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«NELL'ORIENTE MISTERIOSO C'È UN BRIGANTE GENEROSO...»
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Sūn Wùkōng |
Illustrazione di Angga Satriohadi |
È un brutto scimmione, basso e con le gambe storte. Ha il sedere rosso e
gli occhi iniettati di sangue. Veste una giubba rossa con risvolti in
pelliccia di tigre e ha in testa un diadema dorato. Può volare più veloce del
vento, su una nuvoletta addomesticata, solcare valli e montagne, varcare
deserti e pianure, e arrivare nelle più lontane contrade del mondo. È un
guerriero dalle
mille risorse, esperto di lotta e di magia,
capace di estenuanti combattimenti e delle più incredibili metamorfosi.
Usa per arma un'asta capace di allungarsi a dismisura e raggiungere
lunghezze vertiginose, ma che poi viene opportunamente ridotta alle dimensioni
di una matita e portata dietro l'orecchio. La sua tecnica di combattimento
consiste nel neutralizzare gli avversari, siano essi dèmoni, uomini o dèi,
scimmiottando le loro mosse, fino a farli fuggir via esasperati e stremati.
Perché in fondo è di un macaco che stiamo facendo il ritratto. Uno scimmione maleducato e
irriverente, impetuoso e incontenibile, una scheggia di caos primordiale che
niente e nessuno riuscirà mai ad imbrigliare o catturare, addomesticare o
ingabbiare.
Stiamo parlando – lo avrete capito tutti – dello scimmiotto cinese, detto Sūn Wùkōng in Cina, Son O-gong in
Corea, Son Gokū in Giappone, Ħêng Ceīy in Thailandia, Tôn Ngộ Không in Viêtnam
e
Sun Go Kong in Indonesia, personaggio celebrato, amato e venerato in
tutto l'Oriente. La sua storia è narrata nello
Xīyóujì,
la «Cronaca di un viaggio in occidente», un voluminoso romanzo scritto in Cina intorno al 1570,
da Wú Chéng'ēn. Ma il popolarissimo Sūn Wùkōng è protagonista di
innumerevoli storie, racconti, opere teatrali, balletti, film, sceneggiati e
cartoni animati e ancora oggi la sua popolarità non accenna a diminuire.
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Xuánzàng |
Ritratto del monaco-viaggiatore, da
un'antica stampa cinese. |
INIZIAMO DA XUÁNZÀNG
Trovare il bandolo della matassa di Sūn
Wùkōng è già ardua cosa… perché questa matassa è formata da moltissimi
fili intrecciati insieme e che non si lasciano facilmente districare.
Dato che da qualche parte dobbiamo pur cominciare, iniziamo da
Xuánzàng.
Chiunque ami i racconti di viaggi, deve
certamente conoscere questa straordinaria figura di monaco pellegrino, vissuto
in Cina nel VII secolo, durante la [dinastia] Táng
cháo. Insigne maestro spirituale,
dotato di elevata forza d'animo e carisma, Xuánzàng compì una marcia di
ottomila chilometri per raggiungere il
monastero di Nālaṃdā, in India, culla della fede buddhista, per poi ritornare
in Cina con un carico di manoscritti e un gran numero di immagini sacre.
Xuánzàng
è uno di quei personaggi intorno a cui è difficile distinguere gli avvenimenti
storici dalla ragnatela di leggende che li avvolgono, ma poiché la storia di
Scimmiotto è appunto una di queste leggende, bisogna dapprima mettere a nudo
il nucleo storico di quello che sarebbe diventata l'epica del «viaggio in
occidente».
Nato nel 602, Xuánzàng era stato inizialmente
educato secondo la tradizione confuciana, assai più interessata al formalismo
sociale che alla sfera spirituale; non aveva ancora vent'anni quando si
convertì al buddhismo e si fece monaco, guadagnando rapidamente la fama di
religioso dotto, virtuoso e di fede incrollabile. Sempre più consapevole
dell'insufficienza di testi sacri in lingua cinese e delle evidenti
contraddizioni che questi contenevano, Xuánzàng decise di recarsi di persona
in India per visitare i centri buddhisti e interrogare i sapienti riguardo
ai dubbi che lo tormentavano. Così, nel 629, quando aveva quasi ventisette
anni, chiese il permesso per lasciare il Regno di Mezzo. Ma poiché le formalità burocratiche richiedevano
– allora come oggi – tempi
piuttosto lunghi, Xuánzàng decise di non aspettare
oltre e si mise in viaggio.
È difficile
immaginare un percorso più lungo, accidentato, pericoloso di quello che questo
intrepido monaco aveva scelto di percorrere. Xuánzàng era descritto come un
uomo alto e bello, di costituzione delicata; elegante nel vestire, educato nei
modi, dallo sguardo vivace e dalla voce suadente. Eppure, questo gentile e
raffinato studioso non indietreggiò di fronte alla prospettiva di lasciare la sua casa a
Luòyáng, nella Cina nord-orientale, per mettersi in viaggio
alla volta dell'India.
Egli attraversò la Cina del nord e il deserto del Gobi, arrivò a Samarcanda,
nell'attuale Uzbekistan e, di qui, scese a sud, attraverso i passi glaciali del
Tiānshān, e giunse a Kābul,
in Afġānistān. Mosse quindi a sud-est, attraverso la valle dell'Indo,
nell'attuale Pākistān, e attraversò tutta l'India settentrionale, da ovest ad est, per
raggiungere il famoso centro buddhista di Nālaṃdā, vicino Vārāṇasī.
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Il viaggio di Xuánzàng |
Ingrandire per una migliore definizione |
Qui
Xuánzàng rimase diversi anni, studiando accanto ai più sapienti conoscitori
della tradizione buddhista, prima di riprendere la strada per la Cina. Nel 645, dopo
quasi diciassette anni di assenza, rimise piede nella capitale imperiale.
Portava con sé venti cavalli carichi di reliquie religiose donategli dai buddhisti indiani e tre canestri di
sūtra,
i sacri testi della tradizione buddhista, donde il nome sanscrito con cui
Xuánzàng fu presto conosciuto: Tripiṭaka «tre canestri»
(in cinese, Sānzàng). Il suo ritorno
fu un trionfo, poiché la fama e il prestigio guadagnati in terra indiana lo
avevano preceduto, e l'imperatore in persona (a cui
Xuánzàng porse le sue scuse
per essere partito senza il beneplacito ufficiale) volle ascoltare dalla viva
voce del pellegrino le sue avventure e le sue osservazioni di viaggio.
L'imperatore gli offrì persino una carica governativa, ma
Xuánzàng, privo di
qualsiasi ambizione, preferì dedicarsi agli studi e alla traduzione dei sūtra
che aveva portato dall'India e ancora oggi la tradizione riferisce a
lui 1338 dei 5084 sūtra
che costituiscono il canone buddhista
cinese. Del suo viaggio, il monaco stesso trasse una bella relazione dal titolo
*Datáng xiyu ji, «Le
terre occidentali al tempo dei grandi Tang».
Le avventure riferite da Xuánzàng
erano già così varie e affascinanti da costituire una serie di storie
leggendarie anche senza l'aggiunta di elementi fantastici. Quando egli
attraversò il deserto del Gobi, per poco non morì di fronte ai terrificanti
miraggi di cavalieri fantasma e per la mancanza d'acqua che si prolungò per
cinque giorni e quattro notti. Rischiò di venire travolto da una valanga, andò
avanti nonostante la calura che si alternava alle tempeste di neve, fu attaccato
dai briganti e rischiò di essere ucciso dai pirati del Gange.
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Monumento a Xuánzàng, a Xī'ān |
Sullo sfondo, la Dàyàn Tǎ, la «Grande pagoda dell'oca
selvatica», a Xī'ān,
dove furono conservati i sūtra
portati dal monaco dall'India. Al terzo piano della pagoda stessa sono
conservate alcune ossa cristallizzate dello stesso Xuánzàng. |
Costoro
adoravano la dea Durgā ed erano solito sacrificarle dei giovani di nobile
aspetto. Xuánzàng era un ottimo candidato: i pirati lo trascinarono sino a un
altare sulla riva del fiume e lo obbligarono a sdraiarsi sotto la minaccia di
una spada. D'un tratto si scatenò una terribile tempesta e le onde capovolsero
alcune delle navi dei pirati. Questi furono presi da superstizioso terrore e,
quando i compagni di Xuánzàng spiegarono loro che stavano per sacrificare un famoso monaco
venuto dalla Cina alla ricerca dei libri sacri del Buddha, i pirati,
spaventati, lo liberarono promettendo che si sarebbero emendati in avvenire.
La fantasia popolare non
tardò a impossessarsi della figura potente e insieme gentile di questo monaco. Su
Xuánzàng vennero
creati racconti, favole, ballate, i quali confluirono a formare il corpus di
una grande tradizione narrativa, tramandata prima oralmente e poi per
iscritto. I più antichi di questi documenti risalgono alla dinastia Song. Al
periodo Yuán cháo va ascritta una versione teatrale intitolata
Xīyóujì, appunto «Cronaca di un viaggio in occidente».
Nel corso dei secoli, il ciclo di Xuánzàng si
sviluppò sempre più, sradicandosi dalla realtà e virando sempre più sul
fantastico, accumulando un sacco di materiale eterogeneo e assumendo ben
presto una vera e propria statura mitologica. Ed ecco che, d'un tratto,
storia dopo storia, troviamo accanto al monaco un inusuale compagno di viaggio.
Ed è una scimmia!
Un Macaco rhesus, per l'esattezza, di quella varietà detta in
cinese míhóu, diffusa e comune nel Regno di Mezzo. Monaco e scimmia procedono insieme
nel lungo pellegrinaggio verso l'India, con l'intelligente primate che si
premura di difendere il venerando compagno dai molti pericoli che,
prevedibilmente, si pareranno davanti al loro cammino.
Sūn Wùkōng entra così, al fianco di
Xuánzàng,
nella letteratura popolare cinese. Ma chi è esattamente questo scimmiotto?
Quali sono le sue origini?
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IL RE DELLE SCIMMIE E I SUOI ANTENATI
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Bái Yuán |
Scimmia Bianca, re dei macachi, nella leggenda cinese. |
«Non sono altro che il re delle
ottantaquattromila scimmie dalla testa di bronzo e dalla fronte d'acciaio
della Grotta delle Nuvole di Porpora sulla Montagna dei Fiori e dei Frutti.
Sono venuto ora per aiutarti a prendere le scritture!»
Così si presenta lo scimmiotto-pellegrino [hóu xíngzhě] in uno dei testi più antichi del ciclo di
Xuánzàng,
il *Da Táng Sānzàng qu jing shihua, la «Storia della missione di Tripiṭaka dei
grandi Táng».
Questo scimmiesco personaggio non era nuovo alla tradizione cinese. Molte
fiabe parlavano già di un «regno delle scimmie» situato nel lontano occidente,
in un paese chiamato Àolái, sito al di là del mare, vicino al grande oceano. Qui sorgeva la
Huāguǒ Shān, la «montagna dei fiori e dei frutti», nelle cui diecimila grotte vivevano le
ottantaquattromila scimmie di cui il nostro Sūn Wùkōng era il re.
La figura stessa
di Sūn Wùkōng aveva a sua volta un'origine composita, essendosi formata
dalla confluenza di molte e diverse tradizioni, derivate dal folklore, dalla
religione, dalla mitologia.
Alla base vi era probabilmente una serie di
racconti popolari incentrati sulla possente figura di Bái
Yuán, «scimmia
bianca», un primate
dall'intelligenza umana che rapiva le donne per portarle nel suo
harem, in ossequio alle cattive qualità che i Cinesi attribuiscono alle
scimmie: una brutalità istintiva, con forti connotazioni di lussuria e
lascivia. Gli esempi più antichi delle storie di Bái Yuán
risalgono alla [dinastia] Hàn cháo
e appartengono a un tema ampiamente diffuso nei racconti popolari della Cina
centro-meridionale e del Tibet. Un racconto del periodo Táng narra di
un generale che riesce a liberare la bella moglie, rapita da
Bái Yuán;
alcuni mesi dopo ella dà alla luce un figlio che ha le sembianze di un primate e che, come
Bái Yuán aveva predetto in punto di
morte, avrebbe beneficiato di una vita lunga e fortunata.
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Hanuman |
Parallelamente, con l'introduzione dei racconti
popolari indiani, entrarono in Cina storie e apologhi di animali che
ravvivarono e arricchirono le leggende preesistenti. Nel caso di Scimmiotto ha
una posizione preminente la grande epopea del Rāmāyaṇa. Qui troviamo,
al fianco del
principe Rāma, impegnato in una strenua
battaglia contro i dèmoni rākṣasa,
la singolare figura di un dio-scimmia, Hanuman. Questi appoggia
Rāma nella ricerca dell'amata
sposa Sītā, rapita dai rākṣasa e, come Sūn Wùkōng, è un essere dotato di
poteri eccezionali. In un episodio dell'epopea indiana vediamo
Hanuman spiccare
un salto prodigioso dall'estremità meridionale dell'India per atterrare nello
Śrī Laṃkā, precorrendo
in un certo modo i famosi voli di Sūn Wùkōng sulla sua nuvola.
La figura di Hanuman, passata in Cina,
contribuì a formare quella tradizione religiosa popolare che passò sotto
il nome di Qítiān Dàshèng 齊天大聖, «grande saggio,
uguale al cielo», che è il titolo col quale il dio-scimmia venne
adorato e venerato in
territorio cinese. Si riteneva che il «grande saggio» abitasse nella costellazione dei
Gemelli ed era solitamente invocato per risolvere situazioni impossibili. Gli
erano devoti
soprattutto i medici e i malati, in quanto gli si attribuiva un potere sui
dèmoni e sugli spiriti malvagi, responsabili delle malattie. Molte festività,
sia taoiste che buddhiste, erano tenute in onore del «Grande Saggio», tra cui la ricorrenza
della sua nascita, che cadeva il sedicesimo giorno dell'ottavo mese lunare (più o
meno nella seconda metà di settembre), mentre a Hong Kong lo si festeggiava il
ventitreesimo giorno della seconda luna. Questo dio-scimmia era assai popolare in Indocina e Indonesia, dove
era stato probabilmente introdotto da immigrati cinesi e dove la sua immagine
si era in parte fusa con quella di Hanuman,
popolare in questi paesi grazie alle versioni locali del Rāmāyaṇa.
Sembra che a Singapore, almeno fino agli anni '50, Qítiān Dàshèng parlasse personalmente con i suoi devoti attraverso degli
appositi medium.
Queste figure,
questi motivi, queste leggende, fondendosi insieme nella mentalità
sincretistica
cinese, diedero infine al nostro Sūn Wùkōng l'aspetto e il carattere con cui lo conosciamo.
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IL ROMANZO DI WÚ CHÉNG'ĒN
La tradizione del
viaggio di Xuánzàng in India e dello scimmiotto che gli fa da scorta, verrà fissata
una volta per tutte nel XVI secolo, da un grande letterato cinese, Wú Chéng'ēn
(1500-1582),
nel suo diluviale romanzo Xīyóujì, la «Cronaca di un viaggio in occidente».
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Wú Chéng'ēn |
Ritratto del famoso novellista della [dinastia] Míng cháo. |
Lo Xīyóujì è uno dei grandi romanzi
cinesi redatti in lingua parlata, e pertanto esclusi dalla letteratura
ufficiale. Grande non solo per importanza, ma anche per mole: circa duemila
pagine, ripartite in cento capitoli. Fu scritto intorno al 1570, in un periodo
in cui la [dinastia] Míng cháo correva verso
la crisi che avrebbe presto consegnato il paese ai Qīng/Manciù. In questo periodo di
transizione, l'indebolirsi del conformismo e dell'assolutismo lasciava spazio
alla possibilità, da parte dei letterati, di lavorare con maggiore libertà e
spirito critico, e lo Xīyóujì è sicuramente uno degli esempi più
felici di questa tendenza. Un romanzo davvero inusuale nella società
tradizionalista e conformista del Celeste Impero!
Per quanto lo Xīyóujì appartenga, almeno
formalmente, al genere delle agiografie (cioè le storie sacre, le vite
dei santi), l'autore non incentrò il suo libro sulla figura di
Xuánzàng. Fu un colpo di genio: le precedenti
versioni della storia prendevano generalmente le mosse dalla nascita e della
monacazione di Xuánzàng. Ma Wú Chéng'ēn utilizzò questo materiale solo di sguincio, puntando
tutto su Sūn Wùkōng e facendo di lui l'autentico protagonista del suo romanzo.
E che
protagonista! L'aver assunto il punto di vista di una scimmia – cioè di una
creatura irrazionale, caotica e istintiva – permise a Wú Chéng'ēn di demolire tutte le vacche
sacre della società cinese,
di fare una satira ferocissima contro il governo imperiale, modello di tutte
le corti e le burocrazie del Celeste Impero. Il povero
Xuánzàng, ridotto a comprimario,
faceva la sua comparsa soltanto nell'ottavo capitolo: i primi sette – i
più divertenti –
erano completamente incentrati su Sūn Wùkōng. Vi si narrava la sua nascita,
le sue imprese giovanili e la sua irresistibile ribellione contro l'autorità
costituita.
Soltanto in seguito, lo scimmiotto acconsentiva ad espiare i suoi trascorsi
accompagnando Xuánzàng nel viaggio in India e prevaleva così la
morale buddhista che riconduceva ogni cosa al posto che gli competeva. Due
altri personaggi, introdotti da Wú Chéng'ēn, intraprendono con i due
pellegrini il lungo viaggio di redenzione, e sono: Zhū Bājiè
«porco dagli otto divieti», un essere a metà tra un uomo e un maiale, armato
di un forcone a nove rebbi, sempre afflitto da una fame abissale, e
Shā Wùjìng «sabbia svegliata alla purezza», un
drago fluviale sconfitto dallo Scimmiotto e trasformato in un lugubre
vecchio armato di vanga.
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Sun Wu-kong |
Il re delle scimmie e i suoi compagni, in
una delle loro sbalorditive avventure. |
Il libro ebbe un successo sensazionale. Il suo pubblico era assai più ampio di quello della letteratura
accademica, essendo formato da gente proveniente da tutti i ceti sociali. Chi era in
grado di leggerlo si sommava a chi ne ascoltava la lettura. Anche chi era
destinato a divenire un dotto, almeno da ragazzo passava attraverso le pagine di
Wú Chéng'ēn. Lo Xīyóujì venne chiosato da legioni di commentatori
appartenenti a tutt'e tre le sān dào, i quali lo bardarono di orpelli confuciani,
taoisti e buddhisti, finendo con il leggerlo persino in chiave esoterica. Ma
rimaneva indubitabile il fatto che la veste religiosa del romanzo era solo
un pro forma legato al genere letterario e che, fuor di metafora, il
libro di Wú Chéng'ēn diceva peste e corna del potere
imperiale. Ma fu probabilmente grazie alla
farcitura religiosa – della cui sincerità è lecitissimo dubitare – a salvare
il romanzo dalla censura durante la
lunga stagione conservatrice e repressiva della [dinastia] Qīng cháo.
Lo Xīyóujì è un romanzo immenso, vastissimo,
sterminato. Un fiume di
storie ed eventi fiabeschi, che si succedono senza tregua gli uni agli altri.
È interminabile e ripetitivo, eppure non smette per un istante di essere
divertente. Per certi versi è come certi romanzi cavallereschi: un susseguirsi di
avventure,
imprese e incontri meravigliosi, sempre diversi e sempre uguali, che nel
loro svolgersi finiscono per confondersi nella mente del
lettore. Eppure non si riesce a smettere di leggerlo, tanto il lettore è
trascinato avanti dal puro piacere dell'affabulazione.
Ma se lo Xīyóujì ricorda
nella struttura i romanzi cavallereschi, la sua
atmosfera è piuttosto quella picaresca del Don Quixote.
L'intera tradizione cinese, fatta di formalità confuciana, di morale buddhista, di equilibrio taoista,
viene continuamente messa in discussione. Nulla si salva all'impeto
dissacrante di Sūn Wùkōng. Il macaco è una forza inarrestabile della
natura. Vive al di fuori da tutte le regole civili,
umane e divine, le scimmiotta quando gli fa comodo e all'occorrenza se ne fa beffe.
Sconfigge la morte, ridicolizza gli dèi, scomoda persino il Buddha dal suo
nirvāṇa.
Tutti i
personaggi ne escono alquanto malconci. Lo stesso Xuánzàng, che
pure dovrebbe essere il protagonista della storia, viene descritto come un
giovanotto piagnucoloso, vanitoso, bacchettone e ipocrita. Se i dèmoni gli
tendono continue trappole non è per qualche sottile ragione metafisica, ma
solo perché sono convinti che la carne del monaco
possa renderli immortali. E se le donne
(o le diavolesse celate sotto l'aspetto di irresistibili maliarde) cercano di concupirlo, non è per distoglierlo dalla via
dell'Illuminazione, ma perché Xuánzàng è un bel giovane e risveglia i loro appetiti. In definitiva
Xuánzàng non fa certo
fare bella figura alla categoria dei monaci, segno di quanto fosse scarsa la
considerazione che l'autore avesse dei religiosi e quanto il suo pubblico si
divertisse a vederne spiattellati i difetti.
Né migliore figura fanno gli dèi. L'olimpo cinese, nello
Xīyóujì, è un mondo incancrenito,
cristallizzato, preso nella sua pantomima di infiniti rituali, dove schiere di
divinità e immortali non fanno altro che adempiere a obblighi tanto formali quanto
inutili.
Yǜ Huáng, l'imperatore di giada, signore dell'universo e punto di
convergenza dell'intero organigramma divino, è rappresentato come un signorotto
vanitoso e di corte vedute, ed è un piacere vedere
Sūn Wùkōng
mandare all'aria gli ingranaggi della sua onnipotente burocrazia.
Lǎozǐ, il fondatore del taoismo, compare come un
vegliardo burbero e un po'
suonato: le sue pratiche alchimistiche, fulcro della millenaria ossessione
cinese per la trascendenza e l'immortalità, fanno un baffo al nostro
scimmiotto, troppo scaltro per lasciarsi abbindolare da lui. La
bodhisattva Guānyīn, dietro l'eterea apparenza di dea della misericordia,
è una venditrice di fumo; i suoi nobili propositi nascondono invariabilmente
solenni fregature. E il Buddha... È lui a imprigionare
Sūn Wùkōng, ma non poteva essere altrimenti, ché
il romanzo viene prodotto sotto gli auspici del buddhismo.
Ma intanto lo Scimmiotto gli ha pisciato sulla mano: sotto la bandiera buddhista
sventola la bandiera pirata!
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Xīyóujì |
Lo
Xīyóujì è ancora oggi l'argomento di fastosi e
coloratissimi spettacoli regolarmente tenuti alla Jīngjù («Opera») di
Běijīng. |
Eppure, incredibile a dirsi, in quasi tutti i libri di letteratura cinese
che ho avuto il privilegio di consultare, non viene dato molto rilievo allo
Xīyóujì. Gli autori si limitano a citarlo in poche righe, per
dovere di cronaca, senza un reale interesse. Sembra che i critici si
vergognino di questo romanzone. Puntualizzano che non si tratta di un capolavoro.
È – dicono –
un romanzo sgangherato, ridondante, privo di equilibrio, scritto in
maniera pedestre. I personaggi non stanno né in cielo né in terra. La trama
non ha alcuna struttura, né uno sviluppo, ma procede orizzontalmente,
all'infinito, per semplice accumulo di vicende.
Il guaio, signori critici, è che difettate di immaginazione. Avete infarcito le nostre
letterature di verismo e neorealismo e poi vi siete dimenticati di un romanzo
imprescindibile come Pinocchio, solo perché
non siete capaci di confrontarvi con ciocchi parlanti e bambini che diventano
somari. Il vostro errore è di prendere lo Xīyóujì
troppo sul serio. Lo Xīyóujì
non è un libro religioso. Non ha morali da proporre, non
intende ispirare princìpi etici, non va letto in chiave allegorica. È un libro fantasioso e divertente, irrispettoso
e godibilissimo. Piace ai
ragazzi, ma non è un libro per ragazzi, Non più di quanto lo siano il Gargantua o i
Gulliver's Travels.
La verità è che lo Xīyóujì viene letto con immutato divertimento da quasi cinquecento anni e
state certi che durerà altrettanto. Non è un capolavoro: è un classico.
Uno di quegli assoluti letterari che non appartengono alla Cina, o
all'Oriente, ma all'umanità intera; che non fanno parte di epoche o correnti, ma
dell'eternità.
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SCHEDA DEI NOMI
Capita che il lettore italiano sia un pochino confuso dai nomi che i
personaggi assumano nelle varie lingue e trascrizioni. Lo studioso di
letteratura cinese scriverà Sūn Wùkōng (Sun Wu-k'ung nelle
vecchie pubblicazioni), mentre l'appassionato di anime
giapponesi lo conoscerà come Son Gokū, e via dicendo. Mi sembra dunque di fare
un favore all'umanità riportando qui i nomi dei personaggi principali in cinese (ideogrammi
tradizionali, traslitterazione ufficiale pīnyīn e
traslitterazione Giles-Wade), in giapponese (hiragana e
traslitterazione rōmaji), in coreano
(hangŭl, traslitterazione ufficiale e vecchia traslitterazione McCune-Reischauer),
in thailandese (in alfabeto thai e in un nostro tentativo di traslitterazione), in viêtnamita e, infine, in malese-indonesiano.
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Cinese |
Giapponese |
Coreano |
Thailandese |
Viêtnamita |
Indonesiano |
Scimmiotto
Monkey |
孫悟空
Sūn Wùkōng
Sun Wu-k'ung |
そんごくう
Son Gokū |
손오공
Son O-gong
Son O-kong |
เห้งเจีย
Ħêng Ceīy |
Tôn Ngộ Không |
Sun Go Kong |
Tripiṭaka |
玄奘
Xuánzàng
Hsüan-tsang |
さんぞう
Sanzō |
현장
Hyeon Jang
Hyŏn Chang |
พระถังซัมจั๋ง
Phratħạng Sạmcặng |
Huyền Trang |
Pendeta Tong |
Porcellino
Pigsy |
猪八戒
Zhū Bājiè
Chu Pa-chieh |
ちょはっかい
Cho Hakkai |
저팔계
Jeo Pal-gye
Chŏ P'ar-kye |
ตือโป๊ยก่าย
Tụ̄’o Póyky |
Trư Bát Giới |
Tie Pat Kay |
Sabbioso
Sandy |
沙悟净
Shā Wùjìng
Sha Wu-ching |
さごじょう
Sa Gojō |
사오정
Sa O-jeo
Sa O-chŏ |
ซัวเจ๋ง
Sạw Cĕng |
Sa Ngộ Tịnh |
Sam Cheng |
Viaggio in occidente
Journey to the West |
西遊記
Xīyóujì
Hsi yu chi |
さいゆうき
Saiyūki |
서유기
Seo yu gi
Sŏ yu ki |
ไซอิ๋ว
Sị’ĭw |
Tây du ký |
Perjalanan ke Barat |
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Sūn Wùkōng, Xuánzàng, Shā Wùjìng e Zhū Bājiè |
Il mitico quartetto nel suo viaggio alla volta dell'India. Il
monumento, decisamente kitsch, si trova nel quartiere di Chinatown, a Las Vegas, segno
della popolarità mondiale dei personaggi di Wú Chéng'ēn. |
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