I - *TEŊRI, IL CIELO Termine
fondamentale del vocabolario religioso altaico, la lezione
TŊRI è attestata nelle iscrizioni dell'Orxon (VIII
sec.) con il significato di «cielo»,
nel probabile senso di «cielo divinizzato». La parola compare anche negli annali cinesi del
IV
secolo, nella trascrizione Chēnglí
(撑犁), con il significato di «supremo dio del cielo»
dei Xiōngnú. La forma paleoturca era probabilmente *teŋri. Da questa sono derivati gli esiti nelle varie lingue altaiche: tŋri/teŋri
in mongolo e calmucco (tenger in xalxa), täŋri
in burjato, taŋir in xaka (beltiro), taŋara
in saxa. La forma turcica, tengri, è
attestata nel dizionario di Maḥmūd al-Kāšġarī (Kâşgarlı Mahmud,
1005-1102?), dove al tengri è attribuita la capacità di far crescere le
piante e scatenare i lampi. È inoltre tengrı in turco e azǝrbaycano,
taňry in turkmeno, tangri in uzbeko, täŋiri in qazaqo,
teñir in kyrgyzo, täñre in tataro, täŋärä/täŋäri in altai (i
grafemi <ŋ>, <ñ>, <ň>, <ng> indicano, nei vari alfabeti nazionali o nelle
rispettive traslitterazioni, la nasale velare [ŋ]).
Diffuso da almeno due millenni per tutto il continente asiatico, dai confini della Cina alla Russia meridionale,
dalla Kamčatka al mar di Marmara, il termine *teŋri è sicuramente antichissimo e non sono mancati tentativi di
ricondurlo a qualche remota radice asiatica. Lo si è voluto avvicinare al proto-ieniseiano *tɨŋgVr- «alto» (George 2001),
sebbene i linguisti considerino con un certo sospetto eventuali collegamenti tra lingue altaiche e
paleosiberiane. Se *teŋri indicava inizialmente il cielo
fisico (e in tal caso può aver lasciato tracce persino nel cinese tiān «cielo»),
in seguito il teonimo Teŋri (con tutti i suoi esiti
locali) è venuto a rappresentare il cielo soprannaturale, divinizzato, e
dunque
il supremo dio-cielo altaico.
Se il dio celeste dei Çăvaši, Tură, deriva
probabilmente il nome dalla medesimi radice *teŋri, altri popoli usano parole
diverse per indicare il medesimo mitema di dio-celeste. Presso i Mari (finni del
Volga) il dio-cielo si
chiama Jum
«cielo». In finlandese il termine corrispondente, Jumala,
passato a indicare il Dio cristiano, significa in realtà
«paese del cielo», indicando dunque tanto il cielo come luogo fisico tanto il
dio che vi si identifica.
Per gli ugrici dell'Ob', il nome più
frequente è il hanti Nŭm Turem Ási o mansi
Num Torem Ás, il «cielo alto padre». Più a sud,
presso i Hanty dell'Irtyš, il nome è
Säŋke, il
«luminoso», dal quale derivano i titoli di Nūm Säŋke, l'«alto brillante», e
Yem Säŋke, il «buono brillante». Al nome del dio-cielo sono anche
collegati gli epiteti hanty Puiršo o Pairkse, e mansi Paireks,
«regolatore». Si noti che il termine num (nim, ŋa)
in samoiedo indica una forza numinosa impersonale, che può
manifestarsi sia come cielo, sia come tuono e, infine, come dio personale
celeste Num. Il termine viene anche usato per
indicare gli spiriti guardiani della mitologia samoieda, i Num.
Presso la maggior parte degli Ǝvenki si usa il nome Buḡa
«cielo», ma anche «mondo, terra. luogo». Fra gli Ǝvenki dello Enisej ricorre il
nome di Mayin, «[colui che] dà la vita» (da ma
«donare» e in «vita»), una sorta di antico dio celeste «riattivato» in
favore dell'allevamento intensivo delle renne. Presso i Nani il dio celeste ha
invece nome Ǝndurī o Ǝkšǝrī;
quest'ultimo nome è ben conosciuto anche tra gli Ǝvenki dello Enisej.
I titoli del dio-cielo altaico sono innumerevoli, ma una breve enumerazione
di essi è utile per definire la sua natura e le sue funzioni. I
più comuni derivano da alcuni degli attributi naturali del cielo, quale «azzurro» (turco gök/kök, altai kögö, mongolo
köke), «elevato» (üze), ma anche «forte» (küč). In epoca
posteriore, si aggiungerà l'aggettivo «eterno» (mongolo möŋke, altai
möŋkö). Per i Mongoli, la parola tŋri/teŋri, usata originariamente per
indicare il cielo materiale, divenne anche un titolo del qan (xalxa xān)
«signore, sovrano, imperatore». Tra altri gruppi
mongoli, titoli accessori del dio-cielo erano aq qayas «luce chiara» e
qayas qan «signore luminoso».
Tra gli Altai, il dio cielo è rappresento dall'immagine di
Täŋärä Qayra
Qan, il «misericordioso signore del cielo» (o piuttosto, con traduzione
più pertinente, il «misericordioso cielo signore»). Alcuni suoi epiteti si sono
però specializzati in figure divine distinte, com'è il caso di titoli come Ülgän
«grande» o Bay ülgän «grande ricco», da cui è derivata un personaggio a
sé stante, il dio Bay Ülgän. I Tatari di Minussinsk lo chiamano
Çär čayanï e i Teleuti Çär yayučï, «creatore della terra». È
pure attestato tra gli Altai e i Tuvini il termine Qurbïstan, proveniente, attraverso il mongolo
Qormuzda, dal nome di Ōrmuzd, il dio supremo
nello zoroastrismo. L'epiteto Qayra Qan, «signore
misericordioso», è invece un attributo generico, che può indicare qualsiasi spirito o dio del
pántheon
altai; è pure epiteto di Ärlik Qan,
il signore del mondo infero.
Presso gli Altai e i Kïrgïz compare
accessoriamente il termine di origine persiana Quday, «superiore». Questo termine si è
generalizzato indicando, tra gli Altai, una classe di spiriti celesti,
considerati figli di Bay Ülgän. Nel sincretismo
mongolo tra sciamanesimo e lamaismo, il termine Buddha, opportunamente
mongolizzato in Burqan (burjato e xalxa Burxan,
uigurico giallo Purqan, altai Pïrqan), è stato usato per moltissime divinità dei
rispettivi pánthea. Tale termine indicava tanto il dio
creatore, tanto i molti dèi minori a lui sottomessi.
(Marazzi 1984)
Nella poesia religiosa arcaica dei Saxa/Jakuti, il dio-cielo è definito Ürüŋ Ay Toyon,
il «bianco signore creatore», ma anche Ar Toyon
«alto signore» e Ay Toyon «signore creatore».
Probabilmente il termine saxa ay, indicante un'intera classe di dèi
celesti, è connesso con un radicale significante originariamente «disporre»,
«volere».
Un altro aspetto peculiare del dio-cielo altaico – sovrano universale e
garante dell'ordine cosmico – è la passività. Egli tende a divenire un
deus otiosus, a disinteressarsi delle vicende umane, a rinunciare alla funzione della
sorveglianza punitiva e del castigo. Così, Buga,
dio-cielo degli Ǝvenki, è onnisciente, ma non
interviene mai nelle faccende umane, ma neppure è destinatario di un culto; il
Täŋärä Qayra
Qan degli Altai non si discosta mai dal suo empireo, situato nel
diciassettesimo livello celeste; l'Ürüŋ Ay Toyon
dei Saxa, dimorante nel settimo cielo, regna su ogni cosa, ma non fa che il
bene, e certamente, non punisce i malvagi. (Eliade 1976)
Parallelamente, in molte aree altaiche, il termine si è specializzato quale termine generico per dio,
cosicché anche le divinità minori hanno cominciato a venire chiamate teŋri/täŋärä.
Incontrando i vari monoteismi, nei paesi a matrice cristiana, manichea o
musulmana, il termine è stato usato come sinonimo del Dio supremo: in turco e
azerbaycano la parola Tanrı viene oggi usata come sinonimo di
Allāh, mentre la parola «cielo», con slittamento
semantico, viene a indicarsi con uno dei vecchi qualificativi del dio, gök «azzurro».
(Marazzi 1984)
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II -
IL DIO-CIELO, GARANTE DELL'ORDINE COSMICO Il *teŋri altaico è,
in sintesi, una personificazione del cielo, sebbene possa venir percepito
distinto da esso. La distinzione che il pensiero altaico applica tra il cielo
fisico e il dio-cielo non è facile da definire, e rimane il sospetto che si
tratti solo di una questione pratica e cultuale, non teologica o concettuale. Si
rispecchia forse nel senso in cui uno spirito-guardiano si identifica nella cosa
o nell'elemento a cui fornisce un'anima e una personalità. La volontà di
Teŋri si manifesta soprattutto attraverso i
fenomeni atmosferici (pioggia, fulmini, etc.), ed ha una diretta conseguenza
nell'azione fecondante che apporta alla terra e al rigoglio della natura. Il *teŋri appare nelle preghiere come creatore e signore del mondo.
Tuttavia, nei miti, la funzione di creatore è spesso attribuita ad altre figure
minori, le quali intervengono caratteristicamente a coppie ①, o addirittura in gruppi (come i Burqan,
i
«Buddha» dei Mongoli, dei Soioti e dei Burjati). Ma la più eminente funzione del
dio-cielo mongolo è, come nell'area cinese, il governo del mondo umano e naturale che
garantisce la continuità dei ritmi cosmico-sociali. Il governo del
Teŋri celeste era trasferito, sulla Terra,
al qan terreno. Era un'idea di creazione strettamente legata a quella di legge cosmica.
Il cielo era l'archetipo dell'ordine universale;
Teŋri
era il garante sia
della perennità e dell'intangibilità dei ritmi cosmici, sia dell'equilibrio
delle società umane. I Mongoli credevano che il cielo vedesse tutto, e quando pronunciavano un
giuramento, esclamavano: “Che il Cielo lo sappia!” o “Che il Cielo lo veda!”
Teŋri non possedeva templi, né si sa con sicurezza
se sia stato rappresentato in qualche modo. I condottieri lo adoravano sulla
cima delle montagne, oppure lo pregavano isolandosi nelle loro tende, prima
delle compagne militari (come fece Čiŋɣïs Qan, che scomparve per tre giorni).
Il sigillo di Čiŋɣïs Qan portava la seguente iscrizione: «Dio in
cielo e il qan in terra! Il sigillo del padrone della terra». Ma il
principio era presente già nelle iscrizioni dell'Orxon,
innalzate dai qağan della confederazione dei Gök Türük nell'VIII
secolo, dove si legge:
TÜRK
BODNG TÏ KÜSI YOK BOLMZUN TIYN KŊM KGNG ÖGM
KTUNG KÖTRMŞ TŊRI IL BIRGME TŊRI TÜRK BODN
TÏ KÜSI YOK BOLMZUN TIYN ÖZMN OL TŊRI KGN
OLRTDI RNÇ |
Türük budunïğ atï küsü yoq
bolmazun tijin aqaŋïm qağanïğ ögüm qatunïğ
kötürmiş Teŋіri il bеrigme Teŋіri Türük
budun atï küsü yoq bolmazun tijin özümüz ol
Teŋіri qağan olurtadï erinč. |
Teŋri, che innalzò mio padre, il qağan, e
mia madre, la qatun, e consegnò loro un regno affinché il nome e la fama
del popolo Türük non perissero, quel Teŋri designò
me stesso qağan. |
Xöšȫ Cajdam > Iscrizione di Kül Tiğin [I:
-] |
È la stessa
concezione che avevano i Cinesi dell'imperatore, huángdì, considerato
figlio o rappresentante terrestre del sovrano celeste Shàng
Dì (o Yǜ Huáng). Il
termine cinese tiān mìng «mandato del cielo»
indicava il riflesso sulla terra, nella persona dell'imperatore terreno,
di questa norma reggitrice universale. La diade formata dal cielo divinizzato e
dall'imperatore terreno garantiva l'ordine cosmico universale e la vita sulla
terra. Sia in Cina che in Mongolia, l'efficienza del cielo era rafforzata dal
mito della sovranità e della forza dell'impero.
In un'occasione, Čiŋɣïs Qan salì sul
monte Burqan Qaldun, togliendosi umilmente il berretto e portando al collo la cintura in
segno di sottomissione, per avvicinarsi al Teŋri e chiedergli
soccorso. Come l'imperatore cinese era tiān zǐ, il «figlio del cielo», il
qan
mongolo era ǰayagan.
Il termine ǰayaga indica, presso i Mongoli, proprio questa volontà ordinante e predisponente del cielo. Quindi
ǰayagači teŋri è il dio che dirige e governa il
cosmo. La medesima nozione appare presso i Burjati con il corrispondente
termine zayān; presso i Xaka con il termine čayan; presso i Tatari
con yayan/yayagan.
Il qan e i dignitari ricevevano da
Teŋri il loro potere, agivano in suo nome,
ricevevano i suoi ordini (yarlïx) e li diffondevano. E quando non erano
più in armonia con Teŋri, era un periodo di
sconvolgimento: Teŋri manifestava la sua
disapprovazione e il suo scontento con segni cosmici, quali comete, carestie, o
inondazioni.
(Eliade 1976 | Roux 1989)
Presso i Mongoli, soprattutto, Teŋri era prima di
tutto un dio nazionale e imperiale. Il popolo mongolo, che abitava sotto la
volta del cielo, al
centro del mondo, gli conferiva spesso il titolo di «signore», qan, ma
raramente e tardivamente quello di «padre», āv. Combatteva le guerre
uniformandosi alla volontà di Teŋri, e da
Teŋri riceveva la vittoria. Era costantemente
protetto da lui, e grazie a lui sfuggiva all'annientamento, nei momenti di grave
pericolo. (Roux 1989)
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III - STRUTTURA E ORIGINE DEI PÁNTHEA ALTAICI Sebbene si riscontri, tra i popoli altaici, questa tendenza a porre
il cielo
– o piuttosto il cielo divinizzato – quale signore o qan
dell'universo, la religione è ben lontana dal muoversi in direzione di un
monoteismo di qualche tipo. L'organigramma divino contempla un complesso
sistema dove al dio-cielo è sottoposto un pántheon piuttosto ricco e
stratificato.
ma rispetto ad
altri pánthea, dove il dio supremo regna interagendo tra gli dèi a lui
sottoposti come un primus inter pares – come avviene ad esempio nella
mitologia greca, o nordica –, il dio-cielo altaico tende a
ritirarsi in cima al suo empireo, a trasformarsi in una sorta di deus otiosus e divenire un principio ontologico, una garanzia della stabilità e della
perennità del cosmo. Le azioni regolatrici nel mondo e le relazioni con
l'umanità vengono lasciate alle divinità dei cieli inferiori, le quali
acquistano a loro volta il titolo di teŋri o qan.
Il pántheon altai, in particolare, mostra le tracce storiche di tale
tendenza, portata in questo caso quasi al parossismo. Qui, il dio supremo
Täŋärä Qayra
Qan è stato sospinto nel diciassettesimo cielo, completamente al di
sopra delle faccende umane e naturali. La funzione attiva è assegnata
in primis a Bay Ülgän, il cui nome, «grande
ricco», lo qualifica immediatamente come un epiteto del dio-cielo che ha assunto
un carattere e una personalità distinta. In altre parole, in una fase nello
sviluppo della religione altaica, il dio-cielo, divenendo troppo alto e
inaccessibile, si è duplicato: ha lasciato una sua personalità minore in
uno dei cieli inferiori, in modo che potesse continuare a mantenere le funzioni
creative, dirette, materiali con il mondo. A Täŋärä Qayra
Qan non viene tributato un culto, né fanno sacrifici, mentre
innumerevoli sono quelli offerti a Bay Ülgän, a
Ärlik Qan e agli altri dèi celesti e infernali.
Probabilmente il sacrificio del cavallo, tipico di molte aree altaiche, in origine era offerto
proprio a
Täŋärä Qayra Qan, e solo più tardi è avvenuta la
sostituzione con le divinità inferiori, fenomeno che si ritrova abbastanza
spesso nella storia delle religioni. Un esempio eclatante può essere fornito dal Dyauṣ Pitṛ vedico. Sotto Bay Ülgän
vi sono poi altri gruppi divini. I Payana
amministrano i cieli inferiori (che per gli Altai sono sedici, più il
diciassettesimo dove risiede Täŋärä Qayra
Qan). I Quday sono i figli di Bay Ülgän.
Presentare liste «canoniche» di queste divinità è piuttosto difficile: i vari
gruppi divini si sovrappongono continuamente e divergono nei diversi rilevamenti
effettuati dagli etnologi presso gli Altai. Nella prossima pagina,
presenteremo in dettaglio una delle possibili liste. ① Da quanto abbiamo detto,
si potrebbe pensare che questa moltiplicazione delle divinità inferiori sia
conseguenza sia tanto dell'innalzamento del dio-cielo e della sua trasformazione
in deus otiosus, quanto della moltiplicazione degli strati
celesti, dovuta a sua volta allo
sviluppo delle pratiche sciamaniche Pur non negando che questi due fattori
possano avere influito sull'organizzazione del pántheon nelle modalità
prima descritte, è però difficile pensare che la mitologia altaica delle origini non
fosse già ampiamente politeista. Sicuramente, alla base, troviamo un diffuso e
radicato animismo. Ci sono anzi ragioni per supporre che il culto degli
spiriti guardiani (mongolo e tunguso eǰen, burjato ežen/äžän, saxa
iččitä, altai ǟzi, turco iziq)
non solo sia più arcaico di tutte le altre forme religiose, ma anzi, abbia
costituito il substrato di ogni successiva evoluzione della mitologia dei popoli altaici. Un
pántheon dove a un dio-cielo passivo sono sottoposte divinità inferiori è
piuttosto diffuso nell'Asia centro-settentrionale, e non soltanto tra i popoli
altaici, ma anche tra quelli uralici. Ad esempio, i Hanty del Vasjugan conoscono
sette divinità distribuite nei sette cieli: in quello più alto risiede Nŭm Turem,
«l'alto cielo», e sotto di esso vi sono i sette
Turem-karevel o
«guardiani del cielo» (anche detti Turem-talmas, «interpreti
del cielo»).
Ma al contrario di quanto molti autori hanno
sostenuto (Eliade 1950), non tutte le disposizioni dei
pánthea altaici non sono direttamente confrontabili con la struttura qui
definita. Se tra gli Altai l'organigramma divino è disposto in senso verticale,
tra i Saxa è in parte orizzontale: al dio-cielo ozioso Ürüŋ Ay Toyon
sono sottoposti due gruppi di divinità, gli Ay,
celesti e orientali, e gli Abāsï, terreni e
occidentali: e i primi tendono a curarsi assai poco degli affari terreni, al
contrario dei secondi, assai interessati alle faccende umane. Anche i Burjati dividono i täŋri
in due schiere: a ovest cinquantacinque Burxan
buoni, capeggiati da Esege Malān Täŋri
«padre cielo calvo» (o Esege
Burxan); a est quarantaquattro divinità malvagie. (Marazzi
1984) Simile ripartizione troviamo tra i Mongoli, dove Qan
Qormusda Teŋri (xalxa Xan Xurmast Teŋer) era il primo dei novantanove (o trentatré)
teŋri del
pántheon mongolo. Considerato il padre spirituale di Čiŋɣïs Qan, derivava probabilmente il suo nome dal sogdiano xwrmwzD,
trascrizione dell'antico iranico Ahura Mazdāh.
Qan Qormusda era inoltre il capo degli otto
Sülde Teŋri o «teŋri spaventosi», spiriti
bellicosi, armati e a cavallo, che stavano a guardia delle otto direzioni, mentre
lo stesso
Qormusda, nuovamente con ripartizione orizzontale,
era signore del centro.
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IV - PIÙ CHE UNA
TEOLOGIA, UNA CAPTATIO BENEVOLENTIAE
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Qam. Sciamano altai |
Fotografia. Autore non identificato |
Date queste informazioni, tratte non da fonti primarie ma
dalle informazioni fornite dagli etnologi e dagli esploratori della Siberia, bisogna sottolineare
il fatto che i popoli altaici non hanno mai sentito il bisogno di creare una
teologia ben definita e coerente, e dunque di fornire una precisa
classificazione delle loro categorie
mitologiche.
Al contrario. In un ambiente culturale dove gli unici
intermediari tra il mondo umano e quello spirituale sono gli sciamani, i dati mitologici sono stati
ottenuti registrando le interpretazioni offerte dagli
sciamani nel corso delle loro kamlanie. Come risultato, i nomi e gli
attributi dei vari spiriti e divinità possono variare non solo tra i diversi
gruppi linguistici e le diverse etnie, ma anche da un oğuz/oğus («tribù»)
all'altro, o da
uno sciamano all'altro. Oltre a questo, le belle immagini e gli
epiteti con cui gli sciamani accompagnano le invocazione a questo o quel dio
non sono da intendersi come descrizioni mitologiche, bensì come
celebrazioni della sua potenza e magnificenza... al fine di estorcergli favori. Lo sciamanesimo
non è una religione speculativa, ma pratica. Se sentiamo dire che
uno spirito cavalca destrieri grigi tra le nuvole e veste manti di marmotta e
zibellino, dobbiamo fare attenzione a collocare tali elementi tra le definizioni
di quel particolare spirito. Ci troviamo in realtà di fronte a elogi intesi a
magnificarne la potenza, proprio come un cortigiano potrebbe fare con un potente qan per carpirne
la benevolenza.
Gli dèi altaici sono altamente indefiniti. Mancano di una
mitologia articolata, di caratteri e genealogie ben definite. E non solo
perché non esiste un preciso accordo teologico sulla loro fisionomia… ma proprio
per la particolare idea che i popoli altaici hanno della divinità. Spesso non viene fatta una netta distinzione tra un dio e l'elemento
o il fiume o la montagna di cui è il guardiano, o può addirittura capitare che
un spirito
non abbia un sesso preciso, ma venga chiamato «padre» e «madre»
nel corso della stessa invocazione. Tutti quanti sono chiamati spesso qan, «signori», sia che
vengano dal cielo o dagli inferi. Termini come täŋärä o payana o
quday non sono mai troppo precisi.
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V - UN MONOTEISMO ORIGINARIO? LA QUERELLE IDEOLOGICA
DIETRO LA NOZIONE DI TEŊRI La natura del
Teŋri altaico ha dato
origine a molte e spesso aspre discussioni, inserite peraltro intorno a tutte le
figure analoghe presenti in analoghi contesti religiosi. Il contrasto si è in
particolare consumato con una scuola di studiosi che ha voluto individuare,
nella concezione altaica del dio cielo, una tendenza monoteista, se non i
residui di un monoteismo originario.
Forse un po' di responsabilità, in questa querelle, la hanno i primi
viaggiatori musulmani e cristiani, i quali avevano rilevato, nelle loro
relazioni, come i Mongoli (chiamati «Tartari») credessero nell'esistenza di un
unico dio. Il missionario francescano Giovanni di Pian del Carpine (1182-1252),
inviato da Innocenzo IV come legato pontificio alla corte del qaɣan fra
il 1245 e il 1247, riferisce, nella sua
Historia Mongalorum, che i «Tartari»
credevano in un dio creatore di ogni cosa visibile e invisibile, dispensatore di
ogni felicità nei sette mondi e asperrimo punitore dei peccatori. Notizie
analoghe appaiono presso il minorita fiammingo Willem van Ruysbroeck
(1220-1293), inviato da Louis IX, re di Francia, al qaɣan , fra il 1253 e
il 1255. Nella lettera che Möŋke Qan (♔ 1251-1259) inviava, tramite Willem, al
re di Francia, è esplicitamente affermato che esiste un unico dio eterno in
cielo, a cui corrisponde un solo signore sulla terra. Le fanno eco le lettere
che in seguito Arɣun Qan (♔ 1284-1291) inviò a re Philippe le Bel e a papa
Nicola IV, rispettivamente nel 1289 e nel 1290. Nel
Milione, il mercante veneziano Marco Polo (1254-1324) parla di un
gran dio del cielo adorato dai «Tartari» con offerte di incenso e venerato con
tavolette che portano iscritto il suo nome, appese alle pareti delle capanne.
La valutazione di tali testi va presa con una certa diffidenza. Al riguardo,
Uno Harva ha invitato alla cautela, notando che ci mancano almeno due elementi
importanti: non sappiamo innanzitutto in quale misura i relatori cristiani (o
musulmani, per analoghe informazioni dalle fonti islamiche) si siano lasciati
influenzare, nelle loro osservazioni sulla religione dei Mongoli, dalle
ideologie monoteistiche di cui erano portatori; inoltre non sappiamo in quale
misura tali elementi possano ritenersi originari e non invece derivati da
precedenti influenze cristiane o musulmane. (Di Nola 1970)
L'idea che dietro la figura di Teŋri si stagli
una qualche forma di monoteismo originario non ha mai smesso di solleticare gli
studiosi, in particolare quelli cattolici, i quali hanno sottolineato la nozione
di un essere supremo celeste che non solo appare ben distinto dal cielo materiale, ma è
anche definibile in termini morali: è perfetto, buono, signore, creatore, etc.,
secondo tutte le categorie e gli attribuiti della teologia cattolica. Quest'ideologia
del monoteismo primordiale ha avuto il suo paladino
nell'austriaco Wilhelm Schmidt (1868-1954), eccellente etnologo e un
linguista, ma anche sacerdote cattolico, il quale si applicò per quarant'anni
al compito di ricostruire la formazione del concetto di «Dio» nelle culture
primitive, nel
suo imponente Der Ursprung der Gottesidee (Schmidt
1912-1955). Assai nota la sua querelle con lo storico delle religioni
Raffaele Pettazzoni (1883-1959), il quale riteneva che il cosiddetto monoteismo
dei popoli primitivi andasse ridotto «alle proporzioni più modeste della
credenza in un essere celeste, appercepito in figura personale del cielo,
secondo i modi di quel pensiero mitico che presiede a tutte le forme della
religiosità» (Pettazzoni 1922). Questo discorso,
che finisce per applicarsi a un ambito generale, e non più limitato ai popoli
altaici, ci rivela quali interessi ideologici vi fossero stati dietro il
tentativo degli studiosi occidentali di definire la figura di
Teŋri. Un falso problema che è stato giustamente
eliminato dagli studi altaistici solo negli ultimi quarant'anni.
Bisogna ancora aggiungere che, paradossalmente, tali interpretazioni hanno
dato molti spunti al revival della religione nazionale, oggi definita con
il termine «tengrismo», che si è registrata in molti paesi turcofoni (in
particolare Saxa/Jakuzia, Tatarstān, Burjazia, Kïrgïzstān, Qazaqstān) dopo la
dissoluzione dell'Unione Sovietica, ma anche in Mongolia e altrove. Ma queste
sono ormai derive nazionaliste e hanno poco a che vedere con la mitologia. |
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BIBLIOGRAFIA ► |
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