STUDI

 

LA SEPARAZIONE DEL CIELO E DELLA TERRA
 
   
Dalla Mesopotamia all'Egitto, dalla Grecia esiodea all'Anatolia.
Il mito del Caos, della nascita del cosmo e dell'origine del tempo.

UN INIZIO? UNA CAUSA?

Che l'universo abbia avuto un'origine sembra una conclusione logica. Poiché tutto ciò che cade sotto i nostri sensi ha avuto un inizio, poiché ogni effetto ha una causa, la domanda di quale possa essere stata la causa prima di tutte le cose deve essere sorta spontaneamente nell'anima dei nostri antenati. Vedremo in seguito che forse non è proprio così e che, anzi, il più antico pensiero mitico aveva concepito il mondo come una ciclica eternità di periodiche distruzioni e rinnovamenti. Ma prima di affrontare acque tanto profonde, sarà meglio rimanere in ambiti a noi più vicini e familiari: la mitologia classica, quella ebraica, quella del Medio Oriente. Le concezioni di tali popoli sembrano considerare una sorta di stato primordiale di amorfa e confusa immobilità, in cui tutte le cose erano contenute in potenza, ma non ancora distinte una a una nel loro essere e nelle loro caratteristiche.

VERSO UNA CONCEZIONE DI CAOS

Intorno al 300 a.C. l'esploratore greco Pitea, abbandonato il consueto mondo mediterraneo, attraversò le Colonne d'Ercole e diresse la sua nave verso i lontani mari boreali. Dopo essere giunto in Britannia, proseguì in direzione nord fino alla misteriosa terra di Thule... e lasciamo agli amanti dei misteri decidere se dietro questo nome si celino le isole Orcadi, la Scandinavia o la lontanissima Islanda. Pitea fu il primo esponente del mondo classico a osservare i lastroni di ghiaccio che si staccavano dalle banchise polari e le fitte nebbie dei mari settentrionali. Di fronte a queste inaudite trasformazioni e mescolanze tra elemento solido e liquido, tra liquido e aeriforme, Pitea dedusse di essere giunto agli estremi confini del mondo, laddove tutti gli elementi perdevano la loro stabilità e si confondevano nel caos primordiale.

«Caos». Con questa parola si indicava, particolarmente nei miti teogonici, lo stato iniziale di tutte le cose, prima che esse prendessero le forme e gli attributi stabiliti dall'ordine interno del'universo. Ma cháos acquistava il suo pieno significato solo in opposizione alla nozione di kósmos, termine con il quale già i Pitagorici (secondo Diogene Laerzio) o Parmenide (secondo Teofrasto) designavano il mondo in quanto ordine, compiutezza, determinatezza. Il kósmos era distinzione degli elementi, ordine matematico, precisione astronomica; era sia la struttura cosmologica dell'universo, sia le leggi che governavano la società umana. Nel kósmos tutte le cose godevano della loro natura specifica. Al contrario, il cháos era l'indeterminatezza, la confusione, la mancanza di identità. Nel cháos tutte le cose già erano presenti in potenza, per quanto indistinguibili dal fondo caotico, ma è solo nel kósmos che acquistavano forma distinta e contingente.

Publius Ovidius Naso, che degli scrittori augustei fu forse il più brillante, diede principio alla sua scintillante rassegna di metamorfosi proprio con la prima di tutte le trasformazioni, quella dal cháos in kósmos.

Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere chaos: rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem
non bene iunctarum discordia semina rerum.
nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan,
nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe,
nec circumfuso pendebat in aere tellus
ponderibus librata suis, nec bracchia longo
margine terrarum porrexerat Amphitrite;
utque erat et tellus illic et pontus et aer,
sic erat instabilis tellus, innabilis unda,
lucis egens aer; nulli sua forma manebat,
obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno
 frigida pugnabant calidis, umentia siccis,
mollia cum duris, sine pondere, habentia pondus.

Prima del mare e della terra e del cielo che tutto ricopre, unico e indistinto era l'aspetto della natura in tutto l'universo, e lo dissero caos, mole informa e confusa, nient'altro che peso inerte, ammasso di germi discordi di cose mal combinate. Nessun titano ancora donava al mondo la luce, Né Febe ricolmava crescendo la sua falce, né la terra, trovato il proprio equilibrio, stava immensa e sospesa nell'aria, né Anfitrite aveva proteso le braccia a ricingere i lunghi orli della terraferma. E per quanto lì ci fosse la terra, il mare e l'aria, instabile era la terra, non navigabile l'onda, l'aria priva di luce: nulla riusciva a mantenere una sua forma, ogni cosa contrastava le altre, poiché nello stesso corpo il freddo lottava col caldo, l'umido con l'asciutto, il molle col duro, il peso con l'assenza di peso.

Ovidius: Metamorfosi [I: 5-20]

E dunque, secondo Ovidius, nella caotica primordialità già esistevano terra e mare e aria, ma non avevano quelle caratteristiche che le distinguono, che ne definiscono la rispettiva natura. La terra era instabile, l'onda non navigabile, priva di luce l'aria. Nessuna cosa poteva dirsi calda o fredda, umida o asciutta, molle o dura. Ovidius sembra avere un'idea quasi teologica del caos, ma non dimentichiamo che alle sue spalle c'era almeno mezzo millennio di speculazioni filosofiche. Ovidius aveva a sua disposizione un terreno molto solido su cui camminare. La sua scrittura è disinvolta, la filosofia si fonde alla poesia con noncuranza e naturalezza.

La creazione dell'universo, a opera di un non precisato dio con capacità demiurgiche, sarebbe stata in Ovidius proprio un districamento di tutti gli elementi dalla loro mescolanza primordiale, così che ciascuna cosa avrebbe finito con l'acquistare la propria identità e diventare come noi oggi la conosciamo. Ma meglio lasciare ancora una volta la parola a Ovidius, assai più lieve di noi nel narrare le cose profonde:

Hanc deus et melior litem natura diremit.
nam caelo terras et terris abscidit undas
et liquidum spisso secrevit ab aere caelum.
quae postquam evolvit caecoque exemit acervo,
dissociata locis concordi pace ligavit:
ignea convexi vis et sine pondere caeli
emicuit summaque locum sibi fecit in arce;
proximus est aer illi levitate locoque;
densior his tellus elementaque grandia traxit
et pressa est gravitate sua; circumfluus umor
ultima possedit solidumque coercuit orbem.

Un dio, e una più benigna disposizione della natura, sanò questi contrasti: separò dal cielo la terra, dalla terra le onde, e distinse dall'aria spessa il cielo puro. E dopo aver districato e liberato queste cose dall'ammasso informe, dissociatene le sedi, le riunì in un tutto concorde. Il fuoco, imponderabile energia della volta celeste, sprizzò e si stabilì nella regione più alta. Subito sotto, per sede e leggerezza, c'è l'aria. La terra, più densa, assorbì gli elementi più grossi e rimase premuta in basso dal proprio peso. L'acqua, fluida, occupò gli ultimi spazi avvolgendo tutto in giro la massa solida del mondo.

Ovidius: Metamorfosi [I: 21-31]

In epoca augustea la sapienza del mondo classico era in decadenza. Gli antichi miti si stavano cristallizzando in favole, in allegorie, in bizzarre narrazioni che poco conservavano della loro originale sacralità. In Ovidius poi i miti erano solo l'occasione per eseguire scintillanti esperimenti stilistici; di essi non rimaneva che la forma esteriore, resa con elegante ricercatezza, ma non vi era quasi più nulla del loro significato. Nelle parole «un dio o una più benigna disposizione della natura», Ovidius prelude forse a quella sorta di filosofico monismo a cui la civiltà classica sarebbe certo pervenuta se il Cristianesimo non avesse imposto una diversa visione del mondo. Voci attente alla tradizione, come sarà quella di Ploútarkhos, si faranno sempre più rare nei secoli successivi, fino al tramonto della classicità.

Cercare di districarsi tra le concezioni greco-romane riguardo agli inizi è compito superiore alle nostre forze. Come vedremo in seguito, non vi era affatto, nel mondo classico, una concezione unitaria. Alle tradizioni mitiche si sovrapponevano le concezioni dei culti misterici e in epoca tarda ogni idea venne rielaborata in senso filosofico. Tra i problemi principali affrontati dalla filosofia c'era infatti proprio questa ricerca dell'arché, dell'origine di tutte le cose. Le concezioni di Platone (428-348 a.C.) sulla relazione tra idee e forme erano state il punto d'arrivo di una lunga serie di speculazioni che rimontavano ad almeno due secoli dietro di lui e che erano state principiate dalla scuola di Mílētos, colonia ionica in Asia minore. Aveva cominciato Thalḗs (VI secolo a.C.), indicando nell'acqua il principio da cui tutte le cose avevano tratto la loro origine. Il suo discepolo Anassimene (circa 560-525 a.C.) aveva visto tale arché nell'aria, intesa probabilmente come soffio vitale che permeava l'universo, mentre l'altro discepolo, Anassimandro (nato intorno al 610 a.C.), aveva per primo rifiutato gli elementi materiali per porre l'origine di tutte le cose in una sostanza infinitamente sottile che egli aveva chiamato ápeiron, «senza limiti».

La speculazione filosofica sull'arché si era dunque spostata nella direzione di elementi via via più sottili. Dall'acqua di Thalḗs all'aria di Anassimene, fino all'illimitato ápeiron di Anassimandro; è aperta la via per le concezioni di Platone, sul passaggio dalle idee alle forme, che avrebbero condizionato la filosofia successiva: non solo i brillanti poemi di Ovidius, ma anche il tardo neoplatonismo, le correnti gnostiche e naturalmente le stesse concezioni giudeo-cristiane. L'idea stessa della creatio ex nihilo, che in seguito sarebbe divenuto dogma nella teologia medievale, fu il naturale punto di arrivo delle speculazioni classiche.

Se in origine il mýthos era sapienza sacra, intuizione di verità pre-razionali, la cultura classica non poteva più accettare le risposte poetiche. Le nuove esigenze scientifiche ponevano domande divergenti rispetto a ciò che poteva offrire il mondo mitico delle origini. I filosofi di Mílētos (VI secolo a.C.) nelle loro speculazioni sull'arché indugiano ancora tra il mýthos e il lógos, ma dopo di loro la filosofia sceglierà senza dubbio la via del lógos. Già con Ferecide e Acusilao di Argo (V secolo a.C.) si viene ad affermare l'interpretazione secondo cui il mito, pur latore di qualche verità, altro non sarebbe che una ricostruzione di fatti storici distorta dall'esagerazione epica. In seguito Platone, e dopo di lui Aristotele, definendo la differenza tra «discorso che non richiede dimostrazione» e «argomentazione razionale», pongono limiti precisi al campo d'indagine del mýthos e del lógos. E da allora il mito sarà considerato prodotto imperfetto dell'attività intellettuale, approssimazione e deformazione della verità.

Ma il concetto di cháos è più antico di Ovidius, più antico di Platone e Aristotele, più antico ancora dei filosofi di Mílētos. Il mito, che precede la filosofia di parecchie centinaia di anni, aveva concluso la sua parabola già nel remoto VII secolo, allorché Hēsíodos, poeta e non filosofo, aveva chiamato il disordine primordiale col suo vero nome:

Ê toi mèn prṓtista Cháos génet'...

Dunque per primo fu Cháos...

Hēsíodos: Theogonía [116]

Nella sua Theogonía, Hēsíodos non si sofferma a descrivere nei dettagli questo primordiale caos. Cháos viene soltanto citato come punto di partenza. Cháos non è qualcosa da spiegare, è una situazione su cui non è possibile dare dettagli, di cui, anzi, si ha percezione soltanto quando l'immobilità originale viene spezzata dalla rottura operata dalla creazione. Non vi sono divinità o demiurghi, ma forse soltanto quella «benigna disposizione della natura» che voleva che le cose sorgessero spontaneamente, senza una vera causa, estrapolandosi da sole dalla confusione iniziale per assumere la loro identità.

Ê toi mèn prṓtista Cháos génet', autàr épeita
Gaî' eurásternos, pántōn édos asphalès aieì
athanátōn, hoì échousi kárē niphóentos Olýmpou,
Tártará t' ēeróenta mychôı chthonòn euruodeíēs,
ēd' Éros, hòs kállistos en athanátoisi theoîsi,
lysimelḗs, pántōn dè theôn pántōn t' anthrṓpōn
dýmnatai en stḗthessi nóon kaì epíphrona boulḗn.

Dunque per primo fu Cháos, e poi
dall'ampio petto, sede sicura per sempre di tutti
gli immortali che tengono la vetta nevosa d'Olimpo,
e
Tártaros nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade,
poi
Éros, il più bello degli immortali,
che spezza le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini
doma nel petto il cuore e il saggio consiglio...

Hēsíodos: Theogonía [116-122]

Ecco. Dall'iniziale Cháos a un certo punto sgorgano fuori, senza ragione alcuna, , la dea-terra per prima, e per secondo Tártaros, gli oscuri recessi delle profondità sotterranee. Terzo è Éros, l'amore, la forza dirompente che spezza le membra e che la dolce-ridente Saffo coronata di viole avrebbe cantato nei suoi immaginifici frammenti. La nascita di Éros è necessaria affinché alla generazione spontanea segua la procreazione cosciente. E continua Hēsíodos:

Ek Cháeos d'Érebos te mélainá te Nx egénonto:
Nyktòs d'aût' Aithḗr te kaì Hēmérē exegénonto,
hoùs téke kysaménē Erébei philótēti migeîsa.
Gê dé toi prôton mèn egeínato îson he' autēı.
Ouranòn asteróenth', hína min perì pánta kalýptoi,
ophr' eín makáressi theoîs hédos asphalès aieí.

Da Cháos nacquero Érebos e la nera Notte [Nýx],
dalla Notte provenettero le Etere [
Aithḗr] e il Giorno [Hḗmēra]
che lei concepì a
Érebos unita in amore.
La terra [
] per prima generò, simile a sé,
il cielo [
Ouranós] stellato, che l'avvolgesse tutta d'intorno
e fosse ai beati sede sicura per sempre.

Hēsíodos: Theogonía [122-127]

Potremmo stare a lungo a parlare di questi nomi, ché ciascuno di essi nasconde infinite delizie. Érebos era la personificazione delle tenebre maschili, forse derivato da una radice fenicia ’RB che stava a indicare il lontano occidente, da cui il nome stesso dell'Europa. E Nýx, la Notte dalle nere ali, era un'antichissima divinità a cui i Greci, anche in epoca classica, guardarono sempre con timorosa venerazione. Ma per ora non ci interessa proseguire lungo questa strada. La cosa che ci preme sottolineare è che, anche secondo le testimonianze antiche, Hēsíodos sia stato il primo a parlare di Cháos. Hēsíodos si colloca, subito dopo Omero, agli albori della letteratura greca, ma ciò non significa che la mitologia greca sia cominciata con loro. Anzi, in un certo senso Omero ed Hēsíodos chiusero il periodo mitogenico, fissando, una volta per tutte, delle tradizioni che alla loro epoca erano già antichissime.

La parola cháos è legata al verbo greco kaínō «aprirsi, spalancarsi». Se dunque il tardo significato di questo termine aveva la nozione di «disordine primordiale», filologicamente andrebbe tradotta con «vuoto spalancato» o, più poeticamente, «abisso». Lo stesso Ploútarkhos afferma che era questa l'idea inerente al pensiero di Hēsíodos, il quale avrebbe inteso il Cháos come un immenso vuoto, pronto ad accogliere la successiva creazione.

UN CAOS LIQUIDO?

Quando la scrittura fissa la Sapienza mitica, trasformandola in poesia o letteratura o filosofia, vuol dire che è matura l'esigenza di fissare i miti in una forma canonica. Quando questo avviene, di solito, si tende a conservare le forme del mito più che il loro significato. Il lavoro di Hēsíodos, che da un lato aveva iniziato la letteratura greca, dall'altro aveva chiuso la stagione mitogenetica. Che cosa c'è alle spalle di Hēsíodos? Il Medioevo Ellenico, di cui l'unica voce è quella di Omero, le civiltà micenea e minoica e, ancora più indietro, l'epoca eroica, i miti indoeuropei portati dagli antenati degli Achei che si confondevano con le più antiche tradizioni preelleniche. È impossibile trovare un'origine al mito. Si possono solo analizzare le forme più estreme, cristallizzate in letteratura nel momento stessa in cui cessano di essere vero comprese.

Molte antiche idee mitiche si confondono su questo punto, parlandosi reciprocamente l'una con l'altra. A ben guardare il Cháos esiodeo, visto come una confusione degli elementi posti in uno spazio vuoto, sembra divergere da una concezione differente, che configurava piuttosto il caos iniziale in forma liquida. Un passo di Achille Tazio suggerisce un evidente confusione tra caos esiodeo e caos acqueo:

Thalḗs di Mílētos e Pherekýdēs di Sýros suppongono l'acqua come principio di tutte le cose, proprio l'acqua che Pherekýdēs chiama anche cháos, ricavando questo probabilmente da Hēsíodos...

Achilleús Tátios: Eisagōgḕ eis Áraton [3]  

Ma Hēsíodos non aveva mai parlato di un caos liquido! L'idea che il principio caotico primordiale fosse in stato liquido era tuttavia già presente nel pensiero greco. Abbiamo visto che Thalḗs di Mílētos aveva posto l'acqua quale arché di tutte le cose... ma quali erano le ragioni a sostegno di una simile affermazione? Aristotélēs suppone che ciò fosse dovuto alla constatazione che ogni cosa cresce e si sviluppa nell'umidità e aggiunge che Thalḗs sia risalito al mito omerico (e non esiodeo) della creazione, che vedeva in Ōkeanós e Tēthýs i liquidi principi primordiali da cui sarebbero derivate tutte le cose (Metá ta physiká [983 b27 984 a2]).

Quest'idea affiorerà in seguito nei neoplatonici. Phílōn Alexandreús (I secolo d.C.), nel suo ottimistico tentativo di fondere sapienza ebraica e filosofia greca, cerca di dimostrare il carattere creato della terra, nega la creatio ex nihilo e va a ripescare l'antico stadio caotico esiodeo, ma aggiungendo qui una nota interessante:

Il caos fu concepito da Aristotélēs come un luogo, perché era assolutamente necessario che prima dei corpi esistesse un luogo per riceverli. Alcuni stoici tuttavia ritengono che fosse acqua...

Phílōn ho Alexandreús: De Æternitate Mundi [18]  

«Ritengono che fosse acqua...» Filone potrebbe aver facilmente desunto questo caos liquido dell'abisso di cui parla la Genesi biblica. Ma che il caos primordiale si configuri in forma liquida era un'idea che pervadeva l'intero mondo antico. Lasceremo stare per ora le concezioni bibliche e omeriche, a cui torneremo nel prossimo capitolo, per cercare le origini di questo caos liquido nella prima di tutte le civiltà umane che sia entrata nella storia.

IL PAESE DI SUMER: RESTI DI UNA MITOLOGIA PERDUTA

Quando si tratta di mitologia mesopotamica non si deve dimenticare che dalle prime idee mitologiche sumeriche fino alle più tarde speculazioni babilonesi passano tremila anni, durante i quali la Mesopotamia fu teatro di imponenti migrazioni e invasioni. Queste riflessioni dovrebbero spingerci a una certa cautela quando trattiamo la mitologia mesopotamica come fosse un fenomeno unitario. Non lo fu.

Ma possiamo cercare di mettere insieme le più antiche cosmologie, possiamo prendere in considerazione i mille anni intercorsi dall'invenzione della scrittura (3000 a.C.) fino all'epoca paleobabilonese (circa 2000 a.C.), sufficientemente sicuri di circoscrivere il fenomeno in un ambito strettamente sumerico. Da questo campo già più circoscritto si possono estrapolare una serie di punti che sembrano comuni al pensiero del «popolo dalle teste nere».

Gli dèi principali dei Sumeri erano An, Enlil ed Enki. Insieme componevano la cosiddetta «triade astrale».

An era il dio del cielo, anzi, era il cielo stesso. Il suo nome significava «cielo» [AN]. Essendo il dio posto più in alto, quale potenza nell'essere, era anche il più lontano dalle vicende umane.

Enlil aveva avuto in potestà lo spazio compreso tra il cielo e la terra. Era il vento, la pioggia e la tempesta; il suo carattere era non di rado violento e distruttivo. Ma era anche il re degli dèi, colui che regnava sull'universo in nome del distante e inaccessibile padre An. Laddove An era potenza nell'essere, Enlil era potenza nell'azione. Il suo nome voleva dire «signore [EN] del vento [LIL]».

Enki era il dio della saggezza, la cui dimora era nel profondo abisso sotterraneo. Egli era potenza nel pensiero. Possedeva i me, i princìpi funzionali dell'universo, che aveva distribuito tra gli dèi allorché aveva dato a ciascuno la sua funzione. Il suo potere era creativo: Enki aveva organizzato il mondo, aveva plasmato dall'argilla gli esseri umani, aveva suscitato la vita nel paese di Sumer e aveva fondato il vivere civile. Enki era il dio della sapienza, dell'arte e della magia, signore supremo di tutte le funzioni e nozioni morali. Il suo nome significava «signore [EN] della terra [KI]».

L'intero universo sumerico era dunque ripartito in tre grandi sfere cosmiche, ciascuna assegnata a un dio. An dimorava nell'alto del cielo stellato, Enlil nell'atmosfera, Enki negli abissi. Questi abissi erano visti dai Sumeri come un'immensa distesa acquea su cui galleggiava il mondo. Il termine sumerico era abzu, e rappresentavano il caos primordiale, l'indefinitezza, l'increato. Ma anche la sorgente da cui provenivano tutte le acque.

Non è impresa semplice definire la mitologia sumerica. La maggior parte dei racconti sulla nascita e il divenire dell'universo che sono arrivati fino a noi, fissati sulle tavolette d'argilla, sono a loro volta inclusi in leggende più specifiche, in preghiere e incantesimi. In secondo luogo, anche se i Sumeri condividevano i più importanti nomina divina, ogni città-stato si affidava al culto di una divinità poliade su cui riscriveva daccapo l'intera mitologia. Nel corso della storia, l'influenza dell'una o dell'altra città portò ad aumento di popolarità della divinità che incarnava, sul piano metafisico, i destini della città stessa. Ecco perché, confrontando i diversi testi, troviamo che l'opera della creazione è sovente attribuita a divinità diverse. Inoltre, nei secoli successivi, l'eredità sumerica fu raccolta dai molti popoli che s'insediarono nella fertile terra tra il Tigri e l'Eufrate, tra cui gli Accadi (Babilonesi e Assiri). L'antica mitologia fu soggetta a continue e intense rielaborazioni, in certi casi davvero splendide dal punto di vista letterario, ma che cosa rimaneva in quei casi dello spirito originale?

Non conosciamo nei dettagli la più antica cosmologia sumerica; si può solo mettere insieme i pochi indizi che affiorano qua e là dalle antichissime tavolette che gli archeologi hanno trovato negli archivi reali delle varie città. Come leggiamo nel prologo di Ud rea ud sudra rea («In quei giorni, in quei giorni remoti»), testo conosciuto informalmente come Bilgameš, Enkidu e gli inferi:

ud re-a ud sù-rá re-a
i₆ re-a i₆ ba₉-rá re-a
mu re-a mu sù-rá re-a
ud ul ní-du₇-e pa è-a-ba
ud ul ní-du₇-e mí zid dug4-ga-a-ba
èš kalam-ma-ka ninda šú-a-ba
išu-rin-na kalam-ma-ka ní-tab ak-a-ba
an ki-ta ba-da-ba₉-rá-a-ba
ki an-ta ba-da-sur-ra-a-ba
mu nam-lú-u₁₈-lu ba-an-ar-ra-a-ba
ud an-né an ba-an-de₆-a-ba
en-líl-le ki ba-an-de₆-a-ba
ereš-ki-gal-la-ra kur-ra sa rig₇-bi-šè im-ma-ab-rig₇-a-ba

In quei giorni, in quei giorni remoti...
In quelle notti, in quelle notti arcaici...
In quegli anni, in quegli anni antichi...
In quei giorni passati, quando le cose vennero all'esistenza,
in quei giorni passati, quando le cose vennero fatte per la prima volta,
quando il pane fu gustato per la prima volta nel santuario della Terra,
e quando i forni vennero accesi per la prima volta.
quando il cielo fu separato dalla terra,
e la terra fu separata dal cielo,
quando la fama del genere umano venne stabilita,
An prese per sé il cielo
ed Enlil prese per sé la terra
e gli Inferi vennero dati in dono a Ereškigal...

Ud rea ud sudra rea [-]

E similmente in un altro testo:

 

Quando il Cielo fu separato dalla Terra,
(fino ad allora strettamente tenuti insieme)
e le dèe madri apparvero;
quando la Terra fu fondata e messa al suo posto
e gli dèi ebbero stabilito il programma dell'universo...

«Il racconto della creazione dell'Uomo» [1-5]

Oppure ancora:

en-e ni2-du7-e pa na-an-ga-mi-in-e3
en nam tar-ra-na šu nu-bal-e-de3
{d}en-lil2 numun kalam-ma ki-ta
an ki-ta ba9-re6-de3 sa na-an-ga-ma-an-šum2
ki an-ta ba9-re6-de3 sa na-an-ga-ma-an-šum2

Non solo il Signore fece apparire il mondo in perfetta forma,
il Signore che immutabili stabilisce i destini,
Enlil, che fece emergere il seme umano dalla Terra;
che ebbe cura di separare il Cielo dalla Terra,
che ebbe cura di separare la Terra dal Cielo...

«L'invenzione della zappa e l'origine degli uomini» [1-5]

Nella ricostruzione della cosmogonia sumerica effettuata da Samuel Noah Kramer, all'inizio del tempo vi sarebbe stato soltanto l'abisso liquido, l'abzu. A un tratto da questo abisso sarebbe sorta la montagna cosmica h̬ursaganki «montagna del cielo e della terra», insieme cielo [AN] e terra [KI]. Si tratta come si vede di una concezione parallela al mito di Hēsíodos del Cháos primordiale, dal quale d'un tratto, obbedendo a sconosciute casualità, emerse , la terra dall'ampio petto, la quale a sua volta avrebbe generato Ouranós, il cielo stellato. In entrambi i casi la situazione è così conformata: un abisso iniziale (liquido nel mito sumerico, spaziale in quello esiodeo) da cui d'un tratto scaturiscono, in un'unica massa, terra e cielo.

Nella mitologia sumerica, non è semplice distinguere un vero mito cosmogonico da una qualche «piccola cosmogonia» finalizzata a un incantesimo o a una preghiera, anche se la maggior parte dei miti converge raccontandoci di questa unione iniziale tra il cielo e la terra. Anche nel prologo della tenzone «Albero contro Canna», risalente ai primi secoli del secondo millennio a.C., si assiste al tema cosmogonico dell'accoppiamento tra cielo e terra:

 

L'immensa piattaforma della terra scintillava: verde la sua superficie!
La terra era vestita d'argento e lapislazzuli,
ornata di diorite, calcedonio, cornalina, antimonio.
Agghindata splendidamente di vegetazione, aveva qualcosa di regale!
È che la nobile terra, la santa terra, si era fatta bella per il cielo, prestigioso!
E cielo, il dio sublime, affondò il suo pene nella terra;
versò insieme, nella sua vagina, il seme dei valorosi Albero e Canna.
E tutta, come vacca irreprensibile, [la terra] fu gravida del ricco seme del cielo!
«Albero contro canna» [1-8]

È possibile che questo testo voglia piuttosto descrivere il potere fecondante del cielo, le cui piogge irrigano e fanno germogliare la terra: non sarebbe in tal caso un testo cosmogonico, bensì sarebbe il semplice racconto metaforico della continua e incessante fecondità della terra. Sia come sia, vi è comunque alla base l'idea di un'unione sessuale tra cielo e terra.

Ma torniamo alla ricostruzione del mito sumerico secondo Kramer. Ecco che dall'unione del cielo e della terra nacque il dio-vento Enlil, il quale, con funzioni demiurgiche, provvide alla separazione di genitori. Cielo e terra, fino allora indissolubilmente uniti, furono strappati l'uno dall'altra e spinti in direzioni opposte. Le acque cosmiche e abissali dell'abzu si trovarono confinate ai confini del cosmo, sotto la terra e al di là del cielo. In seguito, dall'unione del dio-cielo An con la madre primordiale Nammu nacque il dio della sapienza Enki. A quel tempo il mondo era ancora avvolto dall'oscurità, così Enlil generò Nanna, il dio-luna, che a sua volta avrebbe generato il dio-sole Utu e la dea Inanna, la stella del mattino e della sera.

Il prologo di «Gilgameš e gli inferi» tratta la separazione del cielo e della terra come un atto violento: «Quando il cielo fu separato dalla terra, e la terra fu separata dal cielo...». L'impresa di Enlil si configura come intrusione del vento tra il cielo e la terra, in quello che poi sarebbe stato lo spazio atmosferico. Conferendo a Enlil il potere di sconvolgere l'immutabile introducendovi il moto, un potere che fa del vento l'elemento principale della creazione del mondo, la tradizione sumerica inaugurò la strada che sarà più tardi seguita da altre cosmogonie. Il ruolo di separatore di Enlil si spiega con la sua stessa natura. Come vento [LIL], Enlil è soffio, è verbo, è parola creatrice: in questo senso presenta aspetti comuni con lo Yahweh ebraico, e vedremo in seguito come al concetto sumerico del lil corrisponda tra gli ebrei l'equivalente concetto del rûªḥ, lo spirito divino che nel Bərē’šît, la Genesi biblica, troviamo ad aleggiare sopra le acque degli abissi.

Secondo un più tardo e complesso schema di cosmogenesi, la montagna h̬ursaganki a un certo punto cominciò a produrre una complicata creazione in un processo di molte tappe [AMA-A-A] o tentativi che si conclusero nella costituzione dei due princìpi An (il cielo) e Ki (la terra). Di qui, il grande pensiero teologico babilonese, che moltiplicherà le coppie primordiali partendo dall'indeterminatezza iniziale fino ad arrivare al cosmo a noi conosciuto.

EGITTO: IL SOLE DALLE ACQUE

Abbiamo dunque visto che la cultura greca, al bivio tra sapienza poetica e filosofica, aveva due diverse idee sul caos primordiale: una dove il caos era visto in forma spaziale, e così cantava Hēsíodos, l'altro dove il caos era liquido, e questa era la sapienza di Omero poi ripresa dai filosofi ionici, primo tra tutti Thalḗs. Ma sull'origine di quest'ultima concezione i Greci non avevano dubbi. Eudemo di Rodi c'informa che Thalḗs aveva preso buona parte delle sue conoscenze geometriche e sapienziali dagli Egiziani, e anche Ploútarkhos è molto chiaro su questo punto:

 

E credono che Omero, e lo stesso si dice di Thalḗs, abbia posto l'acqua come principio e origine di tutte le cose, dopo aver appreso ciò dagli Egizi...

Ploútarkhos: De Iside et Osiride [34]

Anche in Egitto, come in Mesopotamia, esisteva sì, un sottofondo mitico comune a tutte le terre percorse dal Nilo, ma allo stesso tempo ogni città aveva una sua precisa teologia e l'importanza che questa o quella città assumeva nel corso di secoli di storia si rifletteva immancabilmente nei suoi miti. Nonostante lungo tutto il corso del Nilo si adorassero un po' gli stessi dèi, accadeva che spostandosi di regione in regione, gli aspetti delle divinità, i loro attributi, i loro ruoli mutassero al contempo. Dal Regno Antico all'epoca dei Tolomei vi sono quasi tremila anni di speculazioni mitiche: non ci può certo pretendere di considerare la mitologia egizia un fenomeno unitario!

Tra i vari sistemi teologici, uno dei più sofisticati era forse quello che faceva capo alla città di Eliopoli. Erodoto, che discusse con i teologi di Menfi, di Tebe e di Eliopoli, disse poi che gli Eliopolitani erano i più saggi tra gli Egizi. È appunto nella teologia di Eliopoli che troviamo la versione egizia del tema della separazione del cielo e della terra.

Nût e Geb

Disegno da un papiro

Stiamo parlando di una delle scene più frequenti e suggestive di tutta l'iconografia egizia. Una dea, completamente nuda, dalla pelle scura e il ventre cosparso di stelle, si inarca al di sopra dell'intero quadro. Solo le punte delle dita delle mani e dei piedi poggiano a terra, ma su quel precario sostegno ella si sostiene con straordinaria leggerezza. È Nût, la dea-cielo, dal ventre cosparso di stelle, colei che avvolge e delimita l'universo. La barca del sole scivola durante il giorno sul suo corpo, s'immerge al tramonto nella sua bocca, scorre di notte nelle sue viscere e all'alba emerge dal suo grembo. Il sole può così rinascere a nuova vita giorno dopo giorno e l'aurora rossastra altri non è che il sangue del parto mattutino. Così Nût assicura perennità e vita ai cicli del tempo e dello spazio.

Sotto di lei, steso al suolo, è raffigurato un altro dio. Le sue dimensioni sono ovviamente ridotte rispetto alla dea che lo sovrasta. Egli non sembra a suo agio, con una gamba piegata, il capo voltato di lato e le braccia protese a cercare qualcosa alle sue spalle. Talora il membro è rizzato in alto, quasi cercasse di raggiungere la bella Nût inarcata sopra di lui. È Geb, il dio-terra. Colui che fa crescere le piante sul suo corpo e trattiene i morti nelle sue viscere profonde.

E tra l'uno e l'altra, Šû, il dio dell'atmosfera, che con i piedi puntati contro Geb e le mani sollevate verso Nût, per sempre li tiene separati.

Ci piacerebbe conoscere questo mito nei particolari, ma disgraziatamente i molti testi che ne fanno accenno non sono mai eccessivamente esplicativi. Le fonti sono le colonne di geroglifici presenti nelle sale delle piramidi del Regno Antico (ca. 2649-2151 a.C.). Iniziò il faraone Wenis (2350 a.C.), con le iscrizioni che fece incidere nel vestibolo e nella sala del sarcofago della piramide a Saqqara, necropoli della capitale reale di Menfi, con l'intento di assicurarsi un posto nell'aldilà. I successivi monarchi continuarono tale tradizione e così ebbe origine quel corpus di formule e speculazioni noto come Testi delle piramidi.

Secondo la sofisticata cosmogonia eliopolitana, all'origine di tutto era un abisso di acque stagnanti, assolutamente immobili, circondato e avvolto da un'oscurità assoluta che non era ancora quella della notte, perché notte e giorno non erano ancora stati creati. Il nome egiziano per descriverlo era nûn, che pare vada tradotto come «non esistenza». I testi che descrivono il nûn, tutti molto brevi, procedono per antitesi, negando tutti quegli elementi che per gli Egizi rappresentavano il mondo creato. Né il cielo né la terra esistevano, né gli dèi né gli uomini: l'ira, il frastuono e le battaglie non esistevano ancora, non esistevano il timore di quello che poteva accadere all'occhio di Ḥur e la morte. Così dicono i testi.

C'è un che di inatteso in questa lista delle cose che determinano il mondo come ci appare; la creazione si distingue dunque per il tumulto delle battaglie, per la morte e il timore che l'occhio solare possa spegnersi. L'idea, molto sottile, è che mentre il nûn non può essere che statico e immoto, il mondo è in continuo divenire e il divenire è connaturato con la paura e con la morte.

Ma torniamo al nûn, a questo illimitato oceano di acque inerti, versione egiziana della medesima concezione che abbiamo trovato tra i Sumeri col nome di abzu. Gli Egizi, che ogni anno sperimentavano il miracolo delle piene del Nilo, apportatrici di vita, vedevano probabilmente nel nûn non soltanto il caos liquido degli inizi, ma anche l'origine di tutte le cose e della vita stessa. Nei santuari si onorava questo nûn primigenio sotto forma di un sacro laghetto, a rappresentare la «non esistenza» precedente la creazione. In effetti si credeva che questo stagno cosmico non avesse cessato di esistere ma fosse stato respinto ai confini dell'universo. Il nûn circondava il firmamento celeste con i suoi astri, e la terra e l'oltretomba. A giudicare da alcuni testi dal vivido sapore escatologico, tra gli Egizi era sempre presente il timore che il nûn spezzasse il cielo e si rovesciasse sulla terra, riconducendola allo stadio increato.

Secondo il sistema teologico di Eliopoli, la creazione ebbe inizio nel momento in cui un'altura [benben] emerse dal nûn, un tumulo primigenio.

Qui sorse, primo essere, il dio-sole tum, ovvero Reʿ. Il nome tum significa «totalità». In esso si trova in potenza l'intero universo delle manifestazioni. tum era la monade, l'essere supremo, la quintessenza di tutti gli elementi della natura.

Trovandosi solo al centro del nulla, tum sembrerebbe impossibilitato a continuare l'opera di creazione. Non dimentichiamo che in lui erano contenuti tutti gli aspetti delle forme che dovevano nascere. Anche se iconograficamente maschio, tum è una forma dell'indiviso androgino primordiale. Ed ecco che tum si accoppia con sé stesso. Si masturba. E così genera Šû e Tefnût, il dio dell'aria e la dea dell'umidità.

Tutte le manifestazioni vennero a esistere dopo che io le creai...
Non esisteva il cielo, non esisteva la terra...
creai da solo tutti gli esseri...
Il mio pugno divenne la mia sposa...
Mi accoppiai con la mia mano...
Da un mio starnuto nacque
Šû...
Da uno sputo nacque
Tefnût...
Poi
Šû e Tefnût generarono Geb e Nût...

Testi delle piramidi

È interessante la scelta delle parole per indicare la nascita di Šû e Tefnût. tum afferma di essersi masturbato, eppure poco sotto l'eiaculazione è sostituita da uno starnuto per creare il dio dell'aria e da uno sputo per creare la dea dell'umidità. Diversi egittologi non hanno esitato a tacciare questo mito come «rozzo», quando in realtà le idee si presentano in forma purissima. Lo starnuto è l'equivalente del soffio creatore che troviamo anche nel Bərē’šît, lo sputo è un'emanazione liquida del sé; entrambi gli elementi definiscono perfettamente la natura delle due divinità che sono così generate.

Troviamo questo stesso racconto, assai più elaborato e teologizzato, nei più tardi Testi dei sarcofagi, formule funerarie assai diffuse nel Medio Regno (2040-1783 a.C.). In uno di questi brani, svegliandosi tum alla coscienza, all'inizio dei tempi, guarda per primo nel profondo del mare increato del nûn e afferma:

«Ero solo con il nûn, nell'inerzia e non trovavo luogo in cui stare. [...] Gli dèi della prima generazione non erano ancora giunti all'esistenza, eppure erano con me. [...] Fluttuavo tra le acque completamente inerte, ed è mio figlio il cui nome è Vita, che ha risvegliato il mio spirito, che ha fatto vivere il mio cuore e radunato le mie membra inerti.»

Testi dei sarcofagi [II: 33-34]

A questo punto è il nûn stesso che si rivolge ad tum dicendo:

«Allora respira tua figlia Ma‘t e portala alla tua narice affinché il tuo cuore viva. Che non si allontanino da te tua figlia Ma‘t e tuo figlio Šû il cui nome è Vita.»

Testi dei sarcofagi [II: 33-34]

La creazione procede dunque dall'immobilità primordiale, attraverso la rottura operata dall'improvvisa scoperta della dualità. All'inizio tutto era confuso e indeterminato. tum già era presente nell'immenso mare increato del nûn, anche se non si distingueva da esso. E d'un tratto la dissociazione: tum acquista l'autocoscienza, si individualizza, e nel momento in cui diventa sé stesso comincia a guardarsi intorno. Gli altri dèi, quelli che si sarebbero moltiplicati dopo la creazione, non esistevano ancora, ma in qualche modo già erano presenti in potenza dentro di lui. Questa consapevolezza dà l'avvio al processo creativo e una nuova vita si manifesta spontaneamente dal demiurgo, nella forma di un figlio; in seguito ci vien detto poi che questo figlio è il dio Šû.

Allora tum si mette a parlare e racconta del suo risveglio alla coscienza. Prima di allora, il nûn stesso non sapeva di esistere, ma con la rottura operata dalla parola di tum, il nûn percepisce sé stesso come «altro» rispetto ad tum. La vita genera la parola, la parola genera il dialogo. Tale dialogo, attraverso una sorta di operazione maieutica, ci rivela il motore della futura creazione: la vita è assimilata a Šû, il dio dell'atmosfera, e a Ma‘t (che in questo testo sostituisce evidentemente Tefnût), che è la norma universale che regolerà tutte le leggi future dell'universo e della civiltà umana. Le splendide speculazioni mitiche dei Testi dei sarcofagi ci mostrano una teologia complessa e sottile, che evidentemente già risente di secoli di speculazioni sacerdotali.

Ma torniamo ora al proseguo del mito, integrando quel che sappiamo con le splendide fonti iconografiche presenti nelle tombe egiziane.

Šû e Tefnût sono a loro volta i genitori di Geb e Nût, il dio-terra e la dea-cielo. Per lungo tempo Geb e Nût giacquero strettamente avvinti l'uno all'altra, con la conseguenza che tra loro non c'era abbastanza spazio perché qualsiasi altra cosa potesse esistere. Allora tum ordinò al padre loro Šû di separarli. Pura immagine dell'atmosfera, che riempie tutto lo spazio tra la terra e il cielo, Šû s'intromise tra i suoi figli, puntò i piedi contro Geb e sollevò Nût sui palmi delle mani, separandoli l'uno dall'altra e impedendo per sempre il loro ricongiungimento. Šû è l'atmosfera, sì, ma più precisamente l'aria trasparente alla luce, che permette al sole d'irradiare il mondo con la sua carezza apportatrice di vita. Da Nût e Geb sarebbero poi nati i cinque dèi principali della religione egizia: Ûsr, Ḥur, Sûth̬, Iset e Nebt-ḥût.

Cominciamo dunque a vedere un quadro in questo sistema mitico. Dopo l'emersione delle prime realtà del caos, troviamo l'universo chiuso in sé stesso, poiché il cielo e la terra sono così strettamente avvinti l'uno all'altra da impedire di fatto l'esistenza di ogni altra realtà. È a questo punto che interviene il dio separatore, che tra i Sumeri e tra gli Egizi è una sorta di nume atmosferico, il quale, spezzando l'egoistica passione del cielo e della terra e separandoli fisicamente l'uno dall'altra, permette il proseguo del processo creativo e la nascita dell'ultima generazione divina.

Qui termina la teogonia eliopolitana e questo gruppo di nove divinità:

  • Šû
  • Tefnût
  • Geb
  • Nût
  • Ûsr
  • Ḥur
  • Sûth̬
  • Iset
  • Nebt-ḥût

forma la pesdet, o per usare il termine greco, l'«Enneade» di Eliopoli.

LA NARRAZIONE DI PLOÚTARKHOS: THṒT GIOCA A DAMA

Se il mito narrato nei Testi delle piramidi e nei Testi dei sarcofagi ci appare di difficile interpretazione, abbiamo la fortuna di disporre di un interprete di eccezione. Ploútarkhos (47-127), sacerdote di Delphoí, fu l'ultimo autentico conoscitore della tradizione antica prima del crollo del mondo classico. Nel suo De Iside et Osiride rinarra, in chiave fortemente ellenizzata, gli antichi miti egiziani. Questo libretto fu l'unico tramite per il quale il mondo cristiano, fino alla decifrazione dei geroglifici a opera di Champollion (1822), ebbe notizia della sapienza egizia. Siamo infinitamente grati a Ploútarkhos delle preziose informazioni che ci fornisce, ma non gli perdoniamo di averci tramandato il mito, come lui stesso afferma, «sfrondandolo da tutto ciò che è superfluo». Essendo il libretto dedicato all'amica Kléa, iniziata ai misteri di Iset, Ploútarkhos riteneva presumibilmente di non dover approfondire dettagli che la donna doveva ben conoscere. Certo Kléa avrà apprezzato la fiducia del suo amico e maestro, ma quanto ci avrebbe fatto piacere, a noi che viviamo in un'epoca tanto più tarda, avere a disposizione quel «superfluo»!

Ploútarkhos adopera, secondo l'uso dell'interpraetatio graeca, i nomi degli dèi classici in luogo di quelli egiziani. La lettura però è perfettamente trasparente:

 

Si racconta che quando Rhéa [Nût] si unì a Krónos di nascosto [Geb], il Sole [tum], che se n'era accorto, lanciò contro di lei questa maledizione, di non poter generare figli né in un mese né in un anno. Ma Hermês [Ḏeḥûtî], innamorato della dea, si unì a lei; e poi, giocando a dama con la luna, riuscì a vincerle la settantesima parte di ogni lunazione: con questa luce mise insieme cinque giorni e li intercalò all'anno di trecentosessanta giorni. Anche ai nostri giorni gli Egiziani li festeggiano come genetliaco degli dèi. Il primo giorno nacque Ûsr [...]. Il secondo giorno nacque Arueris [Ḥur]. Il terzo giorno nacque Typhôn [Sûth̬] ma la sua nascita non avvenne nel momento dovuto e neppure per via naturale: con un colpo squarciò il fianco della madre e saltò fuori. Il quarto giorno nacque Iset nella stagione delle piogge. Il quinto giorno Nebt-ḥût, che essi chiamano Aphrodítē...

Ploútarkhos: De Iside et Osiride [2]

eḥûtî

Il dio egizio della sapienza, il greco Thot. Statua conservata al Museo del Louvre.

Entriamo un po' più in dettaglio. La novità rispetto agli antichi testi è che qui tum ha colpito Nût e Geb con una maledizione che impedisce alla dea-cielo di dare alla luce i figli che tiene nel suo grembo. Non c'è in Ploútarkhos l'intervento di Šû a separarli, ma troviamo in una posizione analoga Ḏeḥûtî, il dio dalla testa d'ibis. Ploútarkhos lo identifica con Hermês, e giustamente, perché Ḏeḥûtî (il cui nome i greci trascriveranno Thṓt) era il dio della sapienza. Le tarde correnti ermetiche li fonderanno addirittura in unico personaggio dal doppio nome di Thṓt-Hermês.

Ammirando il meraviglioso corpo di Nût inarcato sopra il mondo, Ḏeḥûtî ne prova amore e pietà e si unisce a lei. A questo punto Ḏeḥûtî decide di giocare d'astuzia. Poiché la maledizione di tum impedisce a Nût di sgravarsi in qualsiasi giorno dell'anno, Ḏeḥûtî pensa bene di aggirare questa interdizione con una specie di cavillo. Come ci fa sapere anche Plátōn (Phaîdros [274b]), proprio Ḏeḥûtî aveva inventato le pedine della dama e i dadi. Ed è appunto giocando a dama con la Luna che Ḏeḥûtî vince la settantesima parte dell'anno, cioè cinque giorni che, intercalati all'anno solare di trecentosessanta, gli permettono di creare un tempo fuori dal tempo in cui Nût potrà dare alla luce i suoi figli. (In realtà Ploútarkhos arrotonda un po' i suoi calcoli, ma non importa.)

Il risultato di tale machiavello è che l'anno solare è composto di 365 giorni e non, come evidentemente doveva sembrare più ragionevole, di 360. Il calendario egizio considerava questi cinque giorni epagomeni, chiamati dua heru renepet «i cinque al di sopra dell'anno», come un tempo extra-calendariale. In questi cinque giorni, Nût poté dare alla luce i figli che tratteneva nel ventre. Il primo giorno nacque Ûsr, il secondo Ḥur, il terzo Sûth̬, il quarto Iset, il quinto Nebt-ḥût.

Di questi figli, aggiunge Ploútarkhos, Ûsr e Ḥur erano figli di tum, Nebt-ḥût e Sûth̬ erano figli di Geb, mentre la sola Iset era figlia di Ḏeḥûtî.

Il fatto che due di questa discendenza fossero figli di tum, fa forse capire per quale motivo il demiurgo si fosse tanto adirato per l'unione di Nût e Geb. Non è male ricordare che nei Testi delle piramidi non si parla di alcuna maledizione: era stata la passione di Nût e Geb, incapaci di staccarsi l'uno dall'altra, a impedire la nascita della nuova generazione divina e, su un diverso piano, il proseguimento del processo creativo.

Non sappiamo ovviamente quanto del racconto di Ploútarkhos derivi da fonti egizie e quanto sia stato da lui ulteriormente interpretato. Il fatto che Ploútarkhos fosse un iniziato, molto addentro al pensiero teologico, non lo rende, paradossalmente, una fonte del tutto attendibile. Non dimentichiamo che il mito teogonico da lui riferito è probabilmente il punto d'arrivo di una speculazione mitica già antica di tremila anni. Tra i Testi delle piramidi che abbiamo analizzato in precedenza e l'De Iside et Osiride di Ploútarkhos c'è un abisso di ventisei secoli. In entrambe le fonti, però, compare una difficoltà che impedisce il proseguimento della creazione, una situazione statica che viene rotta dall'intervento del dio separatore che agisce al fine di permettere al processo creativo di andare avanti. All'origine questo personaggio era Šû, il dio dell'atmosfera, in Ploútarkhos è invece Ḏeḥûtî, il signore della sapienza. Si tratta di un cambiamento significativo, che mostra in quale modo l'antico mito egiziano fosse stato reinterpretato nel corso dei secoli. È curioso il fatto che in Ploútarkhos Ḏeḥûtî sembri non avere alcuna genealogia. Scaturisce dal nulla, un po' come l'Éros in Hēsíodos, allo scopo di superare l'ostacolo che impedisce alla dea-cielo di dare alla luce i suoi figli. Con Ploútarkhos ci troviamo sicuramente in un piano più attento ai significati misterici. Ḏeḥûtî non è l'Amore, non è il Soffio Vitale, ma è la Sapienza. L'increata Sapienza dei primordi. La stessa Sapienza [Ḥọkmāh] che troviamo nei libri poetici della Bibbia, laddove essa stessa annuncia:

Mē‘ôlām nissakətiy mērō’š miqqadəmê-’ārẹṣ.

Dall'eternità fui stabilita, dal principio, prima che la terra fosse.

Bə’ên-təhōmôt ḥôlālətî bə’ên ma‘əyānôt nikəbadêy-mâyim. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; prima delle sorgenti cariche d'acqua.

Bəṭẹrẹm hārîm hāṭəbāû lip̄ənê ḡəbā‘ôt ḥôlālətî.

Prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata.

Mišlēy ‹Proverbi› [8: 23-25]

Non abbiamo purtroppo tutti i dati per decifrare questo immenso affresco del pensiero umano, per capire dove e quando e perché gli eventi mitici siano stati inventati, interpretati, modificati. Possediamo soltanto alcuni squarci di quella che fu la Sapienza poetica degli antichi, di cui in questo modesto saggio stiamo cercando semplicemente di mostrare alcuni dettagli.

GRECIA: LA PAROLA A HĒSÍODOS

Ma adesso ritorniamo in Grecia antica, presso il grande Hēsíodos e la sua poderosa Theogonía. Avevamo lasciato la dea-terra , emersa spontaneamente dal Cháos, la quale aveva a sua volta generato il dio-cielo Ouranós. E ora terra e cielo, e Ouranós, si uniscono in un cosmico amplesso che spazio non lascia per nuove creazioni. Anche se intorno a loro venivano alla luce altre creature, come l'Erebo, la Notte, il Giorno, l'Etere, e Ouranós continuavano a occupare tutto lo spazio disponibile, uniti l'uno all'altra in una sorta di coito totalizzante, nel cui atto si esauriva praticamente la totalità dell'universo.

Dall'unione tra , la terra dall'ampio petto, e l'Ouranós stellato che la avvolgeva tutta d'intorno, nacquero i tremendi Titânes:

...Autàr, épeita
Ouranôı eunētheîsa ték' Ōkeanòn bathydínēn
Koîón te Kreîón th' Hyperíoná t' Iapetón te
Theían te Rhéan te Thémin te Mnēmosýnēn te
Phoíbēn te chrysostéphanon Tēthýn t' erateinḗn,
toùs dè méth' hoplótatos géneto Krónos aŋkylomḗtēs,
deinótatos paídōn...
...Dopo, con Ouranós giacendo,
[] generò Ōkeanós dai gorghi profondi,
e Koîos e Kreîos, e Hyperíōn e Iapetós,
Theía, Rhéa, Thémis e Mnēmosýnē,
e Phoíbē dall'aurea corona, e l'amabile Tēthýs,
e dopo questi, per ultimo, nacque Krónos dai torti pensieri,
il più tremendo dei figli...
Hēsíodos: Theogonía [132-138]

Dodici erano i Titânes, sei maschi e sei femmine.

  • Ōkeanós
  • Koîos
  • Kreîos
  • Hyperíōn
  • Iapetós
  • Krónos
  • Theía
  • Rhéa
  • Thémis
  • Mnēmosýnē
  • Phoíbē
  • Tēthýs

Ma, dice Hēsíodos, i figli di furono presi in odio dal padre loro Ouranós, e fin dall'inizio, appena uno di essi veniva generato, Ouranós non gli permetteva di nascere e tutti li costringeva a rimanere nel profondo ventre di .

Hóssoi gàr Gaíēs te kaì Ouranoû exegénonto,
deinótatoi paídōn, sphetérōı d' ḗchthonto tokêi,
ex archês, kaì tôn mèn hópōs tis prôta génoito,
pántas apokr
ýptaske kaì es pháos ouk aníeske
Gaí
ēs en kenthmôni, kakôı d' epetérpeto érgōı,
Ouranós...
Ma quanti da e Ouranós nacquero,
ed erano i più tremendi dei figli, furono presi in odio dal padre
fin dall'inizio, e appena uno di loro nasceva,
tutti li nascondeva, e non li lasciava venire alla luce,
nel seno di , e si compiaceva della sua malvagia opera
Ouranós
...
Hēsíodos: Theogonía [154-159]

In altre parole, come l'universo era impedito nella sua esistenza dall'egoismo di Ouranós, che tenendosi in intima unione con la sua sposa non lasciava spazio per l'esistenza di qualsiasi altra cosa, così ai suoi figli era negata una nascita. Si tratta dello stesso motivo che abbiamo già trovato nel mito egizio, nella versione di Ploútarkhos. La pretesa di Ouranós di impedire la nascita dei figli dal ventre di , ricorda la maledizione che tum aveva gettato su Nût, impedendole di generare una discendenza.

Ma , che portava in grembo dei figli senza poter darli alla luce, non poteva permettere che tale stato di cose continuasse per sempre. Così trasse da sé stessa una falce e con essa armò la mano di Krónos, l'ultimo nato.

Ed ecco la drammatica vicenda secondo le parole di Hēsíodos:

Hḕ d' entòs stonachízeto Gê pelṓrē
steinoménē, dolíēn dè kakḕn epephrássato téchnēn.
Aîpsa dè poiḗsasa génos polioû adámantos
teûze méga drépanon kaì epéphrade paisì phíloisin,
eîpe dè tharsýnousa, phílon tetiēménē êtor:
«paîdes emoì kaì patròs atasthúlou, aí k' ethélēte
peíthesthai, patrós ke kakḕn teisaímetha lṓbēn
hymetérou, próteros gàr aeikéa mḗsato érga».
Hṑs pháto, toùs d' ára pántas hélen déos, oudé tis autôn
phthégxato. Tharsḗsas dè mégas Krónos aŋkylomḗtēs
aîps' aûtis mýthoisi prosēúda mētéra kednḗn:
«mētér, egṓ ken toûto g' hyposchómenos telésaimi
érgon, epeì patrós ge dysōnýmou ouk alegízō
hēmetérou, próteros gàr aeikéa mḗsato érga».
Hṑs pháto: gḗthēsen dè méga phresì Gê pelṓrē,
eîse dé min krýpsasa lóchōı, enéthēke dè chersìn
hárpēn karcharódonta, dólon d' hypethḗkato pánta.
Ma dentro si doleva prodigiosa, stipata;
allora escogitò un artificio ingannevole e malvagio.
Presto, creata la specie del livido ádamas,
fabbricò una gran falce e si rivolse ai suoi figli,
e disse, a loro aggiungendo coraggio, afflitta nel cuore:
«Figli miei e d'un padre scellerato, se voi volete
obbedirmi potremo vendicare il malvagio oltraggio del padre
vostro, ché per primo concepì opere infami».
Così disse, e tutti allora prese il timore, né alcuno di loro
parlò; ma, preso coraggio, il grande Krónos dai torti pensieri
rispose con queste parole alla madre sue illustre:
«Madre, sarò io, lo prometto, che compirò questa
opera, ché d'un padre esecrabile cura non ho,
sia pur mio, che per primo compì opere infami».
Così disse, e gioì grandemente nel cuore prodigiosa,
e lo pose nascosto in agguato; e gli diede in mano
la falce dai denti aguzzi e ordì tutto l'inganno.
Hēsíodos: Theogonía [159-175]

Ci siamo. Armato della falce dai denti aguzzi, Krónos dai «torti pensieri» si pone in agguato, all'interno di quel grembo materno dal quale non è ancora venuto alla luce, e attende il momento propizio. Splendida la scena dell'arrivo di Ouranós, nella quale Hēsíodos riesce ad armonizzare l'elemento cosmico con quello antropomorfo.

Êlthe dè nýkt' epágōn mégas Ouranós, amphì dè Gaíēı
himeírōn philótētos epéscheto, kaí rh' etanýsthē
pántēı, ho d' ek lochéoio páis ōrézato cheirì
skaiêı, dexiterêı dè pelṓrion éllaben hárpēn,
makrḕn karcharódonta, phílou d' apò mḗdea patròs
essyménōs ḗmēse...
Venne, portando la notte, il grande Ouranós, e attorno a
desideroso d'amore, incombette e si stese
dovunque. Ma dall'agguato il figlio si sporse con la mano
sinistra, e con la destra prese la falce terribile,
grande, dai denti aguzzi, e i genitali del padre
con forza tagliò...
Hēsíodos: Theogonía [176-181]

Grazie all'intervento di Krónos quale dio separatore, il cielo e la terra vennero per sempre separati. Urlante e sanguinante, Ouranós si staccò dalla terra e finalmente i figli di vennero alla luce. Il taglio del membro di Ouranós avrebbe impedito al cielo ogni futuro ricongiungimento con la terra. Da questo momento in poi, Ouranós non avrà più alcuna attività generatrice, ma rimarrà accanto a come saggio consigliere.

Dai Titânes nasce una lunga progenie di divinità che popolano la terra, il cielo e il mare, di cui Hēsíodos traccia abbondantemente la genealogia, spiegandoci come siano venuti a essere i princìpi divini di tutte le cose. Krónos, che aveva «torti pensieri», è ora il sovrano di questa felice età, e Rhéa è sua sposa. Dalla loro unione nasce una nuova generazione di dèi.

Rheíē dè dmētheîsa Krónōı téke phaídima tékna,
Histíēn Dḗmētra kaì Hḗrēn chrysopédilon,
íphthimón t' Aídēn, hos hypò chthonì dṓmata naíei
nēleès êtor échōn, kaì epíktypon Ennosígaion,
Zêná te mētióenta, theôn patér' ēdè kaì andrôn,
toû kaì hypò brontês pelemízetai eureîa chthṓn.
Rhéa, poi, unitasi a Krónos, partorì illustri figli,
Hestía, Dēmḗtēr ed Hḗra dagli aurei calzari
e il forte Hádēs, che sotto la terra ha la sua dimora,
spietato nel cuore, e il forte tonante Ennosígaios [Poseidôn],
e Zeús prudente, degli dèi e degli uomini;
sotto il suo trono trema l'ampia terra.

Hēsíodos: Theogonía [453-458]

Ma per qualche oscura legge del contrappasso, Ouranós e profetizzano a Krónos che, com'egli aveva strappato la suprema regalità a suo padre, così era destinato a essere spodestato a sua volta da uno dei suoi figli. Fu così che Krónos mette in atto un'orrenda risoluzione:

Kaì toùs mèn katépine mégas Krónos, hṓs tis hékastos
nēdúos ex hierês mētròs pròs goúnath' híkoito,
tà phronéōn, hína m
ḗ tis agauôn Ouraniṓnōn
állos en athanátoisin échoi basilēída tim
ḗn.
Peútheto gàr Gaíḗs te kaì Ouranoû asteróentos
hoúneká hoi péprōto heôı hypò paidì damênai,
kaì kraterôı per eónti, Diòs megálou dià boulás;
tôı hó g' ár' ouk alaoskopiḕn échen, allà dokeúōn
paîdas heoùs katépine, Rhéēn d' éche pénthos álaston.
Ma questi [figli] li divorava il grande Krónos, appena ciascuno
dal ventre della sacra madre ai suoi ginocchi arrivava,
e ciò escogitava perché nessuno degli illustri figli di Ouranós
fra gli immortali avesse il potere regale.
Infatti aveva saputo da e da Ouranós stellato
che per lui era destino l'essere vinto da un figlio
per forte che fosse, per il volere di Zeús grande;
a ciò non inutile guardia faceva, ma sempre in sospetto
i figli suoi divorava, e un dolore crudele teneva Rhéa.

Hēsíodos: Theogonía [459-467]

Saturno divora suo figlio

Dipinto di Pieter Paul Rubens. 1636.

I figli che dà alla luce, Rhéa li presenta a Krónos, com'era uso affinché il padre li riconoscesse come suoi legittimi discendenti. Ma Krónos, re dell'universo, ha saputo che uno dei suoi figli lo spodesterà a sua volta, come già lui aveva spodestato suo padre Ouranós, e se non vuole perdere la sua regalità non può permettersi di avere una discendenza. Così al riconoscimento fa seguire l'eliminazione.

È stato Ouranós ad avvertire Krónos del destino che lo attende. L'antico dio-cielo era stato privato della virilità e della regalità: che Krónos si macchi adesso del delitto del padre, perdendo allo stesso modo la propria legittimità a regnare! È questa la vendetta di Ouranós. E così, i figli e le figlie che Rhéa, dopo aver partorito, deposita nelle braccia del padre, uno a uno Krónos li divora. Al contrario si suo padre, Krónos non respinge i suoi figli nel ventre della madre, impedendo a essi una nascita, ma dà loro diretta sepoltura nel proprio stomaco.

La situazione è capovolta. Mentre con Ouranós il tempo era congelato nell'immutabilità primordiale, con Krónos il tempo sembra capovolto. Il ventre maschile sembra configurarsi qui come antitesi dell'utero femminile. I figli che la madre dà alla luce, il padre li riconduce alle tenebre.

Cinque figli partorisce Rhéa, tre femmine e due maschi: Hestía, Dēmḗtēr, Hḗra, Hádēs e Poseidôn. E tutti scompaiono nella vorace bocca del padre. Grande è il dolore di Rhéa nel vedere la propria discendenza annullata nel momento stesso in cui si è affacciata alla vita. Così, incinta per la sesta e ultima volta, Rhéa sa già che il nascituro è destinato a fare la medesima fine dei suoi fratelli. Ma intervengono Ouranós e con i loro saggi consigli, e Rhéa decide di giocare d'astuzia. Giunto per lei il momento del parto, Rhéa si reca nell'isola di Creta, si rifugia in una grotta sul monte Ditteo e là, nel buio della notte, partorisce segretamente l'ultimo dei suoi figli, Zeús. Poi, dopo aver affidato il bambino alla nutrice Amáltheia, si reca al cospetto di Krónos, consegnandogli al posto del neonato una pietra avvolta dalle fasce.

Krónos, ignaro dello stratagemma, strappa il fagotto dalle mani di Rhéa e la trangugia, credendo si tratti dell'ultimo dei suoi figli. Così Zeús è salvo e nulla può impedire che si compia il destino.

Come dice Hēsíodos:

Tôı dè sparganísasa mégan líthon eŋguálixen
Ouranídēı még' ánakti, theôn protérōn basilêi;
tòn tóth' helṑn cheíressin heḕn eskáttheto nēdún,
schétlios, oud' enóēse metà phresín, hṓs hoi opíssō
antì líthou heòs huiòs aníkētos kaì akēdḕs
leípeth', hó min tách' émelle bíēı kaì chersì damássas
timês exeláan, ho d' en athanátoisin anáxein.
A quello [Krónos] poi, avvolta di fasce, una grande pietra [Rhéa] dette,
al figlio di Ouranós, grande signore, primo re degli dèi;
egli la prese con le sue mani e giù la inghiottì nel suo ventre
sciagurato, e non pensava che,
al posto del sasso, suo figlio invitto e indenne
gli era rimasto, e che quello presto lo avrebbe vinto per forza di braccia,
cacciato dal trono e fra gli immortali avrebbe regnato.

Hēsíodos: Theogonía [485-491]

Zeús viene nascosto a Creta. La sua culla viene sospesa al ramo di un albero, affinché Krónos non possa trovare il neonato né in cielo e né in terra. La nutrice Amáltheia, che alcuni dicono fosse una ninfa, altri una capra, nutre il piccolo col latte delle sue mammelle e i Cureti intrecciano fragorose danze guerriere intorno alla grotta dittea, battendo le lance contro gli scudi di bronzo, per nascondere i vagiti del neonato al crudele genitore. E quando, col trascorrere degli anni, Zeús diviene un giovane grande e vigoroso, si presenta a suo padre Krónos e riesce a fargli a bere una pozione che lo costringe a vomitare dapprima la pietra, poi i cinque figli che aveva ingoiato. Hestía, Dēmḗtēr, Hḗra, Hádēs e Poseidôn tornano alla luce. A questo punto, Zeús e i suoi rinati fratelli combattono una lunga guerra contro Krónos e i titânes che lo spalleggiano. Sconfitto, Krónos viene privato della regalità e Zeús diviene il nuovo sovrano dell'universo.

Hòn gónon hàps anéēke mégas Krónos aŋkylomḗtēs,
nikētheìs téchnēısi bíēphí te paidòs heoîo.
Prôton d' exḗmēse líthon, pýmaton katapínōn,
tòn mèn Zeùs stḗrixe katà chthonòs euruodeíēs
Pythoî en ēgathéēı, guálois hýpo Parnēssoîo,
sêm' émen exopísō, thaûma thnētoîsi brotoîsi...
...Il grande Krónos dai torti pensieri risputò i suoi figlioli,
vinto dalle arti e dalla forza del figlio.
Per prima vomitò la pietra che ultima aveva mangiato,
e che Zeús fissò nella terra dagli ampi cammini,
in Pythó divina, sotto i gioghi del Parnassós,
che un segno fosse in futuro, meraviglia per i mortali...

Hēsíodos: Theogonía [495-500]

Il sofferto passaggio di consegne da Krónos, sovrano della generazione titanica, a Zeús, sovrano della generazione olimpica, sembra esclusivo del mito greco, non trovandosi nulla di simile nel mito egiziano. È il motivo della successione alla suprema regalità. Stessa cosa dicasi della scena, davvero truculenta, del vecchio re che divora i suoi figli, di cui possiamo facilmente immaginare le implicazioni psicanalitiche. È anche interessante il particolare della pietra che viene ingoiata in luogo di un figlio e che in seguito viene fatta vomitare. Stando alla testimonianza di Pausanías, questa pietra veniva conservata a Delfi in piena età storica, dove era oggetto di un particolare culto (Helládos periḗgēsis [X: 24: 6]).

PROBLEMI D'INTERPRETAZIONE

Rhéa consegna a Krónos una pietra avvolta nelle fasce in luogo del figlio.
Bassorilievo in marmo su una metopa. ±350 a.C.
Musei Capitolini, Roma (Italia).

Quando Ploútarkhos, opera, in De Iside et Osiride, la sua interprætatio græca nei riguardi dei personaggi del mito egizio, incontra tutta una serie di incompatibilità che aggira in modo non del tutto soddisfacente. Ad esempio, poiché in Egitto Nût e Geb sono rispettivamente la dea-cielo e il dio-terra, sembra ovvio che Ploútarkhos dovrebbe identificarli con e Ouranós, la dea-terra e il dio-cielo del mito greco, i quali, come i loro equivalenti egizi, vennero separati con a forza al fine di garantire la continuazione del processo creativo. Invece Ploútarkhos li identifica con Rhéa e Krónos, i quali appartengono in realtà alla generazione titanica.

Il problema è che Ploútarkhos cerca delle omologie con personaggi non omologhi, quando forse avrebbe dovuto cercare piuttosto delle analogie. Ma anche qui avrebbe incontrato difficoltà insormontabili, non ultima il fatto che in Egitto il cielo è femminile e la terra maschile, laddove in Grecia, come presso tutti i popoli di origine indoeuropea, è esattamente il contrario. Non c'è dunque alcuna possibilità di operare associazioni tra Nût e Geb da un lato e e Ouranós dall'altro, per il semplice fatto che i sessi non corrispondono, e Ploútarkhos mirava a comparare i personaggi divini piuttosto che le situazioni in sé stesse.

Ma anche a interpretare Nût e Geb secondo Rhéa e Krónos, s'incontrano altre difficoltà, la prima delle quali è che in tal modo viene tagliato fuori il dio separatore, che nel mito greco è proprio Krónos. Potrebbe forse essere questa la ragione per cui Ploútarkhos ignora Šû e il suo ruolo di separatore nel mito egiziano. Ma evidentemente Ploútarkhos, sulla scolta dei sapienti che prima di lui avevano operato comparazioni tra il mito egizio e quello greco, segue un criterio basato sulla posizione genealogica dei personaggi. In Egitto Šû era padre del cielo e della terra, laddove in Grecia il titano Krónos ne era invece figlio. Non vi era alcuna possibilità di confrontare i due personaggi nelle loro funzioni. Invece, come nel mito greco Krónos è re della generazione titanica e padre di Zeús e degli dèi della generazione olimpica, così nel mito egizio Geb è padre di Ûsr e dei suoi fratelli e sorelle. In tal modo si giustifica l'operato di Ploútarkhos... ma il suo è il ragionamento del teologo e non del comparatore di miti.

Il mito della separazione del cielo e della terra è attestato sia in Egitto che in Grecia, ma i protagonisti non coincidono. Si ha l'impressione che i personaggi del mito esiodeo siano stati posti a recitare in un mito di cui non erano gli originari protagonisti. Se noi andiamo a confrontare il mito greco con quello di altri popoli indoeuropei, troveremmo delle omologie a livelli dei personaggi ma nessuna analogia nella loro funzione. I miti dell'India vedica, ad esempio, contemplano ugualmente una dea-terra e un dio-cielo, i cui nomi sono Pṛthivī Mātar e Dyaus Pītar, ma essi sono piuttosto omologhi, anche nell'etimologia, a Dēmḗtēr e Zeús Patḗr. E nessun mito indiano racconta di una loro forzata separazione a opera di un dio atmosferico. Il dio-cielo esiodeo, Ouranós, era in origine, probabilmente, la versione ellenica del vedico Varuṇa, dio dal carattere magico e terrifico, custode dei patti e dei giuramenti, dapprima dio uranico, in seguito trasformato in dio dell'oceano. E anche Krónos, colui che, assumendo il ruolo di dio separatore che altrove apparteneva a Enlil e Šû, doveva essere in origine un personaggio affatto diverso.

Ci sarebbe molto da dire su Krónos. I filologi negano il fatto che egli sia stato un dio del tempo (in greco chrónos è scritto con il chi X e non col kappa K), ma non la pensavano così, a quanto pare, gli stessi teologi del mondo classico. Il colpo di falce col quale Krónos aveva separato i genitori, era visto, su un piano più metafisico, come l'atto che aveva spezzato l'eternità immutabile e aveva dato origine al flusso del tempo e dunque a questo nostro mondo temporale che gli Egiziani sapevano indiscindibile dalla paura e dalla morte. Krónos era a tutti gli effetti l'iniziatore del tempo, il signore della felice età dell'oro. Come tale, è forse possibile ritrovarlo in India col nome di Yama, il primo uomo a sperimentare la morte per divenire re dell'oltretomba. In Īrān è Yima, uno degli antichissimi sovrani che Ferdowsī canta nello Šāhnāmè persiano. A Roma viene in seguito identificato con Saturnus, un antico dio laziale della semina e del raccolto, anch'egli considerato il signore di un'età remota e felice. La falce dentata di ádamas con cui Krónos aveva compiuto l'atto fatale, si sarebbe specchiata nella falce presente nell'iconografia agricola di Saturnus. Tale falce, simbolo del tempo che tutto consuma, sarebbe ricomparsa nelle figurazioni medievali, ma questa volta impugnata dalla sinistra mano della Morte.

Il mito greco sembra essere dunque una convergenza di tradizioni. Personaggi appartenenti all'antico fondo comune del mito indoeuropeo vengono utilizzati da Hēsíodos in una narrazione affatto differente, di probabile origine egiziana o mediorientale, dove un dio opera la separazione del cielo e della terra, che nella loro egoistica unione impedivano la giusta continuazione dell'opera della creazione, e quindi dà l'avvio alla successiva generazione divina. Altra differenza è che in Egitto Šû, dopo aver separato il cielo e la terra, è rimasto per sempre bloccato nello spazio intermedio, eterna colonna lì posta a impedire al cielo e alla terra di ricongiungersi, laddove invece in Hēsíodos Krónos si sbarazza per sempre del problema evirando il padre con un colpo di falce.

Ma si può ancora notare che il mito egizio di Šû, eliminato dalla cosmogonia greca, sia ugualmente entrato, per così dire, dalla porta di servizio. Lo ritroviamo infatti nelle vesti del titano Átlas, che ai confini del mondo è condannato a sostenere il cielo sulle sue possenti spalle.

Constatati così i numerosi debiti che il mito greco deve all'Egitto e al Medio Oriente, rimangono tuttavia ampie zone d'ombra. Ad esempio, il motivo dell'evirazione di Ouranós è completamente ignorato nelle altre versioni del mito della dio separazione del cielo e della terra. Il mito greco ha dunque debiti anche con altri popoli, e ora vedremo con chi.

RICERCHE IN ANATOLIA

Dice Poseidôn, dio del mare e dei terremoti:

Treîs gár t' ek Krónou eimèn adelpheoì hoùs téketo Rhéa
Zeùs kaì egṓ, trítatos d' Aḯdēs enéroisin anássōn.
Trichthà dè pánta dédastai, hékastos d' émmoretimês,
ḗtoi egṑn élachon poliḕn hála naiémen aieì
palloménōn, Aïdēs d' élache zóphon ēeróenta,
Zeùs d' élach' ouranòn en aithéri kaì nephélēısi,
gaîa d' éti xynḕ pántōn kaì makròs Ólympos.
Tre sono i figli di Krónos che Rhéa generò,
Zeús, io, e terzo Hádēs signore degli inferi.
E tutto in tre fu diviso, ciascuno ebbe una parte:
a me toccò di vivere sempre nel mare canuto,
quando tirammo le sorti, Hádēs ebbe l'ombra nebbiosa,
e Zeús si prese il cielo fra le nuvole e l'etere;
comuni a tutti la terra e l'alto Olimpo rimane.

Omero: Iliade [XV: 187-193]

Omero conosceva dunque una generazione precedente alla olimpica, la stirpe titanica, a cui appartenevano Krónos e Rhéa. Ma egli – come vedremo – attribuiva l'origine degli dèi a Ōkeanós e Tēthýs e non trattava il mito di e Ouranós e della loro separazione.

È Hēsíodos a farlo, utilizzando personaggi che in origine dovevano avere un ruolo del tutto diverso, narrandoci della difficile nascita dei Titânes, della cruenta evirazione del dio-cielo e trattando il tema della separazione del cielo e della terra. Una vicenda che ha sicure attinenze con l'Egitto e l'antica Mesopotamia ma non deriva certo dal fondo indoeuropeo.

Non tutti i dati collimano. E di sicuro altri fattori hanno influenzato il mito greco. Ma quali?

Si è sempre saputo che nel corso del secondo millennio a.C. il mar Egeo era al centro di un vasto traffico di popoli, oggi assai difficile da definire e datare. Non bisogna sottovalutare la complessità di relazioni che nel corso di quasi due millenni i Greci abbiano avuto con i loro dirimpettai anatolici. La guerra di Troia non è stato che il momento più eclatante di questa lunga storia.

H̬attuša

La Porta dei Leoni ad H̬attuša, capitale del regno degli H̬ittiti.
Boğazköy (Turchia).

L'Anatolia. Stiamo parlando di una costellazione di popoli che abitava l'odierna Turchia: Lidi, Palaici, Luviani, H̬ittiti. E più est, gli H̬urriti, che con gli Anatolici avevano da sempre fecondi e ripetuti contatti. E tutto questo fervido mondo culturale, ancora non ben conosciuto, risentiva dell'influenza che arrivava, fortissima, dalla Mesopotamia. Fu per loro tramite che molti elementi della cultura mesopotamica giunsero in tempi remoti fino alla lontana Grecia.

Quando i cuneiformi h̬ittiti vennero decifrati, si scoprì con sorpresa che questo popolo apparteneva alla famiglia indoeuropea, anche se a un ramo dai tratti decisamente arcaici. Gli antichi miti anatolici tornarono a parlarci dopo un silenzio di tremila anni e l'innegabile rassomiglianza di questi con i racconti greci balzò subito all'occhio degli studiosi.

Il padre di Hēsíodos proveniva da Cuma, una città dell'Asia Minore. Hēsíodos, nel cantare la Theogonía, doveva avere presenti le versioni dei miti greci che circolavano nel suo paese di origine e che probabilmente risentivano di tradizioni provenienti da oriente. Ma attenzione: non si vuol dire che Hēsíodos abbia trasportato di peso i miti anatolici in Grecia. Più probabilmente molte versioni dei medesimi miti s'intrecciavano in tutti i paesi intorno all'Egeo e i Greci, specialmente coloro che vivevano sulla costa ionica, ne conoscevano diverse varianti.

C'è un testo che gli specialisti chiamano Kumarbis, o «Poema della regalità celeste», a sua volta adattamento anatolico di un mito di origine h̬urrita. Il titolo non è stato scelto a caso, perché da molto tempo gli studiosi hanno rilevato i rapporti tra questo e la Theogonía di Hēsíodos. Il testo, il più famoso dei molti rinvenuti nelle rovine dell'antica capitale del regno h̬ittita, H̬attuša (l'odierna Boğazköy), fu redatto verso la fine del XIII secolo a.C.. Uno scriba a nome Ašh̬apa (questo il nome riportato sulla tavoletta) lo redasse sulla base di un testo ancora più antico che si era rovinato. Purtroppo il testo che ci è arrivato è a sua volta incompleto: metà della tavoletta è andata perduta e la parte conservata, fatta eccezione per la prima colonna, presenta una superficie fortemente abrasa. Il cattivo stato di conservazione del testo limita di molto la comprensione delle vicende narrate e quindi è assai problematico comprendere appieno le ragioni che fanno di questo importantissimo mito il trait-d'union tra la precedente tradizione mesopotamica e la successiva letteratura greca.

Il testo si apre con un invito agli «dèi antichi» [karuileš šiuneš] affinché ascoltino la narrazione. In quanto esistenti fin dagli albori del tempo, essi conoscono tutto quanto è accaduto da allora e sono in grado di testimoniarne la veridicità. Il racconto che segue è composto in uno stile elaborato, ricco di riprese e di apposizioni. Ma vediamolo.

Un tempo, in anni remoti, Alalus era re nel cielo. Alalus sedeva sul trono e il potente Anus, il primo degli dèi, stava davanti a lui; si inchinava ai suoi piedi e gli porgeva nella mano le coppe per bere. Per nove anni contati Alalus fu re nel cielo; ma nel nono anno Anus portò battaglia davanti ad Alalus e sconfisse lui, Alalus.

E questi fuggì davanti a lui e lontano da lui andò giù nella nera terra; andò giù nella nera terra e sul trono sedette Anus. Anus sedeva sul trono e il potente Kumarbis gli dava da bere; si inchinava ai suoi piedi e gli porgeva nella mano le coppe per bere.

Per nove anni contati Anus fu re del cielo; nel nono anno Anus portò battaglia davanti a Kumarbis; Kumarbis, rampollo di Alalus, portò battaglia davanti ad Anus.

E Anus non sostenne gli occhi di Kumarbis e sfuggì a Kumarbis dalla sua mano; ed egli, Anus, se ne andò e cercò di andare in cielo. Kumarbis si precipitò dietro a lui e afferrò lui, Anus, per i piedi e lo tirò giù dal cielo. Addentò i suoi lombi; la sua [di Anus] virilità si unì alle viscere di Kumarbis come bronzo.

Kumarbis

I punti di contatto con il mito esiodeo sono innegabili! Troviamo non solo il motivo della successione alla suprema regalità, ma anche e soprattutto quello della castrazione del dio-cielo.

Non abbiamo alcuna indicazione che possa aiutarci a identificare il personaggio di Alalus. Diverso però è il caso di Anus. Anu era il dio-cielo babilonese, tarda semitizzazione dell'antico An sumerico. Non dobbiamo stupirci di trovarlo nel pantheon anatolico, che accoglie del resto altre divinità di differente origine. È probabile che gli dèi che compaiono nei miti h̬ittiti non siano affatto gli dèi stessi dèi del pantheon mesopotamico, ma siano stati a essi assimilati (in base a chissà quali processi di interpretazione teologica) per il tramite della scrittura cuneiforme. Un confronto tra l'Anus h̬ittita e l'Anu babilonese ci mostra immediatamente che a Babilonia Anu mantenne sempre intatto il suo posto di dio-cielo, situato ancora più in alto di Enlil, che era il re degli dèi, e nessuna delle divinità inferiori si sognò mai lontanamente di deporlo e tantomeno di castrarlo!

Dunque, l'Anus del mito anatolico, pur essendo con tutta probabilità un dio-cielo, poco aveva del potente Anu babilonese. E il motivo della sua castrazione appartiene al fondo h̬ittita e/o h̬urrita, non certo a quello semitico. Dunque, è proprio in questo Anus anatolico che va cercata l'origine dell'Ouranós di Hēsíodos. L'analogia dei due personaggi è perfetta. Il greco ouranós e il sumerico an hanno il medesimo significato di «cielo». È presumibile quindi che un antico dio greco chiamato Ouranós, in origine una divinità dai caratteri affatto diversi, sia stato proprio ridisegnato sul calco del dio-cielo anatolico Anus.

Altra attinenza in entrambi i miti è la castrazione del dio-cielo. Là era Krónos a falciare via il fallo proteso di Ouranós. Qui è Kumarbis a strappare con i denti la virilità di Anus. Prescidendo dalle ovvie implicazioni freudiane, che il primo abbia usato una falce e il secondo i denti sembra un particolare di un certo peso, ma il significato francamente ci sfugge (si ricordi in ogni caso che nel testo esiodeo è detto che la falce aveva «denti aguzzi»).

Ma andiamo avanti con la narrazione del mito:

Quando Kumarbis ebbe inghiottito la virilità di Anus si rallegrò e rise. Anus si volse dietro di lui e prese a dire a Kumarbis: «Tu gioisci in relazione alle tue viscere, perché hai inghiottito la mia virilità. Non gioire per le tue viscere! Nelle tue viscere ho posto un peso! Guarda: ti ho ingravidato nel potente Tarh̬unta, il dio della tempesta; in secondo luogo di ho ingravidato dell'irresistibile fiume Aranzah̬ [il Tigri]; in terzo luogo ti ho ingravidato del possente dio Tašmišu. E due altre terribili divinità ho posto come pesi nelle tue viscere!»

Quando Anus ebbe finito di parlare salì in cielo e si nascose.

Kumarbis, il saggio re, sputò fuori dalla bocca; dalla bocca sputò saliva e sperma mescolati insieme. Ciò che Kumarbis aveva sputato [...] terrore nel cielo.

Kumarbis

Con questa terribile prospettiva per Kumarbis, si chiude la prima tavoletta del testo anatolico. La seconda, purtroppo assai mutila, non permette di seguire nei dettagli il seguito della vicenda. Assistiamo alle difficoltà di Kumarbis di mettere al mondo i figli di cui è stato ingravidato. Alcune divinità, tra cui Anus ed Ea, assistono al parto di Kumarbis, suggerendo ai nascituri come trovare la via per uscire fuori dal corpo del padre loro. Il primo figlio, che dovrebbe essere Aranzah̬, dio del fiume Tigri, viene fuori dal cranio di Kumarbis spezzandolo come si spezza la roccia. Il secondo figlio, il dio del tuono Tarh̬unta, esce, dice il testo, dal «posto giusto» (e tutti ci chiediamo quale sia). Kumarbis si reca poi al monte Ganzura e qui dà alla luce il terzo figlio, che secondo quanto detto precedentemente dovrebbe trattarsi del dio Tašmišu, anche se il testo, non chiaro, sembra presentare un altro nome.

C'è un dettaglio interessante che si colloca subito dopo la nascita del primo figlio (Aranzah̬?).

Quando egli [Kumarbis?] fu in grado di camminare, si presentò davanti a Ea; Kumarbis si piegò e cadde a terra. Kumarbis si riscosse e cercò (?) di nuovo suo figlio [...] e davanti a Ea prese a dire: «Dammi il bambino, voglio divorarlo!» [Qui il brano si fa di difficile interpretazione: si capisce però che Ea consegna a Kumarbis una pietra.] Kumarbis cominciò a mangiare ma la pietra gli urtò i denti nella bocca; quando gli urtò i denti nella bocca, [Kumarbis] cominciò a gridare...

Kumarbis

Kumarbis sputa la pietra. Allora Ea prende questa pietra e vi istituisce sopra un culto, fissando le offerte che gli uomini dovranno fare, ciascuno secondo le proprie possibilità. Le offerte degli uomini aiuteranno la nascita del secondo figlio di Kumarbis, il dio della tempesta Tarh̬unta, che uscirà, abbiamo detto, dal «posto giusto».

A questo punto ci si dovrebbe aspettare che il dio della tempesta Tarh̬unta, secondo il motivo della successione alla suprema regalità, spodesti a sua volta Kumarbis e s'impossessi del trono. Questo episodio, presupposto da altri miti, non si trova nel Kumarbis. Quello che rimane del testo mostra che il desiderio di potere del dio della tempesta viene fortemente ostacolato dagli altri dèi. Anus lo invita alla moderazione, Ea gli diventa nemico e assume egli stesso la regalità. Una lunga lacuna tra la terza e la quarta colonna impedisce di valutare correttamente la conclusione della vicenda. Si parla di alcuni figli che il carro di Tarh̬unta avrebbe generato unendosi con la terra, unione favorita da Ea, ma non è chiaro se questi figli dovranno segnare la fine del contrasto tra le due divinità, oppure Ea, che ne ha favorito la nascita, abbia intenzione di utilizzarli contro lo stesso Tarh̬unta.

Dettaglio più importante, nel mito h̬ittita sembra mancare il motivo della separazione del cielo e della terra. Si può solo notare che, dopo essere stati spodestati, seppure in tempi diversi, Alalus sia fuggito verso il basso, «giù nella nera terra», e Anus verso l'alto, «in cielo». È anche ipotizzabile che con il tempo tale motivo non sia stato più sentito importante di fronte a quello della successione divina, ma si tratta soltanto di ipotesi. A parte questo elemento, però, il parallelo tra il mito anatolico e il testo di Hēsíodos è serrato. Le generazioni divine si rispecchiano assai chiaramente l'una con l'altra e possiamo agevolmente disporle in parallelo:

Kumarbis

Theogonía
di Hēsíodos
 
Alalus Solo una lieve analogia: era la dea-terra, mentre di Alalus si dice solo che dopo essere stato spodestato scese verso la terra.
Anus Ouranós Stretta omologia: si tratta di due divinità del cielo. Inoltre vengono entrambi castrati dal dio della generazione seguente.
Kumarbis Krónos Omologia e analogia: entrambi castrano il sovrano della precedente generazione e ne assumono il rango. Entrambi si presentano in una situazione di «gravidanza»: Kumarbis lo è dei figli generati in lui dal seme di Anus; inoltre, dopo averli «partoriti», minaccia di ingoiare di nuovo. Krónos divora invece i figli avuti da Rhéa, che in seguito è costretto a vomitare. Infine entrambi, anche se per ragioni diverse, ingoiano e quindi vomitano una pietra che diventerà oggetto di culto.
Tarh̬unta Zeús Analogia: si tratta di due divinità legate al tuono (ma solo Tarh̬unta è un dio-tuono originario, Zeús è un dio-cielo a cui è stato in seguito attribuito il dominio del tuono). Omologia: entrambe entreranno in conflitto col padre per la sovranità.

Ma che gli Anatolici conoscessero una versione del mito della separazione del cielo e della terra, ne abbiamo la certezza grazie a un altro mito, conosciuto dagli studiosi come Ullikummi. Questo testo ci è giunto in varie copie, tutte purtroppo frammentarie, e la ricostruzione è stata dura e travagliata.

Kumarbis un brutto giorno concepisce un piano per vendicarsi di suo figlio, il dio della tempesta, che in questo testo non ha il nome h̬ittita di Tarh̬unta ma quello h̬urrita di Tešub, reo di avergli soffiato la suprema regalità. Perciò egli lascia la sua città, Urkiš, e, trovata una pietra di grandi dimensioni, preso dal desiderio, si unisce a lei ingravidandola. La roccia partorisce un bambino. Le dee del fato lo pongono sulle ginocchia di Kumarbis che lo riconosce come suo figlio. Il bimbo è fatto di roccia e Kumarbis gli mette nome Ullikummi. All'inizio Ullikummi viene tenuto nascosto, affinché gli altri dèi non si accorgano della sua esistenza e non lo uccidano. In seguito Kumarbis chiama le divinità Irširra e ordina loro di portare il bambino negli abissi, dove l'antico gigante Upelluri (un parente anatolico di Átlas e Šû) regge la terra e il cielo, e di porlo sulla sua spalla destra. Col tempo, Ullikummi cresce sempre di più, finché il suo corpo emerge dagli abissi del mare e si stende a dismisura verso il cielo. A quel punto gli dèi si radunano sul monte H̬azzi da dove possono scorgere, sull'orizzonte, l'ombra smisurata del gigante.

Ne è particolarmente atterrita la dea Šauška (il cui nome in questo testo è trascritto con il logogramma usato in accadico per Ištâr). E a ben ragione: quel gigante è talmente ottuso da non rendersi conto nemmeno della più piccola cosa, eppure sarebbe capace di distruggere l'universo semplicemente con la sua inarrestabile crescita. Šauška si reca sulla riva del mare, dove usa tutte le sue arti nel tentativo di sedurre il gigante: inutilmente, ché Ullikummi è cieco e sordo, insensibile alle lusinghe e alla bellezza.

Dopo di lei Tašmišu, dio del temporale, si prepara suscitando venti e pioggia. Settanta dèi, guidati dal dio della guerra Aštabi, muovono contro Ullikummi. Il testo è corrotto, anche se apprendiamo che gli dèi vengono sconfitti e persino il potente Tešub viene abbattuto, tanto che sua moglie H̬ebat piange e si dispera, ignorandone la sorte. Alcune righe più sotto ecco però Tešub e Tašmišu discutere la situazione, e dalle loro parole sembra di capire che sia in gioco la stessa regalità suprema.

Più tardi, è lo stesso Ea a muoversi. Il saggio dio scende negli abissi e si rivolge direttamente a Upelluri.

«Possa tu vivere, Upelluri, egli sul quale il cielo e la terra furono costruiti. [...]. Non sai nulla, Upelluri? Non conosci quel veloce dio che Kumarbis ha creato contro gli dèi? [...] Quella diorite che è cresciuta dall'acqua non la conosci? Quella si è alzata come un fungo e ha sovrastato il cielo e i sacri templi! Forse perché, o Upelluri, sei lontano dalla nera terra, non conosci tale veloce dio?»

Upelluri prese a rispondere [ad Ea]: «Quando costruirono il cielo e la terra sopra di me, non seppi nulla; e quando accadde che tagliarono il cielo e la terra con il coltello, neppure allora seppi nulla, ma ora qualcosa mi ferisce la spalla destra e non so chi sia tale dio.»

Quando Ea udì le parole, girò la spalla destra di Upelluri e la diorite si ergeva sulla spalla come una lama (?).

Ullikummi [III: 27-43]

«Tagliarono il cielo e la terra con un coltello...» Quanto ci piacerebbe poter interrogare noi stessi il torpido Upelluri per conoscere nei dettagli questo particolare della cosmogonia h̬ittita! Apprendiamo da questo laconico scambio di battute, che il cielo e la terra erano stati «costruiti» in una sola massa sopra l'abissale titano e che a un certo punto erano stati separati tagliandoli con un coltello.

Ea si reca allora dagli «dèi antichi» [Karuileš šiuneš], i quali sono i custodi dei magazzini dove vengono conservate le cose dei tempi della creazione, e li investe dicendo:

«Ascoltate le mie parole, o dèi antichi, che [esistete] fin dall'antichità e conoscete i fatti! Riaprite i magazzini degli antenati! Si porti il sigillo degli antichi padri e con esso di nuovo i magazzini siano sigillati e si porti fuori l'antica sega con la quale si separarono il cielo e la terra e si tagli sotto i piedi di Ullikummi, la diorite, che Kumarbis fece crescere per combattere gli dèi!»

Ullikummi [III: 47-53]

Il coltello qui è diventato una sega. Quel che sia, viene subito in mente Krónos e il suo falcetto. Un'altra lacuna alla base della terza colonna impedisce di comprendere il seguito della vicenda. La quarta colonna è inizialmente mutila, dopodiché si assiste a un'altra battaglia tra Tešub e Ullikummi. Sembra di capire che nel frattempo gli altri dèi stiano segando le gambe del gigante. Poiché il finale della tavoletta è andato perduto, non sappiamo che cosa sia accaduto. È presumibile che gli dèi abbiano abbattuto Ullikummi, salvando così l'universo e frustrando i piani di Kumarbis.

GLI H̬URRITI: DÈI DI ANTICHE GENERAZIONI

Il Kumarbis era la versione anatolica di un mito proveniente ancora più da est. Gli h̬urriti occupavano un vasto territorio compreso l'alta valle del Tigri, il massiccio dell'Armenia, l'Antitauro e il deserto siriano. Da questa posizione, essi svolsero un ruolo di primo piano non tanto per l'originalità della loro cultura, in gran parte debitrice alla Mesopotamia babilonese, quanto per la trasmissione della cultura mesopotamica verso l'Anatolia e la Siria cananea. La loro lingua, ancora in corso di decifrazione, non apparteneva né al gruppo semitico né a quello indoeuropeo, ma era imparentata con la lingua del regno di Urarṭu, che si trovava dove oggi è l'Armenia. Quasi tutti i testi h̬urriti che ci sono pervenuti, quando non sono traduzioni di composizioni babilonesi, cananee o h̬ittite, sono testi religiosi e liste divine. Ragione per cui conosciamo abbastanza bene il pantheon di questo popolo.

Il dio principale era Tešub, dio del tuono, che abbiamo già incontrato nel mito anatolico di Ullikummi al posto del locale dio-tuono Tarh̬unta. Sua paredra era H̬ebat. Tra i principali dèi figuravano Šuwaliyat, Eya, Šauška, Aštabi, Išh̬ara, Kušuh e Šimegi (il sole e la luna). Lo stesso Kumarbis era un dio di origine h̬urrita.

Le liste divine h̬urrite in genere presentano gli dèi elencati in coppie di maschio e femmina. Molto spesso le successioni si ripetono nelle varie liste, facendo capire che i teologi h̬urriti avevano un'idea assai meditata delle gerarchie e dei poteri divini. Gli elementi dello spazio geografico erano parimenti divinizzati: vi era infatti una coppia costituita da un dio-cielo e da una dea-terra, più svariate divinità dei monti, dei fiumi, dei laghi e via dicendo. Lo studio delle gerarchie divine ha mostrato che l'organizzazione del pantheon operato dagli H̬urriti ricalcava il sistema babilonese allora in vigore. La successione della lista di H̬attuša (Kumarbis, Eya, Kušuh̬, Šimegi, Aštabi) è costruita pari pari su quella babilonese (Enlil, Ea, Sîn, Šamaš, Ninurta). La presenza del dio del tuono Tešub in posizione di preminenza nella lista di Aleppo era determinata da quella, già realizzata, di Adad e Ba‘al nel mondo semitico occidentale. Insomma, la teologia babilonese era un po' la chiave con la quale i sacerdoti h̬urriti si erano sforzati di interpretare il loro pantheon.

Kumarbis era una divinità h̬urrita di un certo peso, solo in seguito passata al mondo anatolico. Gli H̬urriti la identificarono via via al cananeo El, oppure al sumerico-babilonese Enlil. Si trattava in ogni caso di un dio sentito come antico e remoto, legato alla regalità primordiale e alla creazione. Gli H̬urriti ponevano Kumarbis tra gli «dèi antichi» [karuileš šiuneš], di cui abbiamo già fatto conoscenza nell'Ullikummi, coloro che custodivano il coltello che aveva separato il cielo e la terra. Troviamo questi «dèi antichi» elencati in varie liste o rituali h̬urro-h̬ittiti. Una lista dei loro nomi è la seguente:

  • Nara e Napsara
  • Minki e Munki
  • Tuh̬usi e Ammizadu
  • Alalu
  • Kumarbis
  • Anu e Antum
  • Enlil e Ninlil

Si tratta evidentemente di una forma locale degli Anunnaki sumerici, gli dèi mesopotamici della vecchia generazione, che, secondo alcuni testi, risiedevano nel profondo della terra. Il fatto che tutte queste divinità h̬urrite venissero chiamate «antiche», appartenenti a un tempo ormai trascorso, e che nessuna di queste (a parte Kumarbis) svolgesse un ruolo apprezzabile nel mito, né fosse oggetto di sacrifici e preghiere, provano che abbiamo a che fare con dèi in pensione, decaduti, riprovati, rigettati nelle tenebre degli abissi.

Se a questo poi aggiungiamo il fatto che gli «dèi antichi» della lista h̬urrita sono in dodici e, con la sola eccezione di Alalu e Kumarbis, disposti a coppie di una divinità maschile con l'equivalente femminile, non si può fare a meno di constatare che anche in Hēsíodos i Titânes erano in dodici, erano disposti in coppie e vennero relegati nelle viscere della Terra. Al Kumarbis h̬urro-h̬ittita corrisponde dunque, in Hēsíodos, Krónos «dai torti pensieri». È evidente che stiamo scendendo alle origini stesse del mito greco.

Dietro a questi miti profila la nozione di una regalità divina che passa da una dinastia alla successiva, di un potere trasmesso da una generazione titanica a una generazione divina, da forze cosmiche e disordinate a energie coscienti e razionali. L'idea è quella che abbiamo trovata sottesa a tutta la mitologia h̬ittita, che è per buona parte di origine h̬urrita. Il ciclo di Kumarbis è per noi testimonianza eccellente di questa storia mitica, che Hēsíodos avrebbe infine trasmesso al mondo classico ma di cui nell'VIII secolo lui era soltanto l'ultimo cantore in occidente.

Il mitema della successione alla suprema regalità era già era presente nel grande mito babilonese dell'Enûma Elîš, ma lo troviamo diffuso, in una forma piuttosto diversa, in ambito indoeuropeo. Ci si può ancora chiedere quale fosse l'origine di questo motivo presso gli H̬urriti: vi erano senza dubbio profonde radici babilonesi... ma indoeuropee? Ebbene, nella mitologia h̬urrita era presente, in un certo grado, una componente indoeuropea, giunta nella regione all'epoca in cui le tribù h̬urrite si erano unite in uno stato politicamente organizzato, il regno di Mitanni, nell'alta Mesopotamia. Gli dèi di Mitanni erano conosciuti già dalla fine dell'Ottocento, quando dagli archivi di al-‘Amārna, in Egitto, era venuta alla luce la lettera del re Tušratta al faraone Ỉmen-ḥutep/Aménophis. Essi erano: Tešub, Šauška ed Eašarri.

Nel 1907, però, fu rinvenuto, negli scavi di H̬attuša, in Anatolia, un trattato, redatto questa volta in accadico, del re h̬ittita Šuppiluliuma I (1380 a.C.), il quale regolava le sorti del paese dei Mitanni dopo la sua conquista a opera degli H̬ittiti, enumerando quali garanti del trattato sia gli dèi anatolici che quelli h̬urriti. È una lista abbastanza strana, dove mancano grandi divinità nazionali come Kumarbis, Hebat e Šauška, ma troviamo elencate delle divinità che non ci saremmo mai aspettati di trovare, quali Mitrašil, Uruwanašil, Indara e Nasatianna. Queste erano le divinità di una casta militare di origine proto-ariana, i maryani, i cui membri, per ragioni che rimarranno per sempre sconosciute, offrivano i propri servigi nel regno di Mitanni. Per quanto h̬urritizzate, queste divinità rivelano i nomi degli dèi più importanti dell'India vedica: Mitra e Varuṇa, Indra, i due Nāsatya, e perdipiù disposti nello stesso ordine funzionale in cui compaiono negli inni del Ṛg-veda.

Ora gli indiani, membri rispettabilissimi della grande famiglia indoeuropea, conoscevano l'antico mito della titanomachia, essi sapevano che gli antichi Asura si erano scontrati con i più giovani Deva. È forse un po' troppo ottimista andare a cercare in India i dettagli del passaggio di consegne tra generazioni divine che abbiamo visto attestato in Hēsíodos e nei miti h̬urro-h̬ittiti. Si può solo far notare che gli «dèi antichi», che in Grecia sarebbero stati identificati con i Titânes, avevano in India una corrispondenza con gli Asura. Non ci può istituire un parallelo preciso, né comprendere i quale modo le divinità indiane siano state recuperate dai teologi h̬urriti. I Greci, tuttavia, che con gli Indiani avevano in comune le medesimi radici indoeuropee, non devono aver fatto molta fatica a riconoscere in queste storie di lotte tra generazioni divine che arrivavano loro dall'Anatolia, i loro stessi miti più antichi.

CONCLUSIONE

Il tema della separazione del cielo e della terra, che presenta molti tratti simili tra svariati popoli dell'antichità, può essere riassunto in questi punti:

  1. L'origine di tutte le cose è una situazione di confusione caotica, vista in forma liquida o intesa come spazio vuoto.
  2. Prima cosa a emergere dal caos sono il cielo e la terra, così strettamente avvinti l'uno all'altra da non lasciare alcuno spazio perché altre cose possano venire alla luce.
  3. Alla seguente generazione divina viene impedita una nascita.
  4. Quest'impedimento alla successiva evoluzione dell'universo è superata grazie a un dio separatore, un dio atmosferico che separa il cielo e la terra, costringendo il primo verso l'alto e la seconda verso il basso, e facendo così spazio per la successiva creazione.
  5. Nasce una nuova generazione divina, che spodesterà il vecchio dio separatore e procederà nel motivo della successione alla suprema regalità, dando spazio all'ultima generazione divina.

Le origini di questo mito sembrano essere mesopotamiche. Ne troviamo tracce tra i Sumeri, che a quanto pare ne conosceva una qualche versione in epoca precedente all'invasione semitica. Le origini degli stessi Sumeri non sono ben chiare: questo antichissimo popolo, che parlava una lingua agglutinante, sembra fosse giunto nella fertile vallata tra il Tigri e l'Eufrate proveniendo dal nord, forse dall'Anatolia, ma non è stato mai possibile localizzare la sua patria ancestrale. Nel corso dei secoli, dopo l'invasione semitica, la mitologia sumera formerà la base sulla quale Assiri e Babilonesi costruiranno le loro imponenti creazioni mitologiche.

Intanto, a nord della Mesopotamia erano stanziati gli H̬urriti, altro popolo non classificato dal punto di vista linguistico, la cui cultura era pesantemente debitrice di quella mesopotamica. Alcuni elementi della cultura h̬urrita erano stati importati nel regno di Mitanni da un'immigrazione di proto-ariani, i quali avevano condotto nel bel mezzo della Mesopotamia le divinità vediche, creando quindi un importante ponte con il mondo mitico indoeuropeo.

A nord-est del territorio degli H̬urriti si stendeva l'Anatolia, già teatro dei primissimi insediamenti urbani della civiltà umana (Çatal Hüyük). Nel secondo millennio a.C., l'Anatolia era abitata da una costellazione di popoli affini per lingua e per cultura. Gli H̬ittiti erano i più noti, ma H̬attici, Lidi, Luviani e Palaici erano altri membri rispettabilissimi di tale famiglia. Tali lingue apparivano correlate alle indoeuropee, essendosi evidentemente distaccate dal tronco principale in un'epoca remota, tanto che gli studiosi preferiscono parlare di lingue indoittite, raccogliendo in un'unica famiglia i due rami anatolico e indoeuropeo. La cultura anatolica risentiva a sua volta, grazie alla mediazione h̬urrita, della forte influenza mesopotamica, a cominciare dalla scrittura cuneiforme babilonese che essi avevano ingegnosamente adattato alle loro necessità fonetiche. Il pantheon h̬urro-h̬ittita, come appare nel Kumarbis e nell'Ullikummi, sembra essere una combinazione di elementi indoeuropei, h̬urriti e mesopotamici. Il tema della successione alla suprema regalità ha molti elementi indoeuropei, il motivo della separazione del cielo e della terra è invece probabilmente originato dalla grande matrice afroasiatica.

I popoli di lingua anatolica, abbiamo detto, si erano separati assai precocemente dal grande tronco delle lingue indoittite. L'altro ramo, quello delle lingue indoeuropee, avrebbe dato origine a una vasta esplosione di popoli che, nel corso di molti millenni, avrebbe invaso a ovest l'intera Europa, dalla Grecia alla Britannia, a est l'Irān e l'India, fino a spingersi nel Turkestān cinese. Indiani, Iranici, Armeni, Greci, Illirici, Italici, Celti, Germani, Slavi e Baltici furono le schegge di questa grande esplosione e, poiché conosciamo la mitologia di molti di questi popoli, possiamo essere sufficientemente sicuri che il loro sistema mitico non prevedesse il mitema della successione alla suprema regalità.

In questi miti, a operare l'impresa di scissione del cielo e della terra è sempre un dio separatore, in genere legato all'elemento atmosferico. È Enlil nel mito sumerico, Šû in quello egiziano. Il vento sarà anche il mezzo con cui analoghe imprese compiranno Yahweh nel mito ebraico e Marduk in quello babilonese, anche se in questi casi non saranno il cielo e la terra a venire separati bensì lo stesso caos acqueo primordiale, come vedremo nel prossimo capitolo. (Al contrario, in tutti i miti indoeuropei di cui conosciamo gli esiti, cioè in India, in Irān, tra i Germani e tra i Celti, non troviamo mai il motivo della separazione del cielo e della terra, bensì un motivo differente, che è quello del sacrificio del macroantropo.)

La mitologia greca era dunque nata dalla fusione di diversi substrati. Da un lato il fondo indoeuropeo, dall'altro un forte influsso mediorientale. È fuori di dubbio, confrontando i vari testi, che la mitologia greca, così come Hēsíodos l'aveva codificata nel suo imponente sistema, risentiva di influssi anatolici, i quali a loro volta, per tramite h̬urrita, provenivano dalla Mesopotamia. Tali tradizioni di origini mediorientali erano state incorporate nel mito greco, costringendo Hēsíodos (o i suoi ignoti predecessori) a rielaborare i personaggi dell'antica tradizione indoeuropea in un senso affatto nuovo. Ecco dunque che antiche divinità come Ouranós e Krónos (i cui archetipi sembrano essere stati divinità assimilabili agli indiani Varuṇa e Yama) vennero rilette in funzione delle idee mitiche mediorientali. Vedremo in seguito come altri substrati siano giunti in Grecia da direzioni diverse. Sembra che l'idea di un caos acqueo sia giunto in Grecia dall'Egitto. È fuor di dubbio, in ogni caso, che fin dai tempi più remoti vi fu un'infinità di scambi attraverso il Medio Oriente e il Mediterraneo orientale; facile immaginare che un'infinità di idee e concezioni mitiche si siano intrecciate in quest'area fin dai primordi della civiltà ellenica.

Parallelamente, però il motivo della separazione del cielo e della terra era comparso anche sull'altra sponda del Mediterraneo, tra gli Egizi, dove aveva assunto una forma peculiare. La maggiore differenza dell'Egitto col modello sumero-anatolico-greco è l'inversione di sessi tra il cielo e la terra. Si potrebbe pensare a un'interpretazione locale di un'antica tradizione, senonché Joseph Campbell fa notare come le attinenze culturali tra Egitto e Medio Oriente, in una fase precoce della loro storia, facciano pensare piuttosto a un comune retroterra culturale. Campbell, che in questi studi si riallaccia alle teorie del noto africanista Leo Frobenius, pensa a una matrice mitogenetica che abbia avuto la loro origine nell'antica civiltà del Sahara.

Ma qui non vi è più nulla di certo, soltanto ipotesi affascinanti sulla storia della cultura umana. Se poi volessimo tornare ancora più indietro a cercare l'origine di questi mitemi, finiremmo davvero stupiti nell'accorgerci che il tema della separazione del cielo e della terra è diffuso, in molte varianti, nei miti di tutto il mondo. Lo troviamo in Cina e in Tibet, lo troviamo in Polinesia con tratti straordinariamente simili al mito greco, lo troviamo in America. Alla fine saremmo davvero costretti a risalire alle origini stesse dell'umanità.

MITI SUMERICI MITI EGIZIANI MITI GRECI
(Hēsíodos)
MITI ANATOLICI
0 Situazione caotica primordiale vista come massa d'acqua indifferenziata: Abzu. Situazione caotica primordiale vista come massa d'acqua inerte e stagnante, il Nûn. Situazione caotica primordiale vista come spazio di confusione degli elementi, il Cháos.  
1 La montagna cosmica Hursaganki, insieme cielo e terra, emerge spontaneamente dall'Abzu. L'altura primordiale emerge spontaneamente dal Nûn. Sopra di essa si trova il dio-sole tum-Reʿ, il quale genera Šû e Tefnût, i quali generano a loro volta Nût e Geb, dea-cielo e dio-terra. La dea-terra emerge spontaneamente dal Cháos, e in seguito genera Ouranós, il cielo stellato. Cielo e terra sono stati «costruiti» in un'unica massa solida.
2 An e Ki, cielo e terra, sono uniti in un accoppiamento cosmico che blocca di fatto ogni successiva evoluzione del processo creativo. Nût e Geb, cielo e terra, sono uniti in un accoppiamento che blocca di fatto ogni successiva evoluzione del processo creativo. Una maledizione lanciata da tum impedisce a Nût di partorire i suoi figli. Ouranós e sono uniti in un accompiamento cosmico. Ouranós impedisce ai figli, i dodici Titânes generati nel ventre di , di venire alla luce. Nasce la prima generazione divina, quella degli «dèi antichi» [karuileš šiuneš].
3 Enlil, il dio dell'aria e dell'atmosfera, provvede alla separazione dei genitori, spingendo in alto il cielo e in basso la terra. Šû, il dio dell'aria e dell'atmosfera, provvede alla separazione dei figli, spingendo in alto il cielo e in basso la terra. Il dio della sapienza eḥûtî escogita un piano che dà a Nût la possibilità di sgravarsi. Krónos, l'ultimo dei figli di Ouranós e , evira il padre e separa il cielo e la terra. In tal modo i Titânes ancora stipati nel ventre di possono venire alla luce. Cielo e terra vengono separati con un coltello (o una sega). Alalus viene sconfitto da Anus e cacciato nella terra; Anus viene sconfitto da Kumarbis e cacciato in cielo. Kumarbis evira Anus ingoiandone la virilità.
4 Superata questa difficoltà, prosegue il processo teogonico nelle successive generazioni divine [AMA-A-A]. Superata questa difficoltà, prosegue il processo teogonico nelle successive generazioni divine [pesdet]. Superata questa difficoltà, prosegue il processo teogonico nelle successive generazioni divine [Olimpici]. Prosegue il processo teogonico nelle successive generazioni divine [Tarh̬unta e i suoi fratelli].

Fonti

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Rubrica: Studi - Anubis.
Materia: Cultura classica - Ianus Bifrons.
Ricerche e testi di Dario Giansanti e Oliviero Canetti.
Creazione pagina:29.01.2004
Ultima modifica: 15.04.2015
 
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