1 -
IL CASTELLO DI
ERCOLE
arrano che
Iafet, figlio di Noè, lasciati i monti dell'Ararat,
dove si era posata l'Arca, si recò in Inghilterra
dove fondò Londra ed altre città. I suoi figli, dopo
essersi sparsi per le terre circostanti, scesero
infine in Italia costruendo vari castelli e città.
Tra questi vi era un barone chiamato
Corinto, che alcuni
dicono figlio di Iafet,
la cui moglie Elettra
aveva fama di essere saggia quanto bella. Suo
fratello Tusco fondò la
città di Arezzo, dove istituì molti altari; altri due
suoi parenti, i fratelli Italon
e Savio, scesero a sud
del lago di Bolsena e lì, in una zona dove si
trovavano abbondanti sorgenti sulfuree, fondarono due
città: la prima chiamata Surrena, l'altra chiamata
Muserna.
Le città di
Surrena e Muserna divennero ben presto ricche e
popolose, si combatterono e si distrussero a vicenda.
In seguito
capitò in quel paese un valente eroe chiamato
Ercole, conducendo i
buoi che aveva rubato a Gerione.
Vedendo il bel paese devastato dalla guerra e le
terre disfatte, egli edificò un castello, che venne
chiamato Castrum Herculi, e gli donò, quale
simbolo, il leone la cui pelle egli usava come
mantello. In questo luogo, alla confluenza dei fiumi
Urcionio e Paradosso, sorse la
città chiamata Etruria Urbs,
composta inizialmente da quattro castelli: Fanum,
Arbanum,
Vetulonia e Longula. (Altri dicono che
fu Noè stesso che, sotto il nome di Enotrio o di
Giano bifronte, che giunse in Etruria e fondò queste
quattro fortezze.) Fu un nipote di
Ercole,
Terbo
Tirreno, il capostipite dei Terbienses.
I quattro
abitati etruschi di Fanum, Arbanum,
Vetulonia e Longula rimasero separati
per molti secoli, finché Desiderio, ultimo re dei
Longobardi, emanò un decreto con il quale si
cingevano con unico giro di mura. Così nacque la
città di Viterbo.
|
2 -
LA «TROIA» E
IL LEONE
ltri dicono
che Viterbo venne fondata da alcuni esuli
troiani, sbarcati sulle coste d'Etruria dopo la
distruzione della città natia ad opera degli Achei.
Secondo quanto era stato profetizzato, una scrofa dal manto bianco
apparve loro indicando il punto dove avrebbero dovuto
stabilire la loro nuova patria. Dopo aver fondato la
nuova città, gli esuli presero a nutrire e venerare
il feroce animale, che chiamarono «troia» in ricordo
della patria perduta e consacrarono alla loro dea
Elena.
In seguito a
questi fatti, i cittadini di Viterbo furono
impegnati, per volere della dea, ad un sacrificio
annuale. Ogni anno, nel corso delle festività
primaverili, essi avrebbero consegnato alla «troia»
una vergine di diciotto anni, sorteggiata fra le ragazze più belle e
virtuose della città. La fanciulla veniva condotta fuori dalle
mura cittadine, presso il fiume Paradosso, e là
veniva denudata e legata a un macigno. La popolazione si
ritirava poi ad una certa distanza e assisteva
all'arrivo della sacra scrofa che, emersa dal bosco,
divorava la sua vittima.
La barbara
usanza si perpetuò nel tempo ed era ancora in uso
all'inizio del XII secolo; nonostante fosse trascorso
tanto tempo, la scrofa era ancora lì, ansiosi di
nutrirsi delle carni di una vergine, come esigeva il
patto che gli esuli troiani avevano anticamente
stretto con la loro dea. Ma gli abitanti
di Viterbo, con l'avanzare della civiltà e
l'ingentilirsi degli animi, non accettavano più
l'idea di questo assurdo sacrificio, a cui pure si
piegavano tra le lacrime. L'avvicinarsi del giorno di
Pasqua giungeva come un incubo, diventando un giorno
di lutto e non più di festa.
Accadde così
che a Viterbo, in una bella casetta, nacque
Galiana, una fanciulla
di modesta origine, la
cui impareggiabile bellezza era pari soltanto alle
sue virtù. Ed accadde che, quando
Galiana compì diciotto
anni, proprio lei fu estratta a sorte per
essere sacrificata alla scrofa bianca. I Viterbesi ne
provarono dolore e sgomento, ma il fato aveva
designato Galiana
all'orribile sorte e nessuno poteva impedirlo. Così Galiana
fu condotta sul luogo
del sacrificio, venne fatta spogliare e fu legata al macigno.
Quando
l'orologio della torre comunale suonò i rintocchi del
mezzogiorno, la scrofa bianca emerse dalla foresta. Ma
mentre l'animale si avvicinava alla
fanciulla per divorarla, dal limite del bosco uscì un leone che,
avventandosi sulla scrofa, la dilaniò con quattro
terribili colpi dei suoi artigli. Mentre l'orologio suonava
nuovamente dodici rintocchi, il leone, così
com'era apparso, nuovamente scomparve.
La città di
Viterbo, riconoscente per essere stata liberata dal
crudele tributo di sangue, rimosse il vecchio emblema
della città, che fino a quel giorno aveva raffigurato un cavallo o un liocorno, e fece dell'immagine del
leone, con accanto la pelle bianca della scrofa con
le quattro ferite rosse poste in croce, l'emblema
civico.
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3 - LA BELLA GALIANA
osì avvenente
era la bella Galiana che
i giovani venivano anche da paesi lontani per poterla
ammirare e chiederla in sposa. Ma
Galiana, fidanzata con un giovane contadino chiamato
Marco, respingeva ogni
proposta, anche se avanzata da nobili. Si narra che
un giorno
Giovanni di Vico,
discendente di una potente famiglia prefettizia di Roma,
venne nella cittadina della Tuscia appositamente per
ammirare la stupenda ventenne viterbese di cui non si
fa che lodare in ogni dove l'incomparabile bellezza. Il nobile
vide la fanciulla uscire con un'amica dalla chiesa di
San Silvestro e, avvicinatosi, le fece un inchino, ma
Galiana neppure lo degnò d'uno sguardo.
Nei giorni
successivi,
Giovanni compì ogni
tentativo per avvicinare
Galiana, parlarle,
dichiararle il proprio amore, con l'unico risultato
di sentirsi riferire che la ragazza non gradiva la
sua corte e lo pregava di desistere dalle sue
insistenze. Ferito nell'orgoglio da questo rifiuto,
Giovanni stabilì di rapire
la ragazza. Così, in una notte particolarmente buia,
Giovanni si
arrischiò ad arrampicarsi con una fune fino alla
finestra della camera dove dormiva Galiana.
Pare che un fulmine colpisse quella notte la campana
della torre Monaldesca, che risuonò su tutta la
città. I cittadini accorsero e impedirono al nobile
romano di portare a
termine il suo piano. I priori bandirono
Giovanni di Vico da
Viterbo,
proibendogli il ritorno in città, pena la morte.
Passò del tempo
e Giovanni, radunato un esercito, marciò contro Viterbo, minacciando di
prendere d'assedio la città se Galiana
non fosse stata sua sposa. La risposta dei Viterbesi
fu un netto e chiaro rifiuto. Allora il nobile mise
in atto il suo piano. Cinse d'assedio Viterbo e
concentrò i suoi sforzi dalla parte di Valle Faul,
che era la più vulnerabile.
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Porta di Valle e la Torre detta della Bella
Galiana. |
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Secondo
la tradizione, fu dalla lunetta di questa
torre che si affacciò per l'ultima volta la
bella Galiana. In realtà la torre, chiamata
Torre Branca, è posteriore agli avvenimenti,
essendo stata fatta costruire nel 1295, dal
podestà di Viterbo Orazio di Corrado Branca. |
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Ma il popolo in armi
seppe respingere ogni assalto, infliggendo gravi
perdite alle truppe prefettizie. Si racconta che le
donne viterbesi stavano a fianco degli armati sulle
mura e che, anzi, proprio ad una di esse toccò la ventura di
scagliare la freccia che colpì
Giovanni, ferendolo gravemente. Allora il
nobile romano fece sapere ai Viterbesi che se ne
sarebbe andato, a patto che gli mostrassero Galiana.
Egli si sarebbe accontentato di ammirarla per
l'ultima volta, poi avrebbe tolto l'assedio.
I priori si
rivolsero a Galiana, la
quale accettò per amor di patria. Il giorno
successivo la ragazza si affacciò da una lunetta
nella torre di Porta di Valle, quando una freccia scoccata da un soldato
prefettizio la colpì alla gola. È incerto se il
soldato scagliasse la freccia per sua iniziativa, o
se compì il misfatto per ordine dello stesso
Giovanni. La ragazza
cadde morta. Molto violenta fu la
reazione dei Viterbesi, i quali uscirono dalle mura
in armi, guidati da un certo
Guerriante, e
costrinsero alla fuga le schiere prefettizie. Sembra
che anche
Giovanni di Vico morisse
per le ferite riportate.
Era l'anno
1138. Il corpo di Galiana fu tumulato in un sarcofago
che era stato tratto, dicono alcuni, dall'antico masso del
sacrificio, sul quale venne scolpito il miracolo
del leone e della strofa. Il sarcofago fu portato nel
portico della chiesa dedicata all'Angelo con la
Spada, dove ancora oggi si può ammirare.
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4 - LE SEI NOBILTÀ DI
VITERBO
i narrano i
cronisti locali, che sei nobiltà adornavano la città
di Viterbo.
La prima era la
libertà: Viterbo era un comune indipendente e non
rendeva conto a nessuno.
La seconda era
un altare viareccio o carroccio, preso nella Martana,
isola del lago di Bolsena, dove era stato lasciato
dai Goti, i quali lo avevano condotto là da Ravenna.
I Viterbesi, ovunque conducessero quel carroccio,
risultavano vincitori in ogni guerra intrapresa.
Infatti, il carroccio fu in seguito donato al papa
Innocenzo III, il quale lo donò all'imperatore
Enrico, figlio di Federico Barbarossa. Non appena i
Viterbesi si privarono dell'altare viareccio,
cominciarono a subire molte traversie e molestie, che
culminarono con la solenne sconfitta nella battaglia
di Monterazzano (1193).
La terza
nobiltà era ovviamente la bella Galiana.
Era così bella, e la sua pelle era così candida, si
dice, che quando beveva del vino rosso, lo si vedeva
scendere in trasparenza attraverso la gola.
La quarta
nobiltà era una donna di nome
Anna, che aveva i capelli
rossi da una parte e verdi dall'altra.
La quinta
nobiltà era un cavallo grande, bello ed animoso,
famoso in tutta Italia, tanto che molti valenti
cavalieri venivano apposta a Viterbo ad ammirarlo.
La sesta
nobiltà era
Frisigello, un giullare abilissimo, del quale non se
ne trovava pari, e che faceva giochi meravigliosi di
nove maniere.
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Fonti
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I -
LA CITTÀ DI VITERBO
Viterbo è un comune con
poco più di sessantamila abitanti, capoluogo
dell'omonima provincia. Centro della Tuscia, è
situata a ridosso dei monti Cimini, tra il lago di
Bolsena e il lago di Vico.
L'origine della città è
etrusca, come testimoniano resti di edifici etruschi
sul Colle del Duomo, tra cui probabilmente un tempio
dedicato ad Ercole. Quest'insediamento, chiamato
probabilmente Surna o Surrena, sorgeva
su una collina che si ergeva solitaria, come una
fortezza naturale, alla confluenza dei torrenti
Paradosso e Urcionio. Il luogo fu tuttavia
conquistato dai romani verso la fine del 310 a.C.,
quando Fabio Rulliano invase i territori al di là
dell'inviolabile Silva Ciminia, secondo la
testimonianza di Tito Livio. I Romani costruirono una
città sull'antistante colle del Riello (Surrina
Nova), dove una le sorgenti sulfuree del
Bullicame ermisero lo sviluppo di fiorenti centri
termali, a cui si aggiunsero edifici, ville e
costruzioni lungo il primitivo tracciato della
consolare Cassia. La Vetus Urbs, cioè la
vecchia città, tornò alla primitiva funzione di
sicuro rifugio al tempo delle invasioni barbariche,
per diventare il Castrum Viterbii,
fortificazione longobarda posta al confine tra i
possessi longobardi della Tuscia e il ducato
bizantino di Roma. Il castello è ricordato nella
donazione di Sutri tra i possessi che Liutprando
elargì
alla Chiesa nel 729; Desiderio (756-772) vi si ritirò
da Roma, che aveva rinunciato ad attaccare. La prima
menzione della città di Viterbo è in un documento, la
cartula convenientiæ,
stilato a Tuscania nel 768 e conservato nell'Archivio
del Monte Amiata, dov'è nominato tale Aimone
habitatore castello Veterbo. Risale all'852 un
documento papale che riconosce il Castrum Viterbii
proprietà delle terre di San Pietro.
Nel 1099 la scelta dei primi consoli sanciì il
passaggio della città a libero comune. Divenuta
cattedra vescovile nel 1194, la città accrebbe in
prestigio e peso politico. La pressione del
papato spinse tuttavia Vierbo a invocare la protezione di
Federico II: si aprì così, fino alla metà del XIII
secolo, un periodo di lotte interne tra guelfi
(famiglia Gatti) e Ghibellini (famiglia Tignosi). Il
fallimento dell'assedio della città da parte di
Federico II, nel 1243, sancì il successo della
parte guelfa finché i pontefici scelsero Viterbo come
sede papale dal 1270 circa. È il periodo di massimo
splendore di Viterbo, sia economico, quale centro
posto lungo la Cassia, e architettonico, con
l'edificazione di edifici, torri e chiese.
Con l'esilio avignonese iniziò la decadenza della
città. La storia successiva di Viterbo seguì le sorti
dello Stato della Chiesa, e con l'età moderna la
città imboccò un lungo periodo di scarsa vitalità, economica,
politica e culturale. Oggi Viterbo è una piccola
cittadina accogliente, che conserva molte memorie del
suo passato, tra cui il quartiere
medievale di San Pellegrino, splendidamente
conservato, il Palazzo dei Papi e un giro di possenti
mura che circondano quasi completamente il centro
storico. Dal punto di vista architettonico presenta dei tratti piuttosto originali, tra
cui le caratteristiche fontane a fuso e i famosi profferli:
le scalinate ad arco che adornano le facciate degli
edifici più antichi.
|
II - LE
MITICHE ORIGINI ETRUSCHE, GRECHE E BIBLICHE DI VITERBO
Le leggende più conosciute riguardarti le origini
della città di Viterbo le dobbiamo ad alcuni cronisti
del quattrocento, che attinsero ad uno storico del
XII secolo, chiamato Lanzillotto. L'ipse dixit
è naturalmente processo comune a quanti intendevano
nobilitare i propri racconti riferendoli a presunte
fonti più antiche e autorevoli, delle quali è lecito
dubitare. L'autore della
Cronaca viterbese, frate Francesco
d'Andrea, così principia il suo lavoro verso la metà
del Quattrocento:
Io frate Francesco
d'Andrea della città di Viterbo, scriverò
alcuni ricordi antichi trovati in certi
libri e memoriali d'antiqui authori et de
Viterbesi, dei quali farò mentione in breve
parole delle novità di Viterbo, et d'altri
lochi scripti del dicto paese de Viterbo, et
comenzeremo da Iafet uno dei figlioli di
Noè, il quale partendosi dalli fratelli
dalla montagne d'Armenia dove vi posò l'archa
del diluvio, e pigliando la via verso Europa
nostra.... |
Frate
Francesco d'Andrea:
Cronaca viterbese
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Secondo
frate Francesco d'Andrea, le origini di Viterbo prenderebbero
l'avvio da un certo Corinto,
figlio di Iafet figlio di Noè, il quale giunse in Etruria in
tempi antichissimi con i suoi parenti, uno dei quali,
Tusco (evidente eroe eponimo
degli Etruschi) fondò città e altari nella regione di Arezzo;
altri due suoi parenti, i fratelli
Italon e Savio, scendendo
in quello che ai tempi del cronista era il «Patrimonio
di Viterbo», vi avrebbe fondato due città, Surrena e Muserna,
la prima delle quali innalzata nei pressi del Bullicame, le
sorgenti sulfuree sparse nelle campagne a nord-ovest della
città - ricordate anche da Dante -, che già in epoca romana
erano un rinomato centro termale. I nomi di queste due città,
che nel racconto di Andrea si sarebbero distrutte a vicenda
combattendo tra loro, sono evidentemente etruschi, segno che
alcune delle tradizioni a cui il cronista attinse erano di
grande antichità.
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Il Leone, simbolo di
Viterbo
Monumento in Piazza del Plebiscito |
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La
versione alternativa della fondazione di Viterbo la dobbiamo a
un frate domenicano viterbese, Giovanni Nanni detto Annio,
singolare figura di umanista, letterato, filologo e
orientalista, vissuto tra il 1432 e il 1502. Nei suoi
Commentari, secondo il
gusto dell'epoca, volle anch'egli glorificare la propria città
e, come già aveva fatto frate Francesco d'Andrea, propose
anche lui un improbabile intreccio tra genealogie bibliche e
miti greci, fondendo il tutto con l'eredità etrusca che
proprio in quegli anni cominciava a suscitare l'interesse
degli studiosi. Le argomentazioni anniane dovettero godere di
un certo credito, a tal punto che alle sue tesi si dedicò un
ciclo di affreschi nella Sala Regia e nella Sala del Consiglio
del Palazzo dei Priori di Viterbo. Annio riporta tuttavia la
fondazione del primo nucleo della città allo stesso Noè (che
nel suo scritto viene anche identificato con Enotrio e Giano
Bifronte, in quanto vide i due aspetti del mondo antidiluviano
e postdiluviano), a cui viene attribuita la costruzione dei
quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia
e Longula, la mitica Tetrapoli Viterbese il cui
acrostico FAVL
fa tuttora parte dello stemma cittadino. Anche qui compare
Ercole quale costruttore del
Castrum, primo nucleo della città qui chiamata Etursia
o Etruria Urbs, traversata dai fiumi Urgionus,
Vetuloniensis e Paratussus (Urcionio e Paradosso),
con il tempio del Fanum Voltumnæ (che è veramente
esistito, ma non dove lo ipotizzò Annio), nel locus sacer
degli Etruschi, posto poco fuori dall'abitato.
Dopo aver
menzionato addirittura Atlante,
Corinto e
Iasio come successivi regnanti, Annio vide nel nipote
di Ercole,
Terbo Tirreno, il
capostipite dei Terbiensis, eroe eponimo della città di
Viterbo. Quindi Annio si rivolge a
Tarconte, personaggio della mitologia etrusca, eroe
eponimo di Tarquinia, a cui egli attribuisce addirittura la
fondazione della dodecapoli etrusca. La genealogia anniana
coinvolge persino Desiderio, ultimo re dei Longobardi, a cui è
attribuito un decreto con cui si cingevano con mura i quattro
castelli della Tetrapoli. Come prova, Annio presentò una ruota
semicircolare in marmo (attualmente al Museo Civico della
città) rinvenuta casualmente tra le rovine dell'antica Torre
Damiata presso Piazza della Morte, incisa in caratteri
longobardi, ma poi dimostratasi un falso.
|
III - ERCOLE, IL FONDATORE
Dove
Francesco d'Andrea e Giovanni Nanni detto Annio sono
d'accordo, è la fondazione, per opera dell'eroe greco
Ercole, di una fortezza
sull'attuale Colle del Duomo, il Castrum
Herculi. La notizia deriva da Niccolò della Tuccia che,
rifacendosi alle memorie scritte del cronista Lanzillotto,
riferisce che Ercole «edificò uno bel castello, che fu
chiamato il Castello di Ercole, e per l'amore che gli portava
donolli per arma il leone, della cui pelle andava egli
coperto».
L'evidenza
archeologica mostra che proprio il Colle del Duomo fu il primo nucleo
della città, abitato fin dal tempo degli Etruschi, come
testimoniano le pietre di un antico pagus poste
all'ingresso di Piazza San Lorenzo, ove oggi sorgono la
Cattedrale e il Palazzo Papale. Il nome del pagus,
piuttosto attivo nel V e IV secolo a.C., non ci è noto; alcuni
studiosi pensano possa appunto essere Surna (da cui la
Surrena della cronaca di d'Andrea), con riferimento al dio
degli inferi Suri, la cui
presenza veniva giustificata, secondo le credenze popolari,
con le esalazioni sulfuree del Bullicame. Che il pagus
fosse dedicato ad Ercole,
divinità che gli etruschi adoravano sotto il nome di
Herχle Unial Clan, è documentato
dai fregi marmorei ed i frammenti di iscrizioni rinvenuti
nella seconda metà del XIX secolo. Latino Latini, uno studioso
del XVI secolo, riporta il testo un'epigrafe romana, oggi
perduta, murata nella Cattedrale:
DEO HERCVLI
MAGNO
LVCIVS SPVRINA
LEGIONIS XI METATOR
EX VOTO NVNCVPATO
SACRAVIT |
|
Al
dio Ercole Magno
Lucio Spurina
agrimensore dell'Undicesima Legione
in seguito a un voto promesso
consacrò. |
|
(Traduzione di Francesca Garello) |
|
Difficile
dire a quale epoca risalga l'iscrizione: certamente di poco
posteriore al 58 a.C., visto che l'Undicesima Legione era
stata costituita in quest'anno da cesare per la sua Campagna
contro gli Elvezi e in epoca augustea si trovò in zona per
sedare una rivolta presso Perugia. Il nome Spurina
d'altronde è etrusco, attestato in Provincia di Viterbo
(Tarquinia) già nel V-IV secolo, dettaglio che può far appunto
pensare a un culto locale ad Ercole.
Il
passaggio di Ercole in Etruria è
d'altra parte
testimoniato da una serie di leggende tramandate intorno alla
sua figura, le quali si riallacciano al ciclo delle dodici
fatiche. Dopo aver rubato il bestiame di
Gerione, Eracle/Ercole
lo condusse dall'Iberia alla Gallia, quindi in Liguria, in
Italia e da qui in Grecia. Nel corso di questo lunghissimo
viaggio, egli avrebbe lasciato testimonianza del suo passaggio
in innumerevoli località, così come moltissime sono le città
che avrebbe fondato. In Etruria egli avrebbe appunto fondato
il Castrum
Herculi, istituendo verosimilmente il culto che gli
tributavano gli Etruschi.
Si narra
ancora che, in una valle a sud della città,
incitato dai lucumoni a provare la sua forza,
Ercole avrebbe conficcato al
suolo la sua clava sfidando gli abitanti del luogo ad
estrarla. Nessuno vi riuscì. Ma quando
Ercole si riprese la sua clava, dal foro sgorgò un
getto d'acqua che riempì la valle, formando l'odierno
lago di Vico, il quale sembra fosse considerato sacro alle
genti etrusche. Altri vogliono che in questo modo
Ercole abbia fatto sgorgare dalla
terra le sorgenti termali del Bullicame.
|
IV
- LA GALIANA STORICA
A Viterbo, murato nella facciata
chiesa di Sant'Angelo de la Spatha,
in Piazza del Plebiscito (o Piazza
del Comune), si trova un sarcofago
romano in marmo, risalente al II
secolo, sul quale sono scolpite
alcune scene di caccia.
A seconda degli interpreti, si
tratterebbe della caccia al
cinghiale caledonio, della caccia
al leone nemeo, oppure delle
battute di caccia di Alessandro
Magno. Secondo lo storico viterbese Giovanni Nanni detto Annio, tale sepolcro
sarebbe appartenuto a
un certo Valerio Agricola Urbano,
sesto pretore romano d'Etruria, il
quale sembra fosse solito dare la
caccia ai cinghiali utilizzando un
leone da lui addomesticato.
Nel 1988 il sarcofago è stato
rimosso e trasferito nel Museo
Civico di Viterbo; qui, nel corso
dei lavori di restauro, nel 1991,
il sepolcro venne aperto, ma - con
gran delusione dei viterbesi - fu
trovato vuoto. Sulla facciata della
chiesa è stata in seguito apposta
una copia in marmo di Carrara.
Stando a quanto riferiscono le cronache cittadine, nella prima metà del XII
secolo morì in Viterbo una
gentildonna di insolita bellezza,
chiamata
Galiana. Essa venne
seppellita in questo sepolcro,
posto sotto il portico che allora
si stendeva davanti alla chiesa. Così scrive il
cronista Niccolò Della Tuccia:
«Quando
Galiana morì, fu messa in un
bello avello di marmo intagliato e
posto dinante la chiesa di Santo
Angelo de la Spatha».
Quando, nel 1549, crollò il
campanile della chiesa di Sant'Angelo,
il portico venne travolto, e con
esso il sarcofago di
Galiana.
Ricostruita la facciata della
chiesa nella forma attuale, vi fu
apposto il sarcofago,
recuperato dalle macerie. In testa
al sarcofago vennero poste due
epigrafi. Una era il rifacimento
dell'autentica epigrafe tramandata
da Lanzillotto, l'altra venne
scolpita per l'occasione. L'una e
l'altra epigrafe portavano la presunta
data della morte di
Galiana,
il 1138.
Questo il testo delle due epigrafi: |
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Il sepolcro di Galiana.
Sulla facciata della chiesa di Sant'Angelo
de la Spatha, in Piazza del Plebiscito, a
Viterbo |
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Flos et
honor patriæ, species pulcherrima rerum
clauditur hic tumulo Galeana ornata venusto
fœmina si qua polos conscendere pulchra
meretur
angelicis manibus diva hic Galiana tenetur.
Si Veneri non posse mori natura dedisset
nec fragili Galiana mori mundo potuisset.
Roma dolet nimium, tristatur Thuscia tota.
Gloria nostra perit, sunt gaudia cuncta
remota.
Miles et arma silent, nimio perculsa dolore.
Organa iam fidibus pereunt caritura canoris
anno milleno canteno terque deceno
octonoque diem clausit dilecta tonanti.
|
Fiore e onore della patria, bellissima sembianza del
creato, Galiana con gli ornamenti è chiusa in questo
sarcofago. Se bella donna merita di salire verso il
cielo, Galiana è sorretta dalle mani degli angeli. Se
la natura avesse concesso a Venere di non poter
morire, neanche Galiana sarebbe potuta morire per il
mondo caduco. Roma si duole molto, la Tuscia tutta è
triste, la gloria nostra è morta, sono finite tutte
le gioie. Il soldato e le armi tacciono colpite da un
dolore troppo grande. Organi e cetre vanno in rovina
e mai più daranno suono. Nell'anno 1138 chiuse la
vita, cara al Signore dei Cieli. |
|
Prima
epigrafe |
Galianæ
patritiæ viterbensi
cuius incomparabilem pulchritudinem
insigni pudicitiæ iunctam
sat fuit vidisse mortales
consules maiestatis tantæ fœminæ
admiratione hoc honoris ac pietatis
monumentum hieroglyphicum ex S.C. ppp
MCXXXVIII. |
A Galiana, patrizia
viterbese, la cui incomparabile bellezza
unita a straordinaria pudicizia, fu il
vederla grande premio ai mortali. I consoli
in ammirazione della nobiltà di così
magnifica donna, per decreto del Consiglio,
posero questo ricordo d'onore e di pietà,
scolpito nella pietra. 1138. |
|
Seconda epigrafe |
|
L'una e
l'altra epigrafe ricordano semplicemente la bellezza e le
virtù di una gentildonna viterbese vissuta nella prima metà
del XII secolo, ma non fanno alcun riferimento ai dettagli
delle due leggende fiorite intorno al nome di
Galiana: quella del sacrificio alla
scrofa bianca e quella dell'assedio della città da parte delle
truppe prefettesche. Sembra certo che fino alla metà del XII
secolo la leggenda non esisteva ancora, ed è dunque assai
probabile che la
leggenda di Galiana
sorse soltanto dopo il XIV secolo. Quel
sarcofago, dalle movimentate figurazioni e di cui forse
nessuno comprendeva ciò che vi era rappresentato, e la fama
della bella donna il cui ricordo era ad essa legato, dovettero
certamente indurre qualcuno - forse un cantastorie - a crearvi
sopra una vicenda, di cui ora analizzeremo gli elementi.
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V
- LA
LEGGENDA DELLA BELLA GALIANA
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Lo stemma di Viterbo. |
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Il drappo retto dal leone mostra la croce
bianca che divide i quattro quarti rossi, di
cui la leggenda di Galiana narra l'origine.
Le insegne papali vanno ascritte al fatto
che Viterbo fu residenza papale nella
seconda metà del XIII secolo. La palma
dietro il leone era il simbolo della
cittadina di Ferento, vinta e distrutta dai
Viterbesi nel Medioevo. |
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Che lo
stemma di Viterbo (una croce bianca che divide quattro parti
rosse) derivi, secondo la leggenda, dal manto insanguinata
della scrofa bianca uccisa dal leone, è naturalmente una pura
invenzione. È vero che nei tempi antichi si trova talvolta
come emblema della città il cavallo o il liocorno, ma è anche
vero che da tempo immemorabile Viterbo ha avuto per stemma il
leone, simbolo di nobiltà e di forza [Leo sum qui
signo Viterbum], che cronisti come frate d'Andrea e Annio
rimandano alla presunta fondazione della città da parte di
Ercole. Soltanto più tardi
comparve il drappo rosso diviso in quattro da una croce
bianca, e precisamente nel 1316, data a cui risale il diploma
di Bernardo da Cucuiaco, conservato nell'Archivio Storico
presso la Biblioteca Comunale della città, con il quale viene
concesso a Viterbo di inalberare nel vessillo comunale le
insegne papali e viene insignito il popolo viterbese del
titolo di perpetuo Gonfaloniere della Chiesa.
Difficile stabilire l'origine della leggenda
della bella Galiana.
Abbiamo visto che una Galiana esistette
veramente: era una gentildonna viterbese che
morì nella prima metà del XII secolo e venne
sepolta in un sarcofago romano custodito nel
portico della chiesa di Sant'Angelo della
Spatha. Le scene di caccia scolpite sul
sarcofago, tra le quali si vede un leone
assalire un cinghiale, possono aver suggerito
alcuni elementi della leggenda che sorse su Galiana.
La leggenda di Galiana non è tuttavia priva di
alcuni elementi colti che rimandano ai poemi
omerici, i quali fanno pensare che venne forse
elaborata da un cantastorie professionista. Vi è
innanzitutto il motivo di una guerra e di
città assediata per il possesso di una donna
d'incomparabile bellezza, che è
Elena nei poemi
omerici e Galiana
nella leggenda viterbese. Il tentativo di
rapimento di Galiana
da parte di Giovanni di
Vico potrebbe ancora ricordare quello di
Elena da parte di
Paride. Che in
questa tradizione Viterbo venga vista come una
novella Troia è un motivo esplicitamente
sottolineato dalla leggenda locale, nella quale
si vuole che furono proprio gli esuli troiani a
fondare la cittadina della Tuscia. La
tradizione locale d'altronde vuole che le
donne di Viterbo vantino una bellezza
proverbiale (da cui il detto «Viterbo dalle
belle torri, dalle belle fontane e dalle belle
donne», di cui esiste anche una versione
salace).
Galiana
si configura dunque come una versione locale di
Elena. È d'altronde facile notare che il nome
di Galiana/Galeana
sembra corradicale con quello di
Elena. Un
ulteriore collegamento si ha nel fatto che la
scrofa a cui viene sacrificata ogni anno la
fanciulla più bella di Viterbo, sia consacrata
proprio alla dea Elena.
È evidente che chi inventò la leggenda
viterbese di Galiana
aveva senz'altro una certa conoscenza dell'Iliade.
Il racconto della scrofa bianca che avrebbe
indicato agli esuli troiani il luogo dove
fondare la futura Viterbo, rimanda invece a
Virgilio, all'episodio in cui
Enea, sbarcato nel
Lazio, fonda la città di Lavinio nel luogo dove
trova, secondo un vaticinio, una scrofa bianca
allattare trenta porcellini
(Eneide [VIII:
42-48.]). Tuttavia, nel racconto di
Virgilio, è la scrofa ad essere sacrificata
insieme ai suoi lattonzoli, non è ad essa che
vengono tributati sacrifici di fanciulle. La
leggenda viterbese sembra presentare tratti più
feroci, addirittura più arcaici, dalla levigata
versione virgiliana.
Ma
proviamo a scendere più in profondità. Se nell'Iliade
Elena compare come una regina
mortale, gli studiosi ritengono generalmente che essa sia
probabilmente il residuo di un'antica dea lunare (Helénē <
Selḗnē). Gli etruschi la chiamavano
Elina (Elina, Elinai, Elinei, Elnei), non
smisero mai di considerarla una dea e sovente la
raffigurarono, sul retro dei loro specchi, insieme alle altre
divinità del loro pantheon. È dunque probabile che
circolassero, presso gli Etruschi, antiche leggende su
Elina, e forse alcune di esse erano
parallele alla vicenda omerica della guerra di
Troia,. È anche possibile che alcune di queste versioni etrusche del mito
di Elena siano alla base della
leggenda viterbese di Galiana.
Che alla
base vi siano antichi culti, sembra anche sottolineato da un
altro dettaglio. In una
delle zone più antiche di Viterbo, presso il fosso del
Paradosso, là dove secondo la leggenda si trovava la pietra
alla quale venivano sacrificate le fanciulle viterbesi, vi è
una stradina oggi chiamata Via della Discesa, al cui imbocco
si trova una cappella dedicata alla Madonna del Soccorso.
Questo nome, confermano gli storici, ne cancellò uno più
antico che era Madonna della Troia o Madonna della Scrofa, che
ad un certo punto venne avvertito come irriverente e
sostituito con uno più conveniente. Quali siano le origini di
questo strano epiteto mariano non lo sappiamo: forse alla base
vi era un culto precristiano tributato a qualche divinità femminile
della fertilità che compariva accessoriamente in forma di
scrofa.
La scena del leone che uccide la scrofa sorse
probabilmente dal racconto, ricordato da Annio, sul pretore
romano Valerio Agricola Urbano, che in questa zona andava a
caccia di cinghiali con il suo leone addomesticato, e
probabilmente fissato nella memoria collettiva dalle immagini
sul sepolcro incastonato nella facciata della Chiesa di Sant'Angelo.
Non si può nemmeno dimenticare che il leone era comunque il
simbolo di Ercole, altro presunto
eroe fondatore di Viterbo. Si può forse vedere nella lotta tra
il leone e la scrofa l'abbattimento di un'antica religione
matriarcale per opera di un nuovo culto? È un 'ipotesi
affascinante, ma soltanto un'ipotesi.
Per
concludere, è probabile che la leggenda viterbese di Galiana
abbia assorbito elementi antichissimi, forse di origine
etrusca, che vennero riletti, interpretati e fissati
storicamente intorno al XIII-XIV secolo. A quell'epoca che
Viterbo era da poco assurta alla dignità di libero Comune e le
sue lotte vittoriose erano ancora vive nel ricordo di tutti.
C'erano tutti gli ingredienti perché, eccitata da
antiche leggende, la fantasia del popolo creasse una sua
epopea ed una sua eroina.
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Bibliografia
- AA.VV.: Il sarcofago romano dal monumento
rinascimentale della Bella Galiana a Viterbo. Viterbo 1995.
- BUSSI Feliciano: Istoria della città di
Viterbo. Roma,1742.
- EGIDI V.M.: Leggende nella storia viterbese:
La Bella Galiana. In «Viterbo», II.
Viterbo 1937.
- GALEOTTI Mauro: L'illustrissima città di
Viterbo. Viterbo 2002.
- GIANNINI Paolo: Viterbo, fierezza medievale.
Viterbo 1971.
- MECUCCI Francesco: Viterbo.
Laborintus, Viterbo 2004.
- POLIDORI M.L. • TIBURLI A.: La Bella Galiana
tra mito e leggenda a Viterbo e a Toledo. In
«Biblioteca e Società», VI: 1-4. Viterbo
1984.
- SCRIATTOLI Andrea: Viterbo nei suoi
monumenti. Roma 1915-1920.
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