I - IL MITO DI PANDṒRA
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Pandṓra (✍
1881) |
Sir Lawrence Alma-Tadema (1836-1912) |
Il complesso e stratificato mito di Promētheús,
che abbiamo analizzato nella pagina precedente ①, trova il suo completamento e la
sua conclusione nell'episodio di
Pandṓra. Le due vicende, sebbene appaiano
avere origini indipendenti, vengono combinate nella tradizione esiodea in un affresco unitario, il cui argomento è
la caduta dell'uomo dal suo stato felice stato primordiale, o piuttosto
atemporale, al mondo che noi conosciamo, caratterizzato dall'obbligo del lavoro
e della fatica,
dalla presenza delle malattie e dalla necessità della divisione in sessi e del
matrimonio.
Fonte del mito di
Pandṓra è soprattutto Hēsíodos,
che lo tratta – con minime differenze – in
entrambe le sue opere:
Theogonía [-] ed
Érga kaì
Hēmérai [-].
Apollódōros ne fa un sunto minimale in
Bibliothḗkē
[I: 7], e Hyginus in Fabulae [142];
entrambi dipendono però da
Hēsíodos. Insignificanti citazioni si
rinvengono pressi altri autori.
Nella
Theogonía, l'episodio di
Pandṓra segue quello di Promētheús.
Costui, ci informa Hēsíodos, era stato legato da Zeús
a una colonna, con lacci inestricabili
[-]. Ragione di
questo supplizio era stato l'inganno che lo scaltro titán aveva ordito ai
danni di Zeús, allorché, a Mēkṓnē, nello spartire un bue sacrificato,
aveva assegnato agli uomini le carni e le parti commestibili e ha lasciato agli dèi
le ossa unte di grasso [-]. Zeús,
infuriato, aveva nascosto agli uomini le sorgenti della vita, condannandoli alla
dura necessità del lavoro e della fatica, e tolto loro il fuoco. Ma Promētheús aveva rubato il fuoco agli dèi e l'avevo restituito ai mortali, insieme alla
tekhnḗ necessaria per la sua accensione e conservazione
[-]. «E senza indugio, in cambio del fuoco, [Zeús]
apprestò un malanno per gli uomini» [autíka d' antì pyròs teûxen kakòn
anthrṓpoisi]
[],
spiega a questo punto Hēsíodos, riferendosi alla creazione di
Pandṓra.
Le
Érga kaì
Hēmérai collegano allo stesso modo i due temi mitici. Qui
non si fa alcun accenno al supplizio di Promētheús;
si accenna vagamente del sacrificio di Mēkṓnē e si parla del furto del fuoco
[-].
Dopodiché, sdegnato, Zeús si rivolge al
titán:
“Iapetionídē, pántōn péri mḗdea eidṓs,
khaíreis pŷr klépsas kaì emàs phrénas ēperopeúsas,
soí t’ auti méga pma kaì andrásin essoménoisin.
toîs d’ egṑ antì pyròs dṓsō kakón, hi ken hápantes
térpōntai katà thymòn, heòn kakòn amphagapntes”,
hṑs éphat’,
ek d’
egélasse patḕr andrn te then te. |
“O figlio di Iapetós, tu
che sei il più ingegnoso di tutti,
ti rallegri di aver rubato il fuoco e di avere eluso i miei voleri:
ma hai preparato grande pena a te stesso e agli uomini che verranno.
Qual pena del fuoco, io darò loro un male del quale si rallegreranno
in cuore, stringendosi con amore al loro stesso male.”
Così parlò, e poi rise, il padre degli dèi e degli uomini. |
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-] |
«Poi rise, il padre degli dèi e degli uomini». Ed è appunto un kalòs kakós,
un «bel male», il dono che
Zeús ha deciso di elargire agli esseri umani,
quale punizione per l'hýbris di Promētheús.
E questo male si chiamerà gynḗ «donna».
Ora, per quanto i testi greci non siano espliciti,
su questo punto, l'umanità, in quei tempi primordiali, era costituita unicamente
da maschi. «Hēsíodos e altri poeti hanno scritto che
questa
Pandṓra fu la prima donna, e che prima della
sua nascita la stirpe delle donne non esisteva», osserva tuttavia Pausanías
(Periḗgēsis [I: 24,
]). Agli dèi si accompagnavano le dee, e il mare e la terra
erano gremiti di ninfe, naiadi e oceanine. Ma gli
uomini appartenevano
a un solo sesso, quello maschile. Così
Zeús ordina ora che venga creata la femmina umana, a somiglianza
delle dee.
Hḗphaistos, il dio-artefice, modella la terra
in una bellissima figura di fanciulla, mentre Athēnâ
la veste e l'adorna. La
Theogonía si dilunga a descrivere l'abbigliamento e gli
ornamenti della prima donna mortale, segni concreti e visibili della sua femminilità e capacità seduttiva:
...gaíēs gar sýmplasse periklytòs Amphigyḗeis
parthénōı aidoíēı íkelon Kronídeō dia boulás.
Zse dè kaì kósmēse thea glaukpis Athḗnē
argyphéē esthti; kata krthen dè kalýptrēn
daidaléēn kheíressi katéskhethe, thaûma idésthai;
[amphì dé hoi stephánous, neothēléos ánthea poíēs,
himertoùs períthēke karḗati Pallas Athḗnē.
amphì dé hoi stephánēn khryséēn kephalphin éthēke,
tḕn autòs poíēse periklytòs Amphigyḗeis
askḗsas palámēısi, kharizómenos Diì patrí. |
...infatti l'inclito amphigyḗeis [Hḗphaistos]
formò con la terra
un'immagine di vergine vereconda, per il volere del figlio di
Krónos,
l'ornò di cintura la dea glaukpis Athēnâ e
la vestì
di candida veste; dall'alto del capo un velo
dai mille ricami di sua mano le fece vedere, meraviglia a vedersi;
e intorno collane di fiori d'erba appena fiorita
amabili, pose sulla sua testa Pallàs
Athēnâ:
e intorno alla testa un aureo diadema le pose
che fabbricò apposta l'illustre ambidestro,
con le sue mani operando, per compiacere Zeús
padre. |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
Nelle
Érga kaì
Hēmérai, altre divinità affiancano
Hḗphaistos ed Athēnâ nella
creazione della prima donna. Viene così alla vita una
bella fanciulla, virginale nel contegno, ma dal fascino irresistibile e dall'animo
volubile e falso.
Hḗphaiston d’ ekéleuse periklytòn hótti tákhista
gaîan hýdei phýrein, en d’ anthrṓpou thémen audḕn
kaì sthénos, athanátēis dè theis eis pa eískein,
partheniks kalòn eîdos epḗraton: autàr Athḗnēn
érga didasksai, polydaídalon històn hyphaínein:
kaì khárin amphikhéai kephali khryséēn Aphrodítēn
kaì póthon argaléon kaì gyiobórous meledṓnas:
en dè thémen kýneón te nóon kaì epíklopon thos
Hermeíēn ḗnōge, diáktoron Argeiphóntēn. |
[Zeús] comandò all'inclito
Hḗphaistos che subito impastasse
terra con acqua e vi infondesse voce umana e vigore,
e il tutto fosse d'aspetto simile alle dee immortali, e di bella,
virginea, amabile presenza. E quindi che
Athēnâ
le insegnasse le arti: il saper tessere trame ben conteste.
Di spargerle sul capo grazia, ordinò all'aurea Aphrodítē,
tormentosi desideri e le pene che struggono le membra;
e ad Herms, messaggero Argeiphn, di darle
un'indole ingannatrice e l'anima di una cagna. |
Hṑs éphath’: hoi d’ epíthonto Diì Kroníōni ánakti.
autíka d’ ek gaíēs plásse klytòs Amphigyḗeis
parthénōi aidoíēi íkelon Kronídeō dià boulás:
zse dè kaì kósmēse theà glaukpis Athḗnē:
amphì dé hoi Khárités te theaì kaì pótnia Peithṑ
hórmous khryseíous éthesan khroḯ, amphì dè tḗn ge
Hrai kallíkomoi stéphon ánthesin eiarinoîsin:
pánta dé hoi khroï̀ kósmon ephḗrmose Pallàs Athḗnē.
En d’ ára hoi stḗthessi diáktoros Argeiphóntēs
pseúdeá th’ haimylíous te lógous kaì epíklopon thos
teûxe Diòs boulisi baryktýpou: en d’ ára phōnḕn
thke then kryx, onómēne dè tḗnde gynaîka
Pandṓrēn, hóti pántes Olýmpia dṓmat’ ékhontes
dron edṓrēsan, pm’ andrásin alphēstisin. |
Così egli parlò; ed essi obbedirono al sovrano, il
cronide Zeús.
E senza indugio, l'inclito ambidestro plasmò con la terra
un'immagine simile a una casta fanciulla, per volere del cronide;
Athēnâ occhi azzurri le annodò la cintura e
l'adornò;
attorno al collo le Khárites e la
veneranda Peithṓ
le misero aurei monili; la incoronarono
le Hrai, chiome fluenti, con fiori di primavera;
sul corpo le adattò ogni ornamento Pallàs Athēnâ.
Quindi, nel suo petto le infuse, l'araldo Argeiphn,
le menzogne, gli astuti discorsi e un 'indole ingannatrice,
così come voleva Zeús dal cupo fragore, e voce
infine le diede l'araldo divino. Questa donna fu chiamata
Pandṓra perché tutti gli abitanti dell'Ólympos
le dettero doni, sciagura per gli uomini che si nutrono di pane. |
Hēsíodos:
Érga kaì Hēmérai [-] |
Condotta da Hḗphaistos al
consesso degli dèi, la prima femmina umana viene accolta con stupore e
ammirazione. «Inganno senza scampo per gli uomini» la definisce
Hēsíodos
(Theogonía
[]). Il nome Pandṓra
(da pâs «tutto» e dron «dono») può essere inteso come «ricca di
doni», sia nel senso che ha ricevuto doni da tutti gli dèi, sia che elargisce
gran copia di doni agli esseri umani. Con maggior sottigliezza, può anche essere
inteso come «colei che tutti gli dèi hanno portato in dono». Ed è questo il destino della fanciulla,
che gli dèi recano in regalo ad Epimētheús.
Promētheús lo aveva avvertito: «Non accettare
doni da
Zeús». Ma Epimētheús è
indifeso, di fronte alla sfrontatezza di Zeús, e
ancor più dinanzi al fascino irresistibile di Pandṓra.
Coerente con il suo nome, il «postveggente», cade nella trappola ordita dagli
dèi e sposa la fanciulla. Il povero Epimētheús si accorgerà
dell'inganno solo quando sarà troppo tardi: il «bel male» è ormai entrato a
far parte della vita
umana.
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II - SIGNIFICATO MITICO DELLA MISOGINIA
Affermare che l'umanità, prima dell'introduzione
di Pandṓra,
fosse costituita unicamente da maschi, contiene in realtà una sorta di forzatura
logica. Il maschile è tale solo in relazione al femminile: mancando l'altro polo
della sessualità umana, esso non è più distinguibile dal concetto stesso di
umanità. Poiché la posta in gioco è proprio l'estensione di tale concetto,
Hēsíodos ne incentra la questione su un attento gioco di termini. Prima della
nascita di Pandṓra, egli usa sempre, per
indicare gli «uomini», la parola ánthrōpoi, che in greco indica gli
esseri umani in generale, distinti dagli dèi. Ma è solo dopo la creazione di Pandṓra
che gli «uomini» cesseranno di essere chiamati ánthrōpoi e diverranno
ándres, «maschi», cioè solo una metà dell'umanità.
Ts gar olṓión esti génos kaì phûla gynaikn,
pma még’ haì thnētoîsi met’ andrási naietáousin
ouloménēs peníēs ou sýmphoroi, alla kóroio. |
Da lei [Pandṓra] infatti
discende la stirpe nefasta e la razza delle donne
che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini [ándres] hanno dimora,
compagne non di rovinosa indigenza ma d'abbondanza. |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
Si noti ancora che tutta la scena della creazione della donna viene svolta da Hēsíodos utilizzando il genere neutro, come per sottolineare l'innaturalità
della sua origine e conferire una sorta di artificiosità alla comparsa del
genere femminile. La donna è dunque una costruzione, un simulacro, un
dáidalon vivente. Nel mito greco, l'essenza femminile, sottolinea Nicole
Loraux, si racchiude in una sorta di paradosso, dove «la donna assomiglia
a una donna». A differenza delle servitrici d'oro di
Hḗphaistos, automi meccanici che imitano gli esseri viventi
(Iliás [XVIII, -]), Pandṓra
è un artificio vivente. Essa polarizza l'umanità, trasformando gli ánthrōpoi
in ándres, ma non sembra appartenere davvero al genere umano
(Loraux 1989). Non è inutile ricordare che la
pratica sociale e politica dei Greci concedeva diritti solo agli ándres,
e non è difficile indovinare nel loro pensiero mitico un certo rimpianto per il
tempo precedente al giorno funesto in cui le donne furono create e il desiderio
di potersi riprodurre senza di esse (cfr. Eurypídēs:
Mḗdeia [-]; Hippólytos stephanophóros
[]).
Nessuna sorpresa se il mito di Pandṓra
sia svolto da Hēsíodos in senso fortemente
misogino. Primo esemplare femminile del genere umano, Pandṓra
è l'archetipo e l'antenata di tutte le donne, genere creato da
Zeús con il fermo proposito di
rovinare la vita degli uomini. E in una lunga tirata, Hēsíodos
ci ricorda tutte le molestie provocate dalle donne:
Hōs d’ hopót’ en smḗnessi katērephéessi mélissai
kēphnas bóskōsi, kakn xynḗonas érgōn;
haì mén te própan mar es ēélion katadýnta
ēmátiai speúdousi titheîsí te kēría leyká,
hoì d’ éntosthe ménontes epērephéas kata símblous
allótrion kámaton sphetérēn es gastér’ amntai;
hṑs d’ aútōs ándressi kakòn thnētoîsi gynaîkas
Zeùs hypsibremétēs thken, xynḗonas érgōn
argaléōn; héteron dè póren kakòn ant’ agathoîo;
hós ke gámon pheúgōn kaì mérmera érga gynaikn
mḕ gmai ethélēı, oloòn d’ epì gras híkoito
khḗteϊ gērokómoio; hó g’ ou biótou epideyḕs
zṓei, apophthiménou dè dia ktsin datéontai
khērōstaí; hı d’ aûte gámou meta moîra génētai,
kednḕn d’ éskhen ákoitin arēruîan prapídessi,
tōı dé t’ ap’ ainos kakòn esthlōı antipherízei
emmenés; hòs dé ke tétmēı atartēroîo genéthlēs,
zṓei enì stḗthessin ékhōn alíaston aníēn
thymōı kaì kradíēı, kaì anḗkeston kakón estin.
Hṓs ouk ésti Diòs klépsai nóon oudè pareltheîn. |
Come quando negli alveari ombrosi le api
nutrono i fuchi, partecipi di opere cattive:
esse per tutto il giorno, fino al tramonto del sole,
ogni giorno s'affrettano sollecite e fanno i bianchi favi,
ma quelli restando dentro gli ombrosi alveari
l'altrui fatica nel loro ventre raccolgono;
così per gli uomini mortali un male, le donne,
Zeús alto tonante fece, partecipi d'opere
moleste, e un altro male diede in cambio d'un bene.
Colui che fuggendo le nozze e le moleste opere delle donne
non vuole sposarsi e giunge alla triste vecchiaia
privo di chi della sua vecchiaia abbia cura, costui non di vitto mancante
vive, ma lui morto, i suoi beni dividono
remoti cognati; per colui invece a cui le nozze diedero il destino
ed ebbe una buona sposa, saggia nel cuore,
per lui per tutta la vita, il male contende col bene,
senza sosta; ma chi s'imbatte in una funesta genìa
vive tenendo dentro al petto incessante dolore,
nel cuore e nell'anima, e il male non ha medicina.
Così non si può ingannare il volere di Zeús, né ad
esso sottrarsi... |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
È difficile sfuggire all'impressione di trovarci di fronte a un elenco di
luoghi comuni, sia pure espresso in suggestivo linguaggio poetico.
Hēsíodos sta parlando delle origini dell'universo,
delle genealogie degli dèi, del formarsi del mondo che tutti noi conosciamo. Lo schema è teleologico. L'incontro tra i due sessi è
per noi parte
integrante dell'esistenza umana ma, vista da una prospettiva
mitica, questa compresenza di maschile e femminile va spiegata e
giustificata. Il mito della creazione di Pandṓra
viene appunto incontro a questa necessità. Ma perché presentarla da un punto di vista tanto prevenuto?
|
Pandṓra condotta da Hērmês |
Jean Alaux (1786-1864) |
L'impressione è che l'eclatante misoginia di Hēsíodos
non centri il vero bersaglio. Il poeta sta cercando di convincerci dei
motivi per cui le donne sarebbero un male per gli uomini, ma non fa che
imbastire insignificanti chiacchiere da osteria. Hēsíodos sta
probabilmente
cercando di fornire una giustificazione superficiale laddove gli manca
un motivo assai più diretto e profondo.
Ma sforziamoci di ragionare secondo uno schema
teleologico. Cos'ha comportato l'introduzione del genere femminile?
poiché stiamo parlando di miti, possiamo riformulare la domanda in questo
modo: com'era il mondo, prima che Zeús
ci fornisse le donne? Senza le gioie e i
travagli del sesso, ovviamente, ma soprattutto senza la necessità del
sesso. Il mito ellenico non fornisce informazioni su come i primi uomini si
riproducessero. Ma ha poca importanza se essi spuntassero dalla terra o cadessero
dagli alberi, come paiono suggerire alcune varianti del mito greco. Il passato
«assoluto», secondo la bella formula di Michail Bachtin, è un'epoca che
precede l'inizio del tempo, e che ci viene mostrata solo nel momento in cui
si conclude. Non è una fase storica, ma un calco in negativo del mondo che
oggi conosciamo:
dissociato nella complementarietà dei due sessi, nella necessità dell'incontro,
della seduzione, del matrimonio, della riproduzione. Ed è solo questo che conta, ai
fini del mito.
Il racconto del sacrificio di Mēkṓnē e l'episodio della
creazione di Pandṓra sono due momenti simmetrici,
complementari, di un più complesso mito della caduta dell'uomo. La dura reazione di Zeús
ha ridimensionato la natura umana colpendola in due punti fondamentali,
l'alimentazione e la sessualità. E dell'una e dell'altra punizione,
Promētheús ed
Epimētheús paiono essere i diretti responsabili:
- Sacrificio di Mēkṓnē (Promētheús) →
Alimentazione: lavoro quotidiano per strappare il cibo alla terra
- Dono di Pandṓra (Epimētheús)
→ Sessualità: introduzione della divisione in sessi e
dell'accoppiamento
Gli dèi ci hanno nascosto le sorgenti della vita, e dunque dobbiamo lavorare, faticare, strappare alla terra il nutrimento
necessario per sopravvivere. Siamo esseri effimeri, mortali, e ci perpetuiamo
solo attraverso i
nostri figli: l'introduzione della morte richiede la scoperta della
riproduzione, e dunque della scissione dei sessi. Cibo e sesso diventeranno le
due necessità, e insieme le due condanne, che definiscono i limiti della
condizione umana.
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III - LA
CREAZIONE DI PANDṒRA, ELEMENTI DI UN MITO ANTROPOGONICO
|
Pandṓra |
Jules Joseph Lefebvre (1836–1911) |
Apparentemente poco interessati al problema antropogonico, i Greci ci hanno trasmesso
diversi racconti sulla nascita o la creazione del genere umano. A seconda
delle tradizioni, fanno spuntare gli uomini dalla terra, li fanno cadere dagli
alberi, o li dicono plasmati dal fango per mano di un demiurgo.
Hēsíodos, che è la nostra fonte cosmogonica più antica e autorevole, non fa
quasi parola della nascita degli uomini. Ma sebbene sembri ignorare il mito antropogonico,
ne recupera alcuni motivi proprio nell'episodio della
creazione di Pandṓra.
Alcuni elementi del mito di Pandṓra trovano, infatti, puntuali punti di confronto con
le più antiche antropogonie attestate nel Medio Oriente e in Egitto. La stessa operazione demiurgica
che vede
il fango, l'argilla o la creta quale materia prima per la creazione dell'uomo è
elemento comune alle tradizioni dell'area mediterranea e medio-orientale.
Nel mito biblico, Yǝhwāh lōhîm
plasma Āḏām raccogliendo la polvere
dal suolo; nelle antropogonie mesopotamiche è
Enki a plasmare gli uomini dall'argilla; in quella egiziana,
Ḫnûm modella gli uomini sulla ruota del
vasaio. In Grecia, tocca a Promētheús
modellare i primi uomini utilizzando la terra inumidita con l'acqua piovana ①.
La
Theogonía di
Hēsíodos presenta schemi che rimandano alla mitologia mesopotamica, e più precisamente alla cosmogonia dell'Enûma ilû
awîlum, testo paleobabilonese meglio conosciuto con il titolo informale di «poema di Atraḫasîs».
Ma vedremo nel dettaglio le corrispondenze tra gli eventi tracciati dal poema greco e
quello mesopotamico quando tratteremo del mito del diluvio ②. In questo schema, ci occuperemo ora delle relazioni tra il mito di Pandṓra
e il racconto antropogonico dell'Enûma ilû
awîlum.
Il mondo mesopotamico giustifica la creazione dell'uomo con la necessità di
una mano d'opera che si sobbarchi l'onere di coltivare i campi e allevare gli
animali, in modo che gli dèi possano venire adeguatamente nutriti
con offerte e sacrifici ③. In particolare, l'Enûma ilû awîlum
presenta – così come la
Theogonía – una rivolta degli dèi appartenenti alla giovane generazione, gli
Igigi,
condannati a portare il
«canestro del lavoro», contro gli dèi più anziani, gli
Anunnaki, i quali
vivono nell'ozio. Al contrario della titanomachia esiodea –
che rimanda però a un diverso schema mitico –, la protesta degli dèi mesopotamici non
arriva mai ad aperta battaglia. Gli Anunnaki, preso atto della giustezza
delle rivendicazioni degli Igigi, decidono di creare un nuovo essere, l'uomo
[awîlu], che si
carichi della fatica e del sacrificio del lavoro:
wa-aš-⸢ba-at⸣ b[e-le-et-ì-lí šà-as-s]ú-ru
[š]à-as-sú-ru li-gim?-ma?-a ⸢li⸣-ib-ni-ma
šu-up-ši-ik ilim a-wi-lum li-iš-ši
il-ta-am is-sú-ú i-ša-lu
tab-sú-ut ilî e-ri-iš-tam ma-mi
at-ti-i-ma šà-as-sú-ru ba-ni-a-⸢at⸣ a-wi-lu-ti
bi-ni-ma lu-ul-la-a li-bi-il₅ ab-ša-nam
ab-ša-nam li-bi-il ši-pí-ir en-líl
šu-up-ši-ik ilim a-wi-lum li-iš-ši |
«Poiché
Bêlit-ilî è qui,
è lei che metterà al mondo e creerà
l'uomo per compiere il lavoro degli dèi!»
Interpellando dunque la dea domandarono
alla levatrice degli dèi,
Mami l'esperta:
«Sarai tu la matrice per produrre gli uomini?
Crea il prototipo umano [lullû]: che porti il nostro giogo
che porti il giogo imposto da
Enlil.
Che l'uomo si carichi della fatica degli dèi!» |
Enûma ilû awîlum [I:
-] |
In
Hēsíodos, al contrario, gli esseri umani già abitano la terra, mentre
Olympikoí e
Titânes
si affrontano nelle loro fiammeggianti battaglie. Si parla però dell'istituzione dei
sacrifici che dovranno alimentare gli dèi, e l'inganno di
Promētheús
a Mēkṓnē potrebbe avere una correlazione quella del sacrificio del dio
Weʾe nell'Enûma ilû awîlum. È un tema
complesso, che abbiamo affrontato altrove ④. Entrambi i miti, pur nelle
differenti impostazioni, tendono però a una medesima conclusione:
Krýpsantes gàr ékhousi theoì bíon anthrṓpoisin:
rhēidíōs gár ken kaì ep’ ḗmati ergássaio,
hṓste se keis eniautòn ékhein kaì aergòn eónta:
aîpsá ke pēdálion mèn hypèr kapnoû katatheîo,
érga bon d’ apóloito kaì hēmiónōn talaergn.
allà Zeùs ékrypse, kholōsámenos phresìn hisin,
hótti min exapátēse Promētheùs ankylomḗtēs. |
Gli dèi tengono infatti nascosta agli uomini la fonte
della vita;
se così non fosse, in un sol giorno ti procureresti di che vivere
magari per un anno, e rimartene in ozio,
e subito al focolare appenderesti il timone,
tralasciando il lavoro dei buoi e delle mule pazienti.
Ma Zeús l'aveva nascosta, sdegnato nell'animo,
ché
Promētheús, l'astuto, l'aveva ingannato. |
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-] |
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Pandṓra (✍
1872) |
Jules Joseph Lefebvre (1836–1911)
Museo de Bellas Artes, Buenos Aires (Argentina) |
Hēsíodos dipende da schemi mitici medio-orientali, arrivati in Grecia per
probabile mediazione anatolica. In
Mesopotamia, il destino dell'uomo a una vita di lavoro e di fatica è un
elemento ontologico primario, indispensabile al processo antropogonico; in Grecia viene
invece presentato come una punizione successivamente inflitta da
Zeús
al genere umano, e quindi come elemento secondario. Sebbene sotteso a una comune
teleologia –
sempre si tratta di una giustificazione a posteriori della condizione umana
–, il racconto ellenico ha subito una profonda rielaborazione
ideologica.
Questa è la ragione per cui molti elementi dell'antropogonia
mesopotamica li troviamo riutilizzati, in senso peculiare, nel racconto esiodeo della creazione di Pandṓra.
In entrambi gli schemi, è un dio supremo a incaricare una coppia di
divinità nel compito demiurgico. Nell'Enûma ilû awîlum, Enlil
impone ad Enki
e Nintu a creare gli esseri umani; nella
Theogonía, Zeús ordina a Hḗphaistos
e Athēnâ di creare la prima donna. La presenza di Hḗphaistos
quale demiurgo in luogo di
Promētheús, a cui è generalmente assegnata la
creazione degli esseri umani, non desta gravi problemi: Hḗphaistos
e Promētheús sono due personaggi in parte
sovrapponibili, caratterizzati da un fertile ingegno e da una spiccata capacità
creativa, e in certi casi addirittura interscambiabili (come nel mito della nascita di
Athēnâ). In quanto alla stessa
Athēnâ, viene di solito presentata o raffigurata
nell'atto di infondere l'intelligenza alla forma d'argilla plasmata da
Promētheús. ⑤
Enûma ilû awîlum |
Theogonía |
Enlil |
Zeús |
↘ |
|
↙ |
↘ |
|
↙ |
Enki |
e |
Nintu |
Hḗphaistos |
e |
Athēnâ |
⇓ ⇓ ⇓ ⇓ ⇓ |
⇓ ⇓ ⇓ ⇓ ⇓ |
Creazione degli uomini |
Creazione della prima donna |
Nel racconto paleobabilonese, la creazione dell'uomo si svolge in un luogo
sacro chiamato bît šimti, «la sala dei destini». Qui Enki e Nintu
vi portano un particolare impasto d'argilla, in cui sono stati mescolate la
carne e il sangue del dio
Weʾe, sacrificato allo scopo di conferire agli
uomini un eṭemmu, o sorta di anima immortale. Enki provvede a plasmare l'argilla,
mentre Nintu ripete le formule che l'altro le detta
coscienziosamente. Poi,
Nintu stacca quattordici pani d'argilla: ne mette
sette a destra e sette a sinistra di una bassa parete di mattoni. I quattordici
pani sembra vengano pressati in altrettanti stampi o «uteri»: da sette di essi
nasceranno degli uomini, dagli altri sette delle donne, i quali si disporranno
in altrettante coppie. Nintu stabilisce così le
regole della gravidanza e della nascita, che da allora faranno parte del mondo.
Il testo paleo-babilonese sembra descrivere la maturazione di questi archetipi
umani, mentre Nintu, accovacciata, tiene il conto
del tempo. Quando alla fine arriva il momento fissato per il parto, al decimo
mese lunare, la dea, felice e con la testa coperta, fa da levatrice. ⑥
La presenza di una coppia di demiurghi, nel racconto antropogonico, è però
assai più antica. In un testo sumerico risalente al II millennio a.C., l'Ud
reata (titolo informale: «Enki e Ninmaḫ»),
è la dea madre Namma a ordinare ad
Enki
di creare i primi esseri umani. Enki si
mette al lavoro, assolve una serie di operazioni
preliminari di cui non è facile definire la natura, viste le difficoltà
interpretativae di questo testo. Poi si rivolge a Namma
e le chiede di dare forma all'argilla prelevate dalle sponde dell'Abzu,
l'oceano cosmico. La avverte che sarà aiutata dalla dea Ninmah,
a sua volta affiancata
da sette dee in qualità di levatrici:
šag₄ im ugu abzu-ka u₃-mu-e-ni-in-šar₂
SIG₇.EN.SIG₇.DUG₃ im mu-e-kir₃-kir₃-re-ne za-e
me-dim₂ u₃-mu-e-ni-al₂
nin-maḫ-e an-ta-zu ḫe₂-ak-e
nin-imma šu-zi-an-na nin-ma-da nin-barag
nin-mug ŠAR.ŠAR.GABA nin-gun₃-na
tu-tu-a-zu ḫa-ra-gub-bu-ne |
Dopo che avrai mescolato l'argilla presa dalle sponde dell'Abzu,
si darà forma (?) all'argilla di questa matrice (?),
e quando vorrai, tu stessa, modellarne (?) la natura (?).
Ninmaḫ ti assisterà:
Ninimma, Šuzianna,
Ninmada, Ninbarag,
Ninmug, Dududuḫ ed
Erešgunna
saranno le tue aiutanti! |
Ud reata [-] |
Si noti che
in
Hēsíodos, nelle
Érga kaì Hēmérai, Hḗphaistos
e Athēnâ non lavorano da soli, ma sono adiuvati da
una serie di altre divinità. In primo luogo Aphrodítē ed
Herms, in ruoli a loro congegnali: la prima al
fine di rendere Pandṓra irresistibile agli uomini;
il secondo per plasmarle un animo menzognero e volubile. È pure significativa la presenza
di sette ulteriori dee che intervengono nell'operazione: le tre
Khárites (le «grazie»),
Peithṓ (la «persuasione») e le tre Hrai (le
«stagioni»), che sembrano occupare la nicchia delle sette dee che affiancano
Ninmaḫ nell'Ud
reata.
|
IV - LA «STORIA DEI DUE FRATELLI», UNA
PANDṒRA EGIZIANA?
Nella favola egiziana Bâta ỉḫr Anûp,
informalmente nota come «Storia dei due fratelli», conservata nel Papiro D’Orbiney (Papyrus
British Museum 10183) e risalente al regno del faraone Setẖî-merî-na-Ptaḥ
(Seti II, 1209-1205 a.C.), dinastia, Ḫnûm,
il dio criocefalo, demiurgo del genere umano, viene chiamato a plasmare una moglie per il
protagonista che è rimasto solo, e il testo ci informa che nel momento stesso
della creazione, il destino della donna è stato già deciso e già assicurato:
Raʿ-Hšaraḫt disse a
Ḫnûm: — Fabbrica una
donna per Bata, che non sieda più solo. — Allora
Ḫnûm gli fece una compagna: era bella di corpo più
di ogni donna che fosse nella terra intera e il seme di ogni dio era in lei.
Allora le sette Ḥût-ḥûr
vennero a vederla e dissero a una sola bocca: — Farà
una morte d'arma tagliente». |
Bâta ỉḫr Anûp |
Nelle sette
Ḥût-ḥûr non vediamo soltanto le sette
levatrici che adiuvano Ninmaḫ nel decidere il
destino del primo uomo creato, o le sette dee che si riuniscono attorno ad
Hḗphaistos ed Athēnâ
per vestire e ornare Pandṓra; qui hanno
la stessa funzione delle Moîrai o
Parcae, le dee
del destino che filano la vita degli individui nel mito classico, e addirittura
preludono alle fate madrine delle fiabe medievali, che si radunano intorno alla
culla dei neonati per deciderne il corso della vita.
Si è anche pensato che la scena della
creazione della moglie di Bata sia alla base del
mito della creazione della stessa Pandṓra,
pure
plasmata nella creta da un dio-artigiano e adornata dai doni di tutti gli dèi,
come narra Hēsíodos nelle
Érga kaì Hēmérai. Il progetto di Zeús di modellare
Pandṓra per arrecare infinite miserie e disgrazie
al genere umano, non coincide con lo spirito filantropico di
Ḫnûm, artigiano
evidentemente innamorato del suo lavoro. Vi sono comunque molte attinenze tra la
storia di Pandṓra e la vicenda di
Bâta ỉḫr Anûp, che gli
studiosi hanno puntualmente rilevato. In entrambi i casi, la donna creata dal
dio artigiano (Ḫnûm/Hḗphaistos) sarà oggetto di una fatale contesa.
|
V - PANDṒRA, DALLA TERRA
|
Creazione di Pandṓra
(✍
475-425 a.C.) |
Kratḗr attico a figure rosse
Ashmolean Museum, Oxford (Regno Unito) |
Da sinistra: Diónysos, Hermês,
Hḗphaistos e Pandṓra; in alto a
destra, Érōs. |
Sebbene
Hēsíodos sia l'unica fonte letteraria di un certo peso su
Pandṓra, non dobbiamo sottovalutare l'importanza
della documentazione iconografica. Ci sono infatti pervenute alcune immagini
di
Pandṓra che ne rappresentano la creazione e la vestizione; da queste
immagini si possono trarre interessanti dettagli che ci aiutano a definire il
carattere e la natura della nostra eroina.
Assai importante, al riguardo, un kratḗr attico a figure rosse, risalente alla metà del V sec. a.C.,
il quale mette in scena una versione alternativa della creazione della prima donna: la
fanciulla, vestita di tutto punto, velata e col capo incoronato, è raffigurata
dalla vita in su, mentre emerge dalla terra. Reggendo nella mano
destra un martello da scultore, Hḗphaistos
stende verso di lei la sinistra. Sul capo di Pandṓra
si libra un piccolo Érōs alato. A sinistra, si
riconoscono Diónysos ed Herms.
L'immagine sembra combinare insieme due modalità antropogoniche: il mitema
dell'emersione degli uomini dal suolo e l'opera
demiurgica di Hḗphaistos. A seconda di come
leggiamo la figura, il dio-artigiano potrebbe essere colto nell'atto di invitare
Pandṓra a venir fuori dalla terra, quanto in quello di modellarla nella creta.
Mentre nel caso della creazione degli uomini le due modalità ci sono pervenute come
miti alternativi, in quest'immagine della nascita di Pandṓra
appaiono essere strettamente intrecciate: l'antropogonia propone qui una combinazione tra
concorso femminile (l'emersione dalla madre terra) e concorso maschile (il
lavoro del demiurgo). ①
|
Creazione di Pandṓra (✍
±470 a.C.) |
Kýlix attico a figure rosse (fondo bianco), attribuito al Pittore di
Tarquinia
British Museum, Londra (Regno Unito) |
Da sinistra: Athēnâ,
Anēsídōra,
Hḗphaistos. |
Ma c'è veramente differenza tra le due modalità
antropogoniche, o esse vengono in qualche modo a coincidere? In fondo, l'argilla
utilizzata dai vari demiurghi per plasmare gli esseri umani viene essa stessa
dalla terra. È facilmente rilevabile la correlazione para-etimologica tra «uomo»
e «terra», sia in ebraico (āḏām
e ăḏāmāh) che in latino (homo e
humus). Il nome Pandṓra, «tutti i doni», è un
trasparente epiteto della dea-terra
G.
Il mitema dell'ánodos, ovvero, dell'emersione dalla terra, è tipico delle potenze ctonie
e della fecondità. In uno skýphos attico a figure rosse, anch'esso
risalente alla metà del V secolo a.C., una donna spunta parimenti dal suolo, mentre due panískoi –
evidenti simboli della fertilità della natura – danzano ai due lati. La figura
in questione non porta alcun nome: la sua identificazione con Pandṓra
deriva dal confronto con l'immagine precedente, ma molti studiosi sono persuasi
che la figura femminile qui rappresenti proprio G. [immagine]✦
Su una kýlix attico a figure rosse del 470 a.C., sono
raffigurati Hḗphaistos e Athēnâ
evidentemente intenti ad acconciare e vestire Pandṓra.
Il nome della fanciulla è qui riportato nella forma Anēsídōra, «[colei
che] manda su i suoi doni», e questo è appunto un altro nome della dea-terra
G.
Se gli esseri umani sono emanazioni del suolo
materiale, Pandṓra lo è in un senso assai più
esplicito. È la Terra stessa che prende vita e si fa donna.
|
VI - IL PÍTHOS E I SUOI ENIGMI
L'espressione «vaso di Pandora» viene ancora oggi usata metaforicamente per
alludere all'improvvisa scoperta di un problema che, una volta manifesto, non è
più possibile tornare a celare.
Ma il proverbiale «vaso» era più precisamente un píthos, un orcio o una giara di forma
caratteristica, dalla base stretta e l'imboccatura ampia e larga. Comuni già in epoca
minoica, i píthoi venivano utilizzati per immagazzinare cereali, vino o
olio. Alcuni erano abbastanza grandi per contenere dei corpi umani: ed
è proprio in un píthos che si nasconde re Eurysteús
quando Hērakls gli porta il cinghiale che ha
catturato. I píthoi erano fatti generalmente di ceramica,
spesso decorati con figure a rilievo, e con larghi manici nella parte superiore.
Il mitico episodio del «vaso» di
Pandṓra viene riportato
unicamente da
Hēsíodos:
Prìn mèn gàr zṓeskon epì khthonì phŷl’ anthrṓpōn
nósphin áter te kakn kaì áter khalepoîo pónoio
noúsōn t’ argaléōn, haí t’ andrási Kras édōkan.
aîpsa gàr en kakótēti brotoì katagēráskousin.
Allà gynḕ kheíressi píthou méga pm’ apheloûsa
eskédas̱’: anthrṓpoisi d’ emḗsato kḗdea lygrá.
Moúnē d’ autóthi Elpìs en arrhḗktoisi dómoisin
éndon émimne píthou hypò kheílesin, oudè thýraze
exéptē: prósthen gàr epéllabe pma píthoio
aigiókhou boulisi Diòs nephelēgerétao.
Álla dè myría lygrà kat’ anthrṓpous alálētai:
pleíē mèn gàr gaîa kakn, pleíē dè thálassa:
noûsoi d’ anthrṓpoisin eph’ hēmérēi, hai d’ epì nyktì
autómatoi phoitsi kakà thnētoîsi phérousai
sigi, epeì phōnḕn exeíleto mētíeta Zeús. |
Fino ad allora viveva sulla terra, lontana dai mali, la
stirpe mortale,
senza la sfibrante fatica e senza il morbo crudele
che trae gli
umani alla morte:
rapidamente, infatti, invecchiano gli uomini nel
dolore.
Ma la donna, levando di sua mano il grande coperchio del píthos,
disperse i mali, preparando agli uomini affanni luttuosi.
Soltanto
Elpís, la speranza, là nella casa intatta,
dentro
rimase sotto i labbri del píthos, né volò fuori,
perché prima
Pandṓra rimise al vaso il coperchio,
secondo il
volere dell'egioco Zeús, adunatore di nembi.
Ma gli
altri, i mali infiniti, errano in mezzo agli umani;
piena, infatti, di mali è la
terra, pieno ne è il mare,
e le malattie si aggirano di notte e di giorno fra gli uomini,
in silenzio portando dolore ai mortali;
e
questo perché Zeús tolse loro la voce. |
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai [-] |
|
Píthos a quattro anse |
Minoico recente II (±1500 a.C.), da Knōsós, Creta (Grecia).
Musée du Louvre, Parigi (Francia) |
Il testo originale è piuttosto avaro di dettagli. Non viene detto da dove venisse il píthos, né come fosse finito tra le mani di
Pandṓra. Non sappiamo per quale ragione la
fanciulla ne sollevò il coperchio, ma le sue motivazioni personali passano in
secondo piano, rispetto al fatto che tutto avveniva per volere di
Zeús. Riconosciamo di essere di fronte a un motivo
letterario: un passo di Hómēros parla di due vasi, piazzati sulla soglia della
dimora di Zeús, da cui tutte le cose buone e le
cose cattive venivano distribuite ai mortali (Iliás
[XIV: -]).
Tra le domande e le perplessità sollevate dal píthos di
Pandṓra, una
delle più durature riguarda la natura dei kakoí, o «mali», che ne
sarebbero usciti fuori.
Hēsíodos li descrive come malattie che abbreviano e rendono penosa l'esistenza
umana, e conferisce loro vita propria, rendendoli assai simili ai
Nyktîdai, le schiera di personificazioni
astratte generate da Nýx (Theogonía
[-]) ①. I kakoí di Hēsíodos si muovono a loro piacere tra gli uomini, in silenzio, di
giorno e di notte, portando malattie e sofferenze. Inoltre,
Zeús ha tolto loro la voce, in modo che non possano avvertire
gli uomini del loro malefico appressarsi.
Anche i popoli del Medio Oriente
personificavano il propagarsi delle malattie nell'immagine di dèmoni vaganti,
invisibili, spietati. Si confronti la descrizione dei kakoí fornita da
Hēsíodos
con questo
scongiuro paleobabilonese contro i dèmoni:
|
Essi sono liberi di muoversi,
essi schiamazzano sopra, essi schiamazzano sotto.
Essi sono la bile venefica degli dèi.
Essi sono una grande tempesta proveniente dal cielo;
essi sono la civetta che alberga in città.
Essi sono generati dal seme di An, essi sono i
figli partoriti dalla terra.
Sugli alti tetti e sulle ampie terrazze essi turbinano come una tempesta.
Essi non sono impediti né dalle porte né dai chiavistelli,
essi sgusciano attraverso le porte come i serpenti.
Essi portano via la moglie dal seno del marito,
essi rimuovono il bambino dalle ginocchia del padre;
essi portano via il fidanzato della casa del suocero;
essi sono il silenzio e lo stupore che perseguita l'uomo alle spalle... |
Udug-ḫul-a-meš [V: i: 3-8] |
|
Pandṓra (✍
1879) |
Dante Gabriel Rossetti (1828-1882)
Faringdon Collection Trust, Buscot Park (Regno Unito) |
In uno studio elaborato più sul piano simbolico che mitologico, Charles Penglase suggerisce
che il vaso di
Pandṓra potesse essere una rappresentazione del
mondo infero; l'associazione sarebbe stato forse fissata dall'uso di raccogliere nei píthoi
le ceneri e le ossa dei defunti. Di conseguenza, anche il
Tártaros, dimora delle anime dei morti, poteva
essere descritto in forma di vaso: un'immensa
voragine cui si accedeva attraverso una stretta apertura superiore
(Theogonía [-]).
Di conseguenza, i kakoí che sprigionano dal píthos andrebbero
intesi come le malefiche esalazioni provenienti dal mondo infero.
(Penglase
1994)
Consideriamo piuttosto improbabili le conclusioni dello studioso australiano,
che vedrebbero nel
tema dell'ánodos, l'emersione dalla terra di
Pandṓra – testimoniata nell'iconografia –, una sorta di
risalita
dal mondo infero, affine al ritorno di Inanna dal
regno di Arali. Il mito greco, a nostro avviso, appartiene a un
tema affatto
diverso. Rimane però comune ai due miti il motivo della vestizione: sia nel caso di Inanna,
che di
Pandṓra, gli ornamenti e i gioielli di cui l'eroina viene vestita e
adornata sono manifestazioni tangibili della sua femminilità e capacità seduttiva.
(Penglase
1994)
Si
noti che i paesi di lingua anglosassone hanno
sostituito il «vaso» di
Pandṓra con uno «scrigno». L'errore sembra sia dovuto a un'errata traduzione di
Erasmus da Rotterdam che, riportando la storia di
Pandṓra dal greco in latino, confuse la parola píthos «vaso»
con pyxís «scatola». Tale errore è stato poi rinforzato dai libri di
divulgazione, dai dipinti e dalle
figurazioni degli artisti (esemplari le «Pandore» di Dante Gabriel Rossetti, di
cui riproduciamo qui accanto una delle varie versioni), dove la giovane maliarda è
solitamente raffigurata
nell'atto di aprire il coperchio, appunto, di uno scrigno o di una piccola
scatola. |
VII - «ANCHE LA SPEME, ULTIMA DEA»
L'ultimo nodo da sciogliere riguarda
Elpís, la «speranza», rimasta all'interno del
píthos non troppo prontamente richiuso da
Pandṓra.
Moúnē d’ autóthi Elpìs en arrhḗktoisi dómoisin
éndon émimne píthou hypò kheílesin, oudè thýraze
exéptē: prósthen gàr epéllabe pma píthoio
aigiókhou boulisi Diòs nephelēgerétao. |
Soltanto
Elpís, la speranza, là nella casa intatta,
dentro
rimase sotto i labbri del píthos, né volò fuori,
perché prima
Pandṓra rimise al vaso il coperchio,
secondo il
volere dell'egioco Zeús, adunatore di nembi. |
Hēsíodos:
Érga kaì Hēmérai [-] |
Questo passo – al di là delle frettolose interpretazioni dei soliti
divulgatori – è in realtà irto di difficoltà. Il
primo problema è legato al
significato della parola elpís, che viene generalmente tradotto con
«speranza», pur avendo in greco molte diverse sfumature di significato
(«aspettazione, sollecitudine, timore», ma anche «opinione, pensiero»), con
senso non necessariamente positivo; il verbo élpō
copre un'ampia area semantica, significando via via «sperare, attendere,
supporre, pensare».
A seconda dei punti di vista, dunque, la «speranza» può essere percepita come una
passiva e inutile illusione; oppure, come una
forza che ci sostiene nelle avversità e ci spinge a migliorare la nostra
condizione. Il fatto che
Elpís si trovasse nel vaso, insieme ai kakoí,
induce a pensare che fosse anch'essa intesa come un male. La parola elpís
è altrove utilizzata dallo stesso
Hēsíodos in senso negativo: essa è definita «vuota»
[] e «non buona» [],
perché induce gli uomini a nutrire illusioni sulla loro sorte futura
trattenendoli dall'agire attivamente per migliorarla.
Pollà d' aergòs anḗr, keneḕn epì elpída mímnōn,
khrēízōn biótoio, kakà proseléxato thymı.
Elpìs d' ouk agathḕ kekhrēménon ándra komízei,
hḗmenon en léskhēı, tı mḕ bíos árkios eíē. |
Spesso in difetto di viveri, basandosi su una vuota
speranza,
l'uomo inoperoso, indirizza al suo animo gravi parole.
La speranza non buona accompagna l'uomo inoperoso
che, seduto nel cortile, non ha mezzi sufficienti per vivere. |
Hēsíodos: Érga kaì Hēmérai
[-] |
Alcuni interpreti hanno proposto una traduzione neutra della parola elpís,
quale «aspettazione». Ma di nuovo, aspettazione del bene o del male? Gli
studiosi hanno sostenuto l'una e l'altra tesi. E, a seconda di come si
intende la
parola elpís, il fatto che
Elpís rimanga confinata all'interno del vaso può
assumere un senso positivo o negativo.
Il píthos va dunque inteso
come una prigione o piuttosto come un contenitore? Richiudendo il vaso dopo
averne fatto uscire i kakoí,
Pandṓra vi ha imprigionato Elpís,
o piuttosto l'ha messa al sicuro? In altre parole, ha escluso definitivamente la
«speranza» dalla vita degli uomini, oppure, evitando che si disperdesse, l'ha
conservata in attesa di un suo futuro impiego? Le questioni sono
strettamente legate le une alle altre, e tutte quante dipendono a loro volta dal
valore della parola elpís in
Hēsíodos. I dati a nostra disposizione non
permettono di definire con esattezza quali fossero le intentiones auctores, e i vari
interpreti hanno fornito le interpretazioni più differenti. Rinchiudendo per sempre Elpís
all'interno del vaso,
Pandṓra ha reso l'esistenza umana una vana
sequela di dolori e sofferenze, completamente priva non solo di riscatto, ma
anche dell'illusione di un riscatto? Oppure possiamo ancora trovare un sollievo
alla nostra condizione umana, in fondo al píthos di
Pandṓra?
Le letture classiche di questo mito propendono per l'ultima ipotesi. Il
favolista Aísōpos, circa un secolo dopo
Hēsíodos, ci presenta una variazione letteraria del mito
del vaso, lasciando la porta aperta a un cauto ottimismo:
|
Zeús raccolse insieme tutte
le cose buone in un píthos e le sigillò richiudendo il coperchio. Poi
lasciò il vaso nelle mani degli uomini. Ma un uomo non riuscì a controllarsi e
volle sapere cosa c'era nel vaso, dischiuse il coperchio e tutte le cose buone
fuggirono via e tornarono al cospetto degli dèi. In tal modo le buone cose
abbandonarono la terra, tranne Elpís, la speranza.
Richiuso il coperchio, ella rimase all'interno del vaso. Questa è la ragione per
cui tra la gente si trova ancora la speranza di riottenere tutte quelle buone
cose che ci hanno abbandonato. |
Aísōpos: Mŷthoi
[526] |
Nella versione aesopea,
Pandṓra è sostituita da un anonimo
personaggio maschile, e alcuni studiosi hanno proposto di vedervi una variante
tradita dove è Epimētheús, e non sua moglie,
ad aprire il vaso. Più probabile, però, è che si tratti di una semplice
rielaborazione morale di un motivo letterario originariamente dissociato dalla
figura di
Pandṓra. Il fatto che il vaso contenga qui le
«cose buone», e non i kakoí esiodei, è una variazione di poco conto, e il
fine dell'apologo rimane invariato: una volta aperto il vaso, la vita umana
diverrà preda del male e della sofferenza. Vero è che l'ottimismo di
Aísōpos suona piuttosto sarcastico: Elpís
è una speranza vuota e infondata, che pure, illudendoci, ci rende sopportabile la vita.
Si tenga anche conto che, sullo stesso soggetto, Aísōpos ha composto una seconda
favola, dove le «cose cattive» piombano dal cielo sulla terra,
per rendere ardua la vita al genere umano; ma Zeús
impedisce alle «cose buone» di fare lo stesso, e permette loro di scendere sulla
terra solo una alla volta. E questa è la ragione per cui il male è assai più
frequente del bene (Mŷthos
[525]).
Il poeta Théognis, più o meno contemporaneo di Aísōpos, è assai più
sconsolato e pessimista:
|
Elpís, la speranza, è
l'unica buona cosa che sia rimasta tra gli uomini; tutte le altre ci hanno
lasciato e sono tornate sull'Ólympos. Pístis, la
potente fiducia, è partita; Sōphrosýnē, la
moderazione, ha lasciato gli uomini; le Khárites,
le grazie, amico mio, hanno abbandonato la terra. Dei giuramenti e dei giudizi
degli uomini non c'è più da fidarsi, e nessuno più venera gli dèi immortali. La
razza degli uomini pii è perita, e coloro che sono rimasti non conoscono più né
regole né pietà. |
Théognis: Phragmenta
[I, 1135] |
Tutte le buone cose, lasciando la terra, hanno semplicemente svelato la cruda
e malvagia realtà della natura umana. |
VIII - PANDṒRA E ḤAWWĀH, DUE PRIMEDONNE A CONFRONTO
Nessuna sorpresa se, fin dagli esordi degli studi mitologici,
Pandṓra sia stata confrontata
con la biblica
Ḥawwāh. Ma sebbene ci troviamo di fronte
a un tema comune, anticamente diffuso nel mediterraneo orientale e nel Medio
Oriente, un confronto tra
Pandṓra e
Ḥawwāh non è agevole come potrebbe
sembrare a prima vista. Vero, sono entrambe delle «prime donne», modello e archetipo del sesso
femminile,
nonché causa della caduta dell'uomo dal suo stato di primordiale innocenza e dell'ingresso del male del mondo; ma i
loro tratti non sono direttamente confrontabili. Non di meno, un lavoro
comparativo può portare a risultati piuttosto interessanti.
Rispetto all'uomo, plasmato per primo,
Ḥawwāh e
Pandṓra vengono create in un momento
successivo, ma per differenti finalità. Nel mito greco, Zeús
ordina la creazione della donna senza che l'uomo ne avverta la necessità, al
puro scopo di rovinargli la vita; in quello ebraico, Yǝhwāh si accorge della solitudine di Āḏām
e gli fornisce una donna che gli faccia da compagna ①. E mentre
Pandṓra viene creata separatamente, ripetendo
le modalità demiurgiche già attuate da Promētheús
per plasmare gli uomini, nel mito biblico
Ḥawwāh viene tratta dal fianco di Āḏām
(Bǝrēʾšîṯ [2: -]). Così, mentre in
Grecia la donna risulta una copia antisimmetrica dell'uomo, presso gli Ebrei è
considerata la sua metà complementare.
Wǝ hannāḥāš hāyāh ʿārûm mikkōl ḥayyaṯ
haśśaḏẹh, ăšẹr ʿāśāh Yǝhwāh
lōhîm wayyōʾmẹr
ẹl-hāʾiššāh a kî-ʾāmar
lōhîm, lōʾ ṯōʾḵǝlû mikkōl ʿēṣ haggān. |
Ora il serpente era astuto più di tutte le fiere della
steppa che Yǝhwāh lōhîm
aveva fatto, e disse alla donna: “È dunque vero che
lōhîm vi ha detto:
«Non
dovete mangiare di tutti gli alberi del giardino?» |
Wattōʾmẹr hāʾišsāh, ẹl hannāḥāš: mippǝrî ʿēṣ-haggān
nōʾḵēl. |
Rispose la donna al serpente: “Dei frutti
degli alberi del giardino noi possiamo mangiare. |
Wûmippǝrî hāʿēṣ ăšẹr bǝṯôkǝ-haggān āmar
lōhîm
lōʾ ṯōʾḵǝlû mimmẹnnû wǝlōʾ
ṯiggǝʿû bô:
pẹn-tǝmuṯun. |
“Ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino,
lōhîm ha detto: Non lo
dovete mangiare e non lo dovete toccare, per paura che ne moriate”. |
Wayyōʾmẹr hannāḥāš, ẹl-hāʾiššāh: lōʾ-moṯ,
tǝmuṯûn. |
Ma il serpente disse alla donna: “No,
voi non morirete. |
Kî yōḏēʿ lōhîm, kî bǝyôm ăḵālkẹm
mimmẹnnû wǝniqǝḥû ʿênêḵẹm; wihyîṯẹm, kēʾlōhîm
yōḏǝʿê, ṭoḇ wārāʿ. |
“Anzi, lōhîm
sa che il giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno allora i vostri occhi e
diventerete come lōhîm:
conoscitori del bene e del male”. |
Wattērẹʾ hāʾišsāh kî ṭoḇ hāʿēṣ lǝmaʾăḵāl
wǝḵî ṯaʾăwāh-hûʾ lāʿênayim, wǝnẹḥmāḏ hāʿēṣ
lǝhaśkîl wattiqqaḥ mippiryô, wattōʾḵal
wattittēn gam-lǝʾîšāh ʿimmāh, wayyōʾḵal. |
Allora la donna vide che l'albero era buono a
mangiarsi, e che esso era seducente per gli occhi e che era, quell'albero,
desiderabile per avere la conoscenza; perciò prese del suo frutto e
ne mangiò, poi ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli
ne mangiò. |
Wattippāqaḥnāh, ʿênê sǝnêhẹm
wayyēḏǝʿû kî
ʿêrummim hēm... |
Allora si aprirono gli occhi di ambedue e
conobbero che essi erano nudi... |
Bǝrēʾšîṯ
[3: -] |
Il racconto biblico attinge a mitemi affatto diversi da quello
greco. Tuttavia
Epimētheús ed Āḏām
sono entrambi vittime di un
inganno che ha il suo strumento proprio nella donna che è
stata loro recapitata a domicilio:
Zeús sa che
Pandṓra scoperchierà il fatidico píthos, una volta
indotto l'ignaro Epimētheús
a sposarla; e il serpente convince
Ḥawwāh ad assaggiare il frutto
dell'albero della conoscenza, non ignorando che lei lo offrirà ad Āḏām.
In entrambi i casi vi è violazione di un consiglio o
divieto: Promētheús
aveva ben avvertito Epimētheús
a non accettare alcun dono da Zeús;
Yǝhwāh aveva proibito ad
Āḏām
di mangiare il fatidico frutto. E mentre
Epimētheús
trasgredisce per stolidità, Āḏām
per debolezza.
Subito dopo, avvertendo i passi di
Yǝhwāh che camminava nel giardino di ʿĒḏẹn, Āḏām
e Ḥawwāh
fuggono a nascondersi, consapevoli della
propria nudità. Yǝhwāh comprende immediatamente
che
i due hanno disubbidito al suo ordine. Maledice innanzitutto il
serpente. Poi si rivolge all'uomo e alla donna e, prima di cacciarli per sempre
dal giardino, così stabilisce:
El-hāʾiššāh ʾāmar, harbāh ʾarbẹ ʿiṣṣǝḇônēḵ
wǝhērōnēḵ-bǝʿẹṣẹḇ tēlǝḏî ḇānîm
wǝʾẹlʾîšēḵ,
tǝšûqātēḵ wǝhûʾ yimšāl-bāḵ. |
[Yǝhwāh] disse alla donna: “Farò numerose assai le
tue sofferenze e le tue gravidanze; con doglie partorirai i figli, tuttavia la
passione ti spingerà verso tuo marito, ma lui vorrà dominare su di te”. |
Wûlǝʾāḏām āmar, kî-šāmaʿtā lǝqôl ʾištẹḵā
wattōʾḵal minhāʿēṣ ʾăšẹr ṣiwwîṯîḵā lēʾmōr
lōʾ ṯōʾḵal mimmẹnnû-ʾărûrāh hāʾăḏāmāh, baʿăḇûrẹḵā
bǝʿiṣṣāḇôn tōʾḵǝlẹnnāh kōl yǝmê ḥayyêkā. |
E disse all'uomo: “Perché hai ascoltato la voce di tua
moglie e hai mangiato dell'albero, circa il quale t'avevo dato un comando,
dicendo «Non ne devi mangiare», maledetto sia il suolo per causa tua. Con fatica
ne trarrai il nutrimento tutti i giorni della tua vita. |
Wǝqôṣ wǝḏardar taṣmîaḥ lāḵ;
wǝʾāḵaltā ẹṯʿēśẹḇ
haśśāḏẹ. |
“Ti germoglierà spine e cardi e tu mangerai le graminacee
della campagna. |
Bǝzēʿaṯ appêḵā tōʾḵal lẹḥẹm, ʿaḏ šûḇǝḵā
ẹl-hāʾăḏāmāh kî mimmẹnnāh luqqāḥtā: kî-ʿāār
ʾattāh, wǝʾẹl-ʿāār tāšûḇ. |
“Con il sudore del tuo volto mangerai pane, finché tornerai
nel suolo, perché da esso sei stato tratto: infatti sei polvere e in polvere
devi ritornare”. |
Bǝrēʾšîṯ
[3: -] |
Le conseguenze per il genere umano sono le medesime che
avevano già trovato in
Hēsíodos. Il poeta greco era stato chiaro a
riferire i due punti dove s'incardina la caduta dell'uomo
dallo stato primordiale: alimentazione e riproduzione, ovvero la necessità del lavoro e l'inevitabilità della riproduzione sessuata.
Le condanne di Yǝhwāh vertono
sui due medesimi elementi:
- Condanna di Āḏām →
Alimentazione: lavoro, fatica e sudore della fronte;
- Condanna di
Ḥawwāh → Riproduzione: concupiscenza,
sessualità, gravidanza e dolori del parto.
Alla diffusione dei mali sulla terra, dovuto all'apertura del
vaso di Pandṓra, corrisponde nel mito biblico
la maledizione che investe l'intera terra, la quale, da quel momento,
«germoglierà spine e cardi». Hēsíodos riferisce che i mali liberati da
Pandṓra porteranno ai mortali «affanni luttuosi», accorciando le loro
vite nel dolore e nella sofferenza, laddove Yahweh
è esplicito a ricordare ad Āḏām la propria
mortalità: egli è destinato a «tornare alla terra».
L'uomo entra nella storia e la
sua vita d'ora in poi sarà una lotta quotidiana per la sopravvivenza, un cumulo
di dolori e di fatiche per strappare alla terra il necessario nutrimento; l'atemporalità
si chiude, l'uomo conosce la malattia, la vecchiaia e la morte, e ciò richiede l'introduzione della
sessualità e della riproduzione. Di tutto questo, la donna è tramite e
strumento. ②
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Eva prima Pandora (✍
±1550) |
Jean Cousin l'Ancien (1490-1560)
Pittura su legno, 150 x 97 cm. Musée du Louvre, Parigi (Francia). |
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BIBLIOGRAFIA ► |
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