1 -
IL TRIMUNDIO E LA SUA STRUTTURA
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Battaglia nel cielo
(✍ 1943) |
Dipinto di Nikolaj K. Roerich
(1874-1947). |
econdo i popoli che abitano le pendici e le
valli degli Altai, nel sud della Siberia, l'universo è composto
da tre qat, o «mondi»: cielo,
terra e inferi.
Il qat superiore è Täŋärä, il «cielo»,
dove hanno dimora gli dèi celesti. Si divide a sua volta in diciassette livelli o taptï.
Su tutti regna dall'alto il dio Bay Ülgän.
Il qat centrale è chiamato Pu Çär, «questa
terra», ed è la superficie su cui vivono gli uomini.
Il qat ipoctonio, la dimora degli dèi infernali e dei morti, si chiama
Paşka Çär o «terra inferiore», e vi signoreggia il re
dei morti Ärlik Qan. Si divide a sua volta in sette
strati o pūdaq. |
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Alba sull'Altai
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
2 - PU ÇÄR, LA «TERRA REALE»
l qat centrale è
il Pu Çär, «questa terra», anche detta la «terra reale», dimora degli esseri
umani, nonché di diverse classi di spiriti e dèi. La terra è una superficie circolare,
orientata secondo i punti cardinali. È circondata all'esterno da un cingulus
mundi di montagne, talora dette in triplice fila: un confine cosmico atto a
stabilire la coerenza e la stabilità del mondo.
Questo limite si sovrappone col bordo del
cielo, che ricopre la terra come una tenda.
Il palo centrale di questa tenda è
il monte Sürö, da cui sorge l'albero
Altï Bürlü Bay Täräk, axis mundi
dell'universo. |
3 - IL MONTE SÜRÖ
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Montagne dell'Asia Centrale
(✍ 1947) |
Dipinto di Nikolaj K. Roerich
(1874-1947). |
l centro del mondo sorge il monte
Sürö (o Sürün),
interamente composto d'oro.
Pure chiamato Aq Toşon Altay Sïnï, il monte funge
da asse di rotazione del trimundio. Qui risiedono i sette quday,
figli del supremo Bay Ülgän, e qui vengono gli
spiriti per nutrirsi e riposarsi.
Su questo monte, in prossimità del terzo cielo, si trova il lago di latte
Süt-aq-Köl, dove gli spiriti si purificano quando
hanno avuto contatti con gli uomini. A questo stesso lago gli angeli custodi
yayuçï attingono l'anima dei neonati.
Sulla cima del monte Sürö vi è un luogo chiamato
Çär Täŋärä Kindigi, l'«ombelico del cielo e della
terra», da cui si innalza l'albero cosmico Altï Bürlü Bay
Tärä, il «ricco albero dalle sei foglie». |
4 - TÄŊÄRÄ, IL CIELO
l cielo,
Täŋärä è un'enorme ayïl che copre il mondo. Di conseguenza i suoi numerosi strati possono
essere considerati le varie pelli sovrapposte che formano la tenda cosmica. Le
stelle sono dei fori attraverso i quali penetra la luce del mondo
degli dèi, e la Via Lattea ne è la cucitura centrale.
Gli strati celesti, che secondo alcuni sono sette, secondo altri nove o
dodici, ma diciassette per i Teleuti dell'Altai, sono detti taptï.
In ciascuno di essi dimorano diversi dèi, sempre più importanti e potenti man
mano che si procede dal basso verso l'alto. I signori dei diciassette cieli si chiamano
collettivamente Payana.
Nel terzo taptï si trova il lago di latte
Süt-aq-Köl. Nel quarto, il dio preposto alla creazione delle anime umane,
Yayuçï Täŋärä. Nel quinto e nel sesto si trovano
il sole e la luna. A ognuno dei taptï dal settimo al quindicesimo è
preposto un diverso signore. Nel sedicesimo taptï risiede il re del cielo,
Bay Ülgän, con la sua sposa.
Nel diciassettesimo
taptï risiede il supremo e
inaccessibile dio-cielo, Täŋärä Qayra Qan.
L'ayïl è la versione altai della yurt, la tenda mobile tipica
dei popoli dell'Asia centrale. Nelle versioni più arcaiche, essa ha quattro,
sei, otto lati, con un tetto conico di scorza di larice. Si noti che lo stesso
termine in altre lingue turaniche indica invece un gruppo di yurt che si
muovono insieme; per estensione, un villaggio. |
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5 - ORIZZONTI PERICOLOSI Il bordo del cielo,
come abbiamo detto, tocca la terra lungo l'orizzonte. Questo
confine non è fisso, perché il bordo si muove di continuo in alto e in basso.
Nel momento in cui la volta celeste si alza, appare un'apertura tra cielo e
terra. È il varco da cui soffia il vento, ed è
anche la via che prendono gli uccelli quando, nel corso loro migrazioni, passano
nell'altro mondo, per cui la fessura lungo l'orizzonte è detta «porta degli
uccelli»
Se si è abbastanza rapidi, è possibile introdursi attraverso il varco e lasciare il mondo.
Ma è un passaggio difficile,
riservato agli iniziati e agli sciamani. Cielo e
terra, infatti, non fanno che azzannarsi a vicenda come due cavalli imbizzarriti e chi non è abbastanza
scaltro viene inevitabilmente stritolato tra queste mascelle cosmiche.
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L'orizzonte
(✍ 1993) |
Azat Şamil'eviç Minnekaev (1958-). Acrilico su tela. |
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6 - PAŞKA ÇÄR, IL MONDO IPOCTONIO
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La città morta
(✍ 1918) |
Dipinto di Nikolaj K. Roerich (1874-1947), olio su
pannello. |
l terzo qat del trimundio, il mondo
inferiore, è il Paşka Çär o regno dei
morti. Il signore di questa parte del trimundio è il re dei morti
Ärlik Qan.
Come il mondo celeste è diviso in diciassette strati chiamati taptï, così
il mondo ipoctonio è diviso in sette strati chiamati pūdaq «ostacoli». A
ognuno dei primi sei pūdaq regna uno dei sei figli di
Ärlik Qan. Ärlik ha la sua dimora nel settimo e più profondo degli strati infernali.
Presso il palazzo di Ärlik Qan, alla confluenza
dei nove fiumi infernali, si spalanca il lago nero
Toybodïm, che è l'equivalente infero del lago celeste
Süt-aq-Köl. Come le anime dei nascituri vengono
pescate dal Süt-aq-Köl, così le anime dei morti,
transitando su un ponte sottile come un crine di cavallo, cadono nel
Toybodïm e si trasformano in orribili larve. |
7 - L'ALBERO ALTÏ BÜRLÜ BAY TÄRÄK
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Axis Mundi
(✍ ?) |
Aleksej Leont'evic Ulturgaşev (1955-). Olio su tela. |
Altï Bürlü Bay Täräk,
il «ricco albero dalle sei foglie» è l'immenso abete (altri dicono però sia un frassino) che unisce la terra al cielo. Esso spunta dalla cima del monte
Sürö, al centro del mondo, nel luogo chiamato
Çär Täŋärä Kindigi «ombelico del cielo e della
terra».
L'albero Altï Bürlü Bay Täräk attraversa il
cielo con il tronco e tocca con la cima la dimora di Bay
Ülgän. Le sue radici affondano nel mondo ipoctonio. L'albero
è la colonna centrale
attorno a cui il cielo compie il suo vasto giro. Pertanto la sua estremità
corrisponde alla Stella Polare. Lo sciamano, nel suo viaggio estatico, usa quest'albero per
accedere alle regioni celeste o infere dell'universo.
Centro e fondamento del cosmo, l'albero garantisce la stabilità dei mondi, è
l'origine di ogni esistenza e la riserva inesauribile delle energie fecondanti e
della vita. Esso ha sette, nove o più rami, ciascuno dei quali regge uno dei cieli.
Gli Altai lo simboleggiano con pali a cui praticano un certo numero
di intaccature, oppure con abeti o betulle a cui hanno rimosso tutti i rami,
tranne quelli necessari. |
Fonti
1-6 |
Cerimonia del tamburo registrata nel 1931 da Nadežda P.
Dyrenkova
in area teleuta. (Dyrenkova 1949) |
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I - GLI ALTAI (E GLI ALTAICI)
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Panorama dei monti Altai |
Gli Altai sono un popolo di lingua turcica della
Siberia meridionale, attualmente divisi tra la Repubblica dell'Altai [Respublika
Altaj] e il prospicente Territorio dell'Altai [Altajskij kraj], a
ridosso del confine con il Qazaqstan e la Mongolia. Il territorio, in cui estati
brevi e calde si alternano a inverni lunghi e rigidi, è dominato dall'imponente
massiccio dell'Altai (il termine deriva dalla radice turca al- «oro» e
tai/tag «montagna», da cui anche il nome cinese Jīnshān «Monti d'oro»). La ricchissima rete idrografica ha, come fiumi
principali, il Katun' e il Bija, i quali sgorgano dagli Altai e si uniscono
per formare l'imponente fiume Ob', che attraversa l'intera Siberia per sfociare nel Mar Glaciale
Artico. Con i suoi 5410 km di lunghezza, l'insieme Ob'-Irtyš può essere
annoverato tra i maggiori fiumi dell'Asia e del mondo intero.
A loro volta, gli Altai sono divisi in diversi gruppi etnici, affini come
lingua e costumi:
- Altai settentrionali: Kumandini, Tubalari, Čelkani, Šori (la
classificazione di questi ultimi è piuttosto controversa);
- Altai meridionali: Altai-kiži (Altai propriamente detti), Teleuti, Telengeti.
Originariamente nomadi, con un'economia basata sulla caccia e la pastorizia
(bovini, pecore, capre), gli Altai sono divenuti stanziali sono negli ultimi
secoli, sotto l'influenza russa. Lo sciamanesimo si è conservato presso di loro
fino a tempi piuttosto recenti, sebbene a partire dal XIX secolo i missionari
ortodossi hanno diffuso il cristianesimo della regione, peraltro creando una
cultura scritta e dando una notevole spinta all'alfabetizzazione.
Dal nome dei monti Altai è detta «altaica» la famiglia linguistica, diffusa
dalla Siberia alla Turchia, comprendente le sottofamiglie turcica, mongolica e tungusa.
Si noti che la relazione tra le tre sottofamiglie è stata messa in dubbio da
alcuni studiosi, i quali considerano le similitudini tra le varie lingue non
come una eredità genetica, ma come un fenomeno di Sprachbund, il
risultato di una convergenza linguistica dovuto alla prossimità geografica. Al
contrario, altri linguisti non solo accettano la famiglia altaica, ma vi
includono anche le lingue giapponese e coreana (e in questo caso di parla di
famiglia macro-altaica). Il nome della famiglia linguistica altaica non va
confuso con l'etnonimo Altai, indicante il solo popolo sud-siberiano,
appartenente alla famiglia turcica, di cui si tratta in queste pagine. |
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II - CONCEZIONI COSMOLOGICHE DEI POPOLI ALTAICI: UN DIMUNDIO
ORIGINARIO?
È assai probabile che i popoli dell'Asia centro-settentrionale non abbiano
mai avuto un'unica immagine dell'universo, oppure che non l'abbiano tenuta
stabilmente. Le visioni cosmologiche espresse dalle varie culture uraliche e altaiche si presentano come strutture
piuttosto sofisticate, punto di arrivo di millenarie speculazioni sulla natura
del mondo, alimentate da ripetuti contatti culturali. È arduo
arrivare a definire una visione originaria, forse unitaria, che riunisca popoli
sparsi su un territorio tanto vasto. Possiamo tuttavia iniziare con il
rivolgerci ai testi più antichi a noi accessibili.
Nelle iscrizioni paleo-turche dell'Orxon,
innalzate dai qağan della confederazione dei Gök Türk, nell'VIII
secolo, l'universo si presenta essenzialmente come un dimundio, costituito da terra [yer]
e cielo [teŋri]. Così leggiamo nella laconica e, forse per questo, affascinante
«genesi dell'Orxon»:
ÜZE KÖK TŊRI SRA YGZ YR
KILNDUKDA KIN RA KIŞI OGLI KILNM KIŞI OGLNDA
ÜZE ÇIM PAM BUMN KGN ISTMI KGN OLRMŞ OLRPN
TÜRK BODNŊ ILIN TÖRÜSIN TUTA BIRMŞ ITI BIRMŞ |
Öze kök teŋіri asïra yağïz
yer qïlïntaquda ekin ara kisi oğulï qïlïnmïs
kisi oğulïnta öze eçüm apam Bumïn qağan
Estemi qağan olurmïş olurupan Türük budunïğ
Elin törüsün tuta bermis iti bermis. |
Quando furono formati il cielo azzurro in alto e in basso la terra bruna, l'uomo
[Kişi] fu formato tra di essi. Sugli esseri umani, regnarono i miei
antenati, Bumïn qağan ed Istemi qağan. Li governarono con le leggi
dei Türük, li guidarono ed ebbero successo. |
Xöšȫ Cajdam > Iscrizione di Kül Tiğin [I: 1] |
Un dimundio così costruito rimanda
probabilmente al modello cinese: una terra quadrata
sovrastata da un cielo rotondo. La terra sostiene il cielo,
il cielo ricopre la terra come una cupola
(o una yurt). Tracce di questa visione cosmogonica
sono attestate anche presso le antiche iscrizioni dei Kïrgïz.
La forma della terra, in molte aree altaiche, esprime la concezione di un universo
orientato secondo i punti cardinali. Si parla dei «quattro angoli del mondo» o delle «quattro
parti del mondo» tanto nelle iscrizioni paleoturche dello Enisej
[31. Uybat II: 3] che in quelle dell'Orxon
(Kül Tiğin [I: 2 30]; Bilge Qağan [F: 2 |
3 | 24 | I: 9]), dove le periferie del mondo
appartengono invariabilmente ai popoli nemici. I Gök Türük sono ovviamente sistemati
al centro della terra, in luogo privilegiato, proprio sotto lo zenith, dove si
trova la sacra montagna di Ötüken. Questa
concezione sembra abbastanza diffusa tra i popoli altaici. Per gli Ǝvenki/Tungusi la terra è rappresentata da una placca di
ferro quadrata. I Saxa/Jakuti la immaginano invece in forma ottagonale,
orientata secondo i
quattro punti cardinali e i quattro intermedi («mare del cerchio terrestre dagli
otto bordi»).
La cosmografia altaica vede forse il mondo limitato da un oceano cosmico;
può darsi sia
questo il senso dei «mari» di cui si parla in una delle iscrizioni dell'Orxon
(Tuňuquq [18]). Viceversa, potrebbe anche essere un cingulus mundi
di montagne a recintare il mondo garantendogli stabilità e sicurezza. I monti
Urali sono, per i Mansi e i Hanty (rispettivamente i Voguli e gli Ostjaki,
secondo i vecchi etnonimi di origine russa), la barriera che
gli dèi hanno posto intorno alla terra perché questa non venga sommersa
dall'oceano cosmico esterno. Tutto ciò resta comunque assai vago.
(Roux 1984).
Vario è invece il sostegno inferiore della terra. Supporto cosmico è,
negli esempi più arcaici, un gigantesco animale: una tartaruga acquatica capovolta per i Burjati,
o non capovolta per gli Ǝvenki (i terremoti sarebbero dovuti agli improvvisi
movimenti che l'animale compie per la fatica). I Calmucchi affermano che quando la tartaruga
si capovolgerà, esausta per il calore del
sole che tutto consumerà, vi sarà la fine del mondo. Dal canto loro, gli Altai
dicono che Ülgän ha collocato il mondo su tre pesci
che nuotano sulla superficie dell'oceano cosmico: uno al centro della terra
e due ai limiti. Per altri popoli ancora intervengono quattro tori blu che
provocano i terremoti quando muovono le gambe (Teleuti), o un solo toro che li
provoca quando passa la terra da un corno all'altro (Tatari di Crimea). Il toro in questione
è a sua volta appoggiato sul dorso di un gambero gigante. E così via.
(Di Nola 1970)
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III - CONCEZIONI COSMOLOGICHE DEI POPOLI ALTAICI:
SVILUPPO DEL TRIMUNDIO
Intorno alla metà dell'XI secolo
(Roux 1984), o forse in epoca ancora più antica (Stein
1937), all'originario dimundio sarebbe stato aggiunto un terzo mondo, sotterraneo.
Uno sviluppo
certamente dovuto alla probabile influenza delle religioni straniere, in
particolare del buddhismo. Ne troviamo traccia nelle iscrizioni paleo-turche
dello Enisej, dove si parla di una iç yer, «terra interna»
(Enisej [48. Pamjatnik Abakan: 5]). Maḥmūd al-Kāšġarī (Kâşgarlı Mahmud,
1005-1102?) chiama tamu il mondo ipoctonio
(Dīwān al-Luġat
al-Turk); la parola ricompare come tamuk nel
Codex Comanicus e come tamuv in Muḥammad abū Ḥayyān
al-Ġarnāti al-Andalusī (Kitāb al-Idrāk li-lisān
al-Atrāk). Nell'epopea kïrgïz Är Töstük
se ne parla come del yer asti, il «sottoterra».
Un universo costituito da tre mondi è la situazione che
troviamo attestata presso la maggior parte dei popoli turanici.
Per gli Altai, l'universo è tipicamente formato da tre regioni cosmiche,
o qat; in particolare, i Teleuti così chiamano i tre mondi:
Täŋärä «cielo», Pu Çär «terra reale» e
Paşka Çär «terra inferiore». Tra i Saxa si chiamano Yuhǟ Doïdu, «mondo
superiore», Orto Doïdu «mondo di mezzo» e
Allarā Doïdu (o Atgu Doïdu),
«mondo inferiore». (Marazzi 1984). Anche gli Ǝvenki ripartiscono l'universo in tre
regioni, o dunda: l'Uḡu Buḡa «mondo
superiore», il Dulu Buḡa «mondo di mezzo», il
Herḡu Buḡa «mondo inferiore»
(in tunguso, buḡ indica il territorio naturale, con le foreste e i villaggi;
buḡa è invece, per estensione, il mondo, l'universo, il firmamento, il
tempo atmosferico. (Jacobson 1993).
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IV - MOLTIPLICAZIONE DI PIANI CELESTI E IPOCTONI
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Tamburo sciamanico altai |
Una scena piuttosto complessa è quella raffigurato su
questo tamburo sciamanico altai. La figura centrale è l'albero del mondo (o
forse lo spirito stesso del tamburo). Gli arcobaleni che si stendono a est e a
ovest sono forse una rappresentazione dei vari livelli celesti? La figura
centrale sembra tenere il sole e la luna nelle sue mani, e il motivo a zig-zag
che percorre il suo corpo per tutta la sua lunghezza rappresenta la Via Lattea.
Sul lato ovest vi è gruppo di sciamani e, in basso, un altro sciamano regge un
tamburo. Sul lato est uno sciamano con un copricapo meno elaborato
apparentemente guida una danza. In basso, un uomo sembra intento a legare un
cavallo a un albero. |
Una volta fissata una cosmologia a tre mondi
(celeste, terrestre, ipoctonio), troviamo tuttavia presso i popoli altaici una situazione
assai più complessa, dove sia il mondo celeste che quello
infero sono formati, a loro volta, da molti piani o livelli.
Il loro numero è altamente variabile. I Tatari parlano di
sette o nove cieli, gli Altai di sette, dodici, sedici o
diciassette,
i Soioti di trentatré. I Çăvaši contemplano tre
livelli celesti e tre livelli inferi: quindi sette strati. Per i Tuva dell'alto Enisej, vi sono
invece trentatré cieli, tre strati terrestri e diciotto livelli
ipoctoni. Gli Šor parlano di «settanta cieli» (a meno che non si tratti di
«settanta dèi del cielo»); i Mongoli, addirittura, di settantasette strati della madre-terra
Ötügan. (Lot-Falck 1970)
Il nostro mondo è la superficie rivolta verso l'alto dello strato centrale,
abitata dagli esseri viventi e illuminata dal sole e dalla luna. Sui tamburi dei Čakassi e dei Teleuti,
la terra appare soltanto come una stretta fascia tra due estensioni diseguali,
raffiguranti il mondo celeste e quello infero.
Il numero di livelli celesti contemplati dalle cosmologie più comuni è
comunque di sette o nove. Sul perché di questi numeri si è ampiamente discusso
(Schmidt 1912-1955). Sette cieli rimandano
forse a speculazioni sui sette pianeti, nove cieli vanno verosimilmente
spiegati con un simbolismo del 3 × 3. Sebbene per Uno Harva una cosmologia con
sette piani celesti sia più antica di una a nove (Harva
1938), ha probabilmente ragione Mircea Eliade nel sostenere che quest'ultima
sia in realtà più arcaica, e che la concezione di un mondo celeste a sette piani
debba dipendere da un influsso delle figurazioni del Vicino Oriente o dell'India
(Eliade 1950).
Tra i disegni
rupestri appaiono sovente immagini di alberi a probabile
rappresentazione del mitema dell'albero cosmico che sorregge i cieli con i suoi
rami, e questi ultimi sono tipicamente sette o nove [infra]▼. Tali immagini
sono straordinariamente simili a quelle che si possono vedere sui
tamburi sciamanici. Lo sviluppo della
cosmologia, con la conseguente moltiplicazione dei livelli celesti e ipoctoni, è probabilmente connessa proprio con le
tecniche sciamaniche. I vari piani rappresentano altrettante tappe sul cammino
dello sciamano verso il cielo o verso gli inferi, e a ciascun livello presiede un
diverso dio o spirito, che lo sciamano deve ingraziarsi affinché gli conceda dei
favori o gli dia il permesso di procedere lungo il cammino. La kamlanie –
il viaggio estatico che lo sciamano impersona dinanzi al suo «pubblico» – può
così trasformarsi in un percorso drammatico quanto romanzesco. I livelli celesti
e ipoctoni sono detti, nel linguaggio dei qam altai, rispettivamente taptï
o pūdaq, ossia «ostacoli». Tanto più sono numerose le difficoltà che lo
sciamano deve superare nella sua ascesa verso il cielo, o nella sua discesa
verso gli inferi, tanto più ne vengono confermate le abilità e le capacità.
Vedremo
in seguito come presso altre popolazioni, come Saxa o Burjati, le
suddivisioni verticali divengano meno importanti, rispetto a bipartizioni tra
est e ovest. |
V - UN
UNIVERSO-TENDA: LA FORMA DEL CIELO NELLE CONCEZIONI ALTAICHE
La capanna dei popoli nomadi dell'Asia centro-settentrionale
è considerata una
rappresentazione microcosmica dell'universo. La ger mongola, a cui
corrispondono la tirmä tatara, l'ayïl altai, l'ög tuvina, la la
č‘um di peli di renna dei Samoiedi, la capanna di scorza di
betulla dei Mansi, la kot conica dei Hanty e i molti altri tipi di
abitazione mobile nell'area nord-euroasiatica, rappresenta il più diffuso modello del cielo tanto
altaico
quanto uralico. La parola yurt (in italiano anche iurta), con cui
è definito in occidente questo tipo di abitazione, è un prestito, attraverso il
russo jurta, della parola turcica yurt «accampamento, casa» . In
turco moderno, yurt (pl. yurtlar) significa «patria», «casa»,
«albergo, dormitorio» e «tenda»).
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Yurt altaiana |
Il cielo, nella sua rappresentazione più arcaica, è essenzialmente una tenda, di
forma conica. Al di là della tenda-cielo c'è il mondo della luce e degli dèi: le stelle sono di conseguenza fori
nella tenda attraverso i quali penetra la luce. Per i Burjati, la Via Lattea è
la cucitura centrale della tenda. Gli dèi ne sollevano di
tanto in tanto il bordo o l'aprono per vedere cosa accade nel
mondo: è allora che cadono le meteore. Secondo i Saxa, quando la
tenda-cielo è aperta gli dèi accordano agli uomini
tutto ciò che essi chiedono. (Harva 1938 | Eliade 1950)
Sempre secondo i Saxa, vi è un rapporto di analogia tra i numerosi livelli
del cielo e le varie pelli sovrapposte e ben tese che formano il tessuto della
tenda.
La Stella Polare brilla alla sommità della tenda celeste e i popoli altaici
la concepiscono appunto come l'estremità della colonna che sostiene il cielo. I
mitemi
relativi a questa colonna cosmica si sono caricati via via di significati
accessori che ne hanno talvolta alterato il senso fondamentale, connesso
all'ascensione sciamanica. La
Stella Polare è definita «colonna d'oro» dai Mongoli, dai Calmucchi, dai Burjati
e
dagli Ǝvenki; «colonna di ferro» dai Kïrgïz, dai Bašqorttar e dai Tatari della
Siberia; «colonna solare» dai Teleuti dell'Altai (Eliade 1950
| Lot-Falck 1970). A tale
colonna sono attaccate le stelle, come al palo presso le tende si legano i
cavalli dei nomadi. I Tatari ritengono che i «sette animali» che compongono l'Orsa
Maggiore siano appunto legati alla colonna cosmica. Per i Saxa la Stella Polare è il «signore del
piolo dei cavalli» a cui gli ay attaccano le loro cavalcature.
Analogamente, i Burjati affermano che i nove fabbri figli di
Božintoy hanno forgiato la stella polare come piolo per i cavalli degli
dèi. Stesse immagini tra i popoli uralici e paleoartici. Per i Samoiedi, la
stella polare è «l'ombelico del cielo». Per
gli Estoni è il «chiodo del fondo» del firmamento, immaginato
come un gran calderone (tuttavia il termine estone põhjanel può tradursi
anche «ombelico del nord»). Per gli An'kalyt/Čukči e i Korjaki la stella
polare è la «stella ombelicale». (Di Nola 1970)
Presso gli Ǝvenki, il nome della colonna, tūrū, ha un ampio
campo semantico, significando in senso generale «puntello, palo, asta», e
indicando, in senso generale, tanto il pilastro principale del č‘um,
tanto il pilastro o l'albero del mondo. Presso certi gruppi tungusi della Transbajkalica
questo termine significa persino «universo». (Lot-Falck
1970-1976)
Quando, tra i pastori nomadi dell'Asia Centrale la forma
dell'abitazione si è modificata, e dalla tenda conica con un palo
centrale si è passati alla yurt, la funzione mitico-religiosa della
colonna è stata assunta dall'apertura superiore donde esce il fumo. Presso i
Hanty questa apertura corrisponde a un similare orifizio del cielo,
anzi, parlano di un cielo con «sette aperture per il fumo», cioè con sette sfere
celesti concentriche. Anche per gli Altai, a ognuno dei cieli sovrapposti
corrisponde un foro per il fumo, ed è attraverso questi fori sovrapposti –
probabilmente immaginati sulla stessa verticale – che lo sciamano passa
nella sua ascesa (Di Nola 1970 | Lot-Falck 1970-1976).
Gli Ǝvenki chiamano la stella polare buḡa saŋarin, il «foro del cielo»,
perché connette il nostro mondo centrale, Dulu Buḡa,
con il mondo superiore, Uḡu buḡa
(Čičlo 1987). Anche gli An'kalyt assimilano il
buco del fumo al «foro» che la
stella polare fa nella volta celeste e ritengono che i tre mondi siano
collegati tra loro da fori dello stesso genere: in altre parole, il buco per il fumo del cielo ha la sua contropartita nel buco per
il fumo della terra, il quale conduce agli inferi. E sono appunto questi i
passaggi utilizzati dagli sciamani nei loro viaggi estatici.
(Harva 1922 | Eliade 1950)
|
VI - LE «MASCELLE» DEL CIELO Tenda, marmitta,
coperchio, calderone rovesciato sono le immagini richiamate più di frequente
per simboleggiare la forma del cielo. Altre rappresentazioni cosmologiche
raffigurano il cielo come una volta di pietra, o meglio, come
una montagna che copre il mondo. Per i Nanai/Goldi, dopo
che gli dèi costruirono il cielo di pietra, gli uomini ebbero a temere che esso
crollasse loro addosso, e allora gli dèi alitarono su di esso e ne nascosero la
vista agli uomini (i meteoriti sono tuttavia i frammenti che crollano giù dalla
volta di pietra).
Il cielo copre la terra seguendo la curva
dell'orizzonte, dicono i Burjati, come un arco che abbia alle estremità il sole
e la luna. Coprendo la terra, il cielo viene a contatto con questa lungo tutto
il bordo dell'orizzonte, dove, per riprendere le espressioni degli oloŋxo
saxa, «si sfilaccia come le frange e gli ornamenti d'argento di una
sposa» o «come le piume di una gru», mentre il mondo ipoctonio gli viene
incontro «come le punte rialzate degli sci ǝvenki» (Lot-Falck 1970).
A dispetto degli aggraziati paragoni, questi punti di contatto sono estremamente
pericolosi in quanto il cielo e la terra sono in perpetuo movimento e si
scontrano e si urtano tra loro «come stalloni infuriati che si mordono l'un
l'altro».
Nel momento in cui la volta si alza, appare una fessura tra cielo e terra, al
confine dell'orizzonte. Introdurvisi però è molto difficile: si rischia di
venire stritolati tra queste mascelle cosmiche, ed è questo il nome che
viene spesso assegnato a tali punti critici (il termine mongolo tügüsi
significa sia «crepuscolo» che «estremità delle mascelle»). Troviamo questa
spaventosa «bocca del cielo» segnata sulle rappresentazioni oroči dell'universo.
È anche uno dei passaggi utilizzati dagli sciamani o dagli iniziati per lasciare
il mondo e muoversi attraverso le sfere celesti. (Ehrenreich
1910 | Harva 1922 | Eliade 1950)
Sebbene attestata presso tutt'e tre le sottofamiglie – turanici, mongolici e tungusi
– questa immagine
cosmologica non può essere considerata esclusivamente e specificatamente altaica.
Esiste anche presso le popolazioni paleosiberiane e paleoartiche. Per i Nivxi, un vento violento
passa attraverso questa fessura. Secondo gli An'kalyt è attraverso di essa che spariscono gli uccelli
quando nelle loro migrazioni passano nell'altro mondo, onde per cui la fessura
del cielo è detta «la porta degli uccelli». Quest'ultimo particolare è attestato
anche presso i Cinesi. |
VII - MONTAGNA O COLONNA: L'AXIS MUNDI
La rappresentazione altaica dell'universo non può dirsi completa senza
l'immagine di un axis mundi che, dal centro del cosmo, attraverso tutti i
mondi e i
piani cosmici, collegando l'ombelico della terra a quello del cielo (la stella
polare). Questa colonna inamovibile, centro d'attrazione attorno al quale
gravitano i corpi celesti, può essere – nella sovrapposizione di tradizioni – una montagna, un albero, o entrambe le cose.
La montagna cosmica, ben conosciuta alla maggior parte dei popoli altaici,
funge da centro del mondo oltre che da punto di contatto tra la terra e il
cielo. Essa è chiamata Sumer
presso i Calmucchi; Sumur,
Sumïr, Sömbör tra i Mongoli;
Sumbur, Xümer tra i
Burjati, Sürö, Sürün tra gli
Altai. Tutti nomi che tradiscono un'influsso indiano, derivando da quello del
mitico Meru o Sumeru,
l'imponente monte che la cosmologia induista e buddhista pone al centro
dell'universo, sotto la stella polare. Gli Altai chiamano questa montagna Aq Tošon Altay Sïnï;
ritengono sia d'oro e sia la sede dei sette quday o dello stesso Bay Ülgän
(Radlov 1893). I Tatari dell'Abakan la chiamano
invece «montagna di ferro»,
nome che mostra una corrispondenza con l'iranico Harā Bǝrǝzaiti.
(Eliade 1950)
La concezione della montagna cosmica appare essere parte integrante della
cosmologica altaica, oltre che motivo fondamentale dell'ideologia sciamanica.
Nelle iscrizioni paleoturche dell'Orxon si parla già di
Ötüken, una semi-mitica montagna situata al centro
del mondo, patria di origine dei Gök Türk (Kül
Tiğin [I: 23 | III: 3; 4; 8]; Bilge Qağan [I: 19 | II: 2; 3; 6]). Appare
dunque difficile ipotizzare che tale mitema possa essere introdotto presso i popoli altaici
dall'India o dall'Īrān. Al contrario, era forse probabilmente presente in Asia
centro-settentrionale in epoca assai più antica, forse anteriore allo sviluppo
delle civiltà paleo-orientali, sebbene sia stato sicuramente modificata dalle
idee religiose della Mesopotamia, diffusesi attraverso l'Īrān, o indiane,
attraverso il lamaismo (Eliade 1950). In proposito, Uno Harva
riporta un variante calmucca del mito indiano dell'Amṛtamanthana, dove
gli dèi utilizzano il monte Sumer come un
frullatoio e, smuovendo l'oceano cosmico, creano il sole, la luna e le stelle.
(Harva 1938 | Eliade 1950)
I Mongoli e i Calmucchi descrivono il monte Sumur
(Sumer,
Sumïr, etc.) a tre o quattro piani; secondo i Tatari e i Saxa ne
avrebbe invece sette, forse a rappresentare i sette cieli planetari: la stessa
concezione che animava gli architetti delle ziqqurat della Mesopotamia. La
vetta della montagna cosmica punta verso la Stella Polare, che per i Burjati si
troverebbe proprio fissata alla sua cima. Secondo gli Altai, il monte Sürö
o
Aq Toşon Altay Sïnï
arriva almeno al terzo cielo, e sulla sua cima vi è un luogo chiamato
Çär Täŋärä Kindigi, l'«ombelico del cielo e della
terra»: ed è da questo punto che si innalza l'albero cosmico Altï Bürlü Bay
Täräk (Marazzi 1984). Questo simbolismo rimanda ancora una volta alle ideologie sciamaniche: la montagna cosmica
è destinata a venire scalata dallo sciamano durante i suoi viaggi
estatici, al fine di raggiungere i livelli celesti. |
VIII - L'ALBERO COSMICO NELLA TRADIZIONE ALTAICA
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Āl Lūk Mas |
Rappresentazione devozionale, in Jakuzia. |
Oltre alla montagna cosmica, le leggende altaiche
contemplano un
altro tipo di axis mundi, un albero cosmico che sorge
al centro della terra, spesso proprio dalla cima della montagna
centrale. Fondamento e asse dell'universo, l'albero
costituisce l'impalcatura del cosmo, garantisce la stabilità
dei mondi e sostiene i cieli con i suoi rami. È l'origine
della vita e la riserva inesauribile delle energie vitali e
fecondanti.
Il simbolismo dell'albero cosmico non interferisce con quello della montagna, anzi, ne è complementare. Pur essendo due formule mitiche che elaborano
il tema dell'axis mundi, albero e montagna si integrano a vicenda.
Nelle leggende altai, l'albero è un pino chiamato
Altï Bürlü Bay Täräk e spunta sulla vetta del monte
Aq Toşon Altay Sïnï (o Sürö), nel luogo chiamato
Çär Täŋärä Kindigi
«ombelico del cielo e della terra». La sua cima tocca la dimora di Bay Ülgän
(Radlov 1893).
Alcuni gruppi altai credono che una replica dell'albero cosmico si trovi negli
inferi. Un abete a nove radici (o nove abeti) si erge davanti all'örgö di
Ärlik Qan: il dio dei morti e i suoi figli legano i
loro cavalli al suo tronco.
(Eliade 1950)
Secondo i Tatari dell'Abakan, l'albero è betulla bianca con sette rami che sorge dalla
montagna di ferro.
Tra i Saxa, l'albero cosmico è chiamato
Āl Lūk Mas, ha otto rami e sulla sua cima fa il
nido l'uccello Öksökü. Esso sorge al centro della terra ottagonale,
davanti alla casa di Ürüŋ Ay Toyon, e sui suoi
otto rami abitano i suoi figli; ha la scorza e i nodi argentati, e i suoi semi
sono d'oro; dalla sua chioma sgorga un liquido divino di colore giallo che
bevuto libera dalla fame e dalla stanchezza; presso di esso abita il primo uomo
e da esso nascono anche gli animali.
Nell'episodio di Är Töştük dell'epopea kïrgïza
Manas compare un albero altissimo che fa
pensare sostenga il cielo. (Roux 1989)
Per i Mongoli, l'albero Zambū (dal sanscrito
jambu, nome dell'Eugenia jambolana; oppure dal
Jambudvīpa, il continente più a sud dei sette mondi
che circondano il monte Meru nella cosmografia
indiana) cresce sulla
terrazza quadrata che è sulla sommità della montagna cosmica
Sumur, immaginata come
piramide tronca, e serve agli dèi come palo per legare le loro cavalcature; gli dèi [teŋri]
si nutrono del latte di quest'albero, mentre i demoni [asura],
nascosti nei crepacci della montagna, li guardano pieni d'invidia. È detto
che tale albero, con un corpo di ottantamila rami, quarantamila foglie e
quarantamila radici, abbia il re degli uccelli Garudi
sulla cima e un serpente velenoso avviticchiato attorno al tronco. Anche i Calmucchi
conoscono un albero Zambū che si leva al centro della terra; produce ogni
autunno frutti grossi come ruote di carro che vengono mangiati da un enorme
drago. (Harva 1913)
Per i Nanai vi sono tre alberi: uno celeste, sulle cui innumerevoli
foglie, in forma di uccelli nei propri nidi, vivono le anime prima di nascere [omi],
uno terrestre e uno infernale; nelle sue funzioni psicopompe, lo sciamano
riporta all'albero le anime dei morti [omi-muoni]
(Harva 1938). Per i Hanty l'albero cresce in un mare posto in mezzo al cielo;
i suoi rami toccano il cielo, le sue radici raggiungono gli inferi
(Eliade 1950). Secondo
i Turchi Osmanlı l'albero Tuba cresce nel mezzo del
cielo, e è immenso, e ognuna delle sue innumerevoli foglie corrisponde a una
delle miriadi di creature esistenti nel mondo. (Eliade 1950).
Anche l'albero cosmico, così come la montagna, è un mitema che trova la sua
collocazione nell'ideologia sciamanica. L'albero, quale impalcatura
dell'universo, funge da «scala» per lo sciamano. I suoi rami, di solito sette o
nove (otto per i Saxa) non soltanto rappresentano i vari cieli sostenuti
dall'albero stesso, a ognuno dei quali è solitamente preposto un diverso
spirito, ma rappresentano anche le «tappe» del viaggio sciamanico. Ancora oggi, le incisioni sul tronco
dell'albero cerimoniale, o il numero dei rami lasciati, rappresentano i piani
celesti o ipoctoni che, si
suppone, lo sciamano deve raggiungere e superare. (Roux 1984) |
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