DANIELE BELLO
RACCONTI SENZA TEMPO
 
 
VOLUME QUINTO
EROI ED EPOPEE
 
 


Prefazione

  1. Eracle. Eroe e semidio
    Prologo. Perseo e la Medusa
    1. La nascita e la giovinezza di Eracle
    2. Érga, le dodici fatiche di Eracle
        i. Il leone di Nemea
        ii. L'idra di Lerna
        iii. La cerva di Cerinea
        iv. Il cinghiale di Erimanto
        v. Gli uccelli della palude di Stinfalo
        vi. Le stalle di Augia
        vii. Le cavalle di Diomede
        viii. Il toro di Creta
        ix. Il cinto di Ippolita
        x. I buoi di Gerione
        xi. I pomi delle Esperidi
        xii. La cattura di Cerbero
    3. Párerga, le ultime imprese di Eracle
  2. I sette contro Tebe. La turpe saga dei Labdacidi
    1. Il ratto di Europa
    2. La ricerca di Cadmo
    3. La famiglia reale della Cadmea
    4. La reggenza degli Sparti
    5. La dinastia dei Labdacidi
    6. I sette contro Tebe
    7. Gli Epigoni
  3. Il Vello d'Oro. L'impresa degli Argonauti
    1. Frisso ed Elle
    2. La stirpe reale di Iolco
    3. Gli Argonauti
    4. Il viaggio verso la Colchide
    5. La conquista del Vello d'Oro
  4. Il mastino di Culann. Il furore dell'animo celtico
    1. La nascita di Sétanta
    2. Il mastino di Culann
    3. Ríastrad
    4. La conquista di Emer
    5. La parte del campione
    6. La razzia del bestiame di Cúailnge
    7. La morte di Cú Chulainn
  5. Sigurðr. L'ammazzadraghi
    1. Il guidrigildo di Ótter
    2. I Vǫlsunghi
    3. Sigurðr e il drago
    4. Sigurðr e i Burgundi
    5. La strage dei Nibelunghi
  6. Re Artù. I cavalieri della Tavola Rotonda
    1. La spada nella roccia
    2. La Tavola Rotonda
    3. La ricerca del Santo Graal
    4. La morte di Artù
    5. Dalla storia al mito

    Epilogo
    Bibliografia

PREFAZIONE

 

Cos'è il mito?

«Il vero, il quale, col volger degli anni
e col cangiare di lingue e di costumi
ci pervenne ricoverto di falso.
»

Gian Battista Vico
 

Dopo aver dedicato diverse notti alla stesura e alla pubblicazione dei primi quattro volumi dei Racconti senza tempo, è giunto per me il momento di chiudere questa parentesi letteraria che mi ha portato a ripercorrere un sentiero già tracciato durante l'infanzia (la mia e quella di una ancora giovane umanità), assieme ai miei pochi ma affezionati lettori.

Un sentiero che mi ha fatto riscoprire gioie, intrighi, fantasie, misteri e passioni di una fanciullezza evidente-mente mai sopita e che ho voluto condividere in empatia con l'io bambino di altre persone; il fatto, poi, che questo piccolo esperimento letterario sia servito anche per soste-nere un progetto di solidarietà a beneficio dei bambini più sfortunati è servito solo ad incoraggiarmi a completare questo lavoro.

E così, ancora una volta, dopo una giornata di duro lavoro e dopo aver condiviso la serata con i miei cari (in compagnia dell'inseparabile «favola» per i bambini), mi accingo a trascorrere le ore notturne assieme ai grandi del passato, come un «novello» Machiavelli: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch'io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro» (Lettera XI a Francesco Vettori).

Ad aiutarmi in questo arduo compito sono stati gli oltre trent'anni trascorsi in compagnia dei miti, che hanno certamente contribuito ad avere dimestichezza con la materia, e i miei due figli: la loro curiosità e la continua richiesta di favole mi hanno «costretto» a scrivere in modo semplice, affinché le storie potessero essere fruite anche da loro.

Con la speranza che questo ulteriore tentativo di ridare nuova linfa alle favole antiche possa essere utile alle generazioni presenti e future.
 


Daniele Bello
Novembre 2011

...a chi mi vuole bene.

I
ERACLE
Eroe e semidio



PROLOGO
Perseo e la Medusa

 

Perseo e Medusa
Benvenuto Cellini, bronzo (1546/1554)
Loggia dei Lanzi, Piazza della Signoria, Firenze (Italia)

i fu un tempo in cui, nell'Ellade (antico nome della Grecia), nacque e prosperò una città nel cuore del Peloponneso, tra le più antiche fondate dai Pelasgi, i primi abitanti del Mediterraneo.

Questa città viene citata nelle fonti antiche come la potente Argo; secondo la leggenda, il suo nome deriva direttamente da quello del suo mitico fondatore, il quale diede inizio ad una dinastia destinata a durare per nove generazioni; i primi reggitori di quello che fu forse il primo centro urbano dell'intera Grecia appartengono ad un passato così remoto che persino gli studiosi più meticolosi si limitano appena a citare i nomi di Inaco, Foroneo, Gelanore e tanti altri sovrani di cui si sa in realtà ben poco.

Sui primi re di Argo, tuttavia, esiste una storia che non posso fare a meno di raccontarvi, prima ancora di entrare nel vivo delle imprese del nostro eroe.

Si narra, infatti, che il nobile Danao, figlio di Belo ①, avesse deciso di riparare proprio in Argo assieme alle sue cinquanta figlie (dette, appunto, le Danaidi) per sfuggire alle persecuzioni di suo fratello Egitto. Quest'ultimo, infatti, aveva ereditato dal padre e dall'avo Epafo le corone della Libia e dell'Egitto e, geloso del suo potere, voleva eliminare tutti i suoi parenti più stretti vedendo in loro una potenziale minaccia per il suo trono.

Danao, come si è detto, riparò in Argo proprio quando si era ormai estinta la linea di discendenza della vecchia dinastia locale; date le sue nobili origini (era nipote in linea retta di Poseidon, il dio del mare), venne acclamato come sovrano dagli Argivi.

Il perfido Egitto, tuttavia, non cessò di tormentare il fratello; il potente sovrano giunse in Grecia con la sua flotta, accompagnato dai suoi cinquanta figli e minacciò di assediare Argo e di raderla al suolo, se Danao non avesse accettato le sue condizioni: ciascuno dei suoi cinquanta figli si sarebbero maritato con una delle Danaidi; in tal modo, Egitto pensava di assicurarsi la successione del regno di Argo alla morte del fratello ②.

Impotente a fronteggiare l'immane esercito del bellicoso fratello, Danao dovette acconsentire alle odiose nozze. Gli storici dei tempi antichi rabbrividiscono tuttora a raccontare la terribile vendetta che concepirono le Danaidi, la quali trucidarono i loro mariti durante la prima notte di nozze ③: tutte, tranne Ipermnestra, l'unica ad essere legata da un sentimento di vero amore con il marito Linceo: e fu grazie a loro che la dinastia dei reggitori di Argo poté continuare, più forte e solida di prima.

Essi infatti generarono Abante, che estese la sua sovranità a tutta la regione che, da allora, prende il nome di Argolide; questi era un guerriero così temibile che riusciva a terrorizzare i nemici anche solo mostrando le proprie armi custodite nel palazzo.

Abante ebbe due gemelli: Acrisio e Preto. I due fratelli non si amavano ed erano sempre in lotta fra di loro: si narra che i due avessero iniziato a battersi addirittura sin da quando si trovavano ancora nel grembo materno.

Preto e Acrisio, eredi del regno dell'Argolide, si disputarono a lungo il diritto di cingere la corona, sino a quando si giunse alla spartizione del regno: Acrisio ottenne il trono di Argo, mentre Preto ebbe la sovranità di Tirinto.

Non contento di avere ottenuto la signoria di Argo, Acrisio temeva di continuo per le sorti del suo regno anche perché, avendo avuto dalla moglie una sola figlia femmina, la bella Danae, non sapeva a chi avrebbe trasmesso il titolo alla sua morte, essendo privo di eredi maschi.

Acrisio si rivolse al famoso oracolo di Delfi per avere lumi sul suo futuro, ma la sacerdotessa di Apollo lo raggelò: ella infatti predisse che Danae avrebbe avuto un figlio maschio, ma che questi sarebbe stato destinato un giorno ad uccidere il nonno materno.

Terrorizzato dal terribile vaticinio della Pizia, la sacerdotessa di Apollo portavoce della saggezza del dio, Acrisio decise di rinchiudere la figlia in una torre ben fortificata, con porte di bronzo guardate da cani ferocissimi; solo una nutrice poteva avere accesso ai suoi appartamenti: qualsiasi contatto con persone di sesso maschile era rigorosamente proibito.

Acrisio pensava, in questo modo, di poter eludere il destino che gli era stato prospettato, ma si ingannava: il Fato, potere arcano cui neppure gli dei possono sottrarsi, stava già filando il corso della sua vita.

Alcuni mesi dopo, infatti, nonostante conducesse una triste vita da prigioniera, Danae concepì un figlio, cui venne dato il nome di Perseo. Si racconta che fu lo stesso padre di tutti gli dei, il possente Zeus, ad invaghirsi della bella figlia del re di Argo; trasformatosi in una pioggia d'oro, il dio del fulmine e del tuono penetrò attraverso le finestre della torre in cui era rinchiusa la incolpevole fanciulla, riuscendo così a sedurla.

Quando Acrisio scoprì che la figlia aveva messo al mondo un figlio maschio, concepì una terribile vendetta: fece chiudere Danae e il nipote in una cassa di legno che mise su un'imbarcazione da lasciare alla deriva.

Il «lamento di Danae», che nella sua pur terribile disgrazia tenta di tranquillizzare il figlio con una dolce nenia, è stato reso immortale dal poeta greco Simonide, che citiamo integralmente nella traduzione di Salvatore Quasimodo:

Quando nell'arca regale l'impeto del vento
e l'acqua agitata la trascinarono al largo,
Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa
le mani su Perseo e disse: — O figlio,
qual pena soffro! Il tuo cuore non sa;
e profondamente tu dormi
così raccolto in questa notte senza luce di cielo,
nel buio del legno serrato da chiodi di rame.
E l'onda lunga dell'acqua che passa
sul tuo capo, non odi; né il rombo
dell'aria: nella rossa
vestina di lana, giaci; reclinato
al sonno del tuo bel viso.
Se tu sapessi ciò che è da temere,
il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine,
riposi. Un mutamento
avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre;
e qualunque parola temeraria
io urli, perdonami,
la ragione m'abbandona.

La piccola imbarcazione navigò al largo per ore ed ore ma, miracolosamente, non fece naufragio e così la cassa venne gettata sulla riva dell'isola di Serifo, che fa parte dell'arcipelago delle Cicladi.

Fu un pescatore di nome Ditti, fratello del tiranno dell'isola Polidette, a notare lamenti e vagiti provenienti da una misteriosa cassa all'interno di una barca che si era arenata sulle rive sabbiose della spiaggia.

Ditti aprì la cassa e vi trovò Perseo e la madre ancora vivi, nonostante quel viaggio infernale in balia dei flutti; il pescatore li rifocillò e li ospitò nella sua casa, sino a quando non ripresero del tutto le forze.

Un evento così eccezionale e miracoloso fece ovviamente il giro dell'isola in poco tempo; il tiranno Polidette, commosso per la tragedia scampata dei due naufraghi, offrì loro alloggio ed ospitalità all'interno della sua reggia.

Gli anni passarono in fretta: Perseo divenne un giovane bello, forte e valoroso, mentre la madre Danae rimaneva una donna assai affascinante anche con la maturità, tanto da accendere nel re Polidette una insana passione.

Il tiranno cercava in tutti i modi di convincere la donna a sposarlo, ma Danae, il cui unico pensiero era per il figlio Perseo, non ricambiava l'amore del sovrano dell'isola.

Polidette concepì allora un piano diabolico per sbarazzarsi del figlio di Danae: sparse in giro la voce che per il bene del suo regno avrebbe preso in moglie una nobile delle isole vicine e convocò nobili e cortigiani (tra cui lo stesso Perseo) per dare l'annuncio ufficiale.

Perseo, mortificato perché non era in grado di fare un regalo di nozze al re, affermò che avrebbe procurato a Polidette qualunque dono avesse chiesto. Il re dell'isola, astutamente, espresse il desiderio di ricevere in dono per le sue nozze la testa della Medusa.

Per capire meglio quanto fosse astrusa la richiesta del re Polidette, è opportuno spiegare meglio che tipo di creatura fosse la Medusa, la più terribile delle Gorgoni.

Figlie delle divinità marine Forco e Ceto, le Gorgoni (Steno, Euriale e Medusa) avevano un aspetto mostruoso: il loro corpo era ricoperto di scaglie come quelle dei rettili e avevano serpenti vivi al posto dei capelli; esse, inoltre, avevano il potere di pietrificare chiunque avesse la sfortuna di incrociare il loro sguardo. Mentre Steno ed Euriale avevano il dono dell'immortalità, Medusa era invece mortale e poteva essere uccisa.

Affrontare la Medusa significava quindi andare incontro a morte certa: il malefico potere della Gorgone aveva già trasformato in duri sassi molti valenti eroi. Ma Perseo si era impegnato di fronte al re e a tutti i dignitari dell'isola: c'era in gioco il suo onore, ormai, per cui il ragazzo mai e poi mai si sarebbe tirato indietro; l'ardore giovanile e un po' incosciente rischiava tuttavia di essere fatale al figlio di Danae.

Per fortuna, vennero in soccorso del giovane Perseo due tra le divinità solitamente più vicine agli eroi impavidi e coraggiosi: Hermes e la vergine Pallade Atena.

Hermes prestò al giovane rampollo della casata di Argo i suoi calzari alati, per consentirgli di spostarsi in volo anche per grandi distanze, e l'elmo di Ade, che rendeva invisibile chiunque lo indossasse.

La dea Atena, invece, gli donò uno scudo lucido come un specchio, raccomandando all'eroe di non guardare mai Medusa dritto negli occhi, ma solo attraverso il riflesso di quello scudo: in tal modo, Perseo sarebbe stato immune dal tremendo potere della Gorgone.

Altri oggetti magici erano tuttavia necessari a Perseo per poter compiere la sua impresa: una falce di diamante per riuscire a decapitare il mostro e una sacca magica per riporre la testa recisa. Tali oggetti, però, erano custoditi dalle Ninfe dello Stige, le quali dimoravano in luogo sconosciuto ai molti e noto unicamente a delle sinistre creature di cui pochi parlavano senza rabbrividire per la paura: le Graie.

Figlie anch'esse delle divinità marine Forco e Ceto (e quindi sorelle delle Gorgoni), le tre Graie Enio, Deino e Pefredo erano vecchie, decrepite e avvizzite sin dalla nascita; esse inoltre avevano un solo occhio e un solo dente in comune, che si passavano tra di loro a turno.

Grazie ai calzari alati e alla guida di Hermes, Perseo raggiunse senza difficoltà la dimora delle tristi e malinconiche Graie, che si trovava ai confini del mondo conosciuto, là dove il Titano Atlante reggeva la volta del cielo per ordine del sovrano dell'universo.

Giunto alfine alla meta, il giovane figlio di Danae pensò bene di nascondersi alla vista di quelle creature tanto solitarie e pericolose, per cui si acquattò con cura in attesa del momento in cui una delle Graie avrebbe passato l'unico occhio e l'unico dente ad una delle sorelle.

Perseo, astutamente, aspettò con pazienza l'attimo fatale e riuscì a ghermire con l'audacia che è propria solo dei coraggiosi e degli sfrontati quegli strumenti così vitali per la sopravvivenza di quelle antiche creature.

Il nipote di Acrisio minacciò di portarsi via il dente e l'occhio se le Graie non gli avessero rivelato dove poter trovare le Ninfe dello Stige; prive dei loro organi vitali, le figlie di Forco e Ceto non avevano scelta se non rivelare quanto era stato loro richiesto.

Perseo non ebbe alcuna difficoltà a raggiungere le Ninfe dello Stige, le quali furono molto impressionate dal carattere di quel giovane tanto sicuro di sé che, protetto dagli dei, ambiva ad uccidere addirittura la terribile Medusa: grazie alla mediazione dello scaltro ed affabile Hermes, messaggero degli dei, esse gli consegnarono senza esitare la falce di diamante e la bisaccia che il figlio di Danae aveva richiesto.

Perseo si diresse quindi verso la terra degli Iperborei, una popolazione che abitava nelle fredde regioni dell'estremo Nord, ben oltre i limiti del mondo conosciuto, ai confini più estremi del grande mare Oceano (un enorme fiume che, secondo gli antichi, circondava le terre emerse).

Il paesaggio di Iperborea era dominato da un'atmosfera di squallore e di grande desolazione, che invitava chiunque vi mettesse piede per la prima volta alla tristezza e alla malinconia: la terra e la vegetazione erano ammantati da una cappa uniforme di grigio; quel paese non era allietato né da colori né da suoni armoniosi. Eppure quella era la patria delle Gorgoni e solo lì Perseo avrebbe potuto tentare l'impresa che sembrava a tutti impossibile: uccidere la Medusa.

Il figlio di Danae si inoltrò in una foresta oscura, dagli alberi antichissimi che sembravano osservarlo con aria di cupa disapprovazione; come un sinistro monito per i pavidi e gli incoscienti, il bosco era infestato da statue in pietra di uomini e donne con un'espressione di terrore o di vivo stupore in viso: Perseo non ci mise molto a capire che quelle erano le sfortunate vittime che avevano incrociato lo sguardo delle Gorgoni.

Perseo comprese che la sua meta era ormai vicina quando cominciò a udire il sibilo dei serpenti posti sul capo di quelle orribili creature. Resosi invisibile grazie all'elmo di Ade, il figlio di Danae avanzava camminando a ritroso, senza mai guardare nella direzione da cui proveniva il mortale richiamo dei rettili posti sul capo delle Gorgoni.

Passo dopo passo, lentamente, Perseo si avvicinava sempre di più alla tana di Medusa e delle sue orribili sorelle, con l'ausilio del riflesso dello scudo di Atena.

Quando fu abbastanza vicino ai tre mostri, Perseo si accorse che le Gorgoni stavano dormendo; l'eroe comprese che un'occasione simile non si sarebbe presentata di nuovo. Il figlio di Danae non ebbe esitazioni: afferrato il falcetto magico che gli avevano dato le ninfe stigee, tagliò di netto il collo della Medusa avendo cura di non incrociare mai il suo sguardo con quello delle malefiche creature.

Come per incanto, dal sangue della Medusa scaturirono due magiche creature: il gigante Crisaore (che gli annali ricordano come il «Guerriero dalla spada d'oro») e uno splendido cavallo alato dal manto bianco. Perseo sollevò la pesante testa del mostro e la mise nella sua bisaccia, poi balzò in groppa a quella creatura meravigliosa, cui diede il nome di Pegaso, per allontanarsi il più presto possibile da quel luogo tanto sinistro (le altre due Gorgoni, Steno ed Euriale, in fondo potevano svegliarsi da un momento all'altro…); da quel giorno i due sarebbero diventati inseparabili.

Nel viaggio di ritorno verso l'isola di Serifo, Perseo si trovò a passare nei pressi dei luoghi in cui il Titano Atlante reggeva la volta del cielo sulle sue spalle. ④

Non si sa bene quale sia stato il motivo occasionale che fece scoppiare un forte litigio tra i due (forse il figlio di Danae rinfacciò al gigante che non aveva voluto aiutarlo nell'impresa): fatto sta che il Titano, irritato, tentò di calpestare come un insetto il giovane Perseo, il quale tirò fuori dalla bisaccia la testa micidiale della Medusa e trasformò Atlante in una montagna .

Perseo e Andromeda
Affresco romano da Pompei (±50/79)
Museo Archeologico Nazionale, Napoli (Italia)

Mentre sorvolava il continente africano, di fronte a Perseo si parò uno spettacolo raccapricciante.

Una bellissima fanciulla, di nome Andromeda, era incatenata ad uno scoglio, in attesa di essere divorata da un mostro marino.

Andromeda era figlia di Cefeo, re d'Etiopia, e di Cassiopea, la quale aveva attirato su di sé e sull'intero popolo l'ira degli dei in quanto aveva osato affermare che sua figlia superava in bellezza le Nereidi.

Tale manifestazione di superbia aveva oltraggiato sia le ninfe del mare che il dio Poseidon: dopo aver funestato le coste con una terribile mareggiata, il dio dei flutti marini aveva inviato un orribile mostro (il Ketos), che terrorizzava gli abitanti facendone strage.

Il re Cefeo, consultato un oracolo, venne a sapere che l'unico modo per placare l'ira divina era quello di immolare la propria figlia facendola divorare dal mostro marino.

Quando Perseo giunse nei pressi della costa etiope in groppa a Pegaso ⑤, la povera Andromeda era ormai rassegnata alla sua terribile sorte.

La descrizione del mostro è mirabilmente descritta dal poeta Ludovico Ariosto, che narra un episodio analogo nel suo poema:

Ecco apparir lo smisurato mostro
mezzo ascoso nell'onda, e mezzo sorto.
Come sospinto suol da Bore o d'Ostro
venir lungo navilio a prender porto,
così ne viene, al cibo che l'è mostro,
la bestia orrenda; e l'intervallo è corto.
La donna è mezza morta di paura,
né per conforto altrui si rassicura.
                                          Orlando Furioso [X, 100]

Il figlio di Danae, inorridito per l'orribile sorte cui era destinata la povera fanciulla, balzò addosso al Ketos e ingaggiò una battaglia terribile.

Perseo non fece alcuna fatica a uccidere il mostro marino che doveva divorare Andromeda, grazie al terrificante potere della testa di Medusa. L'uccisione del mostro fu tuttavia ben poca cosa, a paragone di quel che successe subito dopo: durante i festeggiamenti per la salvezza della figlia del re, giunse alla reggia un vecchio pretendente alla mano di Andromeda, Fineo, accompagnato da uomini armati, pronto a tutto pur di averla. Fu Cassiopea, che non gradiva Perseo come genero, a dare il segnale della battaglia. L'eroe, per difendersi, estrasse ancora una volta la testa di Medusa ottenendo l'effetto voluto: Cassiopea divenne una statua inerte come del resto tutti quelli che avevano assalito Perseo per ucciderlo.

Perseo montò quindi in groppa a Pegaso assieme alla moglie Andromeda e fece rotta verso l'isola di Serifo.

Giunto nella sua patria adottiva, il giovane eroe scoprì che Polidette, lungi dal voler prendere moglie, aveva tentato in tutti i modi di sedurre Danae, con le buone o con le cattive, tanto è vero che la sventurata madre di Perseo era stata costretta a nascondersi presso un tempio, per trovare rifugio.

TABELLA n. 1
 
RE DI ARGO E DI MICENE

Perseo si avviò alla reggia di Polidette e, giunto al palazzo, esibì il suo dono di nozze, pietrificando il re di Serifo e tutto il suo seguito con la testa della Gorgone.

Perseo consegnò allora al padre adottivo Ditti il potere sull'isola di Serifo. Restituì poi i sandali, la bisaccia e l'elmo di Ade ad Hermes. Questi li rese alle loro legittime padrone, mentre Atena poneva la testa di Medusa in mezzo al proprio scudo.

Alcuni anni dopo, Perseo volle ritornare alla terra natia e decise di mettersi in viaggio verso la città di Argo, insieme alla moglie Andromeda e alla madre Danae.

L'ormai vecchio re Acrisio venne a sapere dell'imminente arrivo del nipote e, temendo la morte che l'oracolo gli aveva predetto, fuggì nella città di Larissa, nel paese dei Pelasgi.

Perseo non si rassegnò tanto facilmente e non si diede pace sino quando non raggiunse il nonno per rassicurarlo che non gli serbava più rancore.

Il destino, tuttavia, continuava implacabile a tessere le sue trame: durante dei giochi ginnici organizzati nella città di Larissa, infatti, Perseo si cimentò nella gara del lancio del disco: il Fato volle che un vento improvviso finì per deviare proprio il disco lanciato dal figlio di Danae, andando a colpire accidentalmente il vecchio Acrisio, che morì sul colpo. Il cupo presagio, che per anni aveva funestato la famiglia reale di Argo, si era quindi avverato.

Pieno di dolore, Perseo tributò onori funebri al nonno e lo fece seppellire fuori dalla città di Larissa. Anche se per diritto ereditario egli era destinato a succedere sul trono di Argo, il figlio di Danae non se la sentì di essere il sovrano di quella città e propose allo zio Preto (ovvero, secondo alcuni, a suo cugino Megapente), re di Tirinto, di scambiarsi i regni. ⑥

Figlio di Poseidon ed antico re dell' Egitto e della Libia.
Queste vicende sono l'argomento di una tragedia di Eschilo, Le Supplici.
Le Danaidi scontano ancora il loro terribile delitto nel Tartaro, il luogo scuro dell'oltretomba secondo gli Elleni; esse sono condannate, infatti, a riempire continuamente con delle brocche d'acqua un pozzo senza fondo.
Ancora oggi la catena montuosa del Marocco porta il nome del Titano pietrificato dalla testa di Medusa. Per l'incoerenza di cui solo i miti sono capaci, va comunque ricordato che un discendente di Perseo, il grande Eracle, si troverà a chiedere l'aiuto di Atlante per cercare le mele d'oro delle Esperidi e lo troverà nel pieno delle forze; evidentemente, il litigio non era stato così feroce oppure… il potere della Gorgone non era poi tanto spaventoso!
Che Perseo sia partito in groppa a Pegaso è la versione ufficializzata dall'arte rinascimentale e dalle trasposizioni cinematografiche; le fonti classiche ritengono in realtà che Perseo sia partito in volo utilizzando i sandali alati fornitigli da Hermes.
Sulle dinastie di Argo e Tirinto è forse opportuno spendere qualche parola in più; si racconta, infatti, che fu Perseo a fondare la città di Micene e che la dinastia dei Perseidi regnò su Micene e Tirinto per diverse generazioni prima di estinguersi a seguito di una faida tra Euristeo e i figli di Eracle, consentendo l'ascesa al trono degli Atridi (Parte I, capitolo 5).
Il re di Argo, Preto, si sposò con la moglie del re di Licia da cui ebbe tre figlie (le «Pretidi») e un figlio, Megapente, di cui si è già fatto cenno.
Il mito racconta che le Pretidi impazzirono per avere offeso la dea Hera (ovvero, secondo alcuni, il dio Dioniso), per cui lasciarono la casa paterna per dirigersi verso i monti in preda a terribili urla, trascinando con loro anche altre donne argive. Preso dalla disperazione, Preto promise qualsiasi cosa, anche una porzione del suo regno, a chi fosse riuscito a guarire le sue figlie. Intervenne a questo punto il profeta Melampo, che riuscì a guarire la Pretidi ma pretese in cambio un terzo del regno per sé ed un altro terzo per il fratello Biante.
Il territorio di Argo si divise così in tre parti, rette da diverse dinastie; della situazione di oggettiva debolezza del regno approfittò Agamennone, re di Micene, il quale rese i reggitori di Argo suoi vassalli.
La più famosa delle dinastie della città fu senz'altro quella fondata da Biante: egli infatti generò Talao, il quale a sua volta trasmise la corona al figlio Adrasto, famoso eroe della guerra dei «Sette contro Tebe»; non avendo avuto un erede maschio che gli sopravvivesse, quest'ultimo trasmise la corona a Diomede (figlio di suo genero Tideo), eroe della guerra di Troia.




.
La nascita e la giovinezza di Eracle
 

a leggenda del mitico Eracle, l'eroe più popolare della mitologia greca, inizia con la storia della casa reale di Micene, una delle città più importanti di tutta l'Ellade durante l'età eroica.

La nobile città dell'Argolide era stata infatti fondata da Perseo, l'eroe figlio di Danae famoso per aver ucciso la terribile Medusa. Altre fonti riportano invece che a costituire il primo nucleo di quella che era destinata ad essere una prospera comunità fu Miceneo, che diede il proprio nome al borgo, mentre a Perseo doveva attribuirsi la costruzione delle mura.

Il trono di Micene passò quindi ad Elettrione, figlio di Perseo, il quale aveva una figlia di smisurata bellezza chiamata Alcmena; di lei si invaghì il cugino Anfitrione ①, che decise quindi di prenderla in moglie.

I due sposi vennero tuttavia presto condannati all'esilio poiché Anfitrione aveva ucciso per un malaugurato incidente il suocero Elettrione; il fratello del defunto re, Stenelo, non volle sentire ragioni e, dopo aver conquistato il trono di Micene, allontanò quei parenti così scomodi per una eventuale successione.

Trovato rifugio presso la città di Tebe, i due sposi riuscirono a riottenere, almeno in parte, la serenità perduta; non passò molto tempo, tuttavia, prima che il buon Anfitrione venisse nuovamente coinvolto in una impresa guerresca.

A questo punto, entra in gioco nella nostra storia nientemeno che il padre di tutti gli dei dell'Olimpo, il sommo Zeus, che si innamorò perdutamente della bella Alcmena.

TABELLA n. 2
 
I DISCENDENTI DI PERSEO

Durante l'assenza di Anfitrione, Zeus prese le sembianze del marito di Alcmena per poterla sedurre e fece in modo che la notte durasse ben tre volte di più; ad accompagnare il padre in questa sua ennesima scorribanda nelle terre dei mortali fu il dio Hermes, che aveva preso l'aspetto del servo di Anfitrione, Sosia. ②

Quando Anfitrione – rientrato dalla guerra e ignaro di tutto – tornò a Tebe, egli si unì alla propria sposa. Tempo dopo, Alcmena scoprì di essere incinta: per una di quelle alchimie che solo i miti riescono a spiegare senza entrare in contraddizione, la figlia di Elettrione partorì due gemelli: Eracle (figlio di Zeus) ed Ificle (figlio di Anfitrione).

Eracle strangola i serpenti
Affresco romano (±60/79)
 Casa dei Vettii, Pompei (Italia)

A questo punto la nostra storia si complica ulteriormente poiché il grande Zeus, presagendo un grande futuro per il suo discendente, prima ancora che Eracle nascesse aveva dichiarato che il prossimo erede dei Perseidi sarebbe stato destinato ad avere una posizione di supremazia su tutta la casata.

Il dio del tuono e del fulmine non aveva evidentemente tenuto in considerazione la gelosia di sua moglie Hera che, per vendicarsi dell'ennesima infedeltà del marito, ritardò il parto di Alcmena ed accelerò nel contempo quello di Nicippe, moglie di Stenelo e zio di Alcmena. Il figlio del re di Micene, Euristeo, nacque pertanto prima di Eracle e a lui dovettero porgere omaggio tutti i Perseidi.

Non contenta di ciò, la dea Hera cercò di uccidere il rampollo di Zeus ed Alcmena, mettendo due serpenti velenosi nella culla dove dormivano i due gemelli Eracle ed Ificle; lo stratagemma si rivelò inutile: quando il piccolo Eracle si svegliò, egli con molta naturalezza afferrò i due rettili strangolandoli a mezz'aria…

Zeus capì dunque che suo figlio sarebbe stato perseguitato per sempre dall'ira della regina dei cieli, sua consorte; per consentire al suo rampollo di beneficiare della divina protezione, il padre di tutti gli dei ordinò al fedele Hermes di avvicinare il piccolo Eracle al seno di Hera, mentre la dea dormiva. Il bambino succhiò così il latte della dea che, essendo divino, infuse nel figlio di Alcmena una energia sovrumana che l'avrebbe reso invincibile.

La dea Hera si svegliò a causa di un morso del piccolo Eracle ed ebbe un moto di terrore, facendo cadere dal suo seno una piccola parte del suo latte e dando origine alla Via Lattea.

Anfitrione, avendo compreso l'origine divina del bambino, non risparmiò alcuna cura nell'allevare quel figlio adottivo. Egli convocò da ogni angolo della Grecia i più rinomati maestri: il centauro Chirone, il grande arciere Eurito, il principe dei ladri Autolico e Castore, l'illustre discendente della famiglia reale di Sparta.

Il giovane Eracle apprezzò grandemente gli insegnamenti dei suoi maestri, ma non si mostrò altrettanto diligente nell'apprendere l'arte della musica; si narra, infatti, che un giorno il suo precettore Lino, discendente del divino Apollo, rimproverò aspramente il suo discepolo per la sua inettitudine a suonare la lira; Eracle, di carattere piuttosto focoso, non riuscì a trattenere la propria forza e inconsapevolmente colpì con la lira il maestro, che cadde morto a causa dell'urto.

A causa di ciò Anfitrione fu costretto a mandare il figlio adottivo tra i guardiani delle sue greggi, nei pressi del monte Citerone, sino all'età di diciotto anni. Si narra che, proprio mentre era intento a pascolare gli armenti, il giovane Eracle affrontò un leone che faceva stragi di pecore e lo uccise: da quel giorno, egli volle vestirsi unicamente con la pelle del leone che egli aveva così valorosamente sconfitto.

Sempre durante il suo esilio forzato presso i pastori, il figlio di Alcmena incontrò un giorno due donne affascinanti, ognuna delle quali lo invitava a seguirla; la prima, di aspetto florido e stupendamente vestita, rappresentava il piacere e mostrava al giovane un sentiero idilliaco e facile da percorrere; la seconda donna, invece, simboleggiava il dovere e avrebbe condotto l'eroe presso un sentiero sassoso ed irto di terribili difficoltà. Eracle, benché affascinato dalle tentazioni del piacere, preferì seguire la via della responsabilità, segnando tutta la sua vita al servizio dei più deboli..

Anfitrione era infatti figlio di Alceo e quindi nipote in linea diretta di Perseo.
Da allora, usiamo il termine «Sosia» per indicare chiunque abbia le stesse sembianze di un'altra persona. Le vicende narrate ispirarono una divertente commedia degli equivoci (Amphitruo) al poeta latino Plauto.
L'eroe era noto nel mondo ellenico anche come l'Alcide, dal nome del nonno Alceo.

 

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Érga, le dodici fatiche di Eracle
 

a fama di Eracle è nota ai posteri principalmente per le celebri Dodici Fatiche. Secondo una prima versione del mito, egli – giunto in età adulta – dovette prestare omaggio al re Euristeo a causa del suo diritto di primogenitura; quest'ultimo, ispirato dalla dea Hera, gli avrebbe imposto ogni anno delle imprese impossibili per cercare di sbarazzarsene e soddisfare così la sete di vendetta della regina degli dèi.

Secondo altri cantori, invece, Eracle – dopo avere sconfitto in battaglia gli abitanti di Orcomeno ①, nemici storici di Tebe – prese in sposa Megara (figlia del re tebano Creonte), da cui ebbe otto figli.

La terribile dea Hera, tuttavia, sconvolse la mente dell'eroe e questi, in preda alla follia, uccise con le sue mani la moglie e i figli ②.

Una volta tornato in sé e resosi conto dell'accaduto, Eracle aveva meditato il suicidio per porre fine alle proprie sofferenze; fu Teseo ③, il giovane erede al trono di Atene, a farlo desistere dal suo gesto disperato e a consigliargli di recarsi presso l'oracolo di Delfi. La sacerdotessa del dio Apollo consigliò al figlio di Alcmena di mettersi al servizio del figlio di Stenelo per purificarsi.

Anche se le fonti divergono sulla causa dei servigi al re Euristeo, tutti concordano sul fatto che Eracle dovette compiere le dodici imprese impostegli dal re di Micene, che gli valsero fama imperitura e che andremo sia pur brevemente a raccontare.
 

i. Il Leone di Nemea

a prima fatica imposta ad Eracle fu l'uccisione di un terribile leone, figlio di Tifone e di Echidna ③, che terrorizzava tutta l'Argolide.

Il leone viveva in una grotta nei pressi della piana di Nemea, che si estende sotto il monte Apesas, attraverso il quale passa la strada che conduce da Argo a Tirinto.

Si narra che Eracle si mise in viaggio e si fermò nella città di Cleone, dove venne ospitato dal re Molorco, da tempo in lutto poiché il leone aveva ucciso suo figlio; il re era intenzionato a sacrificare un ariete in onore dell'ospite ma l'Alcide chiese di aspettare ancora trenta giorni: se, in questo lasso di tempo, Eracle fosse riuscito nell'impresa di uccidere la belva di Nemea, allora il sacrificio sarebbe stato fatto in onore di Zeus Liberatore.

Quando Eracle rintracciò la grotta dove viveva la belva mostruosa, egli bloccò uno dei varchi della tana per spingere il leone ad uscire; quindi, tentò di colpirla con il proprio arco ma la creatura era invulnerabile, per cui non venne nemmeno scalfita dalle frecce.

L'eroe sradicò allora un enorme ulivo usandolo come clava, ma anche questo tentativo fu inutile. Eracle afferrò allora il leone e riuscì a strangolarlo a mezz'aria; l'eroe tornò dal re Molorco, portando sul dorso la carcassa della belva, che venne poi condotta festosamente alla presenza di Euristeo.

Il re di Micene fu talmente spaventato dalla vista del leone (anche se ormai defunto) che in seguitò proibì ad Eracle di entrare in città con le sue prede; successivamente, egli si fece preparare e collocare sotto terra un enorme vaso di bronzo, dove nascondersi tutte le volte in cui l'Alcide giungeva in città al termine di una della sue fatiche.

Eracle e il Leone di Nemea
Stamnos a figure rosse, Atene (±550/540 a.C.)
University of Pennsylvania Museum, Filadelfia (USA)

 

ii. L'Idra di Lerna

l re di Micene chiese quindi al figlio di Alcmena di sgominare un enorme drago (figlio anch'esso di Tifone e di Echidna), che infestava la palude di Lerna, presso la sorgente Amimone (in Argolide).

Questo mostro aveva sette teste a forma di serpente (o nove, secondo altre versioni del mito), di cui una immortale: divorava qualunque essere vivente gli capitasse a tiro, impestava l'aria e rendeva la terra sterile.
Eracle giunse con il proprio carro presso la tana dell'idra, accompagnato dal nipote Iolao (figlio di suo fratello Ificle); stanato il mostro con delle frecce infuocate, il figlio di Alcmena cominciò a recidere le teste del mostro con la propria spada ma ad ogni colpo dell'eroe in luogo della testa mozzata ne ricrescevano due…

L'eroe ebbe però una geniale intuizione; con l'aiuto di Iolao, egli fece bruciare i colli dell'idra prima che le teste potessero crescere; l'ultima testa (quella immortale) venne infine schiacciata sotto un gigantesco masso. In questo modo Eracle riuscì a sconfiggere l'orrida creatura e a liberare la palude di Lerna; l'eroe intinse quindi nel sangue dell'idra le proprie frecce, che in tal modo avrebbero causato ferite inguaribili e mortali.

Eracle e l'Idra di Lerna
Hydria a figure nere, Cere (±525 a.C.)
Getty Villa, Los Angeles, California (USA)

 

iii. La cerva di Cerinea

a terza fatica di Eracle fu la cattura di un animale sacro alla dea Artemide. Nei pressi della regione di Cerinea, in Arcadia, viveva una splendida cerva dalle corna d'oro e dagli zoccoli di bronzo (o d'argento, secondo un'altra variante del mito) che fuggiva senza mai fermarsi incantando chi la inseguiva e trascinandolo in paesi da cui non avrebbe più fatto ritorno; narrano le leggende che in origine l'animale fosse una compagna della dea Artemide, trasformata poi in cerva per punizione avendo accettato di essere sedotta da Zeus.

Eracle non poteva assolutamente ucciderla né ferirla, poiché essa era un animale sacro, e quindi l'eroe si limitò ad inseguirla. La frenetica corsa durò circa un anno; l'eroe raggiunse quindi la cerva in un bosco sacro posto nell'angolo più settentrionale del mare Adriatico, nella penisola d'Istria, dove viveva il popolo degli Iperborei ④.

Secondo una versione del mito, Eracle catturò l'animale mentre tentava di guadare un fiume; secondo altri, non essendo riuscito a raggiungerla, l'eroe ferì leggermente l'agile cerva con un dardo, per poi caricarsela sulle spalle e condurla a Micene.

Lungo la strada del ritorno, Eracle incontrò Apollo ed Artemide, infuriati per la ferita arrecata ad un animale sacro agli dei: l'eroe riuscì tuttavia a placare le ire divine e ad ottenere il permesso di portare la cerva ad Euristeo. Quindi, l'animale venne liberato e tornò a correre libero nelle foreste.

Eracle e la cerva di Cerinea
Amphora a figure nere, Vulci (±540/530 a.C.)
British Museum, London (Gran Bretagna)


iv. Il cinghiale d'Erimanto

a quarta impresa di Eracle fu quella di catturare un feroce cinghiale selvatico che devastava le alture di Erimanto, poste tra la regione dell'Acaia e quella dell'Elide.

L'eroe attraversò l'Arcadia e giunse quindi nella valle dell'Alfeo, dove abitavano i Centauri, esseri selvaggi abitanti dei boschi al cui corpo di cavallo a quattro zampe era attaccato un tronco umano ⑤.

Lungo la strada che l'avrebbe portato a Erimanto, Eracle incontrò un centauro di nome Folo, che decise di imbandire un banchetto in suo onore.

Poiché, durante il pasto, venne versato del vino, alcuni centauri raggiunsero la tana di Folo; dal momento che tali creature non reggevano l'effetto inebriante del liquido rosso, il simposio degenerò in una rissa, che costrinse Eracle a fare uso delle sue frecce avvelenate. Nello scontro che ne seguì, morì accidentalmente lo stesso Folo e venne ferito gravemente anche il famoso Chirone, precettore dei più grandi eroi del passato ⑥.

Eracle proseguì quindi il suo viaggio verso il monte Erimanto, dove riuscì a far uscire il cinghiale dalla sua tana spingendolo sulle alture coperte di neve; dopo un serrato inseguimento, l'eroe riuscì a catturare l'animale legandolo con corde robuste e a portarlo vivo a Micene.

Quando Euristeo vide Eracle con il mostruoso animale selvatico sulle spalle, egli ne fu talmente spaventato che andò a rinchiudersi, per la paura, dentro il vaso di bronzo che si era fatto costruire (secondo altri racconti, il re di Micene andò a nascondersi… dentro una botte!). Secondo una versione del mito, dopo aver compiuto questa fatica, Eracle si unì – sia pure per un breve periodo – alla impresa degli Argonauti, di cui parleremo più diffusamente nel Capitolo III.

Eracle, Euristeo e il cinghiale di Erimanto
Amphora attica a figure nere (±540/520 a.C.)
University Museum, University of Mississippi, Oxford, Mississippi (USA)


v. Gli uccelli della palude di Stinfalo

a quinta prova per Eracle fu quella di eliminare dei mostruosi uccelli che devastavano la zona adiacente alla palude di Stinfalo, nell'angolo nord-orientale dell'Arcadia.

Questi micidiali volatili avevano penne, ali, artigli e becco di bronzo; uccidevano lanciando le loro penne come frecce e si nutrivano di carne umana. Tali mostruosi esseri erano stati allevati da Ares ed erano così numerosi che, quando prendevano il volo, oscuravano il cielo.

La palude degli uccelli Stinfalidi emanava un odore nauseabondo a causa dei cadaveri di coloro che avevano tentato di affrontarli.

Eracle (su consiglio, pare, della dea Atena) salì su di un'altura presso il margine della palude e agitò un sonaglio di bronzo; il rumore spaventò gli uccelli facendoli volare via e rendendoli quindi facilmente raggiungibili dalle frecce avvelenate dell'eroe.

I pochi uccelli che riuscirono a sfuggire ai dardi di Eracle ripararono nell'isola di Ares, vicino alla Colchide, dove vennero affrontati e sconfitti dagli Argonauti.

Eracle e gli uccelli di Stinfalo
Amphora etrusca a figure nere, Vulci (±540/530 a.C.)
British Museum, London (Gran Bretagna)

 

vi. Le stalle di Augia

e stalle di Augia, figlio di Helios e re dell'Elide, non erano mai state ripulite dal letame ed erano circa trent'anni che vi si accumulavano escrementi al loro interno. Euristeo ordinò dunque ad Eracle di recarsi nell'Elide e ripulire in un solo giorno le stalle del re Augia.

L'eroe, recatosi presso il sovrano, ricevette da questi una proposta: se fosse riuscito a compiere una fatica simile avrebbe ricevuto in cambio metà delle sue ricchezze.

Eracle deviò le acque dei fiumi Alfeo e Peneo, riversandole all'interno delle stalle che furono quindi totalmente ripulite.

L'Alcide tornò da Augia, il quale – avendo appreso che l'impresa era stata imposta ad Eracle da Euristeo - non volle però rispettare i patti; il re di Elide intentò un processo contro Eracle prendendo quali testimoni tutti i principi suoi figli. Tutti testimoniarono a favore del padre, con l'eccezione di Fileo; adirato, Augia, scacciò dal regno suo figlio, insieme all'eroe. Quest'ultimo, prima di andarsene, giurò che si sarebbe presto vendicato sul re e sui suoi figli.

Durante il viaggio di ritorno, Eracle difese la giovane figlia di Dessameno, re di Oleno, dalle grinfie del centauro Eurizione, che venne sconfitto ed ucciso dall'eroe.
 

vii. Le cavalle di Diomede

iomede, figlio del dio Ares (da non confondere con l'eroe omerico), era un sovrano dei Bistoni, una popolazione della Tracia, famoso per la sua crudeltà, il quale allevava cavalle che nutriva con carne umana (dapprima, gli dava in pasto i soldati caduti in battaglia; in seguito, anche gli sventurati ospiti che venivano invitati a corte); si trattava, ovviamente di animali molto particolari, che alcuni vogliono imparentati con le Arpie, le Erinni o addirittura le Gorgoni. Euristeo ordinò ad Eracle di portare a Micene le Cavalle della Morte, senza però rivelargli le terribili abitudini alimentari delle giumente.

Eracle si mise in marcia e giunse in Tessaglia e precisamente a Fere, dove regnava il re Admeto (che l'eroe aveva già avuto modo di conoscere durante la spedizione degli Argonauti).

Il re di Fere accolse l'Alcide con tutti gli onori anche se aveva sofferto da poco un gravissimo lutto: la morte della moglie, la bella e saggia Alcesti.

Tempo addietro, infatti, Admeto era stato colpito da una grave malattia che l'avrebbe condotto presto al decesso; impietosito per la sorte di un sovrano così giusto, il dio Apollo cercò di intercedere per lui presso la dea della Morte, la terribile Thanatos; il dio del sole e delle arti, infatti, era stato a lungo al servizio di Admeto come pastore in un periodo in cui era stato costretto a vagare come un comune mortale sulla terra per aver disobbedito al volere del padre Zeus.

Thanatos aveva ceduto, in parte, alle preghiere di Apollo e concesse di salvare il re di Fere solo se qualcuno si fosse offerto di morire in sua vece. Né il padre né la madre del re (benché anziani), né alcuno dei sudditi di Fere avevano tuttavia accettato di sacrificare la loro vita per Admeto, tranne la moglie Alcesti.

La bella sovrana, quindi, aveva cominciato a deperire di giorno in giorno (mentre il marito riprendeva le forze) ed era deceduta poco prima dell'arrivo di Eracle.

L'eroe, ignaro dell'accaduto, chiese ospitalità ad Admeto e cominciò a mangiare in abbondanza e a gozzovigliare, mentre gli abitanti e i servitori della casa piangevano nelle proprie stanze la tragica perdita della regina.

Uno dei servi, indignato per tale comportamento, rimproverò l'ospite per la propria maleducazione raccontandogli tutto l'accaduto. Vergognatosi per il proprio atteggiamento, Eracle giurò sullo Stige di ripagare l'ospitalità dell'amico.

L'Alcide si recò presso la tomba di Alcesti e, poco prima che Tanathos ne ghermisse l'anima per portarla nel regno dell'oltretomba, affrontò la dea della morte in un feroce corpo a corpo, al termine del quale la bella regina di Fere venne strappata dagli dei inferi e ricondotta nel mondo dei vivi ⑦.

Eracle proseguì quindi il viaggio verso la Tracia in compagnia di un gruppo di compagni, tra i quali figurava un certo Abdero.

L'Alcide ingaggiò una furiosa battaglia con il terribile Diomede e, mentre teneva occupato quest'ultimo, ordinò ai suoi di prendere le cavalle. Abdero, che per primo tentò di catturarle, venne divorato dalle mostruose giumente.

Furente, Eracle sconfisse Diomede e lo costrinse a condividere il destino delle sue vittime: anche lui divenne così il pasto delle cavalle ⑧.

In onore del defunto amico Abdero, Eracle fondò nel luogo della morte del compagno una città (Àbdera), che in età storica divenne la patria di illustri filosofi.

Durante il viaggio di ritorno in patria, l'eroe dovette affrontare in un duello combattuto su carri da guerra Cicno, figlio di Ares, un brigante sanguinario deciso ad edificare un tempio al padre con le ossa degli stranieri che passavano per il suo territorio; secondo la maggior parte dei narratori, Cicno fu ucciso da Eracle, mentre altri sostengono che Zeus in persona separò i due contendenti ⑨.

Tornato da Euristeo, l'Alcide sfoggiò le mitiche cavalle ma il sovrano, terrorizzato, ordinò che venissero portate via.
 

viii. Il Toro di Creta

uristeo ordinò ad Eracle di catturare un toro, che in quel tempo devastava il territorio di Creta.

Minosse, il sovrano dell'isola, era particolarmente devoto a Poseidone, il dio del mare, cui aveva promesso di offrire in sacrificio un toro; si narra, a questo punto, che lo stesso nume facesse sorgere dai flutti marini un animale dalla bellezza incomparabile. Il sovrano ne fu talmente ammirato che decise di sacrificare un altro toro e di tenersi quello splendido esemplare.

La vendetta del dio del mare non si fece attendere: la bella Pasifae (moglie di Minosse), infatti, venne posseduta da un immondo desiderio nei confronti del toro emerso dalle onde; per placare il suo ardore, la regina chiese all'artigiano più famoso dell'isola, l'abilissimo Dedalo, di costruirle una mucca di legno dove nascondersi; quello stratagemma consentì a Pasifae di ingannare il toro e di sedurlo.

Da quella folle ed insana passione amorosa nacque una creatura deforme ed atroce, cui venne dato il nome di Minotauro: il corpo gigantesco era quello di un uomo, la testa enorme era quella di un toro; si nutriva di carne umana ed emetteva terrificanti muggiti ⑩.

Il genitore del terribile mostro scorrazzava libero per l'isola di Creta, devastando il territorio e terrorizzando gli abitanti.

Eracle acciuffò la belva, richiudendola in una rete, e la portò ad Euristeo, il quale ordinò di liberarla. Il toro giunse quindi nella piana di Maratona, nell'Attica, dove venne nuovamente catturato da Teseo.

Eracle e il toro di Creta
Amphora etrusca a figure nere, Vulci (±510 a.C.)
Staatliche Antikensammlungen, München (Germania)

 

ix. Il cinto di Ippolita

u richiesta di una delle figlie di Euristeo, Eracle dovette recarsi presso le Amazzoni a prendere possesso della splendida cintura della loro regina Ippolita, figlia di Ares.

Eracle, in compagnia di un gruppo di eroi (tra i quali figurava anche Teseo), si imbarcò quindi alla volta di Temiscira, posta alla foce del fiume Termodonte, nella parte orientale del Ponto Eusino (il Mar Nero): qui, secondo la tradizione, dimorava la regina delle Amazzoni, una stirpe di temibili donne guerriere che lasciavano in vita soltanto le figlie femmine e che si amputavano la mammella destra per non essere impedite nel tiro con l'arco, specialità in cui erano maestre.

Giunti a Temiscira, gli eroi vennero accolti calorosamente da Ippolita, disposta a cedere pacificamente il proprio cinto.

La dea Hera, tuttavia, architettò uno stratagemma per non rendere la vita facile all'eroe: dapprima fece addormentare Zeus con l'aiuto di Hypnos, il dio del sonno; poi prese le sembianze di una amazzone e sobillò le donne guerriere, inducendole a credere che Eracle fosse giunto per rapire la loro regina.

Ne nacque una tremenda battaglia, al termine della quale le Amazzoni furono sconfitte e la loro regina fatta prigioniera da Teseo: dalla loro unione nacque un figlio, Ippolito, futuro seguace devoto della dea Artemide.

Quando Zeus si risvegliò dal sonno cui era stato indotto, si adirò con la moglie Hera per il suo stratagemma e, per punizione, la sospese in aria legata ad una corda d'oro, con due incudini ai piedi; il dio Hypnos riuscì invece a scamparla riparando presso la madre Notte.

Durante il viaggio di ritorno, con il prezioso cinto ben conservato, Eracle e i suoi uomini giunsero presso la città di Troia, dove un terribile mostro marino inviato da Poseidone devastava la popolazione; un oracolo aveva predetto che solo offrendo in sacrificio la principessa Esione poteva essere placata l'ira del dio del mare.

Eracle si offrì di affrontare la terribile creatura in cambio di una pariglia dei bellissimi cavalli del re Laomedonte; il sovrano, pur di salvare la figlia, accettò. L'Alcide si scontrò con il mostro (un pesce gigantesco) e lo uccise. Laomedonte, tuttavia, non rispettò i patti, scatenando così l'ira dell'eroe, che giurò di vendicarsi non appena finite le sue dodici fatiche.

Eracle contro le Amazzoni
Amphora attica a figure nere (±520 a.C.)
Metropolitan Museum of Art, New York (USA)

 

x - I buoi di Gerione

La decima fatica di Eracle fu quella di catturare i leggendari buoi di Gerione; quest'ultimo era un mostro dall'aspetto terrificante; figlio di Calliroe, una delle ninfe oceanine, e di Crisaore (il «guerriero dalla spada d'oro», nato dal sangue di Medusa che sgorgò quando venne decapitata da Perseo), l'orrenda creatura aveva tre gambe e tre tronchi, da cui si protendevano tre teste e tre paia di braccia.

Il gigante aveva posto come custodi delle sue mandrie un mostruoso cane, Ortro, figlio di Tifone e di Echidna, e il terribile vaccaro Eurizione, figlio di Ares.

I possedimenti di Gerione erano posti agli estremi confini della terra allora conosciuta, ragion per cui Eracle si imbarcò da Pilo e raggiunse i confini del mondo; ivi piantò due colonne, le cosiddette «Colonne d'Ercole», come monito futuro per l'umanità affinché nessuno dovesse più oltrepassarle ⑪.

Mentre attraversava le colonne, l'Alcide chiese aiuto a Helios, il dio del Sole, per giungere alle terre di Gerione; di fronte al rifiuto del nume, Eracle si infuriò e giunse a scagliare le sue frecce contro il cocente disco solare. Il dio, ammirato per il suo coraggio, gli consentì di usare il suo battello d'oro a forma di coppa per raggiungere il nemico; l'eroe dovette addirittura minacciare il dio Oceano, che aveva sollevato i suoi flutti, per proseguire il viaggio.

Giunto nell'isola di Erizia, Eracle affrontò Gerione, Ortro ed Eurizione, che vennero sconfitti dai terribili colpi dell'Alcide; l'eroe non esitò a colpire persino la dea Hera, accorsa in aiuto del mostro contro l'odiato figliastro.

Dopo essersi impossessato delle mandrie, Eracle partì alla volta di Micene; durante il viaggio di ritorno, egli percorse la penisola italica; giunto in Tirrenia, l'eroe si imbatté nel gigante Caco, che esalava fumo e fiamme dalle fauci. Questi rubò le bestie migliori della mandria approfittando del sonno di Eracle e, per non lasciare tracce del furto, trascinò per la coda gli animali verso la caverna che gli serviva da rifugio.

Ingannato dal trucco del gigante, Eracle si era ormai rassegnato a dare gli animali per dispersi quando sentì il muggito delle bestie dal fondo di una spelonca. Per liberarli, Eracle dovette rimuovere un macigno che faceva da soffitto alla grotta ed affrontare il mostro, che venne stritolato dalla spaventosa morsa dell'Alcide e poi scaraventato giù da una rupe ⑫.

Giunto nella punta meridionale della penisola, Eracle dovette inseguire una parte degli armenti che a nuoto avevano raggiunto la Sicilia (una parte dei buoi venne divorata dalla terribile Scilla); qui si scontrò con il despota Erice e lo uccise; il luogo di sepoltura del tiranno diede il nome all'omonima cittadina.

Una volta sbarcato in Grecia, Eracle dovette affrontare Neleo, re di Pilo (che tentò anche di rubargli gli armenti), e il gigante Alcione; inoltre, Hera mandò contro le mandrie un tafano che causò la loro dispersione. Eracle le inseguì freneticamente sino a catturarle di nuovo e riuscì alfine a portare le bestie sane e salve in patria, dove Euristeo le offrì in sacrificio alla stessa dea Hera.

Eracle contro Gerione
Amphora a figure nere (±540 a.C.)
Musée du Louvre, Paris (Francia)

 

xi. I pomi delle Esperidi

Ad Eracle venne quindi ordinato di prendere tre mele dal giardino delle Esperidi; un tale fantastico sito prendeva il nome da quattro ninfe, figlie della Notte (ovvero, secondo taluni, del titano Atlante e della ninfa Esperide; taluni sostengono invece che fossero figlie di Zeus e di Temi), che abitavano il giardino assieme al drago Ladone dalle cento teste, il custode del luogo sacro: si narra, infatti, che il giardino fosse il regalo di nozze che la dea Terra aveva fatto a Zeus ed Hera per il loro matrimonio: gli alberi che germogliavano producevano frutti d'oro.

Nessuno sapeva in quale remoto angolo della Terra si trovasse il giardino delle Esperidi. Eracle cercò dapprima di trovarlo nelle zone più sperdute della penisola ellenica, ma non ebbe fortuna.

Quindi si recò nella penisola italica, dove presso il fiume Eridano incontrò le splendide ninfe del luogo; esse furono liete di dargli consigli e gli dissero di recarsi presso il dio marino Nereo (ovvero, secondo altri, Proteo), che conosceva tale segreto.

Eracle sorprese la divinità dei flutti mentre questi dormiva e lo strinse saldamente, così come gli avevano detto le ninfe, nonostante questi cercasse di sfuggirgli utilizzando i suoi poteri di metamorfosi. Alla fine, il vecchio del mare si arrese e acconsentì a soddisfare le richieste di Eracle, indicandogli la strada per raggiungere l'isola dove si trovava il giardino delle Esperidi.

Durante il viaggio l'Alcide ottenne poi altre informazioni da Prometeo, che da lunghi anni si trovava incatenato ed esposto alle torture di un'aquila che gli rodeva il fegato. Con il consenso del padre Zeus, Eracle uccise il rapace e liberò il Titano. Prometeo gli consigliò di cercare suo fratello Atlante, padre delle Esperidi, e di far cogliere a lui stesso i preziosi frutti d'oro.

Giunto nel continente africano, Eracle attraversò l'Egitto, dove incappò nel re Busiride. Poiché, anni prima, quella terra era stata devastata da una terribile carestia, un indovino aveva profetizzato che l'ira degli dei poteva essere placata soltanto con il sacrificio di uomini nati in altre terre. Busiride aveva compiuto il primo sacrificio trucidando il malcapitato indovino e, da allora, ogni anno uno straniero era vittima di questo crudele rito.

Eracle stesso venne catturato, ma riuscì a spezzare le catene e ad uccidere il re sullo stesso altare utilizzato per il sacrificio, sotto lo sguardo terrorizzato della popolazione ⑬.

In seguito, l'Alcide si scontrò con un avversario ancora più temibile, il gigante Anteo, figlio di Gea, che sfidava tutti i malcapitati che incontrava in un duello all'ultimo sangue ⑭. Come figlio della dea-terra, il gigante era in grado di riprendere tutte le sue forze ogni volta che, messo al tappeto, egli veniva a contatto con il terreno. L'eroe trovò il modo di impedire all'avversario di servirsi di questo vantaggio tenendolo in alto con le poderose braccia e strangolandolo così a mezz'aria.

Dopo un lungo viaggio, l'Alcide raggiunse finalmente il gigante Atlante, il quale reggeva sulle sue poderose spalle la volta del cielo. Eracle si offrì di sostituirlo nel gravoso compito per qualche tempo, se questi avesse acconsentito a raccogliere per lui le mele d'oro dal giardino delle Esperidi; il Titano acconsentì ⑮.

Quando Atlante fece ritorno con i frutti rubati, non avendo nessuna intenzione di riprendere l'immane fardello di reggere il firmamento, cercò di lasciarne per sempre la responsabilità ad Eracle offrendosi di recapitare egli stesso le mele ad Euristeo.

L'Alcide, fingendosi onorato del delicato incarico, chiese ad Atlante di riprendere solo per un momento la volta celeste sulle spalle, in modo da consentirgli di intrecciare una stuoia che ne alleggerisse la pressione sulla schiena. Il gigante riprese il fardello, ma prima che potesse rendersi conto di essere stato giocato con i suoi stessi mezzi il furbo Eracle era già fuggito, portando con sé il bottino delle mele d'oro.

Eracle nel giardino delle Esperidi
Hydria attica a figure rosse (IV a.C.)
Metropolitan Museum, New York (USA)

 

xii. La cattura di Cerbero

Euristeo scelse, come ultima prova, un'impresa che sembrava impossibile per qualsiasi mortale: catturare Cerbero, lo spaventoso cane a tre teste (figlio di Tifone ed Echidna), posto a guardia dell'oltretomba: «fiera crudele e diversa, con tre gole carinamente latra sopra la gente che quivi è sommersa» .

L'Alcide si preparò a questa prova con un pellegrinaggio presso Eleusi, dove venne iniziato ai misteri per purificarsi; quindi, sotto la guida di Hermes, egli giunse al Tenaro, la punta meridionale del Peloponneso, e si addentrò in una buia spelonca che conduceva ad una delle porte dell'Ade.

Per giungere nell'oltretomba era necessario attraversare il fiume Acheronte; l'eroe si fece traghettare dal nocchiero dei morti, Caronte; giunto nell'Ade, Eracle vide le ombre dei trapassati e i terribili mostri che infestavano questa tetra regione; tra tutti gli spiriti, solo la Medusa osò affrontarlo: l'Alcide stava già per colpirla con la spada, quando Hermes gli fermò la mano, ricordandogli che le creature dell'Ade sono solo dei fantasmi.

Ad avvicinarsi ad Eracle fu l'ombra di Meleagro, celebre eroe dell'epopea del cinghiale calidonio, il quale pregò l'eroe di proteggere, una volta tornato nel mondo dei vivi, la sorella Deianira.

Eracle giunse finalmente davanti al trono dei due sovrani dell'oltretomba: Ades e Persefone. Il sovrano degli inferi, conoscendo personalmente il coraggio e l'ardore dell'Alcide, acconsentì a consegnargli il cane Cerbero, a patto però che Eracle riuscisse a domarlo con le sole mani, senza fare uso di armi.

Il figlio di Alcmena si recò di nuovo presso il fiume Acheronte, dove dimorava il terribile cane a tre teste: dopo una strenua lotta, il mostruoso figlio di Tifone e Echidna fu costretto ad arrendersi quando Eracle riuscì a serrargli tra le potenti braccia la base dei tre colli. Cerbero tentò di colpirlo con la coda, ma alla fine dovette arrendersi e si lasciò incatenare ⑯.

Presso le porte del palazzo di Ades, Eracle trovò due prigionieri, che riconobbe molto presto: erano Teseo, suo compagno in svariate avventure, e il suo amico Piritoo, il re dei Lapiti. Entrambi erano scesi nel mondo sotterraneo per rapire Persefone, ma erano stati scoperti e condannati a restare seduti per l'eternità sulla pietra dell'oblio. L'eroe riuscì a salvare Teseo ma, quando si apprestò a recuperare anche Piritoo, fu costretto ad allontanarsi per colpa di un terribile terremoto.

Eracle rivide la luce del sole nei pressi di Trezene, nella regione dell'Attica, e di qui prese la via verso Micene. Euristeo, vedendo l'eroe tornare con il mostro infernale sulle spalle, si sentì morire per la paura e ordinò che Cerbero venisse rimandato negli inferi.

Il re di Micene, avendo constatato che l'eroico cugino era uscito vincitore da tutte le prove che gli aveva imposto, si diede per vinto e lo liberò dalla sua prigionia.

Eracle, Euristeo e Cerbero
Hydria etrusca a figure nere, da Cere (VI sec. a.C.)
Musée du Louvre, Paris (Francia)

 

Durante la guerra contro i Mini, della stirpe di Orcomeno, si dice fosse deceduto lo stesso Anfitrione, padre adottivo di Eracle.
Le vicende narrate diedero spunto ad Euripide per la tragedia Eracle furente. Secondo il poeta greco, tuttavia, la follia e gli efferati omicidi di Eracle ebbero luogo al termine delle dodici fatiche.
Racconti senza tempo, Vol. I, pp. 22-39.
Gli abitanti della penisola in epoca storica, i Veneti, chiamarono questa regione Rezia.
Secondo la tradizione, i Centauri erano figli di Issione, il re dei Lapiti, e di Nefele (la «nuvola»); il sovrano aveva ospitato presso la sua reggia Zeus ed Hera ed aveva concepito una morbosa passione per la regina degli dei. Zeus, allora, creò con la nebbia una immagine della moglie (Nefele); Issione la sedusse e con essa generò un essere metà uomo e metà cavallo. Per tale oltraggio (Issione era pur sempre convinto di avere sedotto Hera), Zeus scagliò il re dei Lapiti nel Tartaro.
Secondo una versione del mito, il Centauro era immortale per cui fu costretto a languire sino a quando non chiese a Zeus la grazia di poter morire in luogo del tormentato Prometeo, il Titano incatenato sui monti del Caucaso per aver sottratto il fuoco dall'Olimpo; allora soltanto Chirone spirò e Prometeo venne liberato, dopo che Eracle – con il consenso del padre Zeus – uccise l'aquila che gli divorava continuamente il fegato.
Secondo un'altra versione, egli scese nel regno dei morti e raccontò ad Ade e alla sua sposa Persefone la struggente storia di Alcesti. I due sovrani, commossi, concessero all'eroe di ricondurre la donna nel mondo dei vivi. Queste vicende ispirarono ad Euripide la tragedia Alcesti.
Secondo la leggenda, Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno discendeva da tali giumente.
Alcuni mitografi collocano questo duello durante l'undicesima fatica.
Il Minotauro venne ucciso dal prode Teseo; v. Racconti senza tempo, Vol. I, pp. 22-39.
Sono tradizionalmente identificate con lo stretto di Gibilterra. Recentemente, il giornalista Sergio Frau ha invece proposto di collocarle nello stretto di Sicilia, ma solo al fine di identificare la Sardegna con Atlantide: cfr. FRAU, Le Colonne d'Ercole, Roma, Nur Neon srl, 2002.
Come si legge nell'Eneide, la leggenda di Eracle e Caco viene narrata dal re Evandro ad Enea.
Secondo un'altra versione del mito, lo scontro con Busiride sarebbe avvenuto nel corso del viaggio verso le terre di Gerione, durante la decima fatica.
Secondo un'altra versione del mito, la lotta contro Anteo sarebbe avvenuta, anche in questo caso, durante la decima fatica.
Alcuni poeti riferiscono che Atlante si sarebbe inizialmente rifiutato di cogliere le mele per paura del drago Ladone; a questo punto, Eracle avrebbe incoccato una freccia uccidendo il mostro con un solo colpo, convincendo così il titano a compiere l'impresa. Ma questo episodio appare «eccessivo» anche per un ingenuo affabulatore come il vostro Autore…
Alcuni poeti riferiscono che Atlante si sarebbe inizialmente rifiutato di cogliere le mele per paura del drago Ladone; a questo punto, Eracle avrebbe incoccato una freccia uccidendo il mostro con un solo colpo, convincendo così il titano a compiere l'impresa. Ma questo episodio appare «eccessivo» anche per un ingenuo affabulatore come il vostro Autore…

 

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Párerga, le ultime imprese di Eracle
 

l termine delle sue dodici fatiche, Eracle aveva così riconquistato la sua libertà e acquisito il titolo di Callinico («dalla bella vittoria»).

L'eroe decise allora di trovarsi una nuova compagna e si invaghì di Iole, figlia di Eurito, re di Ecalia (suo maestro di tiro con l'arco in gioventù). Il rinomato arciere offriva la figlia in sposa a chi lo avesse superato nella sua specialità. Eracle partecipò alla contesa e sconfisse il suo antico maestro nel tiro con l'arco; Eurito cercò tuttavia di impedire il matrimonio tra la sua adorata figlia e un uomo che non aveva esitato ad uccidere la propria moglie.

Tra i figli del re il solo Ifito prese le parti dell'eroe, da lui grandemente stimato; dal canto suo Eracle, quando si vide negare la sposa regolarmente conquistata, andò su tutte le furie.

Accadde intanto che certi buoi appartenenti ad Eurito venissero rubati; il re di Ecalia fece credere a tutti che il furto fosse stato commesso dall'Alcide per screditarlo: Ifito non accettò nemmeno allora l'ipotesi che l'amico potesse aver compiuto un'azione così meschina: unitosi ad Eracle, si mise sulle tracce del vero responsabile dell'azione.

Durante il viaggio, però, Eracle venne nuovamente posseduto dal flagello della collera, la maledizione lanciatagli dalla matrigna Hera, e fece pagare al giovane lo sgarbo di Eurito scagliandolo giù da una torre. Quando ritornò in sé e si accorse di aver ucciso un amico, l'Alcide cadde in una profonda prostrazione.

Eracle aveva commesso uno degli atti più spregevoli, secondo la morale ellenica, avendo ucciso un ospite ed un amico. Nessuno voleva compiere per lui il rito di purificazione tanto che l'Alcide decise di andare a Delfi per avere la punizione per il suo delitto.

La Pizia (la sacerdotessa di Apollo), tuttavia, non aveva alcuna intenzione di riceverlo e di ascoltarlo: di nuovo in preda alla rabbia, Eracle riportò lo scompiglio nel tempio, impadronendosi del tripode sacro ad Apollo e minacciando di compiere il rito da sé.

Lo stesso dio Apollo scese giù dall'Olimpo e decise di affrontare Eracle. Lo scontro fu tanto cruento, che Zeus fu costretto ad intervenire, separando i duellanti e imponendo alla Pizia di riferire a Eracle come potesse purificarsi dall'omicidio di Ifito e dalla profanazione dell'oracolo.

Sotto la guida di Hermes, Eracle si imbarcò verso l'Asia e si fece vendere come schiavo; venne acquistato per tre talenti da Onfale, regina della Lidia. Ella capì ben presto di che schiatta fosse il figlio di Alcmena e pensò di utilizzarlo come compagno di vita invece che come servitore.

Sotto il suo comando, Eracle liberò la regione dai Cercopi, dei ladri che potevano anche assumere l'aspetto di scimmie e che importunavano i viandanti della zona; l'eroe riuscì a catturarli e a legarli con i piedi ad un bastone, trascinandoli come secchi; ma i due si mostrarono talmente bizzarri e simpatici (facendo anche sconce allusioni al fondoschiena abbronzato dell'Alcide), che Eracle alla fine li liberò sorridendo. ①

Durante la sua schiavitù presso Onfale, Eracle uccise anche il brigante Sileo, che catturava i viaggiatori e li uccideva dopo averli obbligati a lavorare nella sua vigna; stessa sorte toccò a Litierse della Frigia, detto il «mietitore» per la sua trista fama di tagliatore di teste.

Il lusso e gli agi della vita orientale riuscirono in qualche modo a rammollire l'eroe, che divenne il passatempo preferito di Onfale; la regina era solita giocare con la clava e la pelle di leone di Eracle e si divertiva a vestirlo con abiti femminili e ad impiegarlo nella filatura della lana.

Dopo tre anni trascorsi in questo modo, l'Alcide decise di dire addio a questa vita così poco adatta a un eroe come lui e lasciò per sempre Onfale e la sua corte.

Eracle decise di vendicarsi su coloro che, durante la schiavitù presso Euristeo, avevano trasgredito i patti stabiliti. A Tirinto, l'eroe radunò un drappello di compagni eroici (tra i quali figuravano Iolao, Peleo e Telamone) per muovere guerra contro Laomedonte, il re troiano che non aveva voluto riconoscere all'eroe il giusto compenso per aver salvato la figlia Esione.

L'esercito di Eracle sconfisse il re di Troia e trucidò il sovrano e i suoi figli maschi, risparmiando solo Esione e il piccolo Podarce, che venne riscattato dalla sorella. ②

Esione andò in sposa a Telamone e dalla loro unione nacque Teucro, destinato a diventare un valoroso guerriero ed un abile arciere. Podarce, invece, decise di cambiare il suo nome in Priamo (che significa appunto il «riscattato») e rifondò la città di Troia, portandola all'antico splendore.

La vendetta personale dell'eroe non era ancora conclusa; vi era infatti un altro fedifrago da punire: Augia. Questi venne sconfitto ed ucciso insieme a tutto il suo esercito e ad i suoi alleati (tra cui il fratello Attore); i suoi domini vennero ceduti al figlio Fileo, l'unico che aveva difeso Eracle in presenza del padre.

Eracle invase anche il territorio dell'Elide per vendicarsi di Neleo, re di Pilo, che aveva tentato di sottrargli i buoi di Gerione e – si narra - non aveva voluto purificarlo dopo l'uccisione di Ifito. Il sovrano venne ucciso insieme ai suoi figli: unico sopravvissuto della famiglia reale fu Nestore, che si trovava lontano dalla propria patria ed ereditò quindi il regno paterno.

Stessa sorte toccò ad Ippocoonte, re di Sparta; Eracle lo sconfisse e mise sul trono il fratello Tindaro, destinato a divenire il padre adottivo di Elena (la donna che fu l'origine della famosa guerra di Troia). Durante queste imprese, Eracle si invaghì della sacerdotessa Auge, figlia del suo compagno ed alleato Cefeo, dalla quale ebbe Telefo, futuro re della Misia.

Eracle giunse quindi in Calidonia, una regione dell'Etolia, per riferire a Deianira, figlia del re Oineo, il messaggio che il fratello Meleagro le inviava dal regno dei morti. Eracle, che già sapeva della bellezza della fanciulla, si innamorò di lei e la portò con sé come sposa, dopo un'ardua contesa con un rivale, il dio fluviale Acheloo.

Eracle e il dio fluviale Acheloo
Stamnos etrusca a figure rosse, da Cere (530/500 a.C.)
British Museum, London (Gran Bretagna)

I due decisero di trasferirsi a Trachis, in Tessaglia, per vivere lì insieme. Giunti di fronte ad un corso d'acqua in piena, Eracle e la sua nuova moglie incontrarono il centauro Nesso, che si offrì di traghettarli sulla riva opposta portandoli sulla schiena. Eracle, dopo aver gettato sull'altra riva la clava e la pelle di leone, si tuffò a nuotare agilmente nel fiume in piena, affidando la sposa alle cure di Nesso.

Il centauro si era infiammato dalla bellezza della donna e, una volta giunto sull'altra sponda del fiume, tentò di rapirla; Eracle sentì le grida della moglie e con una delle sue frecce avvelenate trafisse Nesso in pieno petto. Negli spasimi del dolore, il centauro suggerì a Deianira di inzuppare un vestito nel suo sangue; se un domani l'eroe avesse portato la camicia intrisa con quel liquido, Eracle non si sarebbe più innamorato di nessuna altra donna.

Deianira venne così condotta a casa dell'Alcide: il matrimonio venne allietato da ben otto figli, tra cui Illo.

In seguito, Eracle mosse guerra nei confronti di Eurito, maestro d'arco e trasgressore dei patti poiché non aveva voluto cedere in sposa sua figlia al prode figlio di Alcmena (secondo un decreto dell'Oracolo di Dodona, questa era destinata ad essere l'ultima impresa di Eracle).

Eracle uccise Eurito e portò con sé numerosi prigionieri, tra cui la bella Iole; presa dalla gelosia, Deianira decise di mettere in pratica l'incantesimo che le aveva rivelato il centauro. La figlia di Oineo inviò ad Eracle un vestito immerso nel sangue di Nesso, che l'eroe indossò per celebrare i riti di ringraziamento per la vittoria.

Non appena il fuoco acceso sull'altare ebbe riscaldato il veleno con cui era intriso, il vestito cominciò a bruciare la pelle dell'Alcide, che non riusciva in alcun modo a strapparsi l'indumento di dosso.

Con le sue ultime forze, Eracle sradicò alcuni alberi e costruì una pira funebre per porre fine alle sue sofferenze; una volta preparato il rogo, né suo figlio Illo né il nipote Iolao ebbero però il coraggio di accenderlo, Eracle fu costretto a chiedere ad un pastore di nome Peante di dare fuoco alla legna. Questi ubbidì e l'eroe gli donò le sue armi, che si renderanno molto utili, durante la guerra di Troia, al figlio Filottete.

Indossata la pelle di leone che non lo aveva mai abbandonato l'Alcide salì sul rogo e spirò: con la morte dell'eroe ad opera del sangue di Nesso si avverò la profezia di un oracolo, che prevedeva la fine di Eracle ad opera di un uomo morto. ③

Iolao, dopo aver osservato tale prodigio, costruì un tempio in onore dello zio, mentre Illo, su ordine dello stesso Eracle, sposò Iole. Deianira, quando seppe ciò che era successo, in preda ai sensi di colpa si uccise.

La storia dell'eroe più amato dagli antichi Elleni non poteva non avere un lieto fine: mentre Eracle periva nelle fiamme della pira Zeus prelevò il corpo del figlio e lo condusse nell'Olimpo, accogliendolo tra le divinità; il nobile discendente di Perseo, vincitore di aspre battaglie, si riconciliò con Hera ed ebbe in sposa Ebe, coppiera degli dei e dea dell'eterna giovinezza.

Eracle presentato da Ebe a Zeus
Kylix attica a figure nere (± 560 a.C.)
British Museum, London (Gran Bretagna)

Qui si chiude la nostra sia pur breve carrellata di tutte le imprese del grande Eracle, che i Latini conosceranno con il nome di Ercole. Noi aggiungeremo solamente che, dopo la morte dell'eroe, si scatenò un'aspra faida tra Euristeo e i discendenti di Eracle (detti, appunto, Eraclidi); si narra che Iolao e Illo guidarono i figli dell'Alcide alla riscossa contro il tiranno, cui venne tagliata la testa; una ormai anziana Alcmena fece scempio del cadavere dell'odiato nemico. La dinastia dei Perseidi si estinse a Micene; un oracolo predisse che la corona dovesse essere affidata ad un discendente di Pelope: tale onore spettò ad Atreo, padre di Agamennone e Menelao (futuri protagonisti della guerra di Troia).

Non fu altrettanto pronto allo spirito il sommo Zeus, che di fronte all'ironia dei Cercopi si adirò trasformandoli definitivamente in scimmie.
Anche il giovane Titone, figlio di Laomedonte, scampò alla morte, perché venne reso immortale grazie all'intervento di Eos, l'Aurora, sua amante.
La morte di Eracle ispirò a Sofocle la tragedia Le Trachinie.

II
I SETTE CONTRO TEBE
La turpe saga dei Labdacidi

 

 

Le leggende che ruotano attorno alla famiglia reale tebana sono sicuramente tra le più fosche di tutta la mitologia greca (pari solamente a quella degli Atridi, di cui si è già avuto modo di parlare ), tanto che Dante Alighieri nell'inveire contro Pisa, colpevole della morte atroce per fame e per stenti del conte Ugolino e della sua famiglia, la definisce «novella Tebe» ①. Il nostro racconto prosegue pertanto con le imprese di Cadmo, principe di Tiro, e con le sciagure che si abbatterono sui suoi discendenti ②.

 

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Il ratto di Europa
 

anto tempo fa, nella terra dei Cananei prosperava una città che i nostri antenati chiamarono Tiro, la quale dominava la regione della Fenicia; il loro re, Agenore ③, pur essendo stato allietato da ben tre figli maschi, Cadmo, Fenice e Cilice, stravedeva per l'unica figlia femmina, alla quale aveva dato il nome di Europa.

Europa rapita dal toro
Kylix crater a figure nere, da Paestum (± 340 a.C.)
The J. Paul Getty Museum, Malibu, California (USA)

La bellissima fanciulla, pur ancora in tenera età, era talmente bella da suscitare l'ardore e la passione di uomini e dei. Il caso volle (ma siamo proprio sicuri che si tratti di un caso, anche questa volta?) che ad invaghirsi della bella Europa fosse il dio del tuono e del fulmine, il sommo ma non proprio fedele ed integerrimo Zeus.

Il padre di tutti gli dei, per sedurre la donna amata, ricorse per l'ennesima volta allo strumento della metamorfosi, come già avvenuto in passato per Danae, la genitrice di Perseo, e come avverrà per Leda (futura madre di Elena e dei Dioscuri) ; prese le sembianze di un toro, Zeus si avvicinò alle spiagge di Tiro, dove Europa e le sue ancelle si erano recate per giocare.

La bella fanciulla fu l'unica a non fuggire impaurita di fronte a quello splendido animale dal manto bianco; ci volle poco, ai due, per prendere confidenza e ci volle ancor meno perché Europa saltasse in groppa a quell'aitante toro.

A questo punto, il superbo animale cominciò a galoppare a filo d'acqua e attraversò il Mar Mediterraneo sino a giungere nell'isola di Creta; qui Zeus riprese le sue vere sembianze e si unì in amore con Europa; dalla loro unione nacquero tre figli: Minosse, Sarpedone e Radamanto.

TABELLA n. 3
 
EUROPA E I SUOI DISCENDENTI

Successivamente Asterio, signore di Creta, si innamorò di Europa e la sposò; non avendo eredi, egli adottò i figli di Zeus.

La prole di Europa ebbe un destino glorioso: Sarpedone emigrò in Asia Minore e diventò re della Licia; Radamanto fissò tutta la legislazione dell'isola e, alla sua morte, venne chiamato ad essere giudice dell'Ade; Minosse, invece, ereditò il trono del padre adottivo, che poi trasmise al figlio Deucalione e al nipote Idomeneo, che partecipò alla guerra di Troia.

Dante Alighieri, Inferno [XXXIII, 89].
Le fonti principali cui l'Autore ha attinto sono: Ovidio, Metamorfosi. Utet, Torino, 2005. Apollodoro, I miti greci; Mondadori, Milano 2010.
Agenore vantava origine divine; era infatti figlio del dio del mare Poseidone e di Libia, una fanciulla che discendeva direttamente da Zeus.

 

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La ricerca di Cadmo
 

opo la scomparsa di Europa, il padre Agenore si adirò con i suoi figli e li costrinse a mettersi alla ricerca dell'amata fanciulla, ordinandogli di non tornare più a casa se non dopo averla trovata. Partirono alla sua ricerca anche la madre Telefassa e il loro fedele amico Taso, figlio di Poseidone.

I figli di Agenore partirono con un piccolo seguito di compagni e cercarono la sorella perduta ovunque, senza tuttavia riuscire ad avere la minima notizia di lei, dopo la sua scomparsa; poiché era stato loro proibito di tornare a casa senza Europa, essi continuarono a peregrinare ancora per molto tempo, sino a quando non furono sopraffatti dalla rassegnazione.

Per primo, Fenice decise di stabilirsi nella terra che da lui prese poi il nome di Fenicia; Cilice si fermò invece in Asia Minore e decise di abitare nella regione che egli chiamò Cilicia. Cadmo e e Telefassa, invece, giunsero in Tracia insieme a Taso, il quale colonizzò poi un'isola vicina fondando una città.

Quando Telefassa morì, Cadmo la seppellì e decise di proseguire il suo viaggio verso il luogo più sacro di tutta l'antichità: l'oracolo di Delfi, dove il dio Apollo parlava per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia. I vaticini del nume furono chiari (circostanza, questa, per la verità piuttosto insolita): egli disse a Cadmo di non cercare più sua sorella Europa, ma di seguire invece il cammino di una vacca e di fondare una città là dove l'animale si sarebbe fermato, stendendosi a terra.

Cadmo si mise in viaggio e incontrò una mucca nei pascoli di Pelagone: fedele alla profezia di Apollo, egli si mise a seguirla sino a quando l'animale non si stese a terra, in un luogo imprecisato nella regione della Beozia. Cadmo pensò allora di sacrificare l'animale agli dei e mandò alcuni dei suoi compagni ad attingere acqua ad una fonte, per iniziare il rito.

A guardia della sorgente, tuttavia, montava la guardia un terribile drago, che uccise senza pietà tutti i compagni di Cadmo. Egli allora, infuriato, si infiltrò nel boschetto presso il quale sorgeva la fonte ed affrontò il mostro: il figlio di Agenore conficcò la sua lancia nel fianco del drago così profondamente da far sgorgare un fiotto di denso sangue scuro. L'orrida bestia cercò di scagliarsi addosso a Cadmo, ma questi non indietreggiò, colpendo con tutta la sua forza le fauci terrificanti, fino a che non riuscì ad affondare la spada nella gola del drago, inchiodandolo al tronco di una quercia.

Cadmo rivolse allora una preghiera accorata agli dei, chiedendo che cosa dovesse fare ora che aveva perduto tutti i suoi compagni: come avrebbe potuto fondare una città da solo? Intervenne a questo punto in suo aiuto Atena, che gli consigliò di seminare i denti del mostro ucciso.

Il figlio di Agenore si prestò ad eseguire quello strano rituale; con grande stupore, egli notò che dai denti piantati stavano balzando fuori dalla terra, come arbusti, degli uomini armati: di lì a poco, essi cominciarono a guardarsi tra di loro con aria ostile e vennero a battaglia.

Dopo un'aspra lotta, solamente cinque dei guerrieri erano sopravvissuti e avrebbero continuato a combattere sino alla morte se Cadmo non si fosse frapposto tra di loro per mettere pace: assieme ai cinque uomini d'arme, cui venne dato il nome di Sparti, il figlio di Agenore fondò una città.

Cadmo divenne il primo sovrano della nuova comunità della Beozia , mentre gli Sparti (Echione, Udeo, Ctonio, Iperenore e Peloro) furono i progenitori della nobiltà tebana.

Cadmo e il drago
Krater a figure rosse, da Paestum (350-340 a.C.)
Musée du Louvre, Paris (Francia)

 

.
La famiglia reale della Cadmea
 

uando Cadmo divenne re di Tebe, egli si unì in matrimonio con la bellissima Armonia, figlia di Ares e Afrodite. Sembra che tutti gli dei dell'Olimpo, per l'occasione, lasciassero la loro dimora celeste per celebrare, al suono degli inni sacri, la sacra unione tra i due sposi, nella regione che tutti ormai avevano cominciato a chiamare Cadmea ①; per l'occasione, il re regalò alla moglie un peplo ed una collana lavorata dal dio Efesto.

Le nozze tra Cadmo ed Armonia vennero allietate da cinque figli: quattro femmine (Autonoe, Ino, Semele e Agave) e un maschio, Polidoro; la sorte, tuttavia, non fu benigna con la prole dei reali.

Autonoe, infatti, andò in sposa al nobile Aristeo (figlio di Apollo) ed ebbe un figlio, cui venne dato il nome di Atteone; questi divenne ben presto un famoso cacciatore, ma perì miseramente, sbranato dai suoi stessi cani; si narra, infatti, che il figlio di Autonoe avesse visto accidentalmente Artemide mentre faceva il bagno; la dea, sdegnata, lo trasformò in cervo e provocò una furia rabbiosa nella muta dei cani che accompagnava lo sventurato cacciatore; gli animali, non riconoscendo il loro padrone, lo divorarono.

Ino si unì in matrimonio con Atamante ②, re di Orcomeno, mentre Agave sposò Echione (uno degli Sparti), da cui ebbe un figlio maschio cui vene dato il nome di Penteo.

TABELLA n. 4
 
EUROPA E I SUOI DISCENDENTI

La bella Semele, invece, fece innamorare di sé il padre di tutti gli dei, Zeus dalla folgore fiammeggiante, che non si fece scrupoli nel sedurla e ingannare ancora una volta la moglie Hera.

Furiosa per l'ennesimo tradimento, la regina dei cieli prese le sembianze di una mortale e si presentò a Semele, consigliandole di chiedere al suo spasimante di rivelarsi in tutto il suo splendore; quando l'ignara figlia di Cadmo si incontrò con il focoso amante, si fece promettere da Zeus che avrebbe esaudito qualsiasi desiderio ella avesse espresso. Il figlio di Crono acconsentì e Semele gli chiese di manifestarsi allo stesso modo in cui il dio si univa in amore alla dea Hera. Zeus non potè rifiutare e si rivelò nel pieno del suo fulgore: la figlia di Cadmo morì incenerita, ma il padre di tutti gli dei riuscì a salvare il bambino di sette mesi che la fanciulla portava in grembo e se lo cucì all'interno della coscia.

Trascorso il tempo debito, Zeus partorì un figlio, cui venne dato il nome di Dioniso, e lo affidò al dio Hermes; questi lo portò a Ino e Atamante, convincendoli ad allevarlo. La dea Hera, ancora furente per il tradimento del marito, rivolse la sua ira nei confronti del bambino e dei suoi genitori adottivi, che vennero quindi colpiti dalla follia: Atamante diede la caccia al suo figlio maggiore, Learco, scambiandolo per un cervo, e lo uccise; poi gettò l'altro figlio Melicerte in mare, per lo strazio della madre che si gettò in acqua per salvarlo ed annegò (si tramanda che proprio in onore di queste vittime vennero istituiti in Ellade i Giochi Istmici) ③.

Per nascondere Dioniso dalla rabbia della dea Hera, Zeus lo trasformò in un capretto, che Hermes condusse in Asia; ma anche lì il giovane figlio di Semele venne funestato dalla follia che gli aveva scagliato la regina degli dei e fu costretto a vagare, ramingo, per l'Egitto e per la Siria prima di giungere in Frigia, dove la dea Rea Cibele lo purificò e gli insegnò i riti di iniziazione collegati al culto della Grande Madre (più tardi noti nel mondo ellenico come i «Misteri»).

Una volta recuperato il senno, Dioniso scoprì il segreto della vite, della vendemmia e del vino; percorse in lungo e in largo l'India, l'Asia e la Tracia e, nel suo peregrinare, si creò un grosso seguito di adepti; spiccavano in particolare gruppi di donne che già cominciavano a definirsi sue sacerdotesse: le Menadi e le Baccanti, che seguivano il carro di Dioniso in preda a frenesia estatica ed invasate dal furore e dall'ebbrezza; il corteo era in genere accompagnato anche da belve feroci, da Satiri e da Sileni (esseri mitici, raffigurati come esseri umani barbuti con caratteristiche animali: avevano infatti le corna, la coda e le zampe di capra).

Attraversata la Tracia, Dioniso fece ritorno nella Cadmea, dove costrinse tutte le donne ad abbandonare le loro case e a compiere sul monte Citerone i riti misterici, in preda all'ebbrezza.

All'epoca, un ormai anziano Cadmo aveva lasciato il suo trono al nipote Penteo ④; inorridito dal carattere orgiastico dei rituali collegati al culto in onore del cugino Dioniso, il figlio di Agave e di Echione cercò in tutti i modi di impedire tali cerimonie.

Salito sul Citerone, Penteo cercò di spiare le Baccanti, ma venne scoperto dalle sacerdotesse invasate, capeggiate da sua madre Agave. Le donne, in preda alla follia, lo fecero a pezzi, credendolo una belva feroce, e conficcarono la sua testa su un ramo di tirso; troppo tardi, esse compresero il loro tragico errore ⑤.

Dioniso si congedò dagli abitanti della Cadmea, proclamandosi una divinità e continuando il suo peregrinare in giro per il mondo, in attesa di essere accolto nell'Olimpo dal padre Zeus.

Dopo questi tragici eventi, Cadmo e Armonia decisero di lasciare la città e, su consiglio di un oracolo, si recarono nel paese degli Illiri, dove il figlio di Agenore venne acclamato come sovrano dalla popolazione locale; in punto di morte, Cadmo ed Armonia vennero trasformati in serpenti e poi accolti da Zeus nei Campi Elisi (luogo nel quale dimoravano dopo la morte le anime di coloro che erano amati dagli dèi).

A quel punto ascese al trono Polidoro, figlio di Cadmo, il quale sposò Nitteide (figlia di Nitteo e nipote di Ctonio, uno degli Sparti), che gli diede un figlio maschio di nome Labdaco; questi succedette al trono paterno in tenera età, ragion per cui la reggenza venne assicurata durante i primi anni dal nonno Nitteo.

Del regno di Labdaco si sa ben poco, in verità: si racconta che il giovane sovrano mosse guerra agli Ateniesi per una questione di confini e che morì straziato dalle Baccanti, avendo tentato anche lui (come Penteo) di opporsi ai riti dionisiaci; poiché suo figlio Laio alla morte del padre aveva solamente un anno, il trono venne usurpato da Lico, fratello di Nitteo .

A quanto apprendiamo dai miti greci, in una sola altra circostanza gli dei si presentarono alle nozze di un mortale; e ciò fu in occasione delle nozze di Teti e Peleo, i genitori del prode Achille.
Atamante si era legato precedentemente alla dea Nefele, da cui aveva avuto due figli (Frisso ed Elle); della loro sorte si parlerà più diffusamente nel capitolo III, dedicato all'impresa degli Argonauti.
Secondo Ovidio, la dea Afrodite (madre di Armonia e quindi nonna di Ino) ottenne da Poseidone di accogliere madre e figlia tra gli dei marini, dando a Ino il nome di Leucotòe ed a Melicerte quello di Palèmone (Portùnno, a Roma). Atamante venne invece mutato in un fiume. Dante Alighieri segue quasi pedissequamente la versione ovidiana nell'Inferno: «Nel tempo che Iunone era corrucciata per Semelè contra 'l sangue tebano, come mostrò una e altra fiata, Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, gridò: «Tendiam le reti, sì ch'io pigli la leonessa e' leoncini al varco» (Inferno [XXX, 1-8]).
Secondo altre versioni del mito, prima di salire al trono Penteo spodestò lo zio Polidoro.
Queste vicende ispirarono ad Euripide uno dei suoi capolavori: la tragedia Le Baccanti.
Appartiene forse a questo periodo l'esilio di Anfitrione, durante il quale venne concepito l'eroe Eracle; divenuto più grande, l'eroe guidò i Cadmei contro la città di Orcomeno. L'assenza di Eracle a causa delle sue dodici fatiche favorì invece la odiosa tirannide di Lico. Ma la cronologia mitologica è tutt'altro che chiara, visto che nelle leggende che ruotano attorno al figlio di Alcmena il sovrano beota viene a volte identificato con Creonte, di cui si parlerà in seguito.

 

.
La reggenza degli Sparti
 

l periodo di interregno, nel quale i figli di Cadmo persero il trono, va raccontato compiutamente anche se le fonti a nostra disposizione sono in realtà molto confuse.

Come si è avuto modo di vedere sopra, dopo la morte di Penteo cominciarono ad avere un certo ascendente sulla famiglia reale due discendenti degli Sparti: Nitteo e Lico, legati da profonda amicizia con il figlio di Agave ①.

Nitteo era il padre di una bellissima fanciulla di nome Antiope: questa era così seducente da far sorgere una irrefrenabile passione in Zeus, che si unì in amore con lei; quando rimase incinta, il padre scacciò Antiope e la fanciulla fu costretta a rifugiarsi da Epopeo, re di Sicione. Disperato, il vecchio Nitteo morì di crepacuore, non prima di aver incaricato il fratello Lico di punire la figlia.

Lico mosse guerra a Sicione e la occupò, uccise Epopeo e portò con sè Antiope come prigioniera; egli fece inoltre abbandonare i due gemelli che la figlia di Nitteo aveva generato dalla sua unione con Zeus. Non contento della sua impresa, il discendente degli Sparti prese il potere in Cadmea, approfittando della giovanissima età del legittimo erede al trono; ben presto, Lico trasformò il suo potere in una vera e propria tirannide, che egli esercitò per più di venti anni; a farne le spese fu soprattutto la nipote Antiope, che venne trattata come una schiava e costretta a subire le angherie dello zio e di sua moglie Dirce.

Ma la storia dei regnanti della Beozia è ben lungi dall'essere completata; occorre infatti sapere che i due figli di Antiope, abbandonati lungo la strada per trovare morte certa, vennero raccolti ed allevati da un mandriano, che li adottò come figli e li chiamò Zeto e Anfione.

Crescendo, Zeto cominciò ad occuparsi del bestiame, mentre Anfione divenne maestro nella citarodia, l'arte di suonare la cetra che gli aveva donato Hermes.

Un giorno, Antiope riuscì a liberarsi dalla schiavitù e a fuggire, trovando rifugio ed ospitalità (manco a dirlo…) proprio nella capanna dove abitavano i suoi figli. Ci vollero solo pochi istanti affinché i due gemelli riconoscessero la loro madre biologica e apprendessero delle loro vere origini.

Zeto ed Anfione partirono verso la città, portando con loro un buon numero di seguaci: essi uccisero Lico e suppliziarono Dirce legandola ad un toro selvaggio. I due fratelli presero quindi il potere ed esiliarono Laio, che trovò rifugio alla corte di Pelope (figlio di Tantalo), nel Peloponneso.

Si narra che Zeto ed Anfione divennero due sovrani molto amati dalla popolazione; a loro si deve, in particolare, la costruzione delle famose mura della città, con le celebri sette porte; secondo la versione di alcuni poeti, le pietre utilizzate per le fortificazioni si muovevano da sole seguendo il suono della lira di Anfione.

Zeto prese in moglie una bellissima donna di nome Tebe, da cui prese il nome la città; Anfione sposò invece Niobe, figlia di Tantalo, che gli diede ben quattordici figli (sette maschi e sette femmine ②); del loro triste fato dovremo ora occuparci.

Fiera di avere una così bella discendenza, un giorno Niobe si vantò di essere una madre più felice della stessa Leto (madre di Apollo ed Artemide) e che a lei, piuttosto che ai numi, dovessere essere tributati onori divini. Dimenticava, la misera figlia di Tantalo, che gli dèi ricordano tutte le offese e raramente le perdonano.

TABELLA n. 5
 
SPARTI E LABDACIDI

Apollo ed Artemide incoccarono i loro archi magici, con i quali erano in grado di infliggere una morte istantanea agli sventurati colpiti dai loro dardi: tutte le femmine vennero uccise nel palazzo reale dalle frecce di Artemide e tutti i maschi furono vittima delle frecce di Apollo mentre erano a caccia sul monte Citerone.

Disperata, Niobe lasciò Tebe e si rifugiò da suo padre Tantalo; qui la donna implorò gli dei e Zeus, per pietà, la trasformò in pietra (da quella roccia, da quel giorno scorrono incessantemente le lacrime della madre sventurata). Dopo questi tragici eventi, Anfione morì e lo scettro passò nuovamente nelle mani dei discendenti di Cadmo.

Altre fonti riferiscono che Nitteo e Lico non sarebbero stati discendenti degli Sparti ma del dio Poseidone.
Abbiamo seguito la versione di Apollodoro: Esiodo, invece, dice che Niobe ebbe dieci maschi e dieci femmine, Erodoto cita due figli e tre figlie; Omero parla invece di sei maschi e sei femmine.

 

.
La dinastia dei Labdacidi
 

aio tornò dall'esilio ed ascese al trono di Tebe; egli prese in moglie Giocasta, figlia di Meneceo (un altro rampollo della nobiltà locale) ①.

Un oracolo aveva avvertito Laio di non generare figli, perché se avesse mai avuto un erede questi avrebbe causato la morte del padre; non si esclude che, in questo modo, la divinità intendesse punire il re di Tebe per avere rapito, in gioventù, Crisippo, un giovinetto di cui si era invaghito. Fatto sta che Laio decise, in un momento di ubriachezza, di unirsi alla moglie, che per volontà divina rimase incinta.

Terrorizzato per via dei presagi dell'oracolo, Laio diede ordine di abbandonare il neonato sul monte Citerone dopo avergli legato le caviglie, orribilmente trafitte con uno spillone.

Il bambino venne così esposto sui monti, destinato a morte certa; tuttavia, il caso volle (ma fu veramente il caso?) che a trovarlo fossero i mandriani di Polibo, il re di Corinto, i quali lo portarono al cospetto della famiglia reale.

Il sovrano, ancora privo di una discendenza, d'accordo con sua moglie Peribea decise di adottarlo; il fanciullo venne chiamato Edipo, che nell'antica lingua degli Elleni significa «quello dai piedi gonfi».

Il giovane Edipo, pur se afflitto sempre dalla disgrazia dei suoi piedi deformi, crebbe forte e vigoroso e superava in prestanza tutti i suoi coetanei: un triste giorno, tuttavia, egli venne a lite con un rampollo della nobiltà di Corinto che, per invidia, lo apostrofò chiamandolo bastardo. Il ragazzo ne chiese ragione a Polibo e Peribea, i quali gli fornirono risposte estremamente evasive.

Divorato dal demone del dubbio, Edipo si recò a Delfi, per interrogare la Pizia sulle sue origini; la sacerdotessa del dio Apollo diede una risposta che terrorizzò il figlio adottivo dei re di Corinto: l'oracolo impose al questuante di non tornare mai più nella sua terra patria, altrimenti avrebbe ucciso suo padre e si sarebbe unito in amore con sua madre.

Edipo – ritenendo che i suoi veri genitori fossero Polibo e Peribea – decise di non tornare a Corinto ma di percorrere la penisola ellenica in direzione opposta; arrivato nella regione della Focide con il suo carro, giunse ad un crocevia e si fermò perché un altro carro gli sbarrava la strada; l'altro viaggiatore e il suo araldo, in modo piuttosto arrogante, gli fecero cenno di cedere la strada per far passare, ma l'orgoglioso Edipo non obbedì e rimase fermo.

L'araldo, infuriato, si avvicinò a Edipo e gli uccise uno dei cavalli; l'uomo dai piedi deformi, preso da un feroce attacco di rabbia, scese dal suo carro e venne alle mani con i due viandanti; nello scontro, i due sconosciuti ebbero la peggio e vennero uccisi. Ignorava, l'infelice Edipo, di avere appena ucciso suo padre Laio e il suo servo Polifonte.

La notizia della morte del sovrano gettò lo sconforto a Tebe; a quel punto, assunse la reggenza Creonte, fratello di Giocasta e figlio di Meneceo.

In questo periodo, la città venne sconvolta da un ancor più grave flagello: la Sfinge; figlia di Echidna e di Tifeo, l'orribile creatura aveva un volto di donna con il corpo di un leone e le ali di uccello. Le Muse le avevano insegnato un enigma che il mostro, stando seduta sul monte Ficio, poneva a tutti i viandanti.

Il quesito che la Sfinge poneva ai malcapitati abitanti della Beozia è talmente famoso che non può non essere citato: «Qual è l'animale che al mattino cammina a quattro zampe, a mezzogiorno con due e la sera con tre?». Gli sventurati che non riuscivano a risolvere l'enigma venivano divorati dalla figlia di Tifeo.

Poiché i Tebani avevano ascoltato un oracolo, secondo il quale si sarebbero liberati della Sfinge solo quando avessero risolto il suo enigma, Creonte fece diffondere un bando: chiunque fosse riuscito a trovare la risposta al terribile quesito, avrebbe ottenuto il regno di Tebe e la vedova di Laio in sposa.

Per puro caso, a passare da quelle parti e ad incontrare la Sfinge fu proprio Edipo, che riuscì a trovare la soluzione; il famigerato animale altri non era che «l'uomo», che da piccolo si muove a quattro zampe, da grande è in posizione eretta e si appoggia ad un bastone in vecchiaia. La Sfinge, umiliata dall'ingegno di Edipo, si gettò da una rupe e morì.

Edipo e la Sfinge
Kylix attico a figure rosse (±470 a.C.)
Musei Vaticani (Museo Gregoriano Etrusco), Roma (Città del Vaticano)

Edipo giunse a Tebe, accolto da una folla festante: egli ottenne così il regno e, inconsapevolmente, si unì in matrimonio con la regina Giocasta, sua madre.

Dall'unione di Edipo e Giocasta nacquero due figli maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine: Antigone e Ismene.

TABELLA n. 6
 
I DISCENDENTI DI EDIPO


Il regno di Edipo fu contraddistinto da un lungo periodo di pace e prosperità: i sinistri presagi della Pizia, tuttavia, erano destinati ancora una volta a sconvolgere le vite della casa reale di Tebe, già funestata da molte disgrazie ③.

Una terribile pestilenza, infatti, cominciò a devastare la capitale della Beozia; il nobile Creonte venne quindi inviato a consultare ancora una volta l'oracolo di Delfi per per conoscere le cause dell'epidemia. Il fratello di Giocasta riferì che la Pizia aveva sentenziato che Tebe era contaminata, poiché l'omicida di Laio era rimasto ancora impunito.

Edipo, a questo punto, interrogò l'indovino Tiresia affinché gli svelasse l'identità dell'assassino, ma questi si rifiutò di rispondere provocando una esplosione d'ira del sovrano.

La regina Giocasta, a questo punto, cercò di calmare il sovrano rammentandogli quante volte gli oracoli si fossero dimostrati fallaci: allo stesso Laio era stato profetizzato che sarebbe stato ucciso da suo figlio; in verità, il vecchio re era morto per via di alcuni banditi incontrati sulla strada per Delfi.

Edipo venne sconvolto da queste rivelazioni, rammentando a sua volta di avere ucciso uno sconosciuto ad un crocevia, non molto lontano da Delfi. Preoccupati dal turbamento del sovrano, servi e cortigiani gli consigliarono di non trarre conclusioni affrettate e raccogliere prima le testimonianze di chi aveva assistito all'assassinio di Laio.

Giunse nel frattempo un messo da Corinto, che annunciò la morte del re Polibo di Corinto, di cui Edipo era unico erede: il re di Tebe, pur rattristato dalla notizia, fu sollevato nell'apprendere che non era stato lui a causare la morte del padre, come aveva profetizzato il dio Apollo; il messaggero, tuttavia, riferì candidamente che Edipo non era il vero figlio di Polibo, ma era stato adottato; un pastore della casa di Laio lo aveva raccolto dal monte Citerone e portato a Corinto.

Edipo, a questo punto, convocò il servo di Laio e cominciò ad interrogarlo; questi ammise di aver ricevuto l'ordine di esporre un bambino dalle caviglie forate ma, avendone pietà, aveva preferito consegnarlo ai servi del re Polibo.

Avendo compreso l'orribile verità (di essere cioè il figlio di Laio e di avere sposato la madre), Edipo impazzì per la vergogna; Giocasta, umiliata, si impiccò, mentre il re di Tebe si trafisse gli occhi con le fibbie del vestito della moglie.

Il monologo di Edipo, che brancola cieco nel palazzo reale di Tebe, è un capolavoro della letteratura universale:

Oh nozze, a me deste la vita
e fecondaste poi lo stesso seme
onde alla luce vennero insieme
padri, figli, fratelli, incestuosa stirpe,
e figlie e mogli e madri e quanti orrori
più sozzi mai fra i mortali si scorsero.
                                          Sofocle: Edipo re
[I,  -]

Il figlio di Laio venne scacciato da Tebe, accompagnato dalle sue figlie femmine (Antigone ed Ismene), che non vollero abbandonare il padre, ormai cieco e ripudiato da tutti; nessun conforto gli venne invece dal cognato Creonte e dai suoi figli; fu per questo motivo che Edipo lanciò una maledizione contro i suoi discendenti maschi, colpevoli di avergli negato il suo aiuto nella triste circostanza dell'esilio.

Amaro fu il commento degli anziani di Tebe nel constatare la disgrazia di Edipo:

Or vedete, o Tebani, questo Edipo […]
in qual baratro è piombato di terribile sciagura.
Or mirando questo giorno luttuoso non far stima
che beato sia alcuno dei mortali,
se prima scevro d'ogni orrido male
non sia giunto al dì fatale.
                                          Sofocle: Edipo re
[I,  -]

Edipo giunse quindi a Colono, in Attica, presso il recinto sacro delle Eumenidi; lì si fermò come supplice, con l'ospitalità di Teseo, e poco tempo dopo morì .

Le fonti sulle origini di Meneceo sono incerte; alcuni ritengono che egli discendesse dagli Sparti, mentre altri autori ne fanno il nipote in linea diretta del re Penteo.
Si potrebbe obiettare che il quesito non fosse poi così difficile. In effetti, la popolazione della Beozia era famosa in tutto il mondo ellenico per una profonda tradizione religiosa, non fosse altro per la presenza dell'oracolo di Delfi; appartenevano infatti a questa regione i poeti Esiodo e Pindaro, caratterizzati da una forte pietas. Tuttavia, essi avevano una nomea (alimentata dai loro vicini e rivali Ateniesi) di persone poco intelligenti, tanto è vero che ancora oggi il termine «beota» è sinonimo di individuo piuttosto ingenuo e sciocco.
Il dramma di Edipo è oggetto della tragedia Edipo re di Sofocle, capolavoro indiscusso del teatro greco.
Traduzione di A. Romagnoli.

 

.
I sette contro Tebe
 

li Dopo l'esilio del padre Edipo, il diritto a succedergli sul trono spettava ai suoi discendenti Eteocle e Polinice, i quali si accordarono per regnare un anno ciascuno.

La brama di potere, tuttavia, portò ancora una volta alla rovina i reggitori di Tebe; trascorso il suo anno di regno, infatti, Eteocle si rifiutò cedere lo scettro al fratello.

Polinice, bandito da Tebe, giunse nell'Argolide portando con sé solamente la collana e il peplo che Cadmo aveva donato alla moglie Armonia come regalo di nozze.

A quell'epoca regnava nella regione Adrasto, figlio di Talao, che accolse Polinice a palazzo come ospite; quella stessa notte, tuttavia, il figlio di Edipo venne alle mani con un altro ospite della corte di Argo: Tideo, figlio di Oineo, esule da Calidone.

Destato da quell'improvviso strepito, Adrasto accorse e separò i due contendenti; a quel punto, egli si ricordò di un oracolo che gli aveva detto di «aggiogare le figlie ad un cinghiale e ad un leone»; gli emblemi dei due esuli portavano incisi, rispettivamente, la testa di un cinghiale e quella di un leone, ragion per cui il re dell'Argolide li scelse come generi.

Tideo si unì in matrimonio con una delle figlie di Adrasto, Deipile, mentre Polinice ebbe in sposa l'altra figlia Argia; ad entrambi i parenti acquisiti, Adrasto promise che li avrebbe reinsediati nella loro patria.

Il re dell'Argolide decise di intraprendere per prima una spedizione contro Tebe e radunò tutti i capi argivi; uno di essi, Anfiarao figlio di Oicleo, si mostrò molto riluttante a partecipare alla guerra e tentò di scoraggiare anche gli altri condottieri: egli era infatti un indovino e aveva in qualche modo presagito che sarebbe perito nell'assedio.

Per convincere Anfiarao a partecipare alla guerra, Polinice avvicinò Erifile, moglie dell'indovino, e le regalò la collana di Armonia, pregandola di persuadere suo marito ad unirsi alla spedizione.

Tempo addietro, infatti, Anfiarao aveva avuto una lite con Adrasto ed Erifile li aveva riconciliati; in quell'occasione, l'indovino aveva giurato, in caso di future divergenze, di rimettersi sempre alla moglie per ogni decisione. Erifile, corrotta dal dono di Polinice, convinse il marito a intraprendere la spedizione contro Tebe.

Adrasto radunò un esercito con sette comandanti (uno per ciascuna delle porte di Tebe) e partì per la guerra. I comandanti erano: Adrasto, figlio di Talao; Anfiarao, figlio di Oicleo; Capaneo, figlio di Ipponoo; Ippomedonte, figlio di Aristomaco; Polinice, figlio di Edipo; Tideo, figlio di Oineo; Partenopeo, figlio di Melanione ⑤.

I Sette contro Tebe
Amphora (?) attica a figure rosse (±470/460 a.C.)
Christie's, New York (USA)

Giunti a Nemea, dove regnava Licurgo, i Sette cercarono dell'acqua; ad indicare loro la strada per una sorgente fu la nutrice del piccolo Ofelte, rampollo del re; il bambino, lasciato incustodito mentre la donna mostrava la fonte ai soldati, fu però ucciso da un serpente. Gli uomini di Adrasto, ritornando dalla fonte, schiacciarono il rettile e seppellirono il bambino. In onore del piccolo defunto, i Sette istituirono i Giochi Nemei, destinati ad avere importanza anche in epoca storica.

Quando giunsero al monte Citerone, gli Argivi inviarono Tideo come ambasciatore da Eteocle, per invitarlo a lasciare il regno a Polinice, secondo gli accordi; ma questi rifiutò sdegnato.

Gli Argivi si armarono e si avvicinarono alle mura della città; ciascun comandante si pose davanti a una delle sette porte. Anche Eteocle armò i Cadmei e dispose altrettanti condottieri davanti alle porte.

I Tebani chiesero all'indovino Tiresia di rivelare loro come sconfiggere i nemici; questi predisse che gli assediati avrebbero conquistato la vittoria se Meneceo, figlio di Creonte, si fosse offerto in sacrificio al dio Ares; sentito il responso, il giovane si tagliò la gola davanti alle porte di Tebe.

Iniziata la battaglia, i Cadmei furono ricacciati indietro: Capaneo stava per scalare le mura di Tebe, ma ebbe l'ardire di pronunciare espressioni ingiuriose nei confronti degli dei, per cui Zeus lo incenerì senza pietà.

La battaglia andava ormai da molto tempo e i morti erano già numerosi, per cui entrambi gli eserciti decisero di affidare le sorti della guerra ad un duello tra Eteocle e Polinice; i due fratelli, però, si uccisero a vicenda lasciando irrisolto il problema dell'esito della contesa.

Di nuovo si riaccese un'aspra battaglia, nel corso della quale venne ucciso Partenopeo, uno dei sette condottieri venuti da Argo.

Melanippo, il più giovane dei condottieri tebani, sfidò Tideo e lo colpì mortalmente al ventre; mentre il figlio di Oineo giaceva ormai in fin di vita, la dea Atena – impressionata dal suo valore e dal suo coraggio – ottenne dal padre Zeus il privilegio di portargli un filtro, che l'avrebbe reso immortale.

Anfiarao odiava Tideo dato che, contro il suo parere, aveva convinto gli Argivi a far guerra contro Tebe; avendo presagito l'intervento divino, egli tagliò la testa di Melanippo e la lanciò al figlio di Oineo; questi la afferrò e divorò il cervello del nemico. Quando vide la scena, Atena ne fu inorridita e lasciò morire il suo protetto.

Di lì a poco i Tebani lanciarono l'ultima, decisa offensiva; gli assedianti fuggirono in rotta: non uno dei Sette riuscì a tornare vivo in patria, tranne Adrasto che fuggì in groppa al suo cavallo Arione. Anfiarao scappò lungo il fiume Ismeno e stava per essere colpito alla schiena da una lancia, ma Zeus lanciò un fulmine e spaccò la terra; l'indovino venne inghiottito insieme al suo carro e al suo auriga.

Creonte prese nuovamente il potere a Tebe: come primo atto d'imperio, egli lasciò insepolti i cadaveri degli Argivi, proibendo a chiunque di sotterrarli (anche a Polinice, che sino all'ultimo aveva agito come nemico della città, vennero negati gli onori della sepoltura).

Adrasto giunse ad Atene, si rifugiò presso l'Altare della Pietà e, preso in mano il bastone dei supplici, implorò che i suoi morti venissero tumulati. Gli Ateniesi allora combatterono insieme a Teseo contro i Tebani e riuscirono ad ottenere i corpi degli Argivi affinché i loro familiari potessero seppellirli.

Antigone, una delle figlie di Edipo, riuscì invece ad eseguire di nascosto il rituale della sepoltura sul fratello Polinice, ma venne scoperta dalle guardie di Creonte. Il vecchio despota condannò a morte senza alcuna pietà la nipote, colpevole di aver violato le leggi della sua città; invano, Antigone rivendicava l'esistenza di leggi non scritte, come quelle sulla pietas nei confronti dei propri cari defunti: la figlia di Edipo venne sepolta viva in una tomba ⑥.

La famiglia reale di Tebe venne funestata da una ulteriore tragedia: Emone, figlio di Creonte, essendo stato promesso ad Antigone preferì suicidarsi piuttosto che sopravvivere all'amata.
Creonte rimase così solo e abbandonato da tutti, chiuso nella sua odiosa e solitaria tirannide.

Le fonti sulle origini di Meneceo sono incerte; alcuni ritengono che egli discendesse dagli Sparti, mentre altri autori ne fanno il nipote in linea diretta del re Penteo.
Si potrebbe obiettare che il quesito non fosse poi così difficile. In effetti, la popolazione della Beozia era famosa in tutto il mondo ellenico per una profonda tradizione religiosa, non fosse altro per la presenza dell'oracolo di Delfi; appartenevano infatti a questa regione i poeti Esiodo e Pindaro, caratterizzati da una forte pietas. Tuttavia, essi avevano una nomea (alimentata dai loro vicini e rivali Ateniesi) di persone poco intelligenti, tanto è vero che ancora oggi il termine «beota» è sinonimo di individuo piuttoso ingenuo e sciocco.
Il dramma di Edipo è oggetto della tragedia Edipo re di Sofocle, capolavoro indiscusso del teatro greco.
Traduzione di A. Romagnoli.
Alcuni autori non comprendono nell'elenco dei sette Tideo e Polinice e vi aggiungono invece Eteoclo e Mecisteo.
L'eroismo della figlia di Edipo ispirò a Sofocle un'altra tragedia: Antigone.

 

.
Gli Epigoni
 

ieci anni dopo la guerra dei Sette contro Tebe i figli dei guerrieri caduti (denominati gli Epigoni) decisero di muovere nuovamente battaglia alla Cadmea per vendicare la morte dei loro padri.

Essi, prima di dare inizio alla spedizione consultarono l'oracolo di Delfi e il dio profetizzò che gli assedianti avrebbero vinto la guerra solo se si fossero messi sotto il comando di Alcmeone, figlio di Anfiarao.

Alcmeone, in verità, non aveva nessuna intenzione di mettersi a capo della spedizione; acconsentì solo su pressione della madre, poiché Tersandro, figlio di Polinice, donò a Erifile il peplo di Armonia e la donna convinse i suoi figli a combattere ①.

Gli Epigoni si misero quindi in marcia contro Tebe; secondo la tradizione, i condottieri alla guida dell'impresa furono: Alcmeone e Anfiloco, figli di Anfiarao; Egialeo, figlio di Adrasto (l'unico, in verità, a sopravvivere alla spedizione dei Sette tra gli Argivi); Diomede, figlio di Tideo; Promaco, figlio di Partenopeo; Stenelo, figlio di Capaneo; Tersandro, figlio di Polinice; Eurialo, figlio di Mecisteo.

Gli invasori dapprima saccheggiarono i villaggi del contado; poi, i Tebani avanzarono sotto il comando di Laodamante, figlio di Eteocle, che era succeduto a Creonte.

I Cadmei combatterono valorosamente (il loro sovrano uccise in duello Egialeo), ma quando Alcmeone uccise il re Laodamante i Tebani fuggirono verso le mura. Tiresia consigliò di inviare agli Argivi un messaggero per trattare la resa e di fuggire: i Cadmei allora inviarono un araldo ai nemici, caricarono donne e bambini sui carri e si allontanarono dalla città (durante la fuga, Tiresia bevve dalla sorgente chiamata Tilfussa e ne morì); i Tebani viaggiarono a lungo, poi costruirono la città di Estiea e vi si stabilirono.

Gli Argivi, quando si accorsero della fuga dei Tebani, entrarono in città, raccolsero il bottino e rasero al suolo le mura. Una parte del bottino di guerra (compresa Manto, la figlia di Tiresia) venne mandata a Delfi come dono ad Apollo ②.

Tersandro divenne così il nuovo re di Tebe; tempo dopo, egli venne chiamato a dare il suo contributo nella guerra di Troia, alla quale partecipò trovandovi la morte.

Finisce così la triste e sanguinosa saga dei discendenti di Cadmo: uno dei racconti più turpi e raccapriccianti mai concepiti dalla memoria dell'uomo, ma anche una delle fonti di ispirazione più prolifiche ed appassionanti per artisti, poeti e drammaturgi da oltre tremila anni.

Dopo la spedizione, quando Alcmeone venne a sapere che Erifile si era di nuovo lasciata corrompere anche a suo danno, si indignò ancora di più nei confronti della madre e su consiglio dell'oracolo di Apollo la uccise. Da allora le Erinni del matricidio lo perseguitarono e Alcmeone, in preda alla follia, fuggì di regione in regione sino a quando non giunse alle sorgenti dell'Acheloo, dove il fiume lo purificò e gli diede in sposa sua figlia Calliroe. Alcmeone colonizzò la terra che l'Acheloo aveva formato con la sua corrente, e vi si stabilì.
Il sacco di Tebe da parte degli Epigoni è documentato anche dall'archeologia.

III
IL VELLO D'ORO
L'impresa degli Argonauti


 

La saga degli Argonauti è una delle più antiche leggende della mitologia greca; le loro imprese sono citate dapprima nei poemi omerici e in quelli esiodei, per venire poi narrate in numerose opere dell'antichità classica. Gli eruditi citano un componimento attribuito al leggendario Orfeo, andato perduto; a noi moderni sono giunte le Argonautiche del poeta greco Apollonio Rodio (che costituirà per noi la principale fonte di ispirazione per la narrazione) e l'Argonautica di Valerio Flacco. Numerose citazioni sono presenti anche nei carmi di Pindaro, nei tragici greci, nelle Metamorfosi di Ovidio e nelle opere di Apollodoro e Igino.

 


.
Frisso ed Elle
 

a storia degli Argonauti, narrata da poeti e cantori di tutte le epoche, è strettamente legata alla leggenda del Vello d'Oro, che rappresenta così l'antefatto di quanto andremo a raccontare.

Occorre sapere che tra tutti i figli di Eolo ① vi fu Atamante, che regnò in Beozia e si unì in matrimonio con la dea Nefele (la «Nuvola»), da cui ebbe un figlio maschio, Frisso, ed una figlia femmina, Elle.

Frisso ed Elle
Affresco romano, Masseria di Cuomo (Insula Occidentalis VI, 17), Pompei (45/79).
Museo Archeologico Nazionale, Napoli (Italia)

In seguito, tuttavia, il sovrano sposò Ino, figlia di Cadmo, che gli generò Learco e Melicerte; come spesso capita nella favolistica antica e moderna, la matrigna concepì un odio profondo nei confronti dei figli di primo letto del marito e cercò di disfarsi della prole di Nefele.

La perfida Ino convinse così le donne della Beozia a far seccare tutti i semi di frumento e la terra, quell'anno, non diede il consueto raccolto di grano.

Atamante inviò allora a Delfi una sua delegazione, per chiedere al dio Apollo come allontanare la carestia, ma Ino convinse i messaggeri a riferire un falso responso: e così al figlio di Eolo venne riferito che la terra sarebbe tornata fertile solamente se Frisso fosse stato immolato.

Il re udì il responso e ne fu agghiacciato; non potendo esimersi dai suoi doveri di sovrano e messo sotto pressione anche dagli abitanti della regione, disperati per la carestia, egli acconsentì a portare suo figlio all'altare dei sacrifici.

Poco prima della celebrazione del rito, tuttavia, Nefele inviò un ariete alato, dal vello d'oro (dono di Hermes) ②, per salvare il fanciullo; Frisso ed Elle vi montarono sopra e l'animale si librò in cielo, superando terre e mari.

Quando l'ariete giunse sopra il tratto che separa l'Europa dall'Asia Minore, nei pressi del Chersoneso (corrispondente a quelli che oggi vengono chiamati gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli), Elle cadde negli abissi delle onde ed annegò in quel braccio di mare, che da allora venne chiamato Ellesponto.

Frisso invece raggiunse la Colchide, una terra ad oriente del Ponto Eusino (il Mar Nero) dove regnava Eete, figlio di Helios nonché fratello della maga Circe e di Pasifae, futura moglie di Minosse.

Eete lo accolse con benevolenza e gli diede in sposa una delle sue figlie, Calciope. Frisso allora sacrificò l'ariete a Zeus protettore degli esuli e regalò il Vello d'Oro al suocero, il quale lo appese ad una quercia in un bosco sacro ad Ares, guardato a vista da un drago.

Di Ino ed Atamante, va aggiunto solamente che essi verranno colpiti dall'ira della dea Hera per aver allevato Dioniso, figlio di Zeus e Semele; la regina degli dei condusse alla follia il discendente di Eolo, che uccise il figlio Learco e costrinse la moglie Ino e l'altro figlio Melicerte a gettarsi in mare; bandito dalla Beozia, Atamante su consiglio dell'oracolo di Apollo riparò in una regione ai confini dell'Ellade, che da lui prese il nome di Atamanzia.

Figlio di Elleno e nipote di Deucalione, fu il capostipite di una delle stirpi elleniche (gli Eoli, appunto).
Secondo altre versioni, ad inviare l'ariete fu Hera per affetto nei confronti di Nefele; le due dee, infatti, si somigliavano come due gocce d'acqua.

 

.
La stirpe reale di Iolco
 

a nostra storia si sposta quindi in Tessaglia, nella regione nord-orientale della Grecia, patria originaria degli Eoli. Un altro dei figli di Eolo, infatti, fu Creteo che sposò la nipote Tiro (figlia del fratello Salmoneo) ed ebbe tre figli: Esone, Ferete ed Amitaone; egli adottò anche i due gemelli che la moglie aveva avuto da una relazione con il dio Poseidone: Pelia e Neleo.

Creteo fondò la città di Iolco e ne divenne il sovrano, facendola diventare in breve tempo un centro fiorente; alla sua morte, lo scettro sarebbe spettato legittimamente al suo primogenito Esone, ma questi venne spodestato dal fratellastro Pelia.

Il nuovo sovrano regnò incontrastato per diversi anni ma, quando consultò un oracolo, gli venne profetizzato di guardarsi da un uomo con un solo calzare; il dio Apollo, inoltre, vaticinò che Pelia sarebbe stato ucciso da un discendente di Eolo.

Per questo motivo, il re di Iolco fece sterminare od esiliare chiunque avesse un rapporto di discendenza con il suo progenitore, ma risparmiò Esone perché era molto amato dalla loro madre comune.

Esone nel frattempo ebbe un figlio cui venne dato il nome di Diomede; per evitare l'ira di Pelia, il bambino fu segretamente trasportato fuori dal palazzo e affidato alle cure del centauro Chirone, che lo allevò e gli cambiò il nome in Giasone.

Un bel giorno, nella città di Iolco si tenne un grande sacrificio in onore di Poseidone; molti erano i partecipanti e tra di loro c'era anche Giasone che, per assistere al rito, si era recato in città e, nell'attraversare il fiume Anauro, aveva perso un sandalo nella corrente. Vi è chi sostiene che Giasone avesse perso la calzatura aiutando una vecchia ad attraversare le acque fangose del fiume: sotto le vesti di quella povera donna si nascondeva in realtà la dea Hera, che da quel giorno divenne la protettrice del figlio di Esone.

Quando Pelia vide lo sconosciuto, si ricordò del responso del dio; egli si avvicinò a Giasone e gli chiese: «Se tu avessi il potere e ti venisse rivelato da un oracolo che uno dei cittadini ti ucciderà, che cosa faresti?». Forse per caso o forse perché ispirato dagli dei, il figlio di Esone così rispose: «Lo manderei alla ricerca del Vello d'Oro!».

Subito Pelia approfittò delle parole del giovane e gli ordinò di andare a cercare quell'oggetto tanto prezioso: il figlio di Poseidone narrò di essere tormentato dall'ombra di Frisso, a cui mai era stata data degna sepoltura. Pelia aggiunse che, secondo un oracolo, la terra tessalica sarebbe rimasta sterile sino a quando non fosse stato riportato in patria il vello, custode dell'anima di Frisso.

Solo quel punto, Giasone riconobbe nel suo interlocutore il re usurpatore e pretese il trono; Pelia promise così al figlio di Esone che, se questi avesse accettato l'incarico, gli avrebbe restituito la corona qualora fosse ritornato vittorioso dalla sua impresa.

 

.
Gli Argonauti
 

er questa missione, Giasone chiese l'aiuto di Argo, figlio di Frisso; questi, su ispirazione di Atena, costruì una nave a cinquanta ordini di remi, che venne chiamata con il nome del suo costruttore. Atena stessa adattò alla prua una polena di legno parlante, fatta con una delle querce sacre di Dodona.

Giasone inviò quindi araldi in tutte le terre vicine chiedendo agli uomini più valorosi dell'Ellade di partecipare all'impresa. Molti furono gli eroi che si unirono alla spedizione cui venne dato il nome di Argonauti: per non fare torto a nessuno lasciamo direttamente la parola al poeta Apollonio Rodio, che li enumera uno ad uno:

«Io voglio qui dire la stirpe degli eroi ed il nome e i lunghi viaggi per mare, e tutte quante le imprese che essi compirono nel loro errare. Siano le Muse ministre del canto.
Primo fra tutti ricorderemo Orfeo, che un tempo Calliope, unita al trace Eagro, secondo quanto si dice, partorì presso il monte Pimpleo. Narrano che egli ammaliasse col suono dei canti le dure rocce dei monti e le correnti dei fiumi.
Subito accorse Asterione, a cui diede la vita Comete: abitava presso le acque del vorticoso Apidano, a Piresia, nei pressi del monte Filleo, là dove, venendo da molto lontano, s'incontrano e uniscono insieme il grande Apidano e l'Enipeo.
Venne dopo di loro da Larisa il figlio di Elato, Polifemo, che quand'era più giovane aveva lottato assieme ai forti Lapiti, al tempo che i Lapiti erano in guerra contro i Centauri: gli s'appesantivano già le membra, ma gli restava un cuore guerriero come in passato.
Né molto tempo rimase a Filace lo zio materno di Giasone, Ificlo: Esone infatti aveva sposato sua sorella Alcimede, figlia di Filaco, e la parentela lo spinse a unirsi anche lui alla schiera d'eroi.
E Admeto, signore di Fere ricca di greggi, neppure rimase colà, ai piedi del Calcodonio.
Non rimasero ad Alope i ricchissimi figli di Ermes, Erito ed Echione, abili, esperti d'inganni; e terzo con loro, quand'erano pronti a partire, s'aggiunse l'altro fratello, Etalide: a lui diede la vita, presso l'Anfrisso, Eupolemea di Ftiotide, figlia di Mirmidone, agli altri Antianira figlia di Menete.
E venne, lasciando la ricca Girtone, Corono, figlio di Ceneo, un prode guerriero, ma non migliore del padre.
E venne anche Mopso Titaresio, che più di tutti gli altri il figlio di Leto istruì nella scienza di trarre presagi.
Venne Euridamante, figlio di Ctimeno, il quale abitava Ctimene, città dei Dolopi, presso il lago Siniade.
Attore poi mandò da Opunte il figlio Menezio, perché partisse in compagnia dei nobili eroi.
Seguirono Eurizione ed il possente Eribote: di Teleonte era figlio il glorioso Eribote, Eurizione di Iro.
E terzo venne con loro Oileo, che fra tutti spiccava per il suo coraggio, esperto nell'inseguire i nemici dopo averne spezzato le file.
E dall'Eubea venne Canto, che Caneto, figlio d'Abante, mandò, compiacendo il suo desiderio: ma non doveva più tornare indietro a Cerinto, perché il suo destino, suo e di Mopso, l'eroe esperto dei vaticini, fu di ricevere morte, errando in terra di Libia.
Si unirono a lui Clizio e Ifito, signori di Ecalia, figli del terribile Eurito, al quale Apollo saettante donò l'arco, ma quello non trasse profitto dal dono, perché anzi di sua volontà osò sfidare il dio donatore.
E vennero anche i figli di Eaco, ma non insieme e non dallo stesso luogo; fuggiti lontano da Egina, giacché per errore uccisero il loro fratello Foco, Telamone abitava nell'isola di Salamina, Peleo aveva posto lontano la sua casa, nella fertile Ftia.
E venne anche dalla Cecropia il fortissimo Bute, figlio del prode Teleonte, e il valoroso Falero. Ma Teseo, che era il più grande fra tutti i figli di Eretteo, una catena invisibile lo tratteneva sotto la terra del Tenaro, poiché aveva seguito per un'inutile strada Piritoo. Entrambi avrebbero reso più facile a tutti l'impresa.
Tifi, figlio di Agnia, lasciò la terra tespia di Sife: era abilissimo nel sapere già prima i flutti del vasto mare, abilissimo nel sapere le tempeste di vento, nel guidare la rotta guardando al sole e alle stelle.
Dopo di loro venne Fliante, dalla città di Aretira; vennero poi da Argo Talao ed Areo, i due figli di Biante, il forte Leodoco e il nipote di Eolo, Melampo.
Non possiamo dire che il cuore magnanimo e forte di Eracle abbia deluso il desiderio di Giasone: quando ebbe notizia dell'adunanza di eroi, era tornato allora ad Argo portando con sé il cinghiale che pascolava presso la grande palude Erimanzia; entrò appena nella piazza della città di Micene e, contro il volere di Euristeo, si mise in cammino. Andava in sua compagnia il giovinetto Ila, il suo valoroso scudiero; portava le frecce e custodiva il suo arco.
Dopo di lui venne Nauplio, discendente del nobile Danao. Fu ultimo Idmone, tra quanti abitavano Argo, e venne, pure sapendo dagli uccelli il proprio destino, per non perdere nulla della sua fama gloriosa tra il popolo.
L'Etolide Leda mandò da Sparta il valoroso Polluce e Castore, esperto di cavalli dai piedi veloci: li generò in una doglia sola dentro la casa di Tindaro, e li ebbe carissimi.
I figli di Afareo, il tracotante Ida e Linceo, giunsero dalla terra di Arena, entrambi superbi del loro immenso vigore, ma Linceo si distingueva per la vista acutissima.
Con loro si mise anche in cammino Priclimeno, figlio di Neleo, il più anziano dei figli che nacquero a Pilo da Neleo; il dio Poseidone gli diede una forza infinita e il potere di mutarsi in ciò che voleva, nella stretta della battaglia.
E dall'Arcadia vennero Amfidamante e Cefeo, che abitavano Tegea: un terzo eroe li seguiva, Anceo: lo mandò insieme ai due il padre Licurgo.
E venne Augia, che la fama diceva figlio del Sole; regnava sugli Elei, orgoglioso della sua ricchezza, ma forte era il desiderio di vedere la terra dei Colchi.
Asterio e Anfione, i due figli di Iperasio, vennero da Pellene d'Acaia.
Giunse dopo di loro, lasciando il Tenaro, Eufemo, il più veloce di tutti. Quest'uomo correva anche sopra le onde azzurre del mare, e non immergeva i rapidi piedi, bagnava soltanto la punta, e da sé lo portava la liquida via.
Vennero i due figli del dio Poseidone: Ergino dalla città dell'illustre Mileto; l'altro, il superbo Anceo, da Partenia.
Anche il figlio di Oineo si mosse da Calidone e raggiunse gli eroi, il forte Meleagro, e con lui Laocoonte, fratello di Oineo per parte di padre.
Lo zio materno lo accompagnò per la stessa strada, Ificlo, figlio di Testio, esperto nel giavellotto.
Venne con lui Palemonio, figlio di Lerno Olenio di nome, ma generato da Efesto.
Dalla Focide venne Ifito, figlio di Naubolo, figlio di Ornito.
Giunsero poi Zete e Calais, i due figli di Borea. Levandosi, entrambi scuotevano alle tempie ed ai piedi, dall'una parte e dall'altra, grande stupore a vedersi, ali nere lucenti di scaglie dorate, e sul dorso, dalla cima del capo e da ambo i lati del collo, s'agitavano ai soffi del vento le nere splendide chiome.
Non volle restare nella casa del padre neppure Acasto, figlio del re Pelia, né Argo, operaio di Atena, ma l'uno e l'altro andarono a unirsi allo stuolo d'eroi. Tanti compagni si radunarono dunque attorno a Giasone».

A comando della spedizione fu inizialmente proposto Eracle, ma il semidio rifiutò e propose la candidatura di Giasone che, benché giovane, aveva organizzato l'impresa.

Appena la nave ebbe preso il largo, gli Argonauti sacrificarono due buoi ad Apollo; alcuni degli eroi, inebriati e resi violenti dalle libagioni, stavano per venire alle mani e avrebbero così compromesso l'esito del viaggio, ma Orfeo placò gli animi dei compagni con il dolce suono della sua lira.

Altre fonti (Apollodoro) riferiscono che alla spedizione parteciparono Tifi, figlio di Agnio, che tenne il timone della nave; Orfeo, figlio di Eagro; Zete e Calaide, figli di Borea; Castore e Polideuce, figli di Zeus; Telamone e Peleo, figli di Eaco; Eracle, figlio di Zeus; Teseo, figlio di Egeo; Ida e Linceo, figli di Afareo; Anfiarao, figlio di Oicleo; Ceneo, figlio di Corono; Palemone, figlio di Efesto o di Etolo; Cefeo, figlio di Aleo; Laerte, figlio di Arcisio e futuro padre di Odisseo (Ulisse); Autolico, figlio di Ermes; Atalanta, figlia di Scheneo; Menezio, figlio di Attore; Attore, figlio di Ippaso; Admeto, figlio di Ferete; Acasto, figlio di Pelia; Eurito, figlio di Ermes; Meleagro, figlio di Eneo; Anceo, figlio di Licurgo; Eufemo, figlio di Poseidone; Peante, figlio di Taumaco; Bute, figlio di Teleone; Fano e Stafilo, figli di Dioniso; Ergino, figlio di Poseidone; Periclimeno, figlio di Neleo; Augia, figlio di Elio; Ificlo, figlio di Testio; Argo, figlio di Frisso; Eurialo, figlio di Mecisteo; Penelo, figlio di Ippalmo; Leito, figlio di Alettore; Ifito, figlio di Naubolo; Ascalafo e Ialmeno, figli di Ares; Asterio, figlio di Comete; Polifemo, figlio di Elato.
 

.
Il viaggio verso la Colchide
 

iasone prese il comando della nave Argo e gli eroi si misero in viaggio, guidati dall'accorta prudenza dell'abile Tifi e allietati dal canto di Orfeo.

Gli eroi sbarcarono quindi a Lemno, un'isola governata da sole donne: tempo addietro, infatti, tutti gli uomini di quella terra avevano ripudiato le mogli legittime per unirsi alle loro schiave, che rapivano sulle coste della Tracia; furiose, le consorti massacrarono tutti i loro padri e i mariti; solamente la regina Ipsipile aveva risparmiato in segreto il suo genitore.

Quando gli Argonauti sbarcarono nell'isola rimasta in potere delle donne, essi vennero accolti con tutti gli onori: le donne vollero unirsi in amore con quegli eroi venuti da lontano, per concepire una nobile discendenza.

Ipsipile arrivò ad offrire a Giasone il trono di Lemno: il figlio di Esone rifiutò, ma non disdegnò l'ospitalità che veniva offerta a lui ed ai suoi compagni. Tra i lussi, i banchetti e le mollezze, gli Argonauti stavano per perdere il loro spirito guerriero per cui Eracle dovette rimproverarli aspramente per convincerli a riprendere il viaggio.

Dopo aver lasciato Lemno, i compagni si diressero verso il paese dei Dolioni, dove regnava re Cizico, che li accolse con ospitalità.

In quella terra, tuttavia, vivevano anche dei terribili giganti con sei braccia, figli della dea Terra, che all'alba del nuovo giorno attaccarono il gruppo di eroi; gli Argonauti non si fecero sorprendere e, a colpi di arco e lancia, fecero strage di quei mostri; particolarmente letali furono le frecce di Eracle, intrise del veleno dell'Idra di Lerna.

Durante la notte la nave Argo riprese il mare ma fu investita dal vento contrario; senza rendersene conto, gli eroi partiti alla ricerca del Vello d'Oro si ritrovarono di nuovo sulla costa dei Dolioni. Questi ultimi, avendo scambiato la nave per una imbarcazione nemica, attaccarono gli Argonauti; vi fu un'aspra battaglia nel buio della notte, senza che le due parti si riconoscessero. Quando sorse l'alba e tutti si accorsero di quanto era successo (lo stesso re Cizico era morto nello scontro), un'angoscia infinita si impadronì dei Dolioni e dei loro ospiti; per tre giorni interi, essi piansero e si tagliarono i capelli, poi seppellirono il re Cizico con grandi onori.

Itinerario degli Argonauti

Dopo i funerali gli Argonauti ripartirono: poiché vi era bonaccia, si dovette procedere a remi: per navigare più in fretta, nacque una gara tra tutti i nobili eroi a chi resistesse di più (Eracle arrivò addirittura a spezzare il suo remo).

Giunti nella Misia, l'equipaggio della nave Argo decise di fare una sosta: Eracle si allontanò per cercare un albero adatto per costruire un nuovo remo. Accadde tuttavia che Ila, il ragazzo amato dall'Alcide, nell'andare a prendere acqua a una fonte venne rapito dalle Ninfe per la sua grande bellezza. Polifemo udì il ragazzo che gridava aiuto, brandì la spada e corse a cercarlo; poi incontrò Eracle, gli riferì ciò che aveva sentito e insieme si misero alla ricerca di Ila.

Nessuno dei tre poté far ritorno quella notte e il mattino seguente la giornata si presentava così ventilata che Giasone decise di fare vela senza i compagni perduti. Inutili furono le proteste di alcuni degli Argonauti (tra cui Telamone), così come i tentativi di convincere Tifi a cambiare rotta: il figlio di Esone, sostenuto da Calais e Zete, fu irremovibile ①.

Lasciata la Misia, gli Argonauti giunsero al paese dei Bebrici, dove sedeva sul trono il re Amico, figlio di Poseidone. Era un uomo forte ma violento, che sfidava tutti gli stranieri che passavano di là a una gara di pugilato, uccidendoli tutti.

La sfida di Amico venne raccolta da Polluce, uno dei Dioscuri, che colpì il suo avversario sopra l'orecchio frantumandogli l'osso; il re cadde in ginocchio per il dolore ed in un istante perse la vita; i Bebrici allora assalirono il figlio di Zeus e di Leda, ma i suoi nobili compagni strapparono le armi ai nemici e li misero in fuga.

Il viaggio condusse quindi la nave Argo sulla spiaggia di Salmidesso dove abitava Fineo, un indovino reso cieco dal dio Apollo perché aveva osato rivelare con esattezza il sacro pensiero di Zeus. Per dargli maggiore tormento, gli dei funestavano lo sventurato vaticinatore con le Arpie, delle terribili creature alate che piombavano giù dal cielo a rubare qualsiasi cibo Fineo tentasse di ingerire: quel poco che gli veniva lasciato, si impregnava di un odore talmente ripugnante che nessuno avrebbe osato anche solo accostare la bocca.

Gli Argonauti volevano sapere da Fineo la rotta giusta per il loro viaggio; il profeta promise di rivelare tutto, a patto che lo liberassero dalle Arpie. Allora gli eroi prepararono una tavola imbandita: subito i mostri alati si precipitarono giù con orribili strida e rubarono tutto il cibo. Come le videro, Zete e Calais, i figli alati di Borea, brandirono la spada e inseguirono le Arpie attraverso il cielo sino a quando non intervenne Iride, la messaggera degli dei, che assicurò che Fineo non sarebbe stato più tormentato da quei mostri.

L'indovino rivelò così agli Argonauti come affrontare il viaggio e li mise in guardia dalle rupi Simplegadi, che avrebbero incontrato in mare. Queste due enormi rocce, mosse dalla violenza del vento, si scontravano una contro l'altra, impedendo il passaggio via mare: erano sempre avvolte dalla nebbia e da fragore immenso e neppure gli uccelli riuscivano ad attraversarle.

Fineo consigliò agli Argonauti di far volare una colomba in mezzo alle due rupi: se l'avessero vista in salvo, anche loro potevano arrischiarsi a passare; ma se quella non ce l'avesse fatta, era meglio evitare ogni tentativo.

Gli Argonauti ripresero il mare; quando furono ormai vicini alle Simplegadi, liberarono da prua una colomba e quella riuscì a volare dall'altra parte; gli Argonauti allora aspettarono che le rocce si riaprissero e poi, remando a tutta forza, superarono il passaggio ②.

La nave Argo giunse nell'isola di Mariandine, dove il re Lico (da sempre nemico acerrimo dei Bebrici) accolse con gioia gli eroi. Qui morì l'indovino Idmone, ferito da un cinghiale; morì anche Tifi, il timoniere: Anceo prese il suo posto alla guida della nave ③.

Gli Argonauti attraversarono quindi il capo ed il porto delle Amazzoni, quindi arrivarono davanti alla piccola isola di Dia, sacra ad Ares. Uno stormo di uccelli sacri al dio della guerra ④ si levò da quel luogo infausto e attaccò la nave; queste creature combattevano scagliando le proprie piume acuminate sui loro nemici; una di esse colpì Oileo, che rimase ferito alla spalla.

Gli Argonauti si ricordarono allora dei consigli di Fineo e di come questi avesse riferito dell'avversione di questi animali al rumore: indossati gli elmi dispersero lo stormo rivolgendo agli uccelli urla possenti. Metà degli uomini si diede a remare mentre gli altri li proteggevano sollevando gli scudi, sino a quando la nave non trovò un punto per attraccare.

Qui, al cospetto degli Argonauti, apparvero dei naufraghi: erano i figli del defunto Frisso, partiti alla volta di Orcomeno per reclamare parte dell'eredità del loro avo Atamante. Gli Argonauti furono ben lieti di aiutarli e rifocillarli e chiesero loro sostegno nella loro impresa di riportare in Ellade il Vello d'Oro; i nipoti di Nefele promisero di perorare la causa degli eroi davanti al re della Colchide.

Polifemo restò in Misia, dove fondò la città di Ghio e ne divenne il re; Eracle invece tornò in Ellade per proseguire le sue dodici fatiche.

Da allora le Simplegadi sono ferme: era destino, infatti, che, se una nave fosse riuscita ad attraversarle, quelle rupi sarebbero rimaste immobili per sempre.
Giunti in Paflagonia, Giasone scelse tre nuovi membri degli Argonauti: i fratelli Deileonte, Autolico e Flogio, vecchi amici di Eracle.
Secondo alcuni, tali creature erano della stessa stirpe degli uccelli Stinfalidi.

 

.
La conquista del Vello d'Oro
 

Medea sul suo carro trainato da serpenti
Krater lucano a figure rosse (IV sec. a.C.)
Cleveland Museum of Art, Cleveland (USA)

li Argonauti giunsero finalmente nella Colchide, al margine orientale del Ponto Eusino, e qui il figlio di Esone dichiarò ai suoi compagni di volersi recare personalmente alla corte del re Eete per chiedere al sovrano se era disponibile a consegnare amichevolmente il Vello; solamente in caso di rifiuto, gli Argonauti avrebbero attaccato battaglia.

Si formò così una delegazione composta da Giasone, Telamone e Augia (fratellastro di Eete), unitamente ai figli di Frisso; il gruppo avanzò attraverso un altopiano denominato il Circeo, dove si presentò ai visitatori il macabro spettacolo di cadaveri esposti sulle cime dei salici (l'usanza del luogo riservava la sepoltura alle sole donne, mentre i corpi dei maschi erano lasciati alla mercé degli uccelli).

Il gruppo di eroi giunse infine al palazzo reale, dove venne accolto da Calciope (moglie del defunto Frisso), che ringraziò Giasone per aver salvato i suoi figli, e Medea, un'altra delle figlie di Eete.

Giunse infine il sovrano che, quando venne a sapere dello scopo per cui erano giunti gli Argonauti, si infuriò e ordinò agli stranieri di far ritorno nella loro terra di origine.

Il figlio di Esone rispose con pacatezza e nobiltà d'animo, ragion per cui Eete non se la sentì di opporre nuovamente un netto rifiuto: egli pertanto promise che avrebbe consegnato il Vello d'Oro a condizione che Giasone aggiogasse all'aratro due tori dagli zoccoli di bronzo (i due animali, dono di Efesto, erano enormi, selvaggi e spiravano fuoco dalla bocca), seminando poi sul terreno i denti del drago ucciso da Cadmo.

Nell'udire le condizioni Giasone rabbrividì, ma in suo aiuto intervenne il favore degli dei: Eros, spinto dalla madre Afrodite (in combutta con Hera e Pallade Atena) ispirò in Medea una travolgente passione verso l'eroe di Iolco ①.

La figlia di Eete era una maga potentissima: ella decise di aiutare Giasone a conquistare il Vello d'Oro, a patto che il giovane giurasse di sposarla e di portarla con sé in Ellade ②.

Giasone giurò e Medea gli diede un farmaco magico, con il quale avrebbe dovuto spalmare la spada, la lancia e anche il suo stesso corpo, prima di affrontare i tori: per un giorno intero questo farmaco lo avrebbe reso invulnerabile al ferro e al fuoco. Poi gli rivelò che, nel seminare i denti di drago, dalla terra sarebbero spuntati degli uomini in armi; per sopravvivere alla loro furia guerresca, Giasone avrebbe dovuto gettare in mezzo delle pietre: gli uomini allora avrebbero cominciato a guerreggiare e ad uccidersi tra di loro.

Giasone spalmò su di sé l'unguento magico, andò nel bosco sacro del tempio ed aggiogò i tori, nonostante questi lo tormentassero con un fiume di fuoco. Poi seminò i denti di drago e dai solchi della terra spuntarono i giganti «e la piana di Ares, l'uccisore di uomini, fu irta di solidi scudi, di lance, di elmi brillanti»; quando li vide, il figlio di Esone scagliò delle pietre contro quei guerrieri, che cominciarono a combattere uno contro l'altro; dopo un'aspra lotta, Giasone ebbe vita facile ad uccidere i pochi superstiti, stremati dalla fatica.

Nonostante il giovane fosse riuscito a superare la prova, Eete rifiutò di dargli il Vello d'Oro e anzi tramò per bruciare la nave Argo e uccidere tutto l'equipaggio. Ma prima che il re della Colchide potesse mettere in atto il suo piano, Medea nottetempo andò da Giasone, lo condusse al bosco di Ares e con i suoi filtri magici fece addormentare il drago che stava di guardia.

...Il serpente
stregato dall'incantesimo scioglieva la lunga spina
dalle spire nate dal suolo, e allungava i suoi infiniti
anelli, così come quando sul mare in bonaccia
si rovescia un'onda scura, muta, senza frastuono;
ma tuttavia teneva alzata l'orribile testa,
bramoso di avvolgere entrambi
nelle mascelle mortali.
Medea intinse un ramo di ginepro,
tagliato da poco, nella mistura,
e sparse il filtro possente sopra i suoi occhi,
pronunciando le formule: lo circondò l'odore
del filtro e lo addormentò .

                                          Apollonio Rodio:
Argonautiche [IV, -]

Giasone rigurgitato dal serpente, al cospetto di Atena
Coppa a figure rosse, da Cerveteri (480/470 a.C.)
Musei Vaticani (Museo Gregoriano Etrusco), Roma (Città del Vaticano)

Così Giasone poté impossessarsi del Vello e salire sulla nave Argo, per la gioia di tutti i suoi compagni di avventura, che si misero ai remi per lasciare la Colchide.

La passione amorosa e i dubbi di Medea sono descritti dai versi di Apollonio Rodio: «Me infelice, tra quali sventure mi trovo! Da ogni parte il mio cuore non ha che angoscia e impotenza. Nessun rimedio alla pena, alla fiamma ferma che brucia» (Argonautiche [III, -]).
«Alla malora il pudore e la fama, e lui, salvo per mio volere, se ne vada via illeso, dove il suo cuore desidera. Ma io il giorno stesso, quando avrà compiuta la prova, morrò appendendo il mio collo al soffitto, o bevendo il veleno che distrugge la vita» (Argonautiche [III, -]).

 

.
La rotta per il ritorno
 

uando Eete si accorse dell'inganno, fece armare la sua flotta e si gettò all'inseguimento degli stranieri.

A questo punto, i mitografi ci danno due versioni diverse di quanto accadde: secondo Apollodoro, Medea aveva portato con sé il fratellastro Apsirto come ostaggio e, vedendo che il padre stava per raggiungerli, lo uccise senza pietà facendolo a pezzi e gettandone i resti in mare. Eete, inorridito, costrinse le navi inseguitrici a fermarsi per recuperare i brandelli del figlio dilaniato. Secondo altri autori (Apollonio Rodio), invece, Apsirto inseguì Giasone per ordine di suo padre e li raggiunse presso un'isola sacra ad Artemide; qui il giovane venne colpito alle spalle da Giasone ed ucciso a tradimento.

Fatto sta che gli abitanti della Colchide rallentarono il loro inseguimento consentendo agli Argonauti di prendere il largo. I Colchi tuttavia non desistettero ma si organizzarono in gruppi e iniziarono le ricerche su rotte diverse.

Fra i mitografi antichi e moderni non vi è accordo sulla rotta intrapresa da Giasone e dai suoi compagni per il ritorno: alcuni affermano che la nave risalì la corrente dell'Istro (Danubio), per poi giungere nel mare Adriatico attraverso l'Eridano (l'odierno fiume Po).

Altri ancora raccontano che, risalito il Danubio, gli Argonauti entrarono nel fiume Eridano; di là entrarono nel profondo corso del Rodano ①. Usciti dal fiume, giunsero alle rive del mare, passando incolumi per volere di Hera in mezzo ai mille popoli dei Celti e dei Liguri.

Zeus, infuriato per l'assassinio di Apsirto, scatenò una tremenda tempesta; la polena della nave allora profetizzò che l'ira di Zeus non sarebbe cessata sino a quando gli Argonauti non si fossero diretti in Ausonia, dove Circe li avrebbe purificati.

Gli Argonauti costeggiarono la Tirrenia e giunsero nell'isola di Eea, dove si presentarono supplici a Circe (zia di Medea) e furono mondati dal terribile crimine commesso. Attraversarono poi le isole delle Sirene e fu Orfeo a trattenere gli Argonauti, intonando un canto ancor più bello di quello delle creature incantatrici; solo Bute si gettò per raggiungerle, ma Afrodite lo rapì e lo portò con sè. Superate le Sirene, la nave incontrò Scilla e Cariddi e le Rocce Vaganti, sopra le quali si vedevano fiamme infinite e colonne di fumo.

La nave Argo giunse in Trinacria (l'odierna Sicilia), dove pascolavano le mandrie sacre al dio Helios, e quindi a Corcira, l'isola dei Feaci, dove gli eroi vennero accolti dal re Alcinoo e dalla regina Arete.

Un gruppo dei Colchi che inseguiva gli Argonauti, nel frattempo, raggiunse l'isola e reclamò la restituzione di Medea e del Vello d'Oro.

Il re Alcinoo rispose che se la fanciulla si era già unita a Giasone era giusto che stesse con lui; se invece era ancora vergine, l'avrebbe riconsegnata al padre. Arete, la sposa di Alcinoo, di nascosto dal marito, si ingegnò per far sposare Medea con Giasone nottetempo così che i Colchi non potessero accampare diritti di alcun genere.

Ripreso il viaggio, gli Argonauti naufragarono sulla costa libica poi raggiunsero Creta, dove faceva buona guardia Talos, la sentinella di bronzo opera del dio Efesto. L'automa, non appena avvistò la nave, iniziò a bersagliare l'equipaggio con pietre, ma Medea ingannò il mostro e lo addormentò con una pozione. La strega si avvicinò poi al gigante e tolse il chiodo che turava la sua unica vena, facendolo morire dissanguato. Dopo aver sostato per una notte, gli Argonauti arrivarono a Egina per attingere acqua, poi fecero rotta per la Tessaglia.

Risulta evidente che le conoscenze geografiche dei Greci del III secolo a.C. sulla parte occidentale del Mediterraneo fossero ancora approssimative.

 

.
Giasone e Medea
 

li Argonauti giunsero finalmente a Iolco, dopo aver navigato in tutto quattro mesi. Nel frattempo, re Pelia, non immaginando che gli eroi sarebbero mai ritornati, aveva tramato per uccidere Esone. Quando Giasone arrivò e consegnò il Vello d'Oro, egli poté solo constatare che il malvagio zio gli aveva massacrato tutta la famiglia.

Fu Medea, ancora una volta, ad inventare un modo per far pagare a Pelia le sue colpe; la maga andò alla reggia di Pelia e convinse le figlie a tagliare a pezzi il padre e a farlo bollire, promettendo che con i suoi filtri l'avrebbe fatto tornare giovane; ne diede anche una valida prova facendo a pezzi un ariete, che ritornò un agnellino.

Ormai convinte, le ragazze smembrarono il padre ed iniziarono il rituale magico; quando esse constatarono che Pelia era ormai morto e che non sarebbe affatto risorto, era troppo tardi: al segnale convenuto, gli Argonauti erano entrati a Iolco prendendo possesso della città.

La popolazione fu tuttavia inorridita per l'orribile morte del loro sovrano; Giasone, allora, preferì rinunciare al trono in favore del cugino Acasto (figlio di Pelia), che aveva partecipato alla spedizione verso la Colchide.

TABELLA n. 7
 
LA STIRPE DI EOLO

Giasone e Medea vennero banditi da Iolco ed andarono in esilio a Corinto, dove vissero tranquillamente per dieci anni sino a quando Creonte, il re della città, non propose a Giasone un matrimonio con sua figlia Glauce (che alcuni mitografi chiamano anche Creusa); il figlio di Esone ripudiò Medea per sposare la principessa, dimenticando l'antica passione e quanto egli doveva, nel successo della sua impresa, all'amore della giovane maga.

Medea chiamò a testimoni gli dei nel nome dei quali Giasone le aveva giurato fedeltà e lo accusò di ingratitudine; la maga concepì quindi una terribile vendetta : ella inviò in dono alla sposa novella un peplo intriso di veleni: non appena la giovane l'ebbe indossato, subito morì consumata da un fuoco violento e con lei il padre, che tentava di aiutarla.

Non contenta di questo atroce delitto, per soddisfare la sua ira ella trucidò barbaramente i figli che aveva avuto da Giasone; poi salì sul carro di Helios, trainato da draghi alati, e fuggì ad Atene, dove divenne l'amante del re Egeo e gli partorì un figlio, cui venne dato il nome di Medo.

In seguito, avendo macchinato contro la vita di Teseo, erede al trono di Atene, ella fu bandita dalla città e andò in esilio insieme al figlio. Medea tornò allora nella Colchide, da suo padre Eete (secondo alcune fonti, ella aiutò il padre a riprendersi il trono, che gli era stato sottratto dal fratello Perse).

E Giasone? Disperato per la perdita della novella sposa e dei figli, egli condusse il resto della sua vita solo e malinconico, anche se alcune fonti riportano che, con l'aiuto di Peleo, egli avrebbe riconquistato il trono di Iolco.

Sta di fatto che il figlio di Esone, avendo disatteso la promessa di fedeltà fatta a Medea, perse i favori della dea Hera e visse il resto della sua vita solo e infelice. Si narra che egli trascorresse spesso i giorni e le notti vicino alla ormai fatiscente Argo, che gli ricordava le antiche glorie e le avventure del passato; mentre egli dormiva sulla poppa della nave, una notte la nave cedette e l'eroe rimase ucciso all'istante: malinconica fine, che spesso perseguita i grandi eroi del passato.

Gli eventi narrati ispirarono ad Euripide la famosa tragedia Medea. Anche il latino Seneca dedicò alla figura di Medea un'opera teatrale.

 

Termina così, con l'infelice sorte di Giasone, la saga degli Argonauti; molti dei reduci dall'impresa parteciparono anche alla cattura del cinghiale calidonio, una fiera che terrorizzava gli abitanti dell'Etolia. L'animale venne ucciso da Meleagro, figlio di Oineo e fratello di Deianira. Al di fuori di tali epopee gli Argonauti si incontrarono ancora e non furono mai episodi pacifici: i Dioscuri Castore e Polluce si scontrarono con i loro cugini Ida e Linceo, uccidendosi a vicenda (sopravvisse il solo Polluce); Eracle si scontrò invece con Augia e Neleo, come si è visto nel Capitolo I. Altri membri della spedizione, da ultimo, fu-rono ricordati anche come i genitori di valorosi combattenti che parteciparono alla guerra di Troia: è il caso di Peleo, Laerte, Oileo e Telamone.

IV
IL MASTINO DI CULANN
Il furore dell'animo celtico

 

 

La mitologia celtica è ricca di storie avvincenti, ispirate ad un forte senso del fantastico e del soprannaturale. Purtroppo, poco è rimasto di questo immenso patrimonio poiché i Celti raramente facevano uso della scrittura per tramandare le loro epopee; inoltre, una certa avversione della civiltà classico-cristiana nei confronti della cultura celtica ha fatto sì che gran parte di questa tradizione sia andata perduta. Fortunatamente, alcuni testi medievali sono sopravvissuti all'erosione del tempo e ci consentono di avere oggi una visione, sia pur parziale, di queste leggende (molti tópoi della letteratura e della favolistica moderna sono ancora oggi permeati da elementi risalenti al folclore dei Celti). Oltre alle leggende legate alla storia dell'isola, particolarmente famosi sono il ciclo feniano e il ciclo dell'Ulster; quest'ultimo è dominato dalla figura di Cú Chulainn , la cui epopea è tratta principalmente dal racconto Táin Bó Cúilnge (XII sec. d.C.) .


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La nascita di Sétanta
 

Cú Chulainn (1916)
Stephen Reid (1873-1948), illustrazione.

siste un'isola, che i moderni chiamano Irlanda ma che gli antichi invocavano con il nome di Ériu, che per secoli mantenne la propria indipendenza dal resto d'Europa e in cui vennero mantenute il carattere, le tradizioni ③ e le memorie ancestrali degli antichi Celti; in questa terra, baciata dall'amore per la musica e per le favole, visse un tempo un eroe chiamato Cú Chulainn, della cui forza e del cui coraggio nessuno osò mai dubitare.

A quell'epoca l'Irlanda era divisa in cinque province (Laigin, Múmu, Connacht, Ulaid e Míde ④), ciascuna delle quali era governata da un proprio re: gli irlandesi riconoscevano tuttavia una autorità superiore ad uno di questi sovrani, cui spettava il titolo di ard rí (re supremo); in genere tale onore spettava a un rampollo della dinastia del Míde o dell'Ulaid.

Le saghe irlandesi di cui Cú Chulainn è protagonista sono ambientate nella regione dell'Ulster, in un'epoca imprecisata che comunque precede di alcuni secoli l'era cristiana; a quel tempo regnava dalla sua dimora di Emain Macha, re Conchobar mac Nessa.

Questi era diventato sovrano grazie all'astuzia della madre Ness che aveva acconsentito a farsi sposare da re Fergus mac Róich, purché quest'ultimo cedesse a Conchobar il trono per un anno.

Il re acconsentì: il governo del figliastro, tuttavia, fu talmente saggio e prospero che alla fine dell'anno il popolo acclamò Conchobar come sovrano e Fergus, che in realtà amava più i combattimenti e la caccia che i doveri derivanti dal trono, acconsentì a mettersi da parte.

Durante il regno di Conchobar avvennero alcuni fatti straordinari: narrano infatti i bardi dell'epoca che un giorno la bella Deichtine, sorella ed auriga del sovrano, avesse accompagnato il fratello ed il suo seguito in una battuta di caccia.

Poiché era giunto l'imbrunire e la neve impediva agli Ulaid di proseguire, essi trovarono rifugio presso una casa nella piana di Brug; durante la notte, l'anfitrione annunciò che sua moglie stava per partorire; Deichtine aiutò la donna e di lì a poco nacque un bel maschietto.

La mattina dopo, gli Ulaid si svegliarono nella piana: la casa ed i suoi abitanti erano scomparsi, tranne il neonato; Deichtine decise così di adottarlo, ma il piccolo ben presto si ammalò e morì.

Sconvolta dalla disperazione, ella proruppe in un pianto disperato, per cui una delle sue ancelle le porse una bevanda in una coppa di rame per lenire il dolore: una minuscola creatura le scivolò in bocca mentre beveva. Quella notte, il dio Lug apparve in sogno a Deichtine e le rivelò che era lui il misterioso padrone della casa nella piana di Brug e che quella notte le aveva messo un figlio nel grembo. Al suo risveglio, Deichtine scoprì di essere effettivamente in attesa di un figlio.

Tale gravidanza era tuttavia fonte di pettegolezzi tra i nobili degli Ulaid, alcuni dei quali malignavano che Conchobar fosse solito coricarsi con la sorella; umiliata dalle dicerie, Deichtine disse di aver abortito; tempo dopo, la sorella del sovrano si unì in matrimonio con il nobile Soailte e si presentò a lui «vergine ed intatta». Da questa unione legittima nacque un figlio, cui venne dato il nome di Sétanta. Nessuno, tuttavia, fu mai in grado di stabilire chi fosse il vero padre del bambino, per cui in seguito si disse che era stato concepito tre volte: egli venne allevato in casa del poeta Amergin e di sua moglie Finnchem (sorella di Deichtine e di Conchobar), che gli fece da balia ⑤.

La pronuncia esatta è: Cuhulign [ku:xʊlɪnʲ]; la seconda «u» è intermedia tra la o e la u (come la oo inglese di good).
Per approfondimenti, si vedano: T.W. Rolleston, I miti celtici (Rolleston 1911), la Saga irlandese di Cú Chulainn (Agrati ~ Magini 1982²) e Saghe e racconti dell'antica Irlanda (Agrati ~ Magini 1993). Due interessanti rielaborazioni letterarie, I guerrieri del Ramo Rosso, di Morgan Llywelyn (Llywelyn 1989), e, tra saggio e romanzo, Agenzia Senzatempo. Viaggio irreale nell'Irlanda Celtica di Dario Giansanti e Claudia Maschio (Giansanti ~ Maschio 2010).
Particolarmente affascinante era il calendario celtico, che si basava su un computo complesso, regolato sia dal ciclo solare che da quello lunare. Il ciclo solare scandiva l'anno in due periodi, segnate dalla festa di Samain e di Beltain; queste due fasi principali erano ulteriormente divise in due parti uguali, segnate dalle festività minori di Lugnasad e Imbolc. Nella festa di Samain (il primo novembre) aveva inizio la parte oscura dell'anno: le porte degli inferi si aprivano e gli spiriti dei morti tornavano a vagare nel mondo terreno. Il primo maggio incominciava invece la parte luminosa dell'anno, con la festa di Beltain che significava «fuoco di Bel». Il primo agosto era la volta della festa di Lugnasad in cui si festeggiava la mietitura e il nuovo raccolto, celebrando la fertilità della terra, dedicata al dio Lug. Il primo febbraio si celebrava invece Imbolc (letteralmente «latte di pecora») che era una festa di purificazione e rinascita, in cui si celebrava la dea madre e si festeggiava la nascita degli agnelli. Durante la celebrazione il latte veniva versato copiosamente sulla terra a simboleggiare la fertilità.
Nell'ortografia anglo-irlandese, le province vengono denominate rispettivamente Leinster, Munster, Connaught, Ulster e Meath.
Nell'antica Irlanda, era costume che un rampollo di una schiatta nobile venisse allevato presso un'altra famiglia (in genere, di lignaggio più alto); ciò creava un legame tra il fanciullo e la famiglia adottiva di importanza quasi pari a quella della famiglia biologica.

 

.
Il mastino di Culann
 

Cú Chulainn (1916)
Stephen Reid (1873-1948), illustrazione.

ncora bambino, Sétanta chiese alla madre di unirsi alla banda di giovani che venivano istruiti alla corte di Emain Macha: diventati adulti, essi andavano a costituire l'ordine del Ramo Rosso, i guerrieri scelti del sovrano.

Nonostante i timori di Deichtine, il piccolo si mise in cammino e giunse ad Emain, dove si unì ai ragazzi senza chiedere - come era tradizione - la loro protezione; i giovani irlandesi presero tale atteggiamento come una sfida e lo attaccarono; Sétanta venne così posseduto per la prima volta dal ríastrad ①, una esplosione di rabbia che lo rendeva invincibile, e riuscì a sconfiggerli tutti quanti da solo. La rissa venne sedata solo con l'intervento di re Conchobar, ma il piccolo guerriero pretese che fossero gli altri ragazzi a mettersi sotto la sua protezione.

Una volta ammesso alla corte del re degli Ulaid, il giovane Sétanta si rese famoso per un episodio che gli valse il nome che avrebbe portato per sempre: Culann il fabbro, infatti, invitò re Conchobar ad un banchetto; prima di andare il re si fermò al campo di gioco per osservare i ragazzi giocare a hurling ②. Impressionato dalla prestazione del nipote, egli lo invitò a seguirlo al convito; il giovane promise così di raggiungerlo al termine della partita.

Conchobar raggiunse così la dimora di Culann ma dimenticò di riferire dell'imminente arrivo di Sétanta; il fabbro così non mise la catena al suo feroce cane da guardia e lo lasciò libero. ③

Quando Sétanta giunse al banchetto, venne aggredito dall'enorme bestia; il giovane si difese a mani nude, afferrò il cane alla gola con una mano e al dorso con l'altra, quindi lo sbattè contro un menhir sino a quando l'animale non giacque esanime.

Gli Ulaid, avendo udito il rumore di una lotta feroce, accorsero solo per constatare il decesso del cane da guardia; Culann era disperato per la morte del fedele animale, ma Sétanta promise di risarcirlo, allevando un cucciolo del cane sino a renderlo in grado di fare il guardiano; sino ad allora, il giovane avrebbe preso il posto dell'animale a guardia della casa del fabbro. Il druido Cathbad sentenziò allora che da quel momento il nome del ragazzo sarebbe stato Cú Chulainn (il «mastino di Culann»).

Ríastrad o ríastartha. Letteralmente: «l'atto di contorcersi, distorsione» (Aa.Vv. 1990). Per questo è tradotto come «furia» o «spasmo torcente».
Sport nazionale irlandese, simile all'hockey su prato.
L'antico cane da caccia e da guardia celtico era piuttosto simile al nostro alsaziano, e di taglia assai robusta. Veniva impiegato dai Romani come cane da guerra o per combattere contro altre belve nelle arene. Moderni tentativi di ricrearne la razza hanno portato all'odierno Irish Wolfhound, l'imponente «cane da lupi» irlandese.

 

.
Ríastrad
 

Cú Chulainn avanza in battaglia (1916)
Joseph Christian Leyendecker (1874-1951), illustrazione.

oiché un giorno Cú Chulainn aveva udito Cathbad dire che chiunque avesse imbracciato le armi entro il tramonto avrebbe avuto gloria eterna, egli pretese dal re di essere insignito di tale onore. Nessuna delle armi che gli vennero date, tuttavia, erano adatte alla sua forza, tranne quelle dello stesso sovrano. I druidi profetizzarono che alla vita gloriosa dell'eroe si sarebbe accompagnata una morte precoce.

Ben presto Cú Chulainn cominciò a conquistarsi la fama di un guerriero forte e coraggioso: nel pieno del combattimento, egli era spesso posseduto dal ríastrad, che lo trasformava in una creatura spaventosa e multiforme, come non se n'erano mai viste:

«Dalla testa ai piedi ogni suo organo si agitava come un albero in un'alluvione o un ramo nella corrente. Il suo corpo eseguiva una furiosa giravolta nella sua pelle, tanto che piedi e gambe si giravano all'indietro, portando davanti talloni e polpacci; le tempie finivano sulla nuca; un occhio sprofondava nel cranio, mentre l'altro cadeva fuori dalla sua orbita penzolante. La bocca si distorceva sino a toccare le orecchie e la faccia si ritirava dalle mascelle sino a scoprire la gola: dalle fauci colava tanta schiuma che pareva la lana di una pecora di tre anni. I polmoni e il fegato sembravano voler uscire dalla bocca attraverso la gola, mentre i capelli si facevano contorti e spinosi come un ginepraio e si allargavano come la chioma di un albero.» ①

In questa forma mostruosa, egli terrorizzò molti guerrieri nemici, alcuni dei quali caddero morti alla sola vista di Cú Chulainn in preda al parossismo.

L'unico modo per interrompere la frenesia guerriera dell'eroe venne scoperto dalla nobile Mugain, che una volta guidò fuori dalla città le donne di Emain con i seni scoperti: a quel punto Cú Chulainn aveva distolto lo sguardo, turbato, e gli uomini dell'Ulaid riuscirono a gettarlo in una botte di acqua fredda, che esplose a causa del calore del corpo del guerriero; quindi, l'eroe venne gettato in una seconda tinozza d'acqua e infine in una terza, sino a quando egli non riprese finalmente il suo aspetto normale.

Cfr. S.J. O'Grady, History of Ireland: Critical and Philosophical (O'Grady 1881).

 

.
La conquista di Emer
 

Cú Chulainn ed Emer (1916)
Stephen Reid (1873-1948), illustrazione.

er il giovane Cú Chulainn venne quindi il tempo di prendere moglie: egli si invaghì di Emer, figlia di Forgall; poiché la famiglia di lei non gradiva questa unione, al figlio di Deichtine venne richiesto (prima di unirsi in matrimonio) di compiere altre gesta eroiche e, a tale scopo, di andare nella terra di Alba (in Scozia) per essere addestrato dalla famosa donna-guerriero Scáthach; Forgall sperava in tal modo che il giovane rimanesse ucciso durante il duro addestramento; Cú Chulainn accettò la sfida, ma nel frattempo la famiglia di Emer offrì la figlia in sposa a Lugaid, un re del Munster.

Scáthach insegnò al giovane guerriero tutte le arti del combattimento e l'uso della Gaí Bulga, una terribile lancia piena di punte che poteva essere estratta dal corpo della vittima solo lacerandone la carne. In questo periodo, il suo compagno di addestramento era Fer Diad, che divenne in breve il suo migliore amico nonché fratello adottivo.

Durante questo periodo Scáthach affrontò in battaglia la sua nemica e rivale Aífe; il prode Cú Chulainn si gettò nella mischia e affrontò la donna guerriera in un duello senza esclusione di colpi; alla fine, facendo uso sia della forza che dell'astuzia, il figlio di Deichtine ebbe la meglio ed Aífe si arrese; Cú Chulainn le risparmiò la vita a condizione che ella stipulasse una pace duratura con Scáthach. Aífe acconsentì e divenne anche, per un certo periodo, l'amante del «mastino di Culann».

Quando Cú Chulainn lasciò la terra di Alba, Aífe aspettava un figlio da lui: il guerriero si accomiatò dalla donna donandole un anello, raccomandandole che suo figlio doveva chiamarsi Conlaí e che avrebbe potuto recarsi presso Emain Macha quando fosse divenuto grande abbastanza da riuscire ad infilare il monile. Cú Chulainn disse anche che suo figlio non avrebbe dovuto mai rivelare il proprio nome ad alcuno ①, mai cedere il passo, mai rifiutare uno scontro…

Il mastino di Culann tornò in Irlanda, dove però gli venne ancora una volta rifiutata la mano di Emer; allora Cú Chulainn cinse d'assedio la fortezza di Forgall e, con soli tre colpi, uccise ben ventiquattro uomini; lo stesso Forgall perì nell'assedio, precipitando dai suoi bastioni; Emer venne così conquistata e divenne l'amata moglie del guerriero irlandese sino a quando questi non morì.

Anni dopo, Conlaí venne in Irlanda alla ricerca del padre e raggiunse gli Ulaid presso una spiaggia: i guerrieri del Ramo Rosso gli chiesero chi fosse, ma questi rifiutò di dire il proprio nome.

Gli uomini dell'Ulaid, offesi da tanta insolenza, lo sfidarono a duello, ma Conlaí tenne testa ad uno ad uno a tutti i guerrieri che lo sfidarono.

A quel punto, a salvare l'onore degli Ulaid dovette intervenire Cú Chulainn, che al termine di un combattimento serrato riuscì ad avere ragione del ragazzo facendo uso della Gái Bulga. Troppo tardi, il figlio di Deichtine scoprì di aver colpito mortalmente il suo erede; il senso dell'onore e l'orgoglio dei guerrieri irlandesi avevano costretto padre e figlio ad una lotta all'ultimo sangue.

Poco prima di spirare, Conlaí chiede di poter conoscere il nome di tutti i guerrieri del Ramo Rosso, che si avvicinarono a lui rendendogli omaggio; per il figlio di Cú Chulainn venne preparata una tomba con tutti gli onori ed eretta una stele.

Nell'antica Irlanda rivelare il proprio nome era un segno di deferenza.

 

.
La parte del campione
 

'assegnazione della «parte del campione» era un rituale assai noto nella cultura celtica; in occasione di solenni banchetti, l'onore di tagliare la carne arrostita e di tenere per sé le parti più pregiate era riservato a quello che veniva riconosciuto essere il migliore tra i guerrieri.

La tradizione, apparentemente innocua, poteva tuttavia diventare estremamente pericolosa se a partecipare al banchetto erano clan differenti, a volte divisi tra di loro da antiche inimicizie o rivalità. In tali casi, ciascuno dei guerrieri più valorosi reclamava per sé l'onore di poter tagliare la carne, sostenuto dagli uomini del suo seguito: non di rado, dalle vanterie e dalle schermaglie si passava direttamente alle vie di fatto e il banchetto degenerava in una feroce rissa.

Tra il popolo degli Ulaid, vi erano tre eroi (Cú Chulainn, Conall Cernach, il «trionfatore», e Lóegaire Búadach, il «vittorioso») in grado di aspirare alla parte del campione.

Un giorno il vecchio Brícriu Nemthenga, «lingua velenosa», incitò i tre guerrieri a competere tra di loro per stabilire, una volta per tutte, a chi toccasse la portata migliore nei banchetti.

Vennero così organizzate delle prove di forza e coraggio fra i tre eroi per decidere chi fosse il migliore, ma nessuna di esse risultò decisiva; il re Conchobar cominciava a preoccuparsi, perché gli animi si stavano scaldando un po' troppo per i suoi gusti e gli Ulaid non potevano permettersi il lusso di perdere uno dei loro tre guerrieri più valorosi per una faida intestina.

Alla fine toccò a Cú Roí mac Dáire, un terribile e spaventoso gigante nativo del Múmu, risolvere la situazione.

Cú Roí fece visita alla corte degli Ulaid travestito da villano: «Aveva un aspetto pauroso e terribile; portava sulla pelle un indumento di cuoio ed era avvolto in un mantello scuro… ognuno dei suoi occhi gialli era grande quanto un paiolo per cuocere un bue».

Brandendo un enorme scure, il gigante sfidò ciascuno dei tre eroi a decapitarlo, ma ad una condizione: chiunque avesse osato tagliargli la testa, in caso di fallimento si sarebbe sottoposto allo stesso trattamento il giorno dopo.

Lóegaire il Vittorioso prese allora in mano la scure del gigante (che mise tranquillamente la testa sul ceppo) e vibrò un terribile colpo. La testa di Cú Roí rotolò sino ai piedi del focolare.
Grande fu la meraviglia quando il gigante si rialzò, anche se decapitato: raccolse la testa e la scure e, pur grondante di sangue, lasciò la dimora degli Ulaid.

La sera seguente Cú Roí tornò a reclamare il suo diritto di mozzare la testa di Lóegaire, che tuttavia non si fece vedere. Allora il gigante legò al medesimo patto Conall il Trionfatore, il quale riuscì a staccare di netto la testa del suo avversario; ancora una volta, tuttavia, Cú Roí raccolse tranquillamente la sua testa e se ne andò senza problemi. Anche Conall, al pari di Lóegaire, non tenne fede alla parola data e non si presentò al banchetto degli Ulaid la sera dopo.

Cú Roí cominciò allora a schernire Cú Chulainn, sfidandolo a compiere quello che i suoi rivali non erano riusciti a portare a termine; preso dall'ira, il guerriero irlandese si avventò sul gigante e gli assestò un colpo che sembrava fatale; la testa andò a sbattere contro le travi del tetto della dimora degli Ulaid e cadde a terra; Cú Chulainn diede un ulteriore colpo di scure alla testa e la fece in pezzi. Nonostante questo, ancora una volta il terribile mostro travestito da villano riuscì a rialzarsi…

La sera dopo, tutti i guerrieri erano assai rattristati e avevano già cominciato ad intonare il lamento funebre per Cú Chulainn; questi rispettò la parola data e si presentò al banchetto per offrire il collo all'ascia del gigante.

Cú Roí alzò la scure e si preparò a vibrare il colpo mortale; il sibilo dell'arma affilata era simile allo stormire degli alberi di una foresta in una notte di vento.
Il gigante abbassò quindi la scure sul collo del coraggioso guerriero, ma con la lama rivolta verso l'alto; quindi esclamò: «Alzati, Cú Chulainn! Tra tutti i guerrieri dell'Ulaid e di Eriu nessuno ti è pari per coraggio, abilità e onore. Tu sei il primo eroe dell'Irlanda e nessuno potrà contenderti la parte del campione». Da quel giorno, la fama del grande Cú Chulainn non venne mai più messa in discussione e fu celebrata da tutti i bardi dell'isola ①.

Racconti senza tempo: [III - Le fiabe dell'antichità > Fiabe irlandesi] ►

 

.
La razzia del bestiame di Cúailnge
 

'impresa più famosa di Cú Chulainn fu la difesa dell'Ulaid dall'invasione dell'esercito del Connacht, narrata nel Táin Bó Cúailnge.

A quell'epoca, infatti, il re Conchobar aveva subito la defezione di molti guerrieri del Ramo Rosso, che non avevano perdonato al sovrano la sua crudeltà nei confronti della bella Derdriu e dei figli di Uisliu.

Tempo addietro, il re dell'Ulaid si era invaghito di una nobile fanciulla, di nome Derdriu, ma la bella giovinetta (pur promessa al sovrano) era stata preda di una passione irrefrenabile nei confronti di Noísiu mac Uislenn, ed era fuggita con lui.

Il re Conchobar aveva finto di aver perdonato la sgarbo di Derdriu e Noisiu e li aveva convocati presso la sua corte per riconciliarsi con loro; poi, con l'inganno, il sovrano dell'Ulaid aveva ordinato il massacro di tutti i figli di Uisliu e del loro seguito; la bella Derdriu, piuttosto che sottostare all'umiliazione di divenire sposa di Conchobar, aveva preferito suicidarsi.

La regina Medb (1911)
Joseph Christian Leyendecker (1874-1951), illustrazione.

Parte dei guerrieri del Ramo Rosso, tra cui Fergus mac Róich, non poterono tollerare una così grave violazione dei doveri dell'ospitalità e preferirono mettersi al servizio di Medb e Ailill, signori del Connacht.

I due sovrani della provincia nord-occidentale dell'Irlanda, galvanizzati dall'indebolimento del nemico, organizzarono l'invasione dell'Ulaid per depredare il magnifico toro Donn Cúailnge, il «Bruno della regione di Cúailnge».

Gli Ulaid non riuscirono a fronteggiare le forze dell'invasore perché vittime di una maledizione, per la quale è opportuno spendere qualche parola in più.

Dopo la fondazione di Emain Macha, infatti, un ricco contadino dell'Ulaid si era vantato presso il sovrano che sua moglie Macha era in grado di correre più veloce dei cavalli del re. Sdegnato, il re degli Ulaid volle mettere alla prova in una gara di corsa la giovane donna; ella chiese di essere esonerata da una tale sfida, poiché era sul punto di partorire ma il re e tutta la folla, nella loro selvaggia brama di divertimento, non vollero sentire ragioni.

Macha si cimentò nella corsa contro i cavalli e riuscì a vincere, ma nel tagliare il traguardo lanciò un grido lacerante e partorì due gemelli. Ella lanciò quindi una maledizione: nei momenti di maggior bisogno, tutti i guerrieri dell'Ulaid avrebbero sofferto dei dolori del parto per cinque giorni e quattro notti.

Quando l'esercito del Connacht invase il territorio dell'Ulaid, tutti i guerrieri del Ramo Rosso tranne Cú Chulainn erano inabili a causa della maledizione di Macha. Toccò quindi al più grande guerriero degli Ulaid fronteggiare da solo l'avanzata dell'esercito nemico, già euforico per i primi successi ottenuti e per il bottino delle scorrerie.

Cú Chulainn, per nulla turbato all'idea di dover fronteggiare l'armata del Connacht, sradicò una quercia, vi incise sopra in alfabeto ogam ① una iscrizione e la lasciò in segno di sfida sulla cima di una pietra infissa sul terreno: «Nessuno oltrepassi questo punto finché un uomo non riuscirà a scagliare questa pastoia con una mano» ②.

L'esercito invasore aggirò l'ostacolo e continuò ad avanzare; il figlio di Deichtine allora attese gli uomini che erano stati inviati in avanscoperta dal nemico e li uccise in un agguato; egli pose quindi le loro teste mozzate sulle quattro punte di un tronco, che venne conficcato come monito nel mezzo di un torrente.

Dopo aver fiaccato in questo modo il morale delle truppe del Connacht, Cú Chulainn fece strage dei nemici nel corso di varie imboscate; centinaia di guerrieri vennero uccisi dalla terribile fionda del mastino di Culann.

I condottieri del Connacht invocarono il diritto a sfidare ogni giorno a duello Cú Chulainn; per giorni e giorni, il campione degli Ulaid sfidò ogni volta a singolar tenzone un guerriero nemico presso un guado, abbattendo uno dopo l'altro i duellanti del Connacht.

Nel corso di queste sfide, si avvicinò all'eroe irlandese una bellissima fanciulla, che gli si offrì, venendo però respinta: la donna altri non era che la dea Mórrígan che, furiosa per essere stata rifiutata, attaccò a più riprese Cú Chulainn sotto forma di vari animali durante i suoi duelli.

Dopo un combattimento particolarmente duro Cú Chulainn giacque ferito e solo l'intervento del dio Lùg, che si rivelò all'eroe come suo padre, riuscì a salvarlo dalla morte. Il mastino di Culann si risvegliò da un sonno ristoratore, che aveva lenito le sue ferite, solo per scoprire che i ragazzi dell'Ulaid (immuni dalla maledizione di Macha in quanto ancora imberbi) avevano attaccato le truppe nemiche, venendone massacrati. Cú Chulainn ebbe una nuova crisi ríastrad, la più terribile, e attaccò l'esercito del Connacht, uccidendo centinaia di nemici.

Medb e Ailill inviarono quindi il nobile Fergus ad affrontare Cú Chulainn; questi accettò di cedere il passo al vecchio compagno d'armi, ma solo con l'impegno da parte dello stesso Fergus di ricambiare a sua volta il favore all'occasione successiva.

Cú Chulainn non potè esimersi invece dall'affrontare Fer Diad, suo migliore amico e fratello adottivo, in un duello estenuante che durò ben tre giorni e che si risolse solo quando il campione degli Ulaid fece ricorso alla lancia Gái Bulga.

Finalmente gli uomini dell'Ulaid si destarono dal loro torpore magico e si prepararono quindi al contrattacco. Nella battaglia finale, Cú Chulainn stette inizialmente in disparte, guarendo le sue ferite, finché non vide avanzare Fergus, che brandiva la sua spada invincibile, la mitica Caladbolg. Il mastino di Culann entrò allora nella mischia ed affrontò Fergus, chiedendogli di mantenere la parola data e di abbandonare il terreno.

Le forze del Connacht furono infine costrette a ritirarsi, con pochi uomini supersiti e con un magro bottino, tra cui il toro Donn Cúailnge (che era stato il motivo scatenante della invasione dell'Ulaid): per ironia della sorte, il mitico animale, una volta condotto nella parte nord-occidentale dell'isola, venne preso da un moto di rabbia e tornò nella sua provincia di origine, dove – dopo aver massacrato donne e fanciulli – il cuore gli scoppiò nel petto come una noce.

Nel panico della ritirata, Cú Chulainn penetrò lo sbarramento avversario ed arrivò a catturare la regina Medb, risparmiandole la vita e concedendole la libertà solo perché riteneva pur sempre indegno uccidere una donna.

Primitivo sistema di scrittura, sviluppato in Irlanda nei primi secoli dell'era cristiana e utilizzato per iscrizioni commemora-tive o tombali. È costituito da una serie di linee incise sui due lati di uno spigolo di pietra o di una assicella di legno (Giansanti ~ Maschio 2010).
Cú Chulainn aveva così imposto una geis, vale a dire un vincolo o proibizione: la sua violazione, nella tradizione irlandese, comportava gravi conseguenze come la perdita dell'onore o addirittura la morte. Le geisa si presentavano di volta in volta come regole sociali legate al rango della persona ovvero interdizioni imposte da druidi, poeti satirici o altri soggetti dotati di poteri magici. (Giansanti ~ Maschio 2010)

 

.
La morte di Cú Culainn
 

Cú Chulainn morente (1911)
Oliver Sheppard (1865-1941), scultura.
General Post Office / Ard-Oifig an Phoist
Dublin / Baile Átha Cliath (Irlanda)

opo la razzia del bestiame di Cúailnge, gli Ulaid si vendicarono contro il Connacht e i suoi alleati e attaccarono a più riprese i re delle quattro province; poiché Cú Chulainn era sempre in prima fila negli scontri, questi si attirò l'odio di molti.

La regina del Connacht Medb cospirò con Lugaid, figlio di Cú Roí e principe del Mumu, per liberarsi una volta per tutte del mastino di Culann.

Il destino di Cú Chulainn venne segnato nel momento in cui egli violò i suoi geisa, i divieti i sacrali per lui stabiliti: al guerriero degli Ulaid era infatti inibito di mangiare carne di cane, ma nel contempo egli era tenuto ad accettare sempre la sacra ospitalità che gli veniva data. Quando a Cú Chulainn venne offerto da una vecchia megera un pasto a base proprio di carne di cane, egli non potè esimersi dal violare un geis, rimanendo così indebolito ed esposto al pericolo mortale.

Lugaid fabbricò tre lance magiche ed aveva profetizzato che sotto i colpi di ognuna sarebbe caduto un re: con la prima egli uccise Láeg, fedele amico di Cú Chulainn e da molti considerato il re degli aurighi; con la seconda uccise il destriero del figlio di Deichtine, il migliore di tutti i cavalli. Con la terza, infine, venne colpito a morte il mastino di Culann.

Lugaid, per sfregio, tagliò la testa del nemico ucciso, ma così facendo la mano di Cú Chulainn si aprì, la sua spada cadde e tagliò la mano del figlio di Cú Roí.

Fu Conall Cernach a vendicare la morte dell'amico guerriero, affrontando ed uccidendo Lugaid in duello.

Il corpo del campione degli Ulaid venne quindi portato ad Emain Macha, dove venne pianto dalle sue genti. Ma nessun canto fu così straziante e commovente come quello della moglie Emer.

Si spezzi questo cuore che l'ha amato,
non dimentichi l'orecchio la sua voce,
versi sangue l'occhio che lo ha ammirato,
il mondo finirà nel dolore ora che lui è morto.
Mai più ci incontreremo un altro giorno,
Grigio, Grigio di Macha!

Il «ciclo feniano» è invece dominato dalla figura di Finn mac Cumaill, che ad un valore ed un coraggio senza pari univa anche la saggezza del salmone della sapienza: durante la giovinezza, infatti, egli era stato addestrato dal poeta e druido Finn Éces, che dopo sette anni era riuscito a catturare un pesce miracoloso e chiese quindi a Finn mac Cumaill di arrostirlo (chi ne avesse mangiato per primo, avrebbe avuto accesso ad un sapere senza pari); durante la cottura, il guerriero si scottò il pollice ed istintivamente si portò il dito alla bocca, ereditando in questo modo i poteri del salmone. Da allora, Finn acquisì la conoscenza suprema: gli bastava mordicchiarsi il pollice per comprendere tutto.

Finn mac Cumaill divenne il capo delle Fíanna, una compagnia di guerrieri seminomadi che scorrazzavano in Irlanda, insofferenti delle autorità; egli contribuì a dare ai feniani un rigoroso codice d'onore e li unì in un patto di fedeltà assoluta al Re Supremo dell'isola.

Finn mac Cumaill fu anche il padre del famoso guerriero e poeta Oísin («Piccolo cervo»), che venne celebrato in epoca romantica da James Macpherson: i suoi Canti di Ossian costituirono una delle letture fondamentali per la sensibilità poetica del XIX secolo.

V
SIGURÐR
L'ammazzadraghi

 

 

Sigurðr (noto anche in Germania come Sigfried) è l'eroe nazionale della mitologia nordica; delle sue gesta esistono testimonianze già nell'Edda poetica, una delle opere più antiche della poesia scandinava, risalente all'Alto Medioevo. La storia venne poi rielaborata nella Saga dei Vǫlsunghi e nell'Edda di Snorri, componimenti in prosa di epoca più tarda ma sempre riconducibili alla cultura nordica. Della leggenda si impadronì la cultura germanica e anglo-sassone; il Bēowulf contiene un riferimento esplicito alla storia di Sigurðr, nella quale l'impresa della lotta contro il drago è attribuita al padre Sigmundr; nel XIII sec. d.C. la materia venne rielaborata da un anonimo scrittore tedesco, autore del Canto dei Nibelunghi; nonostante l'opera appartenga ad un periodo relativamente recente rispetto alla genesi del mito, essa mantiene un forte carattere arcaicizzante, soprattutto nella prima parte, e conserva intatta la genuinità dell'eroe protagonista. Le vicende che andremo a narrare non mancheranno di dare ispirazione anche in epoche più recenti, soprattutto con l'imporsi della sensibilità del Romanticismo: citiamo tra tutte la maestosa opera musicale di Richard Wagner, L'anello del Nibelungo. Nel secolo scorso, anche un giovane J.R.R. Tolkien dedicò un poemetto alle gesta di Sigurðr, pubblicato solo di recente ①. Nel mettere per iscritto questo mito intramontabile, si terrà conto prevalentemente della versione scandinava della leggenda, salvo poi citare alcuni passi di altri poemi, laddove contengano spunti narrativi più interessanti.
 


.
Il guidrigildo di
Ótter
 

Óðinn il Viandante ( 1911)

Arthur Rackham (1867-1939)

elle epoche antiche, quando i numi si recavano presso le dimore dei mortali per conoscere il mondo, il padre di tutti gli dèi Óðinn stava passeggiando nel Miðgarðr ② assieme al fratello Hǿnir e al subdolo Loki, il signore degli inganni.

Essi stavano camminando lungo la riva di un fiume e giunsero sino ad una cascata presso la quale vi era una lontra che stava mangiando un salmone appena pescato.
I tre dei erano piuttosto affamati, ragion per cui Loki sollevò una pietra e la tirò colpendo in testa entrambi gli animali.

I numi portarono con sé le prede e si misero in cammino, giungendo presso una fattoria abitata dal potente Hreiðmarr, noto usufruitore di magia; qui, essi chiesero ospitalità per la notte e, affermando di avere provviste sufficienti a sfamare tutti, esibirono il salmone e la lontra.

Il fattore, alla vista dei due animali, chiamò i suoi due figli Fáfnir e Reginn, i quali piombarono addosso ai tre dei e li legarono; i numi vennero accusati di omicidio, avendo essi ucciso Ótter, il terzo figlio di Hreiðmarr; quest'ultimo, infatti, era dotato della capacità della metamorfosi e amava spesso mutare forma e andare a caccia presso la cascata.

Per avere salva la vita, gli dei dovettero pagare un guidrigildo ③: la lontra venne scuoiata e Hreiðmarr affermò che ci sarebbe stata riconciliazione solo se i numi fossero stati in grado di ricoprirla tutta di oro rosso.

Loki venne così liberato ed inviato a procurarsi l'oro: questi giunse presso un nano che si chiamava Andvari e che era famoso per essere il possessore di grandi ricchezze.

Il signore degli inganni riuscì a catturare il nano mentre si procurava il cibo in forma di luccio (il dono di cambiare forma era, evidentemente, piuttosto diffuso tra gli antichi…); come prezzo per la vita e la libertà, Andvari dovette consegnare tutto l'oro che possedeva.

Quando giunsero alla sua tana nella roccia, il nano consegnò i suoi tesori ma cercò di trattenere per sé un piccolo anello d'oro; Loki se ne avvide e gli ingiunse di consegnare anche quell'oggetto prezioso.

Andvari pregò il dio di lasciargli il monile perché grazie a quell'oggetto avrebbe di nuovo potuto accrescere le sue ricchezze, ma Loki intascò l'anello e rispose con asprezza che da quel momento in poi il nano non avrebbe dovuto possedere neppure una moneta.

Andvari allora maledisse il suo tesoro e proclamò che quel monile sarebbe stata la rovina di chiunque l'avesse posseduto.

Loki tornò quindi da Hreiðmarr e mostrò a Óðinn l'anello maledetto: questi lo trovò molto bello e lo tolse dal mucchio; quindi, i tre dei si apprestarono a ricoprire la pelle della lontra con l'oro trafugato. Il fattore constatò che l'animale non era stato totalmente ricoperto perché spuntava ancora un baffo, per cui Óðinn dovette tirar fuori il gioiello di Andvari per nascondere i peli; da quel giorno, presso i popoli del nord l'oro viene declamato dai poeti anche come «il guidrigildo della lontra».

La maledizione del nano, intanto, cominciò a sortire i suoi primi effetti: i figli di Hreiðmarr, infatti, pretesero dal padre una parte delle ricchezze ma questi rifiutò decisamente; i due fratelli allora concepirono un piano malvagio e così uccisero senza pietà il loro genitore, per impadronirsi del tesoro di Andvari.

In seguito, la discordia si impadronì anche dei discendenti di Hreiðmarr, che vennero a lite non intendendo spartire l'oro in parti uguali. Alla fine, Fáfnir minacciò il fratello, ingiungendogli di lasciare la terra natia se non voleva raggiungere il padre nel regno dei morti; Reginn, essendo il meno forte e il meno coraggioso della stirpe, preferì andare in esilio.

Fáfnir, che condivideva con il fratello defunto il dono di cambiare forma, portò con sé l'oro nel Gnítaheiðr (la «piana dei detriti»), dove si preparò una tana; quindi, si trasformò in un enorme drago e lì giacque a perenne guardia delle enormi ricchezze, che già gli antichi cominciavano a chiamare come «il Tesoro del Nibelungo» ④.

Per approfondimenti si rimanda all'Edda di Snorri (Isnardi 1975), alla Saga dei Vǫlsunghi (Meli 1997), al Bēowulf (Koch 1987) e al Canto dei Nibelunghi (Amoretti 1962). Per la saggistica, ai Miti nordici di Gianna Chiesa Isnardi (Isnardi 1991). Per una interessante rielaborazone del mito nibelungico alla Leggenda di Sigurd e Gudrún di J.R.R. Tolkien (Tolkien 2009).
Antico nome nordico per designare il mondo degli uomini; il significato letterale è «Recinto di mezzo».
Nel diritto delle popolazioni nordiche e germaniche, il guidrigildo era un modo per espiare un delitto (in genere, un omicidio) e consisteva nel pagamento di una somma di denaro o di altri beni di valore; in tal modo, il reo si riconciliava con la parte offesa o con i suoi eredi, evitando lunghe e sanguinose faide
Letteralmente, il termine Niflungar, «Nibelunghi», significa «abitanti dell'oscurità» ovvero «esseri della nebbia» e si riferisce probabilmente agli Elfi Oscuri (i Nani), i primi custodi del tesoro; in seguito, tale appellativo venne esteso a tutti i possessori dell'oro di Andvari sino a divenire un epiteto del popolo dei Burgundi.

 

.
I Vǫlsunghi
 

Óðinn conficca la spada nel melo ( 1905)
Emil Doepler der Jüngere (1855-1922)
MUSEO: [Doepler. Walhall]►

a nostra storia si sposta ora in un altro remoto angolo della Scandinavia, dove visse il grande re Vǫlsungr, figlio di Rerir e nipote di Sigi.

Questo sovrano venne allietato dalla nascita di ben dieci figli maschi e di una bellissima figlia, cui venne dato il nome di Signý.

Accadde dunque che a chiedere la figlia di Vǫlsungr in sposa fosse un re di nome Siggeir, famoso per il suo potere e la sua ricchezza ma anche per la sua crudeltà; il matrimonio parve comunque buono alla famiglia dei Vǫlsunghi, per cui esso venne celebrato con tutti gli onori.

Durante i festeggiamenti, giunse uno sconosciuto con un occhio solo, coperto da un mantello senza maniche, a piedi nudi e con calzoni di lino: sul capo aveva un cappello, che ne nascondeva a stento il viso ①; costui teneva in mano una spada e avanzò fino ad un albero di melo che si trovava all'interno della reggia di Vǫlsungr: quindi conficcò l'arma nel tronco ed esclamò: «Colui che sarà capace di estrarre questa spada l'avrà in dono da me ed egli stesso confermerà di non avere mai avuto tra le mani una lama migliore».

Tutti provarono ad impadronirsi dell'arma, ma solamente il primogenito di Vǫlsungr riuscì ad estrarla: questi era Sigmundr, un guerriero destinato ad un futuro glorioso.

Dopo i festeggiamenti, Siggeir portò con sé la sposa nei suoi possedimenti, ma invitò i Vǫlsunghi a raggiungere la sua corte in capo a tre mesi.

Al tempo stabilito, Vǫlsungr e i suoi raggiunsero le terre del genero; essi vennero attaccati durante una imboscata ordita da malvagio Siggeir: il re venne ucciso e i suoi figli vennero incatenati nella foresta per essere divorati dai lupi.

Il destino, tuttavia, volle che a salvarsi da questo terribile supplizio fosse Sigmundr, il quale visse a lungo nella foresta, rifocillato dall'infelice sorella, sempre in attesa di realizzare la sua vendetta. Quando riprese del tutto le forze, egli giunse alla corte di Siggeir e vi appiccò il fuoco, causando la morte dell'odiato cognato e di tutto il suo seguito; anche Signý, tuttavia, perì nel rogo che aveva provocato.

In seguito, Sigmundr tornò nelle sue terre e si riprese il trono del padre, che era stato usurpato da un traditore; egli rimase a governare il suo regno per molti anni e venne a lungo considerato il miglior guerriero e il miglior sovrano.

Sigmundr si recò quindi nella terra dei Franchi per prendere in sposa Hjǫrðís, figlia del re Eylimi, con la quale concepì un figlio maschio.

Si narra che Sigmundr morì in battaglia da valoroso prima che la moglie partorisse e che, sul punto di spirare, egli preannunciò alla consorte che avrebbero avuto un erede; il grande sovrano e guerriero affidò a Hjǫrdís i frammenti della sua spada andata in pezzi, perché da essi sarebbe stata forgiata una nuova lama.

La vedova riparò quindi presso la corte di re Álfr, che sposò in seconde nozze, e partorì un figlio cui venne dato il nome di Sigurðr.

Gli scaldi riferiscono che questo era uno dei modi in cui Óðinn era solito presentarsi ai mortali.

 

.
Sigurðr e il drago
 

Reginn consegna a Sigurðr la spada Gramr ( 1911)

Arthur Rackham (1867-1939)

l giovane Sigurðr venne adottato dal suo patrigno e crebbe forte e coraggioso: i suoi occhi acuti ne rivelavano la profondità d'animo ed egli era superiore ai suoi coetanei in ogni cosa. Il caso volle che il padrino del giovane rampollo dei Vǫlsunghi fosse proprio Reginn, figlio di Hreiðmarr, che ancora si struggeva per riprendere possesso di quell'immenso tesoro che suo fratello gli aveva sottratto.

Reginn rivelò a Sigurðr il segreto del tesoro custodito da Fáfnir, che era così posseduto dalla brama dell'oro al punto da impazzire: mai, infatti, egli si era allontanato dal tesoro, che continuava a custodire in forma di drago.

Per compiere l'impresa, Reginn forgiò due spade ma Sigurðr le rifiutò perché esse si erano infrante quando il giovane guerriero le aveva provate contro la pietra; Sigurðr affidò allora al fabbro i frammenti dell'arma che era stata di suo padre: questa volta, Reginn riuscì a trarre dalla fucina una spada cui venne dato il nome di Gramr; il figlio di Sigmundr capì che quella lama l'avrebbe aiutato a compiere grandi imprese quando riuscì a tagliare di netto in due un ciuffo di lana e quando fendette l'incudine del fabbro sino al ceppo.

Sigurðr e Reginn si recarono quindi nella piana dei detriti per uccidere Fáfnir; il valoroso eroe aveva il privilegio di montare il mitico cavallo Gráni, che si dice discendesse addirittura da Sleipnir, la cavalcatura di Óðinn; egli scavò una buca lungo la via percorsa dal drago mentre usciva dalla tana per raggiungere l'acqua. Sopraggiunse allora un vecchio da un occhio solo per chiedergli cosa stesse facendo; questi ascoltò la risposta di Sigurðr ed esclamò: «Questo è un cattivo consiglio. Scava diverse buche e lascia che il sangue vi scorra dentro; tu mettiti in una e colpisci la serpe all'altezza del cuore».

Sigurðr e Fáfnir ( 1911)

Arthur Rackham (1867-1939)

Quando Fáfnir venne strisciando verso l'acqua sputando veleno, egli passò sopra la buca in cui si era nascosto Sigurðr; questi vibrò un colpo micidiale con la spada e gli inferse una ferita mortale. Il drago si scosse muovendo la testa e la coda e, prima di spirare, ammonì il suo assassino: mai avrebbe dovuto prendere possesso del tesoro, per non essere vittima della maledizione di Andvari.
Seguendo il consiglio dell'uomo con un occhio solo, Sigurðr si immerse nel sangue del mostro ucciso, diventando così invulnerabile; a rimanere indifesa, fu solo una parte della schiena in mezzo alle scapole, che non venne sfiorata dal liquido vitale del drago perché una foglia si era posata sulla pelle dell'eroe durante l'abluzione.

Giunse nel frattempo Reginn, che si era tenuto in disparte durante lo scontro, il quale chiese a Sigurðr di arrostire sul fuoco il cuore del drago; quindi, il fabbro bevve del sangue del fratello e si pose a dormire.

Il figlio di Sigmundr estrasse il cuore dal mostro e si mise a cuocerlo sullo spiedo; quando ritenne che fosse ormai cotto, egli lo toccò con un dito ma il sangue gli colò sulla pelle e lo scottò: istintivamente, l'eroe si mise il dito in bocca ma, quando il liquido vitale del drago toccò la lingua di Sigurðr, questi divenne capace di comprendere il linguaggio degli uccelli e intese cosa stavano dicendo i volatili appollaiati sugli alberi:

«Là siede Sigurðr
macchiato di sangue,
il cuore di Fáfnir
sulla fiamma arrostisce;
saggio mi parrebbe
donatore di anello
se il muscolo della vita
splendente mangiasse.»

«Là sta Reginn
e rimugina fra sé,
vuole ingannare il giovane
che ha fiducia in lui;
medita nell'ira
false parole,
vuole, quel fabbro di mali,
vendicare il fratello.»

Il giovane, avendo ascoltato ciò che avevano detto gli uccelli, riuscì a voltarsi appena in tempo per scorgere Reginn che tentava di ucciderlo; in un attimo, Sigurðr brandì la spada e mozzò il capo del subdolo fabbro.

Il figlio di Sigmundr si recò quindi nella tana di Fáfnir e afferrò a piene mani l'oro di Andvari; quindi, egli saltò in groppa a Gráni e si allontanò.

 

.
Sigurðr e i Burgundi
 

Sigurðr e Brynhildr ( 1911)

Arthur Rackham (1867-1939)

igurðr giunse nel paese dei Franchi e lì vide un bastione di scudi, circondato da un cerchio di fuoco; il giovane guerriero, incuriosito, spronò il suo cavallo e balzò sopra le folgori. Qui egli notò un guerriero che giaceva «in un sonno di morte» , vestito con un elmo ed una cotta di maglia e con una spada accanto.

Sigurðr sollevò l'elmo e scoprì una lucente chioma bionda: il fantomatico guerriero altri non era che Brynhildr, una donna guerriera al seguito del grande Óðinn, condannata dal nume a cessare di combattere e a trovare marito: questa era la punizione per aver aiutato un guerriero in battaglia contro il volere degli dei.

La valchiria aveva accettato il suo destino ma chiese di poter essere sposata solo dal guerriero più valoroso di tutti; Óðinn l'aveva così fatta addormentare dentro un cerchio di scudi circondato dalle fiamme, in modo che solo il più valente degli uomini potesse spezzare l'incantesimo.

Sigurðr lacerò la cotta di maglia della donna guerriera ed in questo modo restituì Brynhildr al mondo: tra i due nacque immediatamente una passione amorosa, per cui essi si giurarono eterna fedeltà.

Il figlio di Sigmundr donò alla sua amata il fatale anello di Andvari, le raccontò delle sue imprese e del suo desiderio di compiere altre gesta eroiche, rivelando anche il segreto della sua invulnerabilità. Brynhildr, a questo punto, disse a Sigurðr di ritornare da lei solo quando si fosse procurato una corona ed un regno.

Sigurðr proseguì il suo viaggio ed arrivò nella terra dei Burgundi, dove regnavano Gjúki e sua moglie Grímhildr, una esperta conoscitrice di magia. Essi avevano tre figli maschi, di nome Gunnarr, Hǫgni e Gotthormr, nonché una figlia femmina che si chiamava Guðrún.

Poiché i sovrani dei Burgundi ritenevano che sarebbe stata una fortuna se l'uccisore del drago avesse sposato la loro principessa, la regina preparò un filtro magico che dava l'oblio a chiunque ne bevesse.

Sigurðr sorseggiò la bevanda e, in un attimo, dimenticò Brynhildr e le sue promesse di amore eterno: egli sposò quindi Guðrún e si legò con giuramenti ai suoi fratelli, con i quali egli compì grandi imprese.

Non passò molto tempo che Gunnarr concepì l'idea di prendere in sposa proprio la valchiria circondata dal bastione di scudi; per quanti sforzi egli facesse, tuttavia, egli non riusciva a spronare il suo cavallo oltre il muro di fuoco.

Venne allora in suo soccorso Sigurðr che, prese le sembianze del cognato, spinse Gráni al di là del cerchio di scudi e si presentò a Brynhildr come Gunnarr, chiedendola in sposa. Il figlio di Sigmundr dormì per tre notti con la valchiria, ma come atto di estrema correttezza nei confronti del figlio del re dei Burgundi collocò sempre nel letto la sua spada, in modo che i corpi di lui e di Brynhildr rimanessero separati. Egli non poté fare a meno, tuttavia, di sottrarre alla bella guerriera il prezioso anello di Andvari (che, in precedenza, lui stesso le aveva donato) sostituendolo con un altro monile del tesoro di Fáfnir.

Brynhildr e Guðrún ( 1911)

Arthur Rackham (1867-1939)

Brynhildr, pur rimanendo assai perplessa per la piega degli eventi (ella non aveva dimenticato la promessa d'amore fatta a Sigurðr), acconsentì alle nozze con Gunnarr che vennero celebrate con grande letizia del popolo dei Burgundi.

Avvenne tuttavia in seguito che tra Guðrún e Brynhildr scoppiasse una lite su chi fosse il più nobile e il più coraggioso tra gli uomini. La valchiria sosteneva con veemenza che nessuno, all'infuori di Gunnarr, sarebbe stato in grado di attraversare il bastione di fuoco; allora, Guðrún la schernì e rivelò che era stato suo marito Sigurðr a compiere l'impresa: prova ne era l'anello di Andvari, che il figlio di Sigmundr aveva donato alla moglie dopo averlo sfilato dalla mano di Brynhildr.

A seguito di quella notizia, la valchiria divenne triste e taciturna; nel profondo, ella cercava vendetta nei confronti di Sigurðr per quello che considerava un vero e proprio tradimento.

La tristezza mutò ben presto in furore, ragion per cui Brynhildr spinse il marito ad uccidere il cognato Sigurðr calunniandolo presso di lui; la valchiria arrivò anche a rivelare a Gunnarr l'unico punto debole dove colpire il figlio di Sigmundr.

Alla fine fu Gothorm ad uccidere lo sterminatore del drago, sorprendendolo nel sonno (anche se, prima di spirare, lo sposo di Guðrún riuscì a prendersi la sua vendetta decapitando il suo assassino con un fendente). Altre fonti riportano invece che fu Hǫgni ad uccidere il cognato in un vile agguato, colpendolo alle spalle durante una battuta di caccia.

Una cerimonia funebre senza pari venne allestita per celebrare il grande eroe: attorno alla pira vi erano arazzi e scudi, la spada Gramr e due falchi; quando il fuoco venne acceso, la bella Brynhildr non poté sopportare il rimorso per aver causato la morte di chi gli aveva giurato amore eterno: ella indossò la corazza e si trapassò con la spada (ovvero, secondo alcuni, si gettò tra le fiamme).

Poi le fiamme divampano
con turbinio di fumo,
alto ruggisce il fuoco,
circondato da pianti.
Trapassò così Sigurðr
discendente di Volsung,
anche Brynhild fu arsa:
e ogni gioia ebbe fine.
                          J.R.R. Tolkien, Il nuovo lai dei Volsunghi [76]

Sigurðr e Brynhildr vennero accolti nel Valhǫll, dove banchettarono alla destra del padre Óðinn, in attesa della guerra finale che opporrà un giorno le forze del bene a quelle del male.

Quando il corno di Heimdall
tutti udranno squillare
e il ponte dell'Iride
piegheranno i cavalli,
sarà Brynhild a cingergli
la cintura e la spada.
                          J.R.R. Tolkien, Il nuovo lai dei Volsunghi [79]

Dopo la morte di Sigurðr, i Burgundi si impossessarono del tesoro di Fáfnir e, da allora, presero il nome di Nibelunghi; un triste destino, tuttavia, attendeva gli assassini.

J.R.R. Tolkien, La leggenda di Sigurd e Gudrún (Tolkien 2009).

 

.
La strage dei Nibelunghi
 

Hǫgni e Guðrún ( 1911)

Arthur Rackham (1867-1939)

irca tredici anni dopo la morte dell'amato Sigurðr, l'infelice Guðrún venne data in sposa, contro la sua volontà, al re degli Unni Atli (Attila).

L'avido sovrano voleva a tutti i costi impadronirsi del tesoro dei Nibelunghi, per cui egli invitò Hǫgni e Gunnarr nelle sue terre, pensando poi di tradirli.

Guðrún comprese che si ordiva un inganno contro i suoi fratelli, per cui incise delle rune, prese un anello d'oro, vi legò un pelo di lupo e lo consegnò a dei messaggeri affinché lo consegnassero direttamente ai Nibelunghi; uno dei messi, tuttavia, lesse il messaggio e lo alterò in modo tale che apparisse che Guðrún invitava i suoi familiari a recarsi alla corte di Atli.

I Nibelunghi ricevettero l'invito e si consultarono tra di loro per decidere se fosse opportuno accettarlo; a persuaderli furono proprio le rune alterate, che i Burgundi attribuirono a Guðrún.

Mentre i Nibelunghi attraversavano il Danubio, le Ondine profetizzarono a Hǫgni che, di tutta la compagnia, solo un monaco sarebbe tornato vivo in patria.

Hǫgni, con fare sprezzante, per impedire l'avverarsi della profezia tentò di uccidere l'unico monaco al seguito della spedizione, gettandolo nel Danubio: questi, però, riuscì a guadagnare l'altra sponda del fiume e a tornare indietro. A quel punto, alcuni dei Nibelunghi cominciarono a dare credito alla profezia.

Giunti alla corte di Atli, i Burgundi si mostrarono sin da subito sospettosi e si rifiutarono di consegnare le proprie armi.

Atli li circondò con il proprio esercito e dichiarò che era sua ferma intenzione ucciderli ed impadronirsi del famoso tesoro conquistato da Sigurðr uccidendo il drago. In breve tempo le due fazioni diedero inizio ad un'aspra battaglia.

Giunti alle nere porte
gridarono e colpirono;
delle spade il clangore,
delle scuri lo schianto.
I fabbri da battaglia
martellano le incudini;
scintillano e si spaccano
elmi e lance degli Unni.
                          J.R.R. Tolkien, Il nuovo lai di Gudrun [100]

Il combattimento durò a lungo e con gravi perdite da una parte e dall'altra; gli uomini di Atli circondarono Hǫgni e riuscirono a catturarlo: il re degli Unni ordinò che gli fosse strappato il cuore (si dice addirittura che il cuore del Nibelungo rimase saldo anche dopo il supplizio).

Anche Gunnarr venne catturato e rivelò al re degli Unni che il tesoro dei Nibelunghi era stato nascosto nelle profondità del fiume Reno e che pertanto nessuno al mondo sarebbe stato in grado recuperarlo. Atli allora fece gettare il cognato in una fosse di serpenti, dove il guerriero trovò la morte ②.

Ma la turpe saga dei Nibelunghi non finisce qui: Guðrún, infatti, meditò di vendicarsi nei confronti del marito che gli aveva ucciso i fratelli.

Secondo taluni, ella giunse al punto di uccidere i figli che aveva avuto da Atli, rivelando al re quel che aveva fatto e rivolgendogli parole ingiuriose.

Altri sostengono invece che Guðrún si alleò con Hniflungr, figlio di Hǫgni, per uccidere il sovrano degli Unni; essi sorpresero Atli nel sonno e lo trafissero con la spada: il re degli Unni, prima di spirare, rivolse alla moglie parole di odio.

Guðrún promise un degno funerale per il marito: ella appiccò il fuoco alla corte e tutti gli uomini che si trovavano lì ne morirono.

Con le fiamme della reggia di Atli, che giunsero a lambire il firmamento, termina una delle leggende più turpi e gloriose della storia del mondo. Essa influenzò autori antichi e moderni e proprio con i versi di uno degli ultimi scrittori ispirati da questa saga intendiamo congedarci dall'atmosfera delle saghe nordiche, che sa di clangore di spade, di magia e di gesta valorose.

Così ha fine la gloria,
e sbiadisce anche l'oro,
su rumori e clamori
scende sempre la notte.
Sollevate ora i cuori
guerrieri e fanciulle
per il lai di dolore
che un tempo si cantò.
                          J.R.R. Tolkien, Il nuovo lai di Gudrun [166]

J.R.R. Tolkien, La leggenda di Sigurd e Gudrún (Tolkien 2009).
Va evidenziato che, nella versione germanica del poema, è Guðrún (che l'anonimo autore del Canto dei Nibelunghi chiama Kriemhilt) ad organizzare la sua vendetta nei confronti dei fratelli Hagen (Hǫgni) e Gunther (Gunnarr) e a pretendere che le venga reso il tesoro dei Nibelunghi. Nella disputa che ne seguì, i Burgundi vennero accerchiati in un salone e vennero attaccati dagli Unni in diverse ondate.
Il poema indugia sul conflitto interiore di personaggi come Rüdiger e Dietrich von Bern (Teodorico di Verona), che sono legati da vincoli di amicizia con i Burgundi ma sono anche vassalli di Attila. Rüdiger decise di affrontare i Burgundi ma acconsentì a donare armi ai Nibelunghi affinché potessero difendersi.
Dopo una serie lunghissima e tragica di duelli e combattimenti, tutti i Burgundi vennero uccisi, eccetto Hagen e Gunther. Kriemhilt uccise Gunther in prigione e mostrò la sua testa a Hagen, intimandogli di rivelare dove aveva nascosto il tesoro; il rifiuto di Hagen venne ripagato con la morte.
A quel punto Hildebrand, maestro d'armi di Dietrich, preso dall'ira per la morte di tanti valorosi causata dalla sete di vendetta di Kriemhilt, impazzì e uccise la moglie di Attila, mettendo così fine alla stirpe dei Nibelunghi.
Non è inutile evidenziare che la strage raccontata nelle saghe nibelungiche ha un fondamento storico; nel 437 d.C., infatti, i Burgundi stanziati dentro i confini dell'impero romano vennero dapprima attaccati dalle truppe legionarie del comandante Ezio e poi annientati dagli Unni. L'eco di questo massacro influenzò la poesia epica medievale al punto da farne l'argomento di molte saghe, anche se il luogo del massacro venne «trasferito» nella terra degli Unni.

VI
RE ARTÙ
I cavalieri della Tavola Rotonda

 

 

Re Artù, figlio di re Uther Pendragon, è una delle figure più importanti dell'immaginario medievale: egli appare spesso, nelle leggende e nei poemi di cui egli è protagonista, come l'emblema del monarca ideale sia in pace sia in guerra. È il personaggio principale della cosiddetta «materia di Britannia» (si parla anche di «Ciclo bretone» o di «Ciclo arturiano»), che ispirò molti poeti dell'Età di Mezzo e delle epoche successive, mantenendo intatto il suo fascino sino ai giorni nostri...
 


.
La spada nella roccia
 

i fu un tempo, in Inghilterra, in cui secoli bui si succedettero perché i sudditi di quella terra non riuscivano ad avere un re che li proteggesse dai barbari che provenivano dal nord (i Pitti e gli Scoti) e dal mare (gli Angli, gli Juti e i Sassoni).

Le fonti riportano che, quando i Romani abbandonarono la Britannia per difendere le frontiere del Reno e del Danubio, tutta l'isola cadde in un periodo di anarchia; si racconta che fu il crudele Vortigern, un signore locale, a chiedere l'intervento dei Sassoni pur di garantirsi il dominio assoluto sull'Inghilterra. Quando tuttavia egli volle sbarazzarsi di quegli alleati che stavano cominciando a diventare troppo scomodi, era ormai troppo tardi: i nuovi venuti avevano cominciato a chiedere rinforzi dalla madre patria e organizzavano scorrerie in tutte le isole Britanniche.

Per un certo periodo, le incursioni dei Sassoni vennero contrastate da alcuni coraggiosi condottieri, tra cui Aurelio Ambrosio (di stirpe romana) e Uther Pendragon, che giunse a fregiarsi del titolo di re.

Al tempo in cui Uther governava su tutta l'Inghilterra, vi era in Cornovaglia un potente duca, signore di Tintagel, che gli faceva guerra da molti anni. Un giorno il re lo convocò a corte ma, quando il nobile giunse alla presenza del sovrano, questi si innamorò follemente della moglie del duca, la bella Igraine. Poiché Uther Pendragon palesò in modo sfacciato la sua passione per la donna, il signore della Cornovaglia si allontanò sdegnato dalla corte del re inglese: tale oltraggio scatenò una guerra tra i due signori che sembrava non avere mai fine.

Poiché il desiderio di Uther non si sopiva, questi chiese aiuto al suo consigliere Merlino ②, famoso per le sue conoscenze delle arti magiche. Il mago si adoperò per soddisfare il suo sovrano, in cambio di una grazia: «Ecco cosa voglio, sire. La prima notte che trascorrerete con Igraine concepirete in lei un figlio che mi farete consegnare appena sarà venuto alla luce. Io lo alleverò dove più mi piacerà, affinché a voi derivi onore e al bambino i vantaggi che gli spettano». Il re accondiscese alla richiesta.

Re Artù (1903)
Charles Ernest Butler (1864-1933), dipinto.

Merlino fece in modo che Uther riuscisse a prendere le sembianze del duca di Cornovaglia per una notte intera; così egli poté giungere al castello di Tintagel e giacere con la bella Igraine; quella notte, venne concepito un figlio cui venne poi dato il nome di Arthur Pendragon, ma che noi conosciamo come Artù.

Allo spuntar del giorno, venne data la notizia che il duca di Cornovaglia era morto in battaglia: Igraine pianse la morte del marito e si chiese con grande stupore chi mai poteva essere l'uomo che si era coricato con lei con le sembianze del suo signore.

In seguito, venne conclusa la pace tra i nobili di Cornovaglia e il re d'Inghilterra, che venne sugellata con il matrimonio tra Uther e Igraine. Quando la nuova regina di Britannia mise alla luce un figlio, Uther la rassicurò raccontandole dell'inganno di Merlino e rivelandole così che era lui il vero padre di quel rampollo.

Come promesso, il bambino venne affidato alle cure di Merlino, il quale lo fece crescere presso il castello di un gentiluomo leale e fedele: sir Ector.

Due anni dopo re Uther si ammalò gravemente; i loro nemici ne usurparono i diritti, sferrarono battaglia ai suoi uomini e uccisero numerosi sudditi. Il re d'Inghilterra affrontò i suoi avversari sul campo di battaglia e li sgominò, ma la sua malattia si aggravò per cui egli ben presto ne morì.
Dopo la morte di Uther Pendragon, il regno restò a lungo in pericolo perché ogni signore di potenti armate si rafforzava e in molti ambivano a diventare re.

Alla fine Merlino consigliò all'arcivescovo di Canterbury di convocare tutti i nobili ed i gentiluomini d'arme a Londra per il giorno di Natale; tutti i baroni dell'Inghilterra accolsero l'invito e si riunirono nella più grande chiesa della città per pregare.

Nel camposanto dietro l'altare maggiore fu vista una grande roccia quadrangolare simile ad un blocco di marmo, che sorreggeva nel mezzo un'incudine su cui era infitta una spada. Attorno all'arma era scritto: «Colui che estrarrà questa spada dalla roccia e dall'incudine è il legittimo re di tutta l'Inghilterra».

Tutti i nobili tentarono di estrarre la spada nella speranza di diventare re; ma nessuno riuscì nemmeno a smuoverla. Venne pertanto indetta una giostra ed un torneo per il primo giorno dell'anno, cui furono invitati tutti i cavalieri del regno: erano tutti convinti che il trionfatore sarebbe stato il degno vincitore della spada.

Il giorno di Capodanno, tutti i coraggiosi e valenti uomini dell'Inghilterra giunsero a Londra per torneare: tra di loro anche sir Ector accompagnato dal figlio sir Kay e dal giovane Artù.

Sir Kay era stato da poco ordinato cavaliere ed era quindi intenzionato a partecipare alla giostra; accortosi quando era in cammino di avere dimenticato la spada nei suoi alloggi, prego Artù di andargliela a prendere.

Artù si diresse verso la locanda nella quale dimoravano, per scoprire che era chiusa: tutti si erano infatti recati ad assistere al torneo. Addolorato, egli si recò nel cimitero della chiesa londinese; scese di sella, legò il cavallo e si avvicinò alla tenda che riparava la spada nella roccia: quindi, afferrò l'impugnatura e la estrasse con uno strappo deciso, ma senza sforzo; poi riprese il cavallo e raggiunse il fratello Kay per consegnargliela.

Quando sir Kay vide la spada, la riconobbe subito; allora, si avvicinò al padre e disse: — Signore, ecco la spada della roccia. Dunque devo essere io il re di questa terra.

Sir Ector osservò l'arma; quindi tornò indietro con i due giovani, entrò nella chiesa e ordinò a Kay di ripetere, davanti al Libro Sacro, come era entrato in possesso di quella spada, al che il figlio rispose: — Me l'ha portata mio fratello Artù, padre.

Ector capì allora che il rampollo che Merlino gli aveva affidato era destinato a diventare il legittimo re del paese ed esclamò: — Ora fammi vedere se sei capace di riporre la spada dov'era e di tirarla fuori di nuovo.

Artù non ebbe difficoltà a rinfilare la spada nella roccia; più tardi, alla presenza di tutti i baroni, il giovane figlio di Uther Pendragon estrasse nuovamente la spada dalla roccia, mentre tutti gli altri uomini d'arme che provano a cimentarsi nella stessa impresa fallirono miseramente.

Arthur Pendragon venne così acclamato sovrano di tutta l'Inghilterra e divenne famoso tra tutti i suoi sudditi e baroni come re Artù.

La letteratura dedicata alle gesta di re Artù è immensa; per i primi approfondimenti, si consiglia la lettura della Storia di re Artù e dei suoi cavalieri di Thomas Malory (Agrati ~ Magini 1985); dei Romanzi della Tavola Rotonda (Boulenger 1922); dei Romanzi cortesi di Chrétien de Troyes (Agrati ~ Magini 1979).
Una delle figure più affascinanti ed enigmatiche di tutto il ciclo arturiano, Merlino è stato di volta in volta identificato con un erudito di lingua latina dei primi secoli dell'era cristiana ovvero con uno degli ultimi seguaci della cultura druidica. Negli Annales Cambriae viene citato un Myrddin Wyllt, un bardo che divenne folle a seguito dell'eccidio della battaglia di Arderydd e si ritirò in eremitaggio nella foresta di Calidonia. Come spesso avviene nel mondo mitologico, è verosimile che la tradizione orale abbia fuso in un'unica figura più personaggi appartenenti a cicli diversi.

 

.
La Tavola Rotonda
 

rtù dovette, in primo luogo, consolidare il suo potere su tutta l'isola; per questo, egli si affidò ai nobili, ai baroni, ai cavalieri e ai valentuomini che gli avevano giurato subito fedeltà (tra i quali c'era suo fratello di latte sir Kay, destinato a diventare il suo siniscalco) e, con l'aiuto di Merlino, radunò un esercito per combattere i suoi oppositori.

Il re d'Inghilterra si procurò anche l'alleanza di re Ban di Benwick e di re Bors di Gallia; insieme a loro egli sconfisse duramente quanti non lo avevano riconosciuto come legittimo sovrano e consolidò il potere su tutta l'isola.

La guerra, risolta soprattutto grazie al valore di Artù e all'intervento delle magie di Merlino, raggiunse il suo culmine durante l'assedio del castello di re Leodegrance di Camelerd, che si era subito schierato a favore del Pendragon ed era stato per questo attaccato dai ribelli; il giovane sovrano aveva rotto l'accerchiamento di soldati che si era formato attorno alle mura del suo alleato e aveva così salvato il re di Camelerd e la sua bellissima figlia Ginevra.

Dopo aver rinsaldato il suo potere, Artù prese in moglie proprio la figlia di Leodegrance, che gli portò in dote la famosa Tavola Rotonda, destinata a diventare celebre nei secoli a venire.

Attorno a quella tavola sedevano i migliori cavalieri del regno: la forma circolare stava a significare l'assenza di gerarchia tra i membri ammessi a quella congregazione; stretti da un patto di fedeltà con il sovrano, essi garantivano il rispetto dei valori della giustizia, della lealtà e della cortesia, ispirati anche da un forte attaccamento alla religione cristiana.

Con l'aiuto dei Cavalieri della Tavola Rotonda, re Artù riuscì a mantenere stabile e duraturo il suo regno, sconfiggendo a più riprese i Sassoni invasori.

Il figlio di Uther si rifiutò inoltre di versare il consueto tributo all'imperatore romano Lucio, che venne sconfitto in battaglia e costretto a prestargli omaggio nonché a dichiararsi suo vassallo.

Nel corso delle tante battaglie affrontate da Artù, la spada nella roccia andò in frantumi; per questo motivo, Merlino gli procurò una nuova arma dal nome leggendario: la famosa Excalibur ①. Il mago riuscì a persuadere la Dama del Lago ② a consegnargli una lama in grado di tagliare qualunque materiale; il suo fodero era in grado di rendere invincibile chiunque lo indossasse (nell'iconografia del mito, Artù ottiene la spada prendendola dalla mano della Dama, che uscì fuori da un lago per porgergli l'Excalibur).

Quando venne consolidata la pace in tutto il regno, Artù ed i suoi Cavalieri si adoperarono per mantenere giustizia ed armonia. Essi si esercitavano in giostre e tornei e, periodicamente, giungevano al cospetto del sovrano, la cui corte si riuniva normalmente nella mitica reggia di Camelot; Artù ed i suoi vassalli erano soliti piantare le tende anche in mezzo alla brughiera, dove assi di legno venivano unite per ricreare la Tavola Rotonda.

Era costume, da parte del sovrano, ascoltare i propri cavalieri e udire da loro quali avventure avessero incontrato durante la loro assenza; anche alla corte di Artù si sviluppò l'arte di raccontare le gesta e le imprese degne di essere ricordate, creando un materiale che venne poi rielaborato nei secoli a venire.

Nacque così la figura del cavaliere errante, che andava per lande solitarie alla ricerca dell'ignoto e del misterioso, per riparare torti ed assicurarsi gloria imperitura. Tale spirito viene rappresentato in modo emblematico nell'opera di Chrétien de Troyes, che mette in bocca queste parole al cavaliere Ivano e al suo interlocutore:

— Come vedi, sono un cavaliere che cerca ciò che non può trovare: la mia ricerca è stata lunga, ma vana.
— E cosa vorresti trovare?
— L'avventura, per misurare il mio valore e il mio coraggio. Ti prego dunque, e ti domando vivamente, di indicarmi, se sai, un'avventura o una meraviglia. ③

I cavalieri della Tavola Rotonda erano famosi anche per i loro sentimenti; le ardenti passioni per una spesso irraggiungibile donna amata divennero materia per i più grandi poemi del Medioevo; anche in questo caso lasciamo la parola a Chrétien de Troyes, che così descrive il sentimento nei confronti di una dama: «Ormai conviene che io sia per sempre in suo potere, poiché tale è il comando di Amore. Colui che non accoglie Amore di buon grado quando questi l'attira a sé, commette tradimento e fellonia. Dico, e l'intenda chi vuole, che costui non ha diritto ad alcuna gioia» ③.

In un epoca in cui gli sposalizi venivano decisi per interesse o per stringere alleanze tra famiglie potenti, l'amore vero sbocciava spesso tra due persone non unite in matrimonio; si trattava, nella maggior parte dei casi, di amori impossibili, di grandi passioni che nascevano già nella consapevolezza della loro tragica ed inevitabile fine. I due amanti anelavano di stare vicini, consapevoli che i momenti di gioia sarebbero stati brevi e inframmezzati da lunghi periodi di infelicità; si trattava, quindi, di storie malinconiche che parlavano di lacrime, di sospiri e di struggente lontananza e che i posteri ci hanno tramandato coniando la felice formula di «amore cortese» ④.

Tra i cavalieri della Tavola Rotonda vanno citati almeno i nomi più celebri: innanzi tutto i già noti sir Ector e Sir Kay, re Leodegrance, sir Ivano; e poi sir Sagramor, Sir Tor, sir Pellinor, re Lot, re Uriens, sir Erec, sir Lionel, sir Bors, sir Moroldo, sir Pelleas, sir Lamorak il gallese, sir Palamede il Saraceno, sir La Cotta Maltagliata, sir Alessandro l'Orfano, Sir Agravano, sir Gareth, sir Gaheris, sir Bedivere, sir Lucano il Maggiordomo, sir Dinadan, sir Galahad, sir Percival e tanti altri ancora.

La partenza dei cavalieri (1890)
Sir Edward Burne-Jones (1833-1898) William Morris (1834-1896) John Henry Dearle (1849-1917), arazzo.

Il primo tra tutti i cavalieri, tuttavia, fu senz'altro sir Lancillotto del Lago, la cui fama era destinata ad eclissare quella dello stesso Artù.

Figlio di re Ban e rimasto orfano in tenera età, egli venne allevato dalla Dama del Lago e diventò cavaliere all'età di diciotto anni. Ben presto divenne il più coraggioso, valoroso e fedele di tutti quanti i componenti della Tavola Rotonda.

In seguito, Lancillotto si innamorò della regina Ginevra ed iniziò con lei una relazione destinata a portare la rovina di Camelot e di tutta la sua corte.

Fra le sue molte imprese, si ricorda il salvataggio della regina, prigioniera nel castello di Méléagant; si racconta anche che egli venne sedotto dalla figlia del Re Pescatore, che alcune fonti chiamano Elaine: con lei concepì Galahad, destinato ad avere un ruolo da protagonista nella ricerca del Graal.

Notevole anche la figura di Galvano (Gawain), nipote di re Artù; considerato uno dei cavalieri più prodi e valorosi, egli era leale al sovrano, difensore dei poveri e delle dame. Secondo la leggenda, Galvano prendeva la sua forza direttamente dal sole: infatti, durante il giorno era pressoché impossibile sconfiggerlo, mentre la notte le energie lo abbandonavano.

Inizialmente estraneo alla materia di Bretagna, ma poi incorporato nel ciclo arturiano, era il personaggio di sir Tristano di Liones. Nipote di re Marco di Cornovaglia, egli si innamorò (complice un filtro d'amore) della bella Isotta, destinata tuttavia a diventare la sposa di suo zio. I due vissero insieme una tormentata storia d'amore; quando vennero scoperti, Tristano e Isotta vennero condannati a morte, ma riuscirono a fuggire.

Imprigionamento di Merlino da parte di Nimue (1874)
Sir Edward Burne-Jones (1833-1898), olio su tela.

Dopo tantissime vicissitudini, nel corso delle quali i due amanti furono costretti a separarsi, essi cercarono di ritrovarsi. A causa di un inganno ordito ai suoi danni, Tristano credette di essere stato abbandonato dalla donna che amava e si lasciò morire. Isotta, a sua volta, spirò per il dolore.

I cavalieri della Tavola Rotonda assicurarono per un lungo periodo pace e stabilità ma ben presto dovettero rinunciare ad un prezioso alleato.

Accadde infatti che Merlino si innamorò perdutamente di Nimue, una delle damigelle della Dama del Lago. Il mago la seguiva dappertutto, tentando più volte di sedurla con le sue arti sottili, ma la fanciulla si fece giurare che mai Merlino avrebbe fatto uso di incantesimi con lei, altrimenti non si sarebbe mai concessa. Il mago e Nimue partirono assieme per la Cornovaglia e, nel corso del viaggio, egli le insegnò molte meraviglie. Avvenne quindi che un giorno Merlino mostrasse alla damigella una caverna che si sprofondava sotto una grande pietra.

Nimue, mettendo in opera le arti che aveva apprese, indusse il mago ad entrarvi per mostrarle i prodigi che nascondeva; poi, fece in modo che egli non ne uscisse mai più e si allontanò lasciandolo prigioniero.

La parola Excalibur ha origini molto controverse, che possono farsi risalire a due ceppi linguistici ben differenti: quello latino e quello sassone. Dal latino abbiamo diversi significati, ma quello più plausibile deriva da un'antica popolazione di fabbri chiamati Calibi; Excalibur si può quindi scindere in due parole ex Calibis, quindi tradotto letteralmente il significato diventerebbe «forgiata dai Calibi». Altre sfumature latine riportano alla capacità della spada e al suo aspetto come, per esempio, ex calibro che tradotto significa «in perfetto equilibrio». Il nome celtico della leggendaria spada, consegnato da Geoffrey di Monmouth, è Caliburn, che in antichità significava «acciaio lucente» o «acciaio indistruttibile». Essa era probabilmente una lontana parente della Caladbolg della mitologia irlandese.
Figura enigmatica del ciclo arturiano, viene di volta in volta chiamata Viviana, Nimue, Niniane, Nyneve o Coventina e viene a volte identificata con la fata Morgana, sorella di Artù (tanto da far ritenere ad alcuni studiosi che le dame del lago fossero più di una, forse legate tra di loro da un rapporto di discendenza di tipo iniziatico); a questo personaggio vengono attribuite numerose gesta, dalla consegna della spada Excalibur sino all'adozione del cavaliere Lancillotto. Essa rappresenta l'eco di antiche culture celtiche o pre-celtiche, probabilmente contaminate con elementi greco-romani.
Chrétien de Troyes, Ivano (Agrati ~ Magini 1979).
La Chiesa Cattolica, inorridita da un tale concetto del sentimento, cercò di ricondurre l'amore cortese nell'ambito del sacro vincolo del matrimonio; il poeta Chrétien de Troyes, nelle sue opere Érec ed Énide e Cligès (Agrati ~ Magini 1979) si fece promotore di questo fine moraleggiante, ma il destino volle che gli amori più famosi del Medioevo (Lancillotto e Ginevra; Tristano e Isotta) fossero adulterini. La passione terrena prevalse infine sulla morale cristiana…

 

.
La ricerca del Santo Graal
 

l primo riferimento alla leggenda del Graal è contenuta nell'opera «Percival» di Chrétien de Troyes.

Percival era uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, destinato ad un grande destino; egli è forte e coraggioso, ma molto ingenuo in quanto è vissuto a lungo presso la madre, che per anni lo ha tenuto lontano dal mondo cercando di proteggerlo dagli orrori della vita. Per questo motivo, l'eroe tendeva spesso a seguire i consigli che gli venivano resi, senza fare uso di prudenza e buon senso.

Durante le sue peregrinazioni come cavaliere errante, egli giunse in un castello in cui venne accolto come ospite e dove assistette ad una insolita rappresentazione:

«Da una camera apparve un valletto, che impugnava a metà una lancia splendente di biancore. Una goccia di sangue usciva dalla punta del ferro della lancia e colava fino alla mano del valletto, questa goccia vermiglia. […] Vennero allora due altri valletti, due bellissimi uomini, che tenevano in mano due candelabri d'oro fino lavorato […] Un Graal teneva una damigella tra le mani e seguiva i valletti: bella, gentile e nobilmente adornata. E quand'essa fu entrata, da tutto il Graal che essa teneva s'irradiò per tutta la sala un chiarore sì grande che le candele impallidirono come le stelle o la luna quando si leva il sole. Dopo questa damigella ne veniva un'altra che portava un piatto d'argento. Il Graal che veniva avanti era fatto dell'oro più puro; vi erano inserite pietre preziose delle più ricche e delle più varie che esistano per mare e per terra; nessuna gemma potrebbe paragonarsi a quelle del Graal.» ①

Dal racconto di Chrétien apprendiamo che il padrone del castello è il «Re Pescatore» ②; egli è infermo a causa di una ferita che lo ha reso inabile alla guerra e alla caccia (per questo motivo, la pesca è per lui l'unico sistema per procurarsi il cibo) ③. Secondo uno schema caro a tutta la mitologia del Medioevo, che ha probabilmente origini più antiche, l'impotenza del re si trasmette a tutto il suo regno, che è diventato una «Terra Desolata» (Wasteland).

L'incantesimo può essere spezzato unicamente dal più nobile e dal più puro dei cavalieri, qualora questi abbia il coraggio di formulare la fatidica domanda: — In onore di chi si fa il servizio del Graal?

Nell'opera di Chrétien lo sprovveduto Percival, a causa della sua timidezza, non ha il coraggio di proferire parola, ragion per cui il mistero del Graal è destinato a rimanere tale; né siamo in grado di sapere come andrà a finire, atteso che il Percival di Chrétien è rimasto incompiuto.

Gli autori di epoca successiva, tuttavia, ci vengono in aiuto nel decifrare questo «mistero»; secondo il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach, infatti, si tratterebbe di un lapsit exillas (rectius: lapis exillis), ovvero di una pietra caduta dal cielo; uno smeraldo caduto dalla fronte dell'arcangelo Lucifero durante la sua ribellione a Dio e portato sulla terra dagli angeli neutrali. Robert de Boron, invece, identifica il Graal con il calice utilizzato da Gesù di Nazareth durante l'Ultima Cena, con il quale Giuseppe d'Arimatea aveva raccolto il sangue del Messia crocifisso ③. La lancia viene identificata con l'arma con cui Longino colpì il costato di Gesù di Nazareth, per verificarne il decesso.

In questa maniera viene «sancita» la cristianizzazione del mito del Graal, che però ha evidenti ascendenze risalenti a culture anteriori, legate a rituali connessi al ciclo della morte e della rinascita; taluni rintracciano le origini della leggenda in alcuni archetipi della cultura classica (Adone, Osiride), mentre altri ritengono che l'origine del mito sia celtica, rinvenendo la sua genesi nel calderone del Dagda (uno delle Túatha Dé Danann) delle leggende irlandesi ovvero nel paiolo magico in grado di far rivivere i morti, citato nei Mabinogion.

Secondo quanto ci tramandano gli autori del Medioevo, il Graal apparve un giorno di fronte a tutti i cavalieri della Tavola Rotonda: la sensazione di beatitudine che promanò dalla semplice contemplazione di quell'oggetto sacro spinse tutti ad abbandonare ogni occupazione per andare alla ricerca di quell'oggetto.

Sir Lancelot alla cappella del Santo Graal (1888)
Sir Edward Burne-Jones (1833-1898), dipinto.

La quest ④ per il santo Graal è una delle imprese più importanti di tutto il ciclo arturiano: alcuni dei cavalieri persero la vita nella ricerca, mentre per i più la missione ebbe un esito comunque infruttuoso: il Calice, infatti, era interdetto a quanti erano troppo sedotti dai piaceri terreni; per questo motivo, anche valorosi come Galvano e Lancillotto fallirono nel loro compito, in quanto a lungo coinvolti da passioni lussuriose ⑤.

Secondo una prima versione del mito, a raggiungere il castello del Graal fu nuovamente Percival, il quale pose finalmente la fatidica domanda riuscendo a spezzare l'incantesimo che opprimeva il Re Pescatore (che si scoprì essere discendente di Giuseppe di Arimatea e parente di Percival stesso) e la sua Wasteland. Il cavaliere venne nominato nuovo custode del Graal e trasmise un giorno questo importante incarico al figlio Lohengrin.

Altre versioni più ortodosse della leggenda, invece, che non perdonavano evidentemente alla storia di Percival le sue origini troppo «pagane», attribuivano il successo nella impresa del Graal a Galahad, figlio di Lancillotto, il più puro e il più casto di tutti i cavalieri. Egli, sin dalla più tenera età, fu protagonista di eventi miracolosi e riuscì a prendere possesso del «Seggio periglioso», destinato al migliore tra tutti i cavalieri.

Dopo avere trascorso anni in meditazione e a seguito di un itinerario fatto di privazioni e di penitenze, Galahad giunse infine al Castello del Re Pescatore, al cospetto del Graal (la visione del Calice venne comunque consentita anche a Percival e Bors, in quanto casti ma non vergini).

Anche a distanza di secoli, scrittori e letterati si sono avventurati nella materia del Graal, non solo per studiarne la leggenda, le sue origini o le possibili interpretazioni, ma anche per fornire ipotesi alternative (non sempre su basi scientifiche) sulla reale natura e sulla reale ubicazione del Graal, tanto da suggerire a più di uno studioso l'ipotesi che gli oggetti sacri descritti nelle leggende arturiane fossero più di uno.

A questi letterati dallo spessore alquanto tenue ci permettiamo di rispondere usando le parole di uno scrittore americano contemporaneo: «Voi siete i draconiani paladini del risultato finale che rifiutano di credere che la gioia stia nel viaggio e non nella destinazione (e poco vi importa quante volte abbiate avuto riprova del contrario)» ⑥.

La mitologia del Graal, infatti, per essere veramente compresa, non può e non deve essere esaminata solo tenendo presente il risultato finale, come certa pseudo-cultura dell'occidente contemporaneo vorrebbe imporci.

La ricerca di un oggetto sacro, prezioso ed allo stesso tempo irraggiungibile, costituisce la metafora di un viaggio verso la perfezione, nella consapevolezza che un tale percorso è sempre un «tendere all'ulteriore» (Streben) destinato a non avere mai una fine.

Ed è in questa continua ricerca dell'inarrivabile, nella consapevolezza che l'obiettivo da raggiungere è quasi impossibile e nella coscienza che ciò contribuisce a renderci migliori, che si manifesta la metafora del vero cavaliere arturiano e – forse – dell'intero vivere umano. ⑦

La visione del Santo Graal (1890)
Sir Edward Burne-Jones (1833-1898) William Morris (1834-1896) John Henry Dearle (1849-1917), arazzo.


Chrétien de Troyes, Perceval il Gallese o il racconto del Graal. (Bianchini 1981).
La tradizione lo chiama in modi diversi: Pelles, Pellehan, Parlan, Hebron (Bron) o Amfortas (quest'ultimo nome viene da enfertè, che vuol dire il «ferito»).
Secondo Malory, il «colpo doloroso» venne inferto al Re Pescatore da Balin il Selvaggio, uno dei cavalieri della Tavola Rotonda, con la stessa lancia mostrata nella processione del Graal.
Termine tipico della letteratura mitologica e del fantasy, per indicare una ricerca.
Galvano era solito indulgere alla passione amorosa, mentre Lancillotto era noto per la sua storia adulterina con la regina Ginevra.
Stephen King, La torre nera (King, 2004).
Sulla leggenda del Graal, oltre alla bibliografia citata nella nota VI 1 ①, si consiglia La leggenda del Santo Graal (Agrati ~ Magini 1995).

 

.
La morte di Artù
 

a cavalleria di re Artù, già indebolita dopo la quest del Graal (alcuni dei suoi componenti avevano trovato la morte nella loro ricerca), venne ulteriormente funestata da una faida interna.

La fedifraga storia d'amore tra Lancillotto e Ginevra, infatti, venne scoperta, gettando la corte nello sconforto: il figlio di re Ban fu costretto a fuggire, mentre la moglie del re fu processata per tradimento e condannata al rogo.

Fu lo stesso Lancillotto, con l'aiuto di alcuni cavalieri a lui fedeli, a liberare Ginevra con un colpo di mano e a condurla con sé nel castello della Gioiosa Guardia.

Artù ed il suo seguito non poterono accettare lo smacco e si mobilitarono per mettere sotto assedio il rifugio dei due amanti. Fu una guerra fratricida, che oppose tra loro cavalieri che sino a poco tempo prima erano stati fedeli al loro sovrano; durante il più cruento di questi scontri, Lancillotto ferì a morte Galvano; il nipote del re, prima di spirare pregò lo zio di riconciliarsi con la moglie e con il migliore dei suoi cavalieri.

Gli eventi, però, non consentirono ad Artù di riportare l'armonia nella sua corte, tra quanti gli avevano giurato fedeltà. Il re venne a sapere, infatti, che durante la sua assenza aveva usurpato il trono il figliastro che egli aveva avuto da una relazione incestuosa con la sorella Morgawse (ovvero, secondo taluni, con l'altra sorella: Morgana la fata); il traditore, che aveva osato calpestare la fiducia del proprio padre e del proprio sovrano, era Mordred, un nome destinato nei secoli ad essere sinonimo di infedeltà e di brama di potere.

Artù levò l'assedio e si recò nel Kent con i suoi cavalieri. Ginevra decise di trascorrere il resto dei suoi giorni in convento, mentre Lancillotto divenne eremita.

Lo scontro decisivo tra le due fazioni avvenne a Camlann (ovvero, secondo altre versioni, a Barham Down) e fu la battaglia più funesta mai vista in terra cristiana. Il fior fiore della cavalleria trovò la morte; Artù e Mordred si affrontarono in un duello cruento: il figliastro del re si scagliò addosso al padre con la spada, mentre il re affondò la sua lancia sotto lo scudo di Mordred, trapassandolo da parte a parte; poco prima di spirare, però, l'usurpatore riuscì a ferire gravemente Artù alla testa.

Sir Lucano e Sir Bedivere, unici sopravvissuti alla strage, cercarono di sollevare il re, che con un filo di voce disse: — Prendete la mia spada Excalibur e portatela sulla riva del mare; vi ordino di gettarla in acqua e di tornare poi a dirmi cosa avete visto.

Sir Bedivere prese in mano la spada ma non ebbe il coraggio di obbedire agli ordini, per cui nascose l'arma sotto un albero e poi si affrettò a tornare dal re.

— Che cosa hai visto? — gli domandò Artù.
— Nient'altro che onde e venti.
— Non è vero — replicò il re. — Ora affrettati ad ubbidire e, se ti sono caro, non esitare a fare quanto ti ho detto.

Allora sir Bedivere tornò a prendere la spada, ma pensando che fosse un peccato ed una vergogna gettare via un'arma tanto nobile, la nascose di nuovo.

— Che cosa hai visto? — domandò per la seconda volta il re.
— Nient'altro che flutti e ondate nere.
— Ahimè, mi hai ingannato ancora. Sbrigati a compiere la tua missione; non capisci cosa potrebbe succedere se la spada cadesse in mani sbagliate?

Sir Bedivere tornò dove aveva nascosto la spada e si avvicinò alla riva; poi avvolse la cintura attorno all'elsa e la scagliò più lontano che poté. Allora vide un braccio ed una mano sorgere dall'acqua, afferrarla stretta, brandirla tre volte e poi inabissarsi con l'arma.

Quando sir Bedivere tornò vicino al re e gli raccontò quello che aveva visto, il sovrano si limitò ad annuire.

Nel mentre, una piccola chiatta proveniente da un lago attraccò; scesero a terra tre belle dame, che condussero Artù all'interno dell'imbarcazione per portarlo nell'isola di Avalon ①.

Nessuno seppe più nulla di Arthur Pendragon, ma i più sostengono che a condurlo via furono la Dama del Lago ed il suo seguito e che tra le donne giunte sulla chiatta vi fosse sua sorella, Morgana la fata ②. Secondo taluni, egli non è morto ma riposa in attesa di tornare a nuova vita, assieme a Merlino, quando la sua terra avrà ancora bisogno di lui.

L'ultimo sonno di Artù ad Avalon (1898)
Sir Edward Burne-Jones (1833-1898)


Questa mitica isola viene da alcuni collocata all'interno della piana di Glastonbury, nel cui terreno paludoso sorgeva una collina come un'isola nel mare di acquitrini.
Il ruolo e la figura di Morgana nella leggenda di Artù appare ambiguo e, per certi versi, affascinante; le versioni moderne e cinematografiche tendono a descriverla come una donna malvagia e come perfida alleata di Mordred. Nei testi più antichi, da un lato ella appare a più riprese come avversaria di Artù, contro il quale ordisce una congiura con la complicità di Accolon; dall'altro, la fata conduce il sovrano nell'isola di Avalon, dove Artù potrà godere del giusto riposo dopo le sue imprese. Verosimilmente, il mito originario (la cui origine risale ad un passato assai remoto) presentava un legame molto forte tra Artù, Morgana e la Dama del Lago, che un misogino cristianesimo medievale ha cercato di «occultare», gettando un'aura di malvagità sulle presenze femminili della leggenda, ritenute evidentemente troppo ingombranti.

 

.
Dalla storia al mito
 

a storia della leggenda di Artù attraverso i secoli è quasi altrettanto affascinante delle vicende legate alla Tavola Rotonda, ragion per cui si è deciso di dedicare un capitolo a parte alla genesi di questo corpus letterario ①.

Il nome di Artù appare per la prima volta nella letteratura gallese: nel Gododdin, un antico poema risalente al VI secolo, infatti, il poeta Aneirin scrisse di uno dei suoi sudditi che lui «nutriva i corvi neri sui baluardi, pur non essendo Artù» (il poema è tuttavia ricco di inserimenti posteriori e non è possibile sapere se questo passaggio sia parte della versione originale o meno).

Alcune composizioni del bardo e poeta Taliesin, appartenenti presumibilmente allo stesso periodo, citano Artù: il poema Viaggio a Deganwy contiene un interessante passaggio: »come alla battaglia di Badon con Artù, il capo che organizza banchetti, con le sue grandi lame rosse dalla battaglia che tutti gli uomini possono ricordare».

Altre importanti citazioni sono contenute nelle Vite dei santi o negli Annali di Pasqua, conservati al British Museum come «Historical Miscellany», che risalgono all'XI-XII secolo ma che verosimilmente trascrivono annotazioni di epoche precedenti.

Ma il riferimento più importante tra gli scritti dell'Alto Medioevo è contenuto nella Historia Brittonum, attribuita al monaco gallese Nennio, che scrisse questo compendio dell'antica storia del suo paese nel IX sec.; quest'opera ci descrive Artù come un dux bellorum, cui vengono attribuiti almeno dodici scontri contro gli invasori; in particolare, nella battaglia del Monte Badon egli avrebbe ucciso da solo novecentosessanta nemici. È importante sottolineare che Nennio consideri a tutti gli effetti Artù come un personaggio storico realmente esistito. ②

Secondo gli Annales Cambriae, una cronaca del X sec. relativa agli eventi più significativi del Galles nell'Alto Medioevo, Artù sarebbe stato poi ucciso durante la battaglia di Camlann nel 537.

Un altro storico medievale del XII sec., Guglielmo di Malmesbury, autore dell'opera Deeds of the Kings of England, trattò dalla esistenza storica del personaggio di Artù.

Nel frattempo, la figura di Artù cominciò ad essere oggetto di un processo di mitizzazione letteraria, iniziato probabilmente in Galles. Nei racconti gallesi dei Mabinogion, una delle testimonianze più importanti della letteratura celtica (giunti a noi in una redazione del XIV sec. ma risalenti ad una tradizione molto più antica), egli compare a più riprese.

Nella storia di Culhwch e Olwen, il protagonista visita la corte di Artù e cerca il suo aiuto per conquistare la mano della bella Olwen. Anche nel racconto Peredur (l'equivalente gallese di Percival) ci sono numerosi riferimenti al ruolo del sovrano inglese e dei suoi cavalieri ③.

La prima grande popolarizzazione della leggenda di re Artù fu però il romanzo di Geoffrey di Monmouth (Historia Regum Britanniae), che sviluppò la novella di Artù soprattutto su elementi fantastici ed avventurosi.

Le leggende di re Artù varcarono poi la Manica per diventare popolari in Francia (soprattutto in Bretagna, dove confluirono le migrazioni della comunità gallese), assimilando anche tradizioni letterarie locali ④. La materia arturiana si diffuse poi nel resto d'Europa; in particolare, si deve al poeta Chrétien de Troyes (vissuto a lungo presso la corte di Aquitania e considerato dai molti il più grande poeta medievale dopo Dante Alighieri) l'elaborazione di molti dei tópoi letterari del ciclo bretone, come l'amore cortese e la ricerca del santo Graal.

Tali tematiche saranno poi rielaborate da più autori nel corso del Medioevo (tra cui Marie de France, Robert de Boron, Wolfram von Eschenbach, l'anonimo autore della Vulgata nonché l'altrettanto anonimo artefice di Sir Gawain e il Cavaliere Verde, per citare solo i più noti), incorporando anche il ciclo di Tristano, inizialmente autonomo (Thomas, Béroul, Goffredo di Strasburgo).

Nel XV sec. la saga arturiana culmina nella mirabile sintesi di Thomas Malory, un nobile caduto in disgrazia durante la Guerra delle Due Rose, il quale durante la sua prigionia scrisse una summa delle leggende arturiane che divenne poi la versione «ufficiale» dell'epopea, cui attinsero molti degli autori successivi.

La materia arturiana avrebbe poi fornito ispirazione ai poemi cavallereschi del Rinascimento e sarebbe stata utilizzata come strumento di propaganda dalla dinastia inglese dei Tudor, che vantavano una discendenza diretta da re Artù.

Dopo un breve periodo di appannamento, la sensibilità del Romanticismo si riavvicinò alla poesia e all'epica medievale; la corrente pittorica dei Pre-Raffaeliti si ispira spesso alle leggende arturiane. Il XX secolo, da ultimo, grazie alla nascita e alla grande popolarità del genere fantasy inaugurato da Tolkien e da altri autori di lingua inglese (Lewis, Howard, Ashton Smith, ecc.), conosce un vero e proprio revival del ciclo bretone, con numerose rielaborazioni e reinterpretazioni sia nel campo letterario che cinematografico, senza dimenticare il mondo del fumetto e dell'animazione ⑤.

La dama di Shalott (1888)
John William Waterhouse (1849-1917), dipinto.
Elaine di Astolat, innamorata ma non corrisposta da Lancillotto, morì di dolore. L'episodio, narrato da Thomas Malory, divenne oggetto di un poemetto romantico di Alfred Tennyson, The Lady of Shalott (1833), che fu di grande ispirazione per i preraffaelliti.

Una delle questioni che ha affascinato maggiormente gli storici contemporanei consiste nello stabilire se re Artù sia stato un personaggio storico realmente esistito ovvero se si tratti di una mera invenzione letteraria. Se negli anni precedenti si era raggiunto un consenso generalizzato nel ritenere leggendaria la figura del sovrano, ultimamente alcune scuole di pensiero avanzano con convinzione l'ipotesi opposta.

Le tesi proposte sono state molteplici e le andiamo qui a riportare in estrema sintesi:

  1. Artù sarebbe stato un condottiero romano-britannico vissuto nel V-VI secolo d.C., che combattè a lungo contro i Sassoni (è la versione di Nennio); i suoi ipotetici quartieri generali sono stati di volta in volta collocati in Galles, in Cornovaglia o nella parte occidentale dell'Inghilterra ⑥.

  2. Il re di Camelot sarebbe stato un sovrano di origine celtica, identificato di volta in volta con personaggi storici più o meno famosi, tra cui citiamo: Riotamo, re dei Bretoni in Armorica; Áedán mac Gabráin ovvero suo figlio Artuir mac Áedáin, signori della guerra scozzesi; Owain Ddantgwin, che sembrerebbe essere stato un re di Rhôs (nel Galles).

  3. Il leggendario sovrano coinciderebbe con un condottiero romano, identificato ora con l'usurpatore Magno Massimo ora con il dux Lucio Artorio Casto, che nel II secolo d.C. riportò numerosi successi militari guidando un'unità di guerrieri sarmati (provenienti dall'Ucraina meridionale); questi ultimi avrebbero importato in Britannia le loro usanze militari, come l'uso costante delle cavalcature durante le battaglie: i Sarmati sarebbero così gli antenati degli antichi cavalieri.

  4. Secondo un'altra teoria Artù sarebbe stato in realtà un re dell'età del bronzo (III millennio a.C.); la leggenda della spada nella roccia costituirebbe una metafora della fusione del metallo e della successiva «estrazione» dell'arma.

Un'interessante ipotesi è stata recentemente prospettata da alcuni storici britannici consulenti dell'ente televisivo statale BBC circa l'origine del nome Arthur. Esso, a loro dire, potrebbe infatti derivare dall'unione del termine bretone arth (che significa «orso»), con l'analogo termine latino ursus: dal vocabolo ancestrale Arth-Ursus sarebbe derivato Arthur.

Anche sulla base del suo nome, una scuola di pensiero ritiene che la figura di Artù non abbia nessuna consistenza autentica e che si tratterebbe di una divinità celtica (Artaios ⑦) dimenticata e poi trasformata dalla tradizione orale in un personaggio storico.

Volendo sintetizzare in poche righe i contributi dei tanti studiosi che si sono occupati della materia, bisogna tornare al clima storico della Britannia del V sec.; le legioni romane, non potendo sostenere le pressioni dei barbari dal Reno e dal Danubio, decisero di abbandonare l'isola, che si ritrovò quindi a gestirsi in un vero e proprio autogoverno.

L'aristocrazia romana e quella celtica si allearono, facendo fronte comune contro gli invasori che provenivano dal nord (Pitti e Scoti) e dal mare (Angli, Juti, ma soprattutto Sassoni).

In questa fase, evidentemente uno o più condottieri particolarmente valorosi riuscirono ad arginare l'avanzata dei Sassoni e a dare alla Britannia un periodo di stabilità. È molto probabile che tali figure avessero un'ascendenza romana ⑧ e che si avvalessero anche di quei legionari che avevano preferito rimanere nell'isola (ivi compresi quei guerrieri a cavallo che tanto dovettero influenzare il modo di combattere nei secoli successivi: i Sarmati, cavalieri ante litteram).

Ad ogni modo, tale periodo rimase particolarmente impresso nelle generazioni successive, spesso afflitte dalle invasioni di Sassoni e Vichinghi. Si può pensare che, nelle epoche successive, il riferimento ad un periodo in cui i Britanni fecero fronte contro il nemico occupante avesse un certo ascendente sul pubblico.

È quindi probabile che il personaggio del dux bellorum che fronteggiò gli invasori sia stato mitizzato e che, con il passare dei secoli, più figure siano state poi riunite dalle credenze popolari e tramandate come se fossero un'unica entità.

Secondo un meccanismo tipico del Medioevo, che non conosceva la prospettiva storica, il sovrano ha incarnato i valori delle epoche in cui sono vissuti, di volta in volta, i poeti che lo cantavano, diventando così il campione della cortesia e dei valori cavallereschi, tutte qualità probabilmente ignorate dall'Artù storico.

Questa singolare mescolanza di storia e mito, in cui trovano posto fatti realmente accaduti, l'immaginario celtico e la fantasia medievale, ci hanno donato una delle leggende più longeve che la mitologia e la letteratura ricordino.

Per approfondimenti, v. Elizabeth Jenkins, Il mistero di re Artù (Jenkins 1975); Howard Reid, La storia segreta di re Artù (Reid 2001); Marc Rolland, Re Artù (Rolland 2004).
Va tuttavia evidenziato che alcune opere storiche antecedenti a Nennio, il De excidio Britanniae del monaco Gildas (VI sec.) e la Historica ecclesiastica gentis Anglorum di Beda (VIII sec) attribuiscono le vittorie sui Sassoni ad Ambrosio Aureliano (successivamente mutato in Aurelio Ambrosio), un condottiero di origine romana. Tutta la letteratura arturiana successiva, pertanto, sarebbe frutto di una «svista» degli storici dell'Alto Medioevo (a meno di non considerare, come certuni sostengono, Ambrosio ed Artù come un'unica figura).
Sul filone gallese delle leggende arturiane, v. I racconti gallesi del Mabinogion (Agrati ~ Magini 1982¹), e Viaggio irreale nella Britannia di Merlino e Artù (Giansanti ~ Maschio 2010).
Non a caso, alcuni studiosi sostennero che, dopo alcuni secoli, quando i Normanni conquistatori «riportarono» in Gran Bretagna la materia arturiana, l'Artù gallese e quello bretone avevano sviluppato cicli narrativi il cui contenuto si era totalmente diversificato.
L'Autore è particolarmente affezionato alla versione letteraria di Marion Zimmer Bradley, Le nebbie di Avalon (Bradley 1982).
Alcuni studi portano ad identificare l'Artù letterario con Ambrosio Aureliano il condottiero che vinse alcune battaglie contro i Sassoni. Si rammenta che Nennio attribuisce ad Artù quella gesta che Gildas e Beda ascrivono ad Ambrosio (Giansanti ~ Maschio 2010).
Saggi: [Mercurius > Epiteti del Mercurius gallico: Artaios] ►
Non è inutile evidenziare che Sir Ector e Sir Kay, rispettivamente padre adottivo e fratello di latte di Artù, hanno dei nomi di evidente origine greco-romana.

EPILOGO

 

Giunge così al termine, dopo due anni di duro lavoro, il compito che l’Autore si era prefissato agli inizi del 2010: quello di far rivivere in un linguaggio adatto ai lettori del XXI secolo le storie che, ricoperte da una coltre di molti secoli, hanno acceso la fantasia e l’immaginario di molte generazioni.

Non so se, al di là di queste fatiche, vi sia uno scopo, un ammaestramento o una morale; so per certo che i nostri antenati amavano raccontarsi storie sin da quando il fuoco scaldava le notti primeve.

Molti grandi personaggi storici del passato (Socrate, Seneca) hanno addirittura preferito trascorrere le loro ultime ore di vita discorrendo con gli amici.

Il filosofo Severino Boezio, poco prima di essere condannato a morte per un presunto tradimento ai danni dell’imperatore Teodorico, immaginò che la filosofia si manifestasse a lui per consolarlo discettando della predestinazione e del libero arbitrio.

Abelardo ed Eloisa, i due amanti del Medioevo costretti a rifugiarsi in convento perché non era loro possibile proseguire una relazione carnale (Abelardo era stato infatti orribilmente evirato dai suoi avversari), continuarono a scriversi lettere d’amore dal chiostro; mi piace pensare, anche se le fonti ufficiali non mi sono di conforto, che anche loro amassero raccontarsi una storia, ogni tanto.

Questi esempi letterari servono solo a documentare e a farci rendere conto che, dall’alba dei tempi, l’umanità ama raccontare e raccontarsi.

E questo ci spinga, nei millenni a seguire, a continuare a leggere storie e a trasmetterle alle generazioni che ci seguiranno.

Con un abbraccio ideale a tutti i lettori che mi hanno seguito con grande affetto, mi congedo da questi Racconti senza tempo che, al pari dei miei figli, mi hanno sottratto tutte le forze residue della mia faticosa giornata, anche se mai per un istante ho dubitato che ne valesse la pena.

Daniele Bello

Bibliografia
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Sezione: Rielaborazioni - Chat de Carabas.
Narrazioni:
Racconti senza Tempo - Pen Beird.
Testi di Daniele Bello.
Racconti senza Tempo è proprietà intellettuale di Daniele Bello, pubblicato su licenza da Bifröst.
Creazione pagina:13.01.2014
Ultima modifica: 17.02.2014
 
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