piuttosto, con traduzione più pertinente, il «misericordioso cielo signore»). Alcuni suoi epiteti si sono però specializzati in figure divine distinte, com'è il caso di titoli come Ülgän «grande» o Bay ülgän «grande ricco», da cui è derivata un personaggio a sé stante, il dio Bay Ülgän. I Tatari di Minussinsk lo chiamano Çär čayanï e i Teleuti Çär yayučï, «creatore della terra». È pure attestato tra gli Altai e i Tuvini il termine Qurbïstan, proveniente, attraverso il mongolo Qormuzda, dal nome di Ōrmuzd, il dio supremo nello zoroastrismo. L'epiteto Qayra Qan, «signore misericordioso», è invece un attributo generico, che può indicare qualsiasi spirito o dio del pántheon altai; è pure epiteto di Ärlik Qan, il signore del mondo infero.

Presso gli Altai e i Kïrgïz compare accessoriamente il termine di origine persiana Quday, «superiore». Questo termine si è generalizzato indicando, tra gli Altai, una classe di spiriti celesti, considerati figli di Bay Ülgän. Nel sincretismo mongolo tra sciamanesimo e lamaismo, il termine Buddha, opportunamente mongolizzato in Burqan (burjato e xalxa Burxan, uigurico giallo Purqan, altai Pïrqan), è stato usato per moltissime divinità dei rispettivi pánthea. Tale termine indicava tanto il dio creatore, tanto i molti dèi minori a lui sottomessi. (Marazzi 1984)

Nella poesia religiosa arcaica dei Saxa/Jakuti, il dio-cielo è definito Ürüŋ Ay Toyon, il «bianco signore creatore», ma anche Ar Toyon «alto signore» e Ay Toyon «signore creatore». Probabilmente il termine saxa ay, indicante un'intera classe di dèi celesti, è connesso con un radicale significante originariamente «disporre», «volere».

Un altro aspetto peculiare del dio-cielo altaico – sovrano universale e garante dell'ordine cosmico – è la passività. Egli tende a divenire un deus otiosus, a disinteressarsi delle vicende umane, a rinunciare alla funzione della sorveglianza punitiva e del castigo. Così, Buga, dio-cielo degli Ǝvenki, è onnisciente, ma non interviene mai nelle faccende umane, ma neppure è destinatario di un culto; il Täŋärä Qayra Qan degli Altai non si discosta mai dal suo empireo, situato nel diciassettesimo livello celeste; l'Ürüŋ Ay Toyon dei Saxa, dimorante nel settimo cielo, regna su ogni cosa, ma non fa che il bene, e certamente, non punisce i malvagi. (Eliade 1976)

Parallelamente, in molte aree altaiche, il termine si è specializzato quale termine generico per dio, cosicché anche le divinità minori hanno cominciato a venire chiamate teŋri/täŋärä. Incontrando i vari monoteismi, nei paesi a matrice cristiana, manichea o musulmana, il termine è stato usato come sinonimo del Dio supremo: in turco e azerbaycano la parola Tanrı viene oggi usata come sinonimo di Allāh, mentre la parola «cielo», con slittamento semantico, viene a indicarsi con uno dei vecchi qualificativi del dio, gök «azzurro». (Marazzi 1984)

II - IL DIO-CIELO, GARANTE DELL'ORDINE COSMICO

Il *teŋri altaico è, in sintesi, una personificazione del cielo, sebbene possa venir percepito distinto da esso. La distinzione che il pensiero altaico applica tra il cielo fisico e il dio-cielo non è facile da definire, e rimane il sospetto che si tratti solo di una questione pratica e cultuale, non teologica o concettuale. Si rispecchia forse nel senso in cui uno spirito-guardiano si identifica nella cosa o nell'elemento a cui fornisce un'anima e una personalità. La volontà di Teŋri si manifesta soprattutto attraverso i fenomeni atmosferici (pioggia, fulmini, etc.), ed ha una diretta conseguenza nell'azione fecondante che apporta alla terra e al rigoglio della natura.

Il *teŋri appare nelle preghiere come creatore e signore del mondo. Tuttavia, nei miti, la funzione di creatore è spesso attribuita ad altre figure minori, le quali intervengono caratteristicamente a coppie ①, o addirittura in gruppi (come i Burqan, i «Buddha» dei Mongoli, dei Soioti e dei Burjati). Ma la più eminente funzione del dio-cielo mongolo è, come nell'area cinese, il governo del mondo umano e naturale che garantisce la continuità dei ritmi cosmico-sociali.

Il governo del Teŋri celeste era trasferito, sulla Terra, al qan terreno. Era un'idea di creazione strettamente legata a quella di legge cosmica. Il cielo era l'archetipo dell'ordine universale; Teŋri era il garante sia della perennità e dell'intangibilità dei ritmi cosmici, sia dell'equilibrio delle società umane. I Mongoli credevano che il cielo vedesse tutto, e quando pronunciavano un giuramento, esclamavano: “Che il Cielo lo sappia!” o “Che il Cielo lo veda!” Teŋri non possedeva templi, né si sa con sicurezza se sia stato rappresentato in qualche modo. I condottieri lo adoravano sulla cima delle montagne, oppure lo pregavano isolandosi nelle loro tende, prima delle compagne militari (come fece Čiŋɣïs Qan, che scomparve per tre giorni).

Il sigillo di Čiŋɣïs Qan portava la seguente iscrizione: «Dio in cielo e il qan in terra! Il sigillo del padrone della terra». Ma il principio era presente già nelle iscrizioni dell'Orxon, innalzate dai qağan della confederazione dei Gök Türük nell'VIII secolo, dove si legge:

TÜRK BODNG TÏ KÜSI YOK BOLMZUN TIYN KŊM KGNG ÖGM KTUNG KÖTRMŞ TŊRI IL BIRGME TŊRI TÜRK BODN TÏ KÜSI YOK BOLMZUN TIYN ÖZMN OL TŊRI KGN OLRTDI RNÇ

Türük budunïğ atï küsü yoq bolmazun tijin aqaŋïm qağanïğ ögüm qatunïğ kötürmiş Teŋіri il bеrigme Teŋіri Türük budun atï küsü yoq bolmazun tijin özümüz ol Teŋіri qağan olurtadï erinč.

Teŋri, che innalzò mio padre, il qağan, e mia madre, la qatun, e consegnò loro un regno affinché il nome e la fama del popolo Türük non perissero, quel Teŋri designò me stesso qağan.
Xöšȫ Cajdam > Iscrizione di Kül Tiğin [I: -]

È la stessa concezione che avevano i Cinesi dell'imperatore, huángdì, considerato figlio o rappresentante terrestre del sovrano celeste Shàng Dì (o Yǜ Huáng). Il termine cinese tiān mìng «mandato del cielo» indicava il riflesso sulla terra, nella persona dell'imperatore terreno, di questa norma reggitrice universale. La diade formata dal cielo divinizzato e dall'imperatore terreno garantiva l'ordine cosmico universale e la vita sulla terra. Sia in Cina che in Mongolia, l'efficienza del cielo era rafforzata dal mito della sovranità e della forza dell'impero.

In un'occasione, Čiŋɣïs Qan salì sul monte Burqan Qaldun, togliendosi umilmente il berretto e portando al collo la cintura in segno di sottomissione, per avvicinarsi al Teŋri e chiedergli soccorso. Come l'imperatore cinese era tiān zǐ, il «figlio del cielo», il qan mongolo era ǰayagan. Il termine ǰayaga indica, presso i Mongoli, proprio questa volontà ordinante e predisponente del cielo. Quindi ǰayagači teŋri è il dio che dirige e governa il cosmo. La medesima nozione appare presso i Burjati con il corrispondente termine zayān; presso i Xaka con il termine čayan; presso i Tatari con yayan/yayagan.

Il qan e i dignitari ricevevano da Teŋri il loro potere, agivano in suo nome, ricevevano i suoi ordini (yarlïx) e li diffondevano. E quando non erano più in armonia con Teŋri, era un periodo di sconvolgimento: Teŋri manifestava la sua disapprovazione e il suo scontento con segni cosmici, quali comete, carestie, o inondazioni. (Eliade 1976 | Roux 1989)

Presso i Mongoli, soprattutto, Teŋri era prima di tutto un dio nazionale e imperiale. Il popolo mongolo, che abitava sotto la volta del cielo, al centro del mondo, gli conferiva spesso il titolo di «signore», qan, ma raramente e tardivamente quello di «padre», āv. Combatteva le guerre uniformandosi alla volontà di Teŋri, e da Teŋri riceveva la vittoria. Era costantemente protetto da lui, e grazie a lui sfuggiva all'annientamento, nei momenti di grave pericolo. (Roux 1989)

III - STRUTTURA E ORIGINE DEI PÁNTHEA ALTAICI

Sebbene si riscontri, tra i popoli altaici, questa tendenza a porre il cielo – o piuttosto il cielo divinizzato – quale signore o qan dell'universo, la religione è ben lontana dal muoversi in direzione di un monoteismo di qualche tipo. L'organigramma divino contempla un complesso sistema dove al dio-cielo è sottoposto un pántheon piuttosto ricco e stratificato.

ma rispetto ad altri pánthea, dove il dio supremo regna interagendo tra gli dèi a lui sottoposti come un primus inter pares – come avviene ad esempio nella mitologia greca, o nordica –, il dio-cielo altaico tende a ritirarsi in cima al suo empireo, a trasformarsi in una sorta di deus otiosus e divenire un principio ontologico, una garanzia della stabilità e della perennità del cosmo. Le azioni regolatrici nel mondo e le relazioni con l'umanità vengono lasciate alle divinità dei cieli inferiori, le quali acquistano a loro volta il titolo di teŋri o qan.

Il pántheon altai, in particolare, mostra le tracce storiche di tale tendenza, portata in questo caso quasi al parossismo. Qui, il dio supremo Täŋärä Qayra Qan è stato sospinto nel diciassettesimo cielo, completamente al di sopra delle faccende umane e naturali. La funzione attiva è assegnata in primis a Bay Ülgän, il cui nome, «grande ricco», lo qualifica immediatamente come un epiteto del dio-cielo che ha assunto un carattere e una personalità distinta. In altre parole, in una fase nello sviluppo della religione altaica, il dio-cielo, divenendo troppo alto e inaccessibile, si è duplicato: ha lasciato una sua personalità minore in uno dei cieli inferiori, in modo che potesse continuare a mantenere le funzioni creative, dirette, materiali con il mondo.

A Täŋärä Qayra Qan non viene tributato un culto, né fanno sacrifici, mentre innumerevoli sono quelli offerti a Bay Ülgän, a Ärlik Qan e agli altri dèi celesti e infernali. Probabilmente il sacrificio del cavallo, tipico di molte aree altaiche, in origine era offerto proprio a Täŋärä Qayra Qan, e solo più tardi è avvenuta la sostituzione con le divinità inferiori, fenomeno che si ritrova abbastanza spesso nella storia delle religioni. Un esempio eclatante può essere fornito dal Dyauṣ Pitṛ vedico.

Sotto Bay Ülgän vi sono poi altri gruppi divini. I Payana amministrano i cieli inferiori (che per gli Altai sono sedici, più il diciassettesimo dove risiede Täŋärä Qayra Qan). I Quday sono i figli di Bay Ülgän. Presentare liste «canoniche» di queste divinità è piuttosto difficile: i vari gruppi divini si sovrappongono continuamente e divergono nei diversi rilevamenti effettuati dagli etnologi presso gli Altai. Nella prossima pagina, presenteremo in dettaglio una delle possibili liste. ①

Da quanto abbiamo detto, si potrebbe pensare che questa moltiplicazione delle divinità inferiori sia conseguenza sia tanto dell'innalzamento del dio-cielo e della sua trasformazione in deus otiosus, quanto della moltiplicazione degli strati celesti, dovuta a sua volta allo sviluppo delle pratiche sciamaniche Pur non negando che questi due fattori possano avere influito sull'organizzazione del pántheon nelle modalità prima descritte, è però difficile pensare che la mitologia altaica delle origini non fosse già ampiamente politeista. Sicuramente, alla base, troviamo un diffuso e radicato animismo. Ci sono anzi ragioni per supporre che il culto degli spiriti guardiani (mongolo e tunguso eǰen, burjato ežen/äžän, saxa iččitä, altai ǟzi, turco iziq) non solo sia più arcaico di tutte le altre forme religiose, ma anzi, abbia costituito il substrato di ogni successiva evoluzione della mitologia dei popoli altaici.

Un pántheon dove a un dio-cielo passivo sono sottoposte divinità inferiori è piuttosto diffuso nell'Asia centro-settentrionale, e non soltanto tra i popoli altaici, ma anche tra quelli uralici. Ad esempio, i Hanty del Vasjugan conoscono sette divinità distribuite nei sette cieli: in quello più alto risiede Nŭm Turem, «l'alto cielo», e sotto di esso vi sono i sette Turem-karevel o «guardiani del cielo» (anche detti Turem-talmas, «interpreti del cielo»).

Ma al contrario di quanto molti autori hanno sostenuto (Eliade 1950), non tutte le disposizioni dei pánthea altaici non sono direttamente confrontabili con la struttura qui definita. Se tra gli Altai l'organigramma divino è disposto in senso verticale, tra i Saxa è in parte orizzontale: al dio-cielo ozioso Ürüŋ Ay Toyon sono sottoposti due gruppi di divinità, gli Ay, celesti e orientali, e gli Abāsï, terreni e occidentali: e i primi tendono a curarsi assai poco degli affari terreni, al contrario dei secondi, assai interessati alle faccende umane. Anche i Burjati dividono i täŋri in due schiere: a ovest cinquantacinque Burxan buoni, capeggiati da Esege Malān Täŋri «padre cielo calvo» (o Esege Burxan); a est quarantaquattro divinità malvagie. (Marazzi 1984)

Simile ripartizione troviamo tra i Mongoli, dove Qan Qormusda Teŋri (xalxa Xan Xurmast Teŋer) era il primo dei novantanove (o trentatré) teŋri del pántheon mongolo. Considerato il padre spirituale di Čiŋɣïs Qan, derivava probabilmente il suo nome dal sogdiano xwrmwzD, trascrizione dell'antico iranico Ahura Mazdāh. Qan Qormusda era inoltre il capo degli otto Sülde Teŋri o «teŋri spaventosi», spiriti bellicosi, armati e a cavallo, che stavano a guardia delle otto direzioni, mentre lo stesso Qormusda, nuovamente con ripartizione orizzontale, era signore del centro.

IV - PIÙ CHE UNA TEOLOGIA, UNA CAPTATIO BENEVOLENTIAE

Qam. Sciamano altai
Fotografia. Autore non identificato

Date queste informazioni, tratte non da fonti primarie ma dalle informazioni fornite dagli etnologi e dagli esploratori della Siberia, bisogna sottolineare il fatto che i popoli altaici non hanno mai sentito il bisogno di creare una teologia ben definita e coerente, e dunque di fornire una precisa classificazione delle loro categorie mitologiche.

Al contrario. In un ambiente culturale dove gli unici intermediari tra il mondo umano e quello spirituale sono gli sciamani, i dati mitologici sono stati ottenuti registrando le interpretazioni offerte dagli sciamani nel corso delle loro kamlanie. Come risultato, i nomi e gli attributi dei vari spiriti e divinità possono variare non solo tra i diversi gruppi linguistici e le diverse etnie, ma anche da un oğuz/oğus («tribù») all'altro, o da uno sciamano all'altro. Oltre a questo, le belle immagini e gli epiteti con cui gli sciamani accompagnano le invocazione a questo o quel dio non sono da intendersi come descrizioni mitologiche, bensì come celebrazioni della sua potenza e magnificenza... al fine di estorcergli favori. Lo sciamanesimo non è una religione speculativa, ma pratica. Se sentiamo dire che uno spirito cavalca destrieri grigi tra le nuvole e veste manti di marmotta e zibellino, dobbiamo fare attenzione a collocare tali elementi tra le definizioni di quel particolare spirito. Ci troviamo in realtà di fronte a elogi intesi a magnificarne la potenza, proprio come un cortigiano potrebbe fare con un potente qan per carpirne la benevolenza.

Gli dèi altaici sono altamente indefiniti. Mancano di una mitologia articolata, di caratteri e genealogie ben definite. E non solo perché non esiste un preciso accordo teologico sulla loro fisionomia… ma proprio per la particolare idea che i popoli altaici hanno della divinità. Spesso non viene fatta una netta distinzione tra un dio e l'elemento o il fiume o la montagna di cui è il guardiano, o può addirittura capitare che un spirito non abbia un sesso preciso, ma venga chiamato «padre» e «madre» nel corso della stessa invocazione. Tutti quanti sono chiamati spesso qan, «signori», sia che vengano dal cielo o dagli inferi. Termini come täŋärä o payana o quday non sono mai troppo precisi.

V - UN MONOTEISMO ORIGINARIO? LA QUERELLE IDEOLOGICA DIETRO LA NOZIONE DI TEŊRI

La natura del Teŋri altaico ha dato origine a molte e spesso aspre discussioni, inserite peraltro intorno a tutte le figure analoghe presenti in analoghi contesti religiosi. Il contrasto si è in particolare consumato con una scuola di studiosi che ha voluto individuare, nella concezione altaica del dio cielo, una tendenza monoteista, se non i residui di un monoteismo originario.

Forse un po' di responsabilità, in questa querelle, la hanno i primi viaggiatori musulmani e cristiani, i quali avevano rilevato, nelle loro relazioni, come i Mongoli (chiamati «Tartari») credessero nell'esistenza di un unico dio. Il missionario francescano Giovanni di Pian del Carpine (1182-1252), inviato da Innocenzo IV come legato pontificio alla corte del qaɣan fra il 1245 e il 1247, riferisce, nella sua Historia Mongalorum, che i «Tartari» credevano in un dio creatore di ogni cosa visibile e invisibile, dispensatore di ogni felicità nei sette mondi e asperrimo punitore dei peccatori. Notizie analoghe appaiono presso il minorita fiammingo Willem van Ruysbroeck (1220-1293), inviato da Louis IX, re di Francia, al qaɣan , fra il 1253 e il 1255. Nella lettera che Möŋke Qan (♔ 1251-1259) inviava, tramite Willem, al re di Francia, è esplicitamente affermato che esiste un unico dio eterno in cielo, a cui corrisponde un solo signore sulla terra. Le fanno eco le lettere che in seguito Arɣun Qan (♔ 1284-1291) inviò a re Philippe le Bel e a papa Nicola IV, rispettivamente nel 1289 e nel 1290. Nel Milione, il mercante veneziano Marco Polo (1254-1324) parla di un gran dio del cielo adorato dai «Tartari» con offerte di incenso e venerato con tavolette che portano iscritto il suo nome, appese alle pareti delle capanne.

La valutazione di tali testi va presa con una certa diffidenza. Al riguardo, Uno Harva ha invitato alla cautela, notando che ci mancano almeno due elementi importanti: non sappiamo innanzitutto in quale misura i relatori cristiani (o musulmani, per analoghe informazioni dalle fonti islamiche) si siano lasciati influenzare, nelle loro osservazioni sulla religione dei Mongoli, dalle ideologie monoteistiche di cui erano portatori; inoltre non sappiamo in quale misura tali elementi possano ritenersi originari e non invece derivati da precedenti influenze cristiane o musulmane. (Di Nola 1970)

L'idea che dietro la figura di Teŋri si stagli una qualche forma di monoteismo originario non ha mai smesso di solleticare gli studiosi, in particolare quelli cattolici, i quali hanno sottolineato la nozione di un essere supremo celeste che non solo appare ben distinto dal cielo materiale, ma è anche definibile in termini morali: è perfetto, buono, signore, creatore, etc., secondo tutte le categorie e gli attribuiti della teologia cattolica. Quest'ideologia del monoteismo primordiale ha avuto il suo paladino nell'austriaco Wilhelm Schmidt (1868-1954), eccellente etnologo e un linguista, ma anche sacerdote cattolico, il quale si applicò per quarant'anni al compito di ricostruire la formazione del concetto di «Dio» nelle culture primitive, nel suo imponente Der Ursprung der Gottesidee (Schmidt 1912-1955). Assai nota la sua querelle con lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959), il quale riteneva che il cosiddetto monoteismo dei popoli primitivi andasse ridotto «alle proporzioni più modeste della credenza in un essere celeste, appercepito in figura personale del cielo, secondo i modi di quel pensiero mitico che presiede a tutte le forme della religiosità» (Pettazzoni 1922). Questo discorso, che finisce per applicarsi a un ambito generale, e non più limitato ai popoli altaici, ci rivela quali interessi ideologici vi fossero stati dietro il tentativo degli studiosi occidentali di definire la figura di Teŋri. Un falso problema che è stato giustamente eliminato dagli studi altaistici solo negli ultimi quarant'anni.

Bisogna ancora aggiungere che, paradossalmente, tali interpretazioni hanno dato molti spunti al revival della religione nazionale, oggi definita con il termine «tengrismo», che si è registrata in molti paesi turcofoni (in particolare Saxa/Jakuzia, Tatarstān, Burjazia, Kïrgïzstān, Qazaqstān) dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, ma anche in Mongolia e altrove. Ma queste sono ormai derive nazionaliste e hanno poco a che vedere con la mitologia.

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BIBLIOGRAFIA ►
Intersezione: Aree - Holger Danske
Sezione: Miti - Asteríōn
Area: Altaica - Dede Qorqut
Ricerche e testi di Oliviero Canetti.
Cura di Dario Giansanti.
Creazione pagina: 01.11.2013
Ultima modifica: 25.02.2017
 
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