STUDI

 

LA DIVISIONE DELLE ACQUE DALLE ACQUE
 
   
Dalla Bibbia all'Enūma elîš, dalle tavolette di Ugariṭ ai poemi di Hómēros:
la lotta di Dio contro le acque primordiali.

DIO: L'UNICO?

Il monoteismo, che è il carattere fondamentale, anzi, distintivo, della religione ebraica, non è altro che il punto di arrivo di una lunga speculazione sacerdotale.

Lo studio esegetico degli scritti biblici, unito ai ritrovamenti archeologici, indica senza ombra di dubbio che la religione ebraica delle origini non dovette essere molto dissimile dai politeismi che troviamo attestati presso gli altri popoli cananei. Fin dagli anni '50 gli studiosi hanno cominciato a rendersi conto che sotto il rigore teologico documentato dalla Bibbia sussisteva una situazione completamente diversa. Per quanto il culto dell'unico dio Yǝhwāh fosse l'aspetto principale dell'Antico Testamento, non di meno poteva non essere il principale aspetto della religione dell'antico Israele. Come afferma il biblista Massimo Baldacci, «si hanno oggi elementi tali di giudizio da poter affermare che il Dio solo, almeno in una fase iniziale della fede di Israele, fosse venerato al pari di un nutrito numero di altri dèi».

La religione di Israele antecedente all'esilio, prima del V secolo avanti Cristo, doveva essere una semplice diramazione della religione cananea, all'inizio forse neppure riconoscibile da quella. Yəhwāh era dio di Israele, ma nessuno, prima dei Profeti, immaginava di essere nel peccato se coltivava una fede politeista o se annetteva alla figura di Yəhwāh simboli propri di altre divinità cananee, come El o Ba˓al, né se affiancava a Dio la figura femminile di Ašerah.

Le iscrizioni dell'VIII secolo a.C. sono chiare: la dea Ašerah è menzionata alla stessa stregua di Yəhwāh in contesti benedizionali.

Ti benedico tramite Yəhwāh e tramite la sua Ašerah.

Iscrizione paleoebraica 

Un processo verso un enoteismo sempre più spinto porterà nel corso dei secoli la figura di Yəhwāh ad emergere e distaccarsi dalle altre figure divine, assorbendo nel contempo i caratteri delle divinità che metteva in ombra. La preminenza cosmica di El, il carattere atmosferico e temporalesco di Ba˓al e Hadad, la potenza e la regalità di Enlil. Molti nomi e molte figure divine concorsero alla formazione di quello che sarebbe stato il Dio Unico degli Ebrei. Ma sarà solo con la fine della monarchia, nel 586 a.C., che lo yahwismo monoteista inizierà finalmente la sua corsa inarrestabile, lasciando al palo tutti gli altri dèi di Kǝnaʿan.

La Bibbia fu compilata probabilmente durante l'epoca della deportazione babilonese (586-538 a.C.) o subito dopo. I teologi che si occuparono di dare una forma canonica agli scritti sacri cucirono testi di diversa antichità e provenienza, adattandoli a una realtà religiosa diretta verso il monoteismo. Tuttavia, a voler leggere la Bibbia in filigrana, traspaiono molti aspetti e frammenti che riflettono una situazione antica affatto diversa. Troviamo scritto nel libro dei «Salmi»:

lōhîm niṣṣāḇ ba˓ăḏaṯ-ʾēl
bǝqereḇ ʾlōhîm yišǝpōṭ.

lōhîm presiede all'assemblea divina
in mezzo agli dèi egli giudica.

Tǝhillîm [82, ] 

Vi traspare, com'è evidente, una situazione di enoteismo. Yəhwāh lōhîm è il più grande e potente di tutti gli dèi, ma non è l'unico. Vi è anzi un'assemblea degli dèi a cui lōhîm presiede. La medesima immagine ricompare nelle iscrizioni cananee, dove troviamo il dio supremo El presiedere all'assemblea divina. La scoperta delle tavolette di Ugariṭ, nel 1929, ha permesso di contestualizzare la Bibbia. Molte immagini riferite a Yəhwāh sono comuni di una realtà religiosa assai più vasta e variegata. Leggiamo in un altro salmo biblico:

Šîrû l-ʾēlōhîm! Zammǝrû šǝmô!
Sōllû lārōḵēḇ bā˓ărābôṯ!
Bǝyāh šǝmô
wǝ ˓ilǝzû lǝānâw!

Cantate, o dèi! Inneggiate, o suoi cieli!
Spianate la strada al cavaliere delle nubi!
In Yəhwāh gioite
ed esultate dinanzi a lui!

Tǝhillîm [68, ] 

Sembra che Yəhwāh avesse il predominio sul cielo e sulle nubi non in quando «Dio», ma in quanto dio dalle caratteristiche originariamente atmosferiche. Probabilmente perché nella figura del dio biblico si fuse quella di una divinità adorata in una zona montuosa della Palestina, prima che Mōšẹh e le sue genti ne facessero il loro dio tutelare. L'espressione «cavaliere delle nubi» [rōḵēḇ bā˓ărābôṯ], che troviamo anche in Yǝša˓yāhû [19, ], era un epiteto del dio cananeo Ba˓al [RKB ˓RPT], dispensatore della pioggia vivificante oltre che dio guerriero, caratteristiche che passarono entrambe a Yəhwāh nel momento in cui il titolo slittò dal mondo cananeo a quello biblico, diventando appannaggio del dio d'Israele. Leggiamo infatti in un testo proveniente da Ugariṭ e risalente al XIV secolo a.C.:

 

Per sette anni possa Ba˓al essere assente,
per otto anni il cavaliere delle nubi!

CAT [1.19 - I: -] 

Per comprendere la natura e l'origine dei miti, bisogna inserire ogni tradizione nel suo contesto geografico e storico. Il testo biblico non sfugge a questa necessità. Ogni espressione mitica, così come ci è pervenuta, è il risultato di secolari trasformazioni e interpretazioni di cui non conosciamo le fasi più antiche. Noi siamo spesso testimoni soltanto dei risultati finali, allorché molte espressioni mitiche avevano già assunto la loro forma ultima e definitiva.

PARTIAMO DALLA BIBBIA: CAOS ACQUEO E SUA SEPARAZIONE

Partiamo dal Bǝrēʾšîṯ e dal suo possente incipit:

Bǝrēʾšîṯ bārāʾ lōhîm ēt haššāmayim wǝ ēṯ ārẹṣ. In principio lōhîm creò il cielo e la terra.

Bǝrēʾšîṯ [1, ] 

La parola solitamente qui tradotta con «Dio» è nell'originale lōhîm, forma plurale del termine generico ēl, «dio». Non bisogna però pensare, in questo caso, al residuo di un antico politeismo, quanto a un plurale di maestà, tant'è vero che il verbo è regolarmente disposto al singolare. Questo plurale non deve suggerire un'immagine sul tipo «tutti gli dèi» (traduzione che troviamo in alcuni tentativi di fare una resa «letterale» del testo), ma l'identificazione di una divinità totale e definita. Il termine ēl avrebbe reso un significato generico, «un dio», ma lōhîm si traduce senz'altro con «Dio».

Come abbiamo visto, il passaggio concettuale tra «un dio» e «Dio» non fu immediato, ma il risultato di una lunga elaborazione teologica. Allo stesso modo, il motivo della creatio ex nihilo dell'universo da parte di questo unico Dio è solo il punto d'arrivo di analoghe speculazioni. La teologia cristiana, seguendo in ciò il pensiero ebraico, ha tradizionalmente interpretato i primi versi del Bǝrēʾšîṯ come una prova della creazione dal nulla, ma oggi gli stessi biblisti tendono a pensare che l'idea di tale intento esuli dalle intenzioni del testo. In una fase più antica, presumibilmente, non si parlava di creazione ma di imposizione di un ordine sul caos.

Ma andiamo ancora avanti di un mezzo versetto:

Bǝrēʾšîṯ bārāʾ lōhîm ēt haššāmayim wǝ ēṯ ārẹṣ. In principio lōhîm creò il cielo e la terra.

Wǝ hāʾārẹṣ hāyǝṯāh ṯōhû wā ḇōhû...

La terra era informe e vuota...

Bǝrēʾšîṯ [1, -] 

La creazione del sole e della luna

Michelangelo, Cappella Sistina (1508-1512).

Poniamo l'attenzione sui due aggettivi che descrivono la terra appena creata, «informe e vuota». Nell'originale ebraico si tratta di due parole di ardua decifrazione: ṯōhû wā ḇōhû, regolarmente coordinate dalla congiunzione . Questi termini paiono suggerire una sorta di formula evocativa piuttosto che richiamare un reale significato. Fatto il parallelo con altre lingue semitiche, senza addentrarci nel campo della filologia, sembra che ṯōhû indichi l'asprezza del deserto e ḇōhû la vacuità. La locuzione è rimasta a indicare l'idea di uno stato primordiale, caotico, privo di forma e di sostanza.

Di qui la curiosa traduzione greca nella Bibbia dei Settanta, che di questi due termini preferì catturarne il suono più che il significato, rendendoli con aóratos e akataskeuástōs, letteralmente «invisibile» e «impreparato», e che tuttavia ampliano già il senso concettuale dei termini originali. Nelle successive speculazioni rabbiniche, ṯōhû e ḇōhû arrivarono a indicare l'opposizione di materia e forma, suggerendo l'idea che tutte le cose già preesistessero nel caos originario, ed lōhîm, evocandole, le abbia tratte fuori dal loro stato di potenza dando loro un'identità precisa. Ci stiamo dunque movendo lentamente verso i concetti che nella filosofia greca erano definiti dalle parole cháos e kósmos, di cui abbiamo parlato nella sezione precedente.

Phílōn di Alexándreia (±20 a.C. – ±45 d.C.), che come sappiamo cercò di fondere la sapienza ebraica alla filosofia greca, suggerì un parallelo tra il ṯōhû wā ḇōhû biblico e il cháos con cui Hēsíodos aveva aperto la Theogonía, facendone la prima manifestazione della realtà. E afferma, come abbiamo visto, che, per quanto il cháos fosse stato concepito come luogo, nondimeno c'erano altri che ritenevano che fosse acqua (De aeternitate mundi [18]). Che nell'antichità sussistesse una concezione per cui il caos primordiale avesse un aspetto liquido è stato uno degli argomenti della sezione precedente. Abbiamo già visto come quest'idea che il caos originario fosse un elemento liquido era presente nelle speculazioni greche e di come riaffiora nel primo filosofo, Thalḗs di Mílētos. Ma tali idee covavano da secoli nell'amalgama della comune mitologia, poiché le troviamo tra i Sumeri, con la concezione dell'abzu, e tra gli Egizi in quella del nûn. In entrambi i casi si parlava di un abisso primordiale costituito d'acqua, spinto ai confini dell'universo dalla successiva creazione, e da cui derivavano tutte le acque che scorrevano sul mondo per affioramento o vi cadevano con la pioggia.

Ma torniamo al mito biblico e proseguiamo lungo il secondo versetto:

Bǝrēʾšîṯ bārāʾ lōhîm ēt haššāmayim wǝ ēṯ ārẹṣ.

In principio lōhîm creò il cielo e la terra.

Wǝ hāʾārẹṣ hāyǝṯāh ṯōhû wā ḇōhû wǝ ḥōšek ˓al-pǝnê ṯǝhôm...

La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie del ṯǝhôm...

Bǝrēʾšîṯ [1, -] 

Quando le traduzioni del Bǝrēʾšîṯ riportano «e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso», impiegano, per indicare l'abisso, una parola molto interessante: ṯǝhôm. Questa parola deriva dalla radice semitica THM che indica il «mare», ma più esattamente il caotico abisso delle acque primordiali che precede la creazione.

Concludiamo ora il secondo versetto:

Bǝrēʾšîṯ bārāʾ lōhîm ēt haššāmayim wǝ ēṯ ārẹṣ.

In principio lōhîm creò il cielo e la terra.

Wǝ hāʾārẹṣ hāyǝṯāh tōhû wā bōhû wǝ ḥōšek ˓al-pǝnê ṯǝhôm wǝ rûḥ lōhîm mǝraḥeeṯ ˓al-pǝnê hammāyim. La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie del ṯǝhôm, e il rûḥ lōhîm aleggiava sopra le acque.

Bǝrēʾšîṯ [1, -] 

È insieme delicata e possente l'immagine del rûḥ lōhîm che aleggia sulla superficie delle acque. La traduzione interconfessionale della Bibbia rende questo passo in maniera orribile: «un vento tempestoso agitava le acque». Non va bene. La resa tradizionale di rûḥ con «spirito» è il risultato di un secolare e delicatissimo lavoro di traduzione e non può essere rimossa con tanta facilità. Inoltre il verbo utilizzato per indicare l'aleggiare dello Spirito è mǝraḥeeṯ, la cui radice RḤP è impiegata per descrivere il delicato batter d'ali degli uccelli in volo, e dunque totale assenza di suono e di energia.

L'interpretazione di questo passo è comunque assai complicata: qual era lo scopo di lōhîm nell'accarezzare dolcemente o nello scuotere violentemente (comunque lo si voglia rendere) le acque caotiche primordiali?

Rûḥ è una parola che se da un lato evoca il subitaneo erompere del vento, dall'altra ha un'immensa varietà di significati, estendendosi dall'indefinibile spazio divino fino al pulsare della vita umana. Come spiega Giulio Busi, «il simbolismo di rûḥ è onnicomprensivo e tende a penetrare nelle pieghe più riposte del reale, poiché indica il vero principio dinamico di ogni cosa». È appunto rûḥ quell'alito che Yǝhwāh soffierà su Ādām, rendendolo da materia inerte creatura vivente. Il secondo versetto dal Bǝrēʾšîṯ, con quel rûḥ che aleggia sulle acque, sembrerebbe un elemento pittoresco, è invece l'indicazione di uno spirito divino che scende a vivificare la materia stessa, traendola dallo stadio di ṯōhû wā ḇōhû e rendendola dinamica e vibrante.

Nella versione greca dei Settanta la parola sarà resa con pneûma, parola indicante qualcosa tra la vita, il respiro e l'anima. La resa latina con spiritus si pone in linea con questa straordinaria convergenza di significati.

Quale che sia il giusto confronto di forze tra il divino rûḥ e le acque caotiche primordiali, non si può far notare che il passo biblico si pone come spartiacque tra due concezioni quasi opposte. È il punto di rilettura tra un antico mito dove il soffio violento di lōhîm incatena le acque caotiche al suo possente volere e l'idea successiva di un dio che col suo soffio gentile trae le acque cosmiche dallo stato caotico degli inizi trasformandole acque vive e feconde che dovranno sostenere la successiva creazione.

Questa che può parere solo una speculazione tratta da due diverse traduzioni del passo biblico, quella classica («lo spirito di Dio aleggiava sopra le acque») e la disastrosa interconfessionale («un vento tempestoso agitava le acque»). Non è così, come sarà chiaro nel proseguo della nostra indagine. Ma torniamo al seguito del Bǝrēʾšîṯ.

Wayyōʾmer lōhîm yǝhî ôr wa yǝhî-ôr.

Ed lōhîm disse: «Sia la luce» e la luce fu.

Wayyarǝʾ lōhîm et-hāʾôr kî-ṭôb wayyabǝdēl lōhîm bên hāʾôr ûbên haḥōšek.

lōhîm vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre.

Wayyiqǝrāʾ lōhîm lāʾôr yôm wǝlaḥôšek qārāʾ lāyǝlāh wayǝhî-˓ereḇ wayǝhî-ḇōqer yôm ẹḥâḏ.

E chiamò giorno la luce e chiamò notte le tenebre. E fu sera e fu mattino: il primo giorno.

Bǝrēʾšîṯ  [1, -]

All'inizio del secondo giorno, l'universo è un'immensa massa d'acqua che si stende fino ai confini del nulla. lōhîm ha già vivificato queste acque caotiche dei primordi con il suo soffio divino, rûḥ, ma di fatto questa situazione ancora caotica impedisce un ulteriore evoluzione del processo creativo. Così lōhîm separa quest'oceano cosmico in due parti, creando uno spazio per la successiva creazione, e tra le due masse d'acqua pone nientemeno che l'intero cielo stellato:

Wayyōʾmer lōhîm yǝhî rāqî˓a bǝṯôk hammāyim wîhî maḇǝdîl bên mayim lāmāyim. Ed lōhîm disse: «Ci sia un firmamento in mezzo alle acque che divida le acque dalle acque».
Wayya˓aś lōhîm eṯ-hārāqî˓a wayyaḇǝdēl bên hammāyim āšer mitaḥaṯ lārāqî˓a ûḇên hammāyim āšer mē˓al lārāqî˓a wayǝhî-ḵēn.

Ed lōhîm fece il firmamento, separando le acque che sono sotto il firmamento e le acque che sono sopra il firmamento.

Wayyiqǝrāʾ lōhîm lārāqî˓a šāmāyim wayǝhî-˓ereḇ wayǝhî-ḇōqer yôm šēnî.

Ed lōhîm chiamò cielo il firmamento. E fu sera e fu mattino: il secondo giorno.
Bǝrēʾšîṯ [1, -]

Abbiamo adesso una sorta di situazione dipolare: una distesa di acqua in basso, una distesa di acqua in alto. Tra le due è stato interposto il firmamento. Così lōhîm ha adempiuto alla creazione del cielo. Ora, secondo passo, bisogna creare la terra.

Wayyōʾmer lōhîm yiqqāwû hammayim mitahaṯ haššāmayim el-māqôm ẹḥāḏ wǝṯērāʾeh hayyabāšāh wayǝhî-ḵēn.

Ed lōhîm disse: «Si raccolgano in un luogo sole le acque che sono sotto il cielo e appaia l'asciutto». E così fu.

Wayyiqǝrāʾ lōhîm layyabāšāh erẹṣ. ûlǝmiqǝwēh hammayim qārāʾ yammîm wayyarǝʾ lōhîm kî-ṭôḇ.

Ed lōhîm chiamò terra l'asciutto e chiamò mare la massa delle acque. Ed lōhîm vide che ciò era buono.

Bǝrēʾšîṯ  [1, -]

La terra non viene creata, bensì resa disponibile dal ritiro delle acque. Le antiche cosmologie ebraiche avevano la concezione di una massa d'acqua su cui la terra stessa galleggiava e che la circondava da ogni lato. Su questo punto ovviamente non si può prendere a testimone il Bǝrēʾšîṯ, che come si vede non è molto chiara sul dove e sul come si raccolgano le acque. Però troviamo molti passi interessanti nelle speculazioni rabbiniche, che se da un lato si basavano con fiducia totale sul Bǝrēʾšîṯ, dall'altra non ignoravano la sapienza orale trasmessa parallelamente ai testi sacri. A spulciare la letteratura talmudica e midrašica si trovano molti esempi di tali concezioni. Che l'oceano circondi la terra è detto in diversi testi rabbinici, mentre lo stesso rabbî lî˓ẹzẹr bẹn Hurqānôs (80-118) parlava della terra come di una nave che galleggiava sulle acque del ṯǝhôm (Pirqîm [5]).

BABILONIA: «QUANDO LASSÙ»...

Marduk

Immagine di epoca babilonese rappresentante Marduk con, ai suoi piedi, il drago Mušḫuššu.

I semiti giunsero in Mesopotamia intorno al 2400 a.C., approfittando delle rivalità tra le città-stato sumeriche, e presto sorse il primo impero accadico ad opera di Šarru-kīnu di Akkad (Sargon I il grande, ♔ ±2334-±2279 a.C.). Nei secoli successivi arrivarono altri popoli semiti: prima gli Amorrei, poi gli Assiri, in seguito gli Aramei. Intorno al 1750 a.C., con Ḫammurapi, nasce il regno babilonese. Questo subirà un'eclisse politica con l'invasione da parte dei Cassiti, un popolo indoeuropeo. Il dominio dei Cassiti durerà per cinque secoli anni, finché, verso il 1300 a.C. si affermerà la potenza assira.

Gli Assiri, affini per lingua e costumi ai Babilonesi, dovranno poi disputare con questi l'egemonia della Mesopotamia. Il periodo tra il 1100 e il 600 a.C. è una continua lotta tra i due grandi rivali. Sotto Nabû-apal-uṣur (♔ ±658-±605 a.C.), Babilonia si libera del dominio assiro (609 a.C.) e raggiunge il suo apogeo con il figlio di questi,  Nabû-kudurri-uṣur II (♔ ±605-±562). La potenza di Babilonia verrà in seguito piegata dalla conquista persiana di Kūruš II Haxāmanišiya(539 a.C.) e quindi da quella di Mégas Aléxandros (330 a.C.).

Se le vicissitudini politiche sono varie e complesse, più stabili sono quelle culturali. Dall'epoca di Ḫammurapi fin quasi in epoca tardo-classica, la cultura babilonese dominò senza confronti tutta la Mesopotamia. I Babilonesi non fecero che attualizzare l'antica cultura sumerica e nei confronti dei Sumeri si sentirono sempre culturalmente debitori, un po' come in seguito i Romani vincitori non potranno fare a meno di venire catturati dalla cultura ellenica.

Ritroviamo a Babilonia l'intero pántheon sumerico, aggiornato e riattualizzato. Gli antichi dèi continuano a regnare. Il dio sumerico An ha semplicemente semitizzato il suo nome in Anu. Enlil è ora chiamato Illil. Enki invece ha un diverso nome ma sempre sumerico: Ea «casa [É] dell'acqua [A]» con chiaro riferimento alla sua dimora nelle acque abissali.

L'unica grande innovazione della mitologia babilonese è la rivalsa di un nuovo personaggio: Marduk. Eletto dio poliade di Babilonia, l'importanza di Marduk era cresciuta di pari passo con la trionfale ascesa politica della città. All'epoca in cui Babilonia era la città più importante del mondo, capitale di un impero così grande quale non se ne era mai visto l'uguale, l'intera mitologia mesopotamica era stata totalmente riscritta intorno a Marduk, che ne era diventato l'assoluto protagonista.

La presenza di Marduk è già dichiarata esplicitamente da Ḫammurapi (1792-1750 a.C.) nel prologo al suo codice:

 

Anu il sublime, il re degli dèi Anunnaki, e Enlil, il signore del cielo e della terra, che assegnano i destini del paese, hanno donato a Marduk, figlio di Enki, il potere supremo su tutti gli uomini e l'hanno fatto prevalere su tutti gli dèi Igigi, quando hanno concesso a Bābilu un ruolo preminente e fatto estendere la sua autorità sull'universo, stabilendovi una regalità eterna, incrollabile come il cielo e la terra...

Codice di Ḫammurapi [Recto: I, -]

Nella nuova teologia, Marduk era il signore degli dèi, avendo assunto su di sé il ruolo mitico che era stato di Enlil. Nasce così la grandiosa epica dell'Enūma elîš, il poema della glorificazione di Marduk, il cui titolo, «Quando lassù», deriva proprio dal suo possente incipit:

e-nu-ma e-liš la na-bu-ú šâ-ma-mu
šap-liš am-ma-tum šu-ma la zak-rat
ZUAB ma reš-tu-ú za-ru-šu-un
mu-um-mu ti-amat mu-al-li-da-at gim-ri-šú-un
A-MEŠ-šú-nu iš-te-niš i-hi-qu-ú-šú-un
Quando lassù il cielo non aveva ancora nome
e quaggiù la terra non aveva ancora nome,
soli, Apsū, di tutti il progenitore
e la loro madre Tiāmat, di tutti la genitrice,
mescolavano insieme le loro acque.

Enūma elîš [I, -]

I motivi e il linguaggio hanno molti debiti nei confronti delle antiche cosmogonie sumeriche, in cui alle origini di tutto vi era l'abisso acqueo dell'abzu, ma ora ci troviamo in un ordine di idee assai diverso. Gli aspetti liquidi del caos iniziale si presentano in doppia configurazione. Apsū è ora il principio maschile, l'abisso delle acque dolci sotterranee; Tiāmat il principio femminile, le salate profondità del mare. Essi erano, più che accoppiati, mescolati e confusi insieme. Apsū e Tiāmat appaiono considerati contemporaneamente come materie acquee, luoghi e personalità fantastiche. Forse proprio per questa loro natura cosmologica, o forse a causa del loro carattere malvagio, i nomi di Apsū e Tiāmat sono gli unici teonimi che il testo cuneiforme presenta senza il tipico determinativo «». ①▼

Quest'Apsū babilonese, com'è evidente, è un ulteriore sviluppo, anche nel nome, dell'antico AB.ZU sumerico. Col nome di Apsū era anche chiamata la versione babilonese dell'oceano che circondava la terra, dal quale derivavano tutti i fiumi, i laghi, le sorgenti e i corsi d'acqua del mondo. In questa cosmologia, la terra sorgeva come un monte sopra il cerchio delle acque.

Tiāmat è invece una novità nella mitologia mesopotamica. Il nome di questa dea deriva dalla medesima radice, THM o THMT, che abbiamo già visto impiegata per l'«abisso» delle acque primordiali [tǝhôm] di cui si è parlato nel secondo versetto del Bǝrēʾšîṯ.

Apsū e Tiāmat non si trovavano semplicemente nell'universo ma erano essi stessi l'universo. Erano mescolati insieme, in una sola massa indifferenziata, e proprio perché erano sia luoghi che persone, nulla esisteva al di fuori di essi. Quando nacquero le successive generazioni divine, l'intera teogonia si svolse interamente all'interno della mescolanza di Apsū e Tiāmat.

e-nu-ma DIIR-DIIR la šu-pu-u ma-na-ma
šu-ma la zuk-ku-ru ši-ma-tú la ši-na-ma
ib-ba-nu-ú-ma DIIR-DIIRR qê-reb-šú-un
laḫ-mu la-ḫa-mu uš-ta-pu-ú šu-mi iz-zak-ru
a-di ir-bu-ú i ši ḫu
an-šâr ki-šâr ib-ba-nu-u e-li-šu-nu at-ru
ur-ri-ku U-MEŠ us-si-bu MU-MEŠ
a-num a-pil-šu-nu šâ-nin AD-AD-šú

E mentre degli dèi, nessuno era ancora apparso,
nessuno aveva nome né era definito da un destino,
dentro [in Apsū e Tiāmat] furono creati:
Laḫmu e Laḫamu apparvero e furono chiamati per nome.
Prima che fossero divenuti grandi e forti
furono creati Anšar e Kišar, che erano loro superiori.
Quando ebbero prolungati i propri giorni, moltiplicati i propri anni,
Anu fu il primo nato, simile ai suoi genitori.

Enūma elîš [I, -]

La prima coppia che Apsū e Tiāmat generò, e che nacque all'interno della loro mescolanza di acque abissali, è formata da questi Laḫmu e Laḫamu, i quali però non avranno alcun ruolo nella successiva generazione. Anšar e Kišar, «totalità della terra» e «totalità del cielo», sono gli dèi primigeni da cui prendevano l'avvio le antiche teogonie sumeriche, nella fase in cui si cominciavano ad aggiungere varie tappe prima di giungere alla divisione del cielo e della terra. Figlio di Anšar e Kišar è il dio-cielo Anu.

Allo stesso modo, poi, Anu genera altri figli, tra i quali Ea (qui detto Nudimmud), il dio dall'ampio intelletto. Questi giovani dèi, svelti e irrequieti, cominciano presto ad agitarsi e far chiasso.

in-nen-du-ma at-ḫu-ú DIIR-meš-ni
e-šu-ú ti-amat-ma na-muš-šu-nu iš-tap-pu
dal-ḫu-nim-ma šâ ti-amat ka-ras-sa
i-na šu-ʾa-a-ri šu-ʾ-du-ru qê-reb an-durun-na
la na-ši-ir ABZU-ri-gim-šú-un
ú ti-amat šu-qâm-mu-mat i-na igi-šu-un
im-tar-sa-am-ma ep-še-ta-šu-un e-li-ša
la-ta-bat al-kât-su-nu šu-nu-ti i-ga-mī-la

Avendo dunque formato una banda, questi dèi fratelli
disturbarono Tiāmat abbandonandosi al trambusto [?]:
sconvolgendo l'interno di Tiāmat
turbarono con i loro svaghi l'interno della «dimora divina».
Apsū non riusciva a placarne il tumulto;
Tiāmat, tuttavia rimaneva impassibile davanti a loro:
i loro maneggi le erano sgraditi,
la loro condotta, biasimevole; ma lei li risparmiava.

Enūma elîš [I, -]

Apsū e Tiāmat sembrano avere l'immobilità come caratteristica naturale, al contrario gli dèi più giovani sono agitati e irrequieti e col loro baccano sconvolgono i loro letargici progenitori. Come già avevamo visto accadere nel mito greco, dove l'unione sessuale tra cielo e terra, Ouranós e G, impediva ai figli di nascere e bloccava di fatto il proseguo della creazione, così nel mito babilonese c'è una situazione di latenza primordiale da parte di Apsū e Tiāmat, la cui stessa reciproca fusione impedisce alle giovani generazioni di venire alla luce e allo stesso tempo costringe l'intero universo all'immobilità di un eterno stadio increato.

E Apsū dice a Tiāmat: «La condotta di costoro non mi piace! Di giorno non riposo, di notte non dormo! Voglio ridurli in nulla e abolire la loro attività, affinché sia stabilito e il silenzio e noi si possa tornare a dormire!» Ma Tiāmat rifiuta energicamente la proposta. «Perché dobbiamo distruggere ciò che noi stessi abbiamo creato?» E invita Apsū alla pazienza e alla benevolenza.

Apsū tuttavia decide lo stesso di procedere alla distruzione dei giovani dèi. Quando questi vengono a conoscenza del complotto rimangono costernati e addolorati. Allora Ea, il più saggio di tutti, evoca un incantesimo potentissimo e addormenta Apsū. Dopo di che lo spoglia del melāmmu (lo splendore regale) di cui si appropria lui stesso, e lo uccide. Apsū viene ridotto da persona a luogo, da dio a inerte massa liquida, e nelle sue acque profonde Ea stabilisce la sua dimora e lì crea la sua camera nuziale.

In questa camera, Ea porta la sua sposa Damkina e qui essi generano il figlio Marduk. Fin dalla nascita, Marduk appare dotato di un'eccezionale energia: il melammû di dieci dèi accumula su di lui un fulgore insostenibile.

ina-qê-reb ABZU ib-ba-ni AMARUTU
ina-qê-reb KÚ-ABZU ib-ba-ni AMARUTU
ib-ni-šu-ma ê-a a-ba-šu
dam-ki-na ama-šu har-šâ-as šu
i-te₉-niq-ma ser-ret IŠTAR-MEŠ
ta-ri-tu it-tar-ru-šu pul-ha-a-ta uš-ma-al-li
šam-hat nab-nit-su sa-ri-ir ni-ši i-ni-šu
ut-tu-lat si-ta-šu ga-šêr ul-tu ul-la
i-mur-šu-ma a-num ba-nu-u a-bi-šu
i-riš im-mer lib-ba-šú hi-du-ta im-la
uš-ta-as-bi-šum-ma šu-un-na-at ilu-us-su
šu-uš-qu ma-'diš UGU-šú-nu a-tar mim-mu-šu
la-lam-da-ma nu-uk-ku-la mi-na-tu-šu
ha-sa-siš la-na-ta-a a-ma-riš pa-âš-qa
4(=limmu)-IGI II šú 4(=limmu)-GEŠTU II šú
šap-ti-šú ina-šu-ta-bu-li giš-bar it-tan-pah
ir-ti-bu-ú 4(=limmu)-ta-am ha-si-sa
ú-igi ki-ma šu-a-tu i-bar-ra-a gim-re-e-ti

Nel grembo dell'Apsū nacque Marduk,
nel grembo del puro Apsū nacque Marduk.
E fu Ea suo padre, che lo procreò;
e Damkina, sua madre, che lo partorì.
Egli succhiò il seno delle dee;
la nutrice che l'allevò lo rese ricco di una vitalità formidabile.
La sua natura era esuberante, sfavillante il suo sguardo;
fu virile fin dalla nascita, e pieno di forza dal principio.
Nel vederlo, Anu, il padre di suo padre,
si rallegrò, si illuminò ed ebbe il cuore pieno di gioia.
Quando l'ebbe ben guardato: «La sua divinità è ben altra!
È molto più sublime: ci supera in tutto!
Le sue dimensioni sono incredibili, ammirevoli:
impossibili da pensare, insopportabili da guardare!
Quattro sono i suoi occhi, e quattro le sue orecchie.
Quando muove le labbra il fuoco divampa!
Quattro orecchie gli sono spuntate,
e i suoi occhi, in numero uguale, vedono l'intero universo!»

Enūma elîš [I, -]

Tiāmat, malgrado la morte di Apsū, non è uscita ancora dal suo stato di torpore. Un gruppo di dèi che non approva la messa a morte di Apsū la spinge ad agire. Istigata dai suoi accoliti, Tiāmat decide di scendere in guerra contro gli dèi.

Tiāmat crea undici specie di mostri, definiti dal testo ušumgallû, esseri al tempo stesso feroci e deformi, enormi e incompiuti, con cui forma il suo esercito. Affida il comando al suo nuovo amante Qingu, gli dà pieni poteri e gli conferisce le ṭupšīmāti, le «tavolette del destino», e con quelle l'anûtu, la qualità propria del dio Anu, il potere supremo sull'universo.

Quando Ea apprende le trame di Tiāmat, si rivolge ad Anšar perché trovi il sistema di neutralizzare l'assalto. Anšar affida il compito di contrastare Tiāmat dapprima allo stesso Ea, e quindi ad Anu. Ma ambedue gli dèi tornano indietro senza aver osato affrontare Tiāmat e le sue orribili schiere. Nel campo di Anšar domina lo scoramento, perché non nessuno è potente delle due divinità che non avevano osato combattere Tiāmat. È Ea, al solito, a scoprire il futuro vincitore: il suo stesso figlio Marduk, che essendo giovane e inesperto se ne sta modestamente in disparte. L'ingegnoso Ea consiglia a Marduk di avvicinarsi ad Anšar, quel poco che basta ad attirarne l'attenzione. Così fa Marduk, e Anšar si avvede che in questo giovane dio vi sono tutte le necessarie qualità per sconfiggere Tiāmat.

Anšar propone a Marduk di difendere i suoi fratelli contro Tiāmat. Marduk accetta la proposta, ma pretende che le divinità radunate in assemblea lo investino legittimamente dell'incarico di essere loro campione, e che come premio della vittoria gli siano dati sovranità e potere su tutte le cose:

 

«Nella sala del consiglio tutta l'assemblea sieda lietamente,
e fate sì che con una parola, in vostra vece, io fissi i destini,
ché nulla sia cambiato di ciò che io disporrò,
e che ogni ordine delle mie labbra resti irreversibile, irrevocabile!»

Enūma elîš [III, -] 

Allora Anšar manda un messaggero negli abissi a chiamare gli antichi Laḫmu e Laḫamu, perché riuniscano tutti gli dèi delle profondità e vengano a discutere la faccenda. Quando l'assemblea divina è al gran completo, gli dèi accettano la richiesta di Marduk, consapevoli che così facendo gli avrebbero concesso la supremazia su tutti loro. Lo acclamano re, gli dànno uno scettro, un trono e le insegne regali, lo incitano a travolgere i nemici e a uccidere Tiāmat.

Marduk si prepara alla battaglia. Ma invece di circondarsi, come la vecchia dea, di forze brute e selvagge, si premunisce di armi razionali in funzione di una tattica ben precisa. Afferra un arco e una freccia di fulmine, dà di piglio alla mazza tonante, e appronta una rete per catturare Tiāmat, sistemando ai quattro angoli di questa i quattro venti che gli ha donato Anu. Fatto questo, Marduk sale sul suo carro e muove verso i nemici.

Al solo veder arrivare Marduk, splendente di gloria reale, Qingu e il suo esercito perdono le forze e la volontà di agire. Tiāmat comincia a sibilare sortilegi e cerca di distrarre il giovane campione, ma Marduk non si lascia confondere; le grida di smetterla con i sotterfugi e di farsi avanti. Allora Tiāmat, folle di rabbia, balza su Marduk, le fauci spalancate per divorarlo. I due si avvinghiano in un terrificante corpo a corpo, durante il quale Marduk riesce a spiegare la rete, catturando la terribile ava.

Dopodiché Marduk lancia un vento di tempesta [imḫullu] tra le fauci di Tiāmat, e mentre ella è impedita di richiudere le mascelle, gli altri venti si sprofondano nel suo ventre, gonfiandolo a dismisura. Senza porre tempo in mezzo, teso l'arco, Marduk scocca una freccia e il ventre di Tiāmat si squarcia nel mezzo.

 

E quando Tiāmat ebbe aperto la bocca per inghiottirlo,
[Marduk] vi riversò il imḫullu per impedirle di chiudere le labbra.
Tutti i venti con furia le riempirono il ventre,
così che il suo corpo si gonfiò, la sua bocca aperta allo spasimo.
Allora Marduk le scoccò la sua freccia, lacerandole il petto,
le divise il corpo a metà e le aprì il ventre.
Così trionfò su di lei ponendo fine alla sua vita.

Enūma elîš [IV, -]

Poi Marduk si rivolge verso le orribili schiere di Tiāmat, che cercano di fuggire, e le imprigiona nelle sue reti. Incatenati, gli ušumgallû sono gettati negli abissi. Quanto a Qingu, Marduk gli toglie le ṭupšīmāti, che appende al suo petto dopo avervi impresso il suo sigillo, a significare che d'ora in poi soltanto lui ne è il proprietario.

Infine Marduk si rivolge al cadavere della sua nemica:

 

A mente fresca Marduk contemplò il cadavere di Tiāmat
e volle tagliarne la carne mostruosa per trarne cose belle.
La tagliò in due come un pesce da seccare,
e ne dispose una metà incurvandola come il cielo.
Ne tese la pelle su cui insediò guardiani
ai quali affidò il compito di impedire alle sue acque di erompere...

Enūma elîš [IV, -]

Aprendo in due l'immenso cadavere di Tiāmat, Marduk fa spazio per la creazione, a cui ora pazientemente si accinge. Poiché tutto l'universo è praticamente costituito dalle acque inerti di Tiāmat, Marduk ricava un vuoto centrale nello spazio, spingendo in alto una metà del cadavere della sua mostruosa nemica.

Si crea così uno spazio vuoto, contenuto dalle estremità del cadavere di Tiāmat: da una parte la testa, a cui aderiscono sempre le due parti del suo corpo diviso «come quello di un pesce da seccare», dall'altro la coda.

Babilonia

Ricostruzione di Babilonia ai tempi di Nabû-kudurri-uṣur II. Si entra attraverso la porta sull'Eufrate: davanti, il complesso templare di Esagila, dominato dalla mole della ziqqurat Etemenanki, dedicata a Marduk.

Dapprima Marduk si rivolge al cielo: lo cosparge di stelle, ordina le costellazioni, vi fissa il polo celeste (che si trovava a metà tra strada tra α Draconis e α Ursae Minoris). Determina poi la suddivisione dell'anno in dodici mesi. Al dio-luna Sîn affida la notte e gli dà il compito di regolarizzare i mesi; il dio-sole Šamaš è incaricato di sorvegliare il corso dell'anno. Marduk stabilisce la successione del giorno e della notte e definisce il quadro del tempo.

Poi Marduk organizza la terra, a partire dall'altra metà del corpo di Tiāmat. Quel corpo gli serve da impalcatura, vi costruisce un basamento duro che sarebbe stato il suolo terrestre. Colloca la testa di Tiāmat a nord e su di essa accumula una montagna. Nei suoi occhi apre il Tigri e l'Eufrate, e l'acqua viva comincia a scorrere. Infine annoda la coda di Tiāmat in modo che le acque dell'abisso non possano più erompere sulla terra. Annoda e avvolge in una rete cielo e terra, terra e cielo, per renderli solidamente parte di un ordine unico ed eterno. Poiché il corpo di Tiāmat, diviso in due parti e spinto ai confini dell'universo, era composto di acqua, è ovvio che bisognava in qualche modo impedire a quell'acqua di invadere il mondo. Perciò Marduk pone due catenacci alle porte che aveva aperto in cielo, in modo a trattenere le acque cosmiche ai confini dell'universo.

Qingu, ritenuto responsabile della rivolta di Tiāmat, viene ucciso e col suo sangue viene creato l'amêlu, l'uomo, che Ea pone al servizio degli dèi. Poi Marduk stabilisce i posti e i ruoli di tutti gli dèi. Solo allora le altre divinità salutano l'opera compiuta con grandi manifestazioni di gioia e di rispetto. La regalità di Marduk viene nuovamente proclamata quando Anšar lo abbraccia e pubblicamente lo saluta come re degli dèi. Secondo un cerimoniale, i cui particolari appaiono assai realistici, gli dèi gli baciano i piedi e l'adorano con il volto a terra. Abbigliato dell'abito regale [têdiq rubûti], coperto dallo splendore regale [melammû šarrûti] e della tiara lucente [agû rašubbati], Marduk solleva l'arma divina con la mano destra, mentre nella sinistra tiene saldamente lo scettro.

Con l'accordo degli altri dèi, Marduk termina la sua opera di creazione con l'edificazione della città di Babilonia, che sarebbe stata la sua dimora, sede della sua regalità. Gli dèi, per gratitudine verso di lui, gli erigono in Babilonia il grande tempio di Esagil. Quando la costruzione è terminata, gli dèi, che hanno riconosciuto in Marduk l'autorità suprema, vengono da lui invitati a risiedere nel grande tempio e gli attribuiscono cinquanta nomi conferendogli i relativi attributi.

Alla fine Marduk appende in cielo il grande arco con il quale aveva sconfitto i nemici, affinché tutti, compresi gli uomini, servitori degli dèi, lo possano vedere.

Nel mito babilonese, come si vede, si fondono i due temi cosmogonici. Da un lato quello della divisione delle acque, attestato nella Bibbia, dall'altro quello della separazione del cielo e della terra, di origine sumerica e presente sia in Egitto che nel mito greco di Hēsíodos. Qui in realtà non sono il cielo e la terra che vengono separati, ma le acque cosmiche, le quali si trasformano a loro volta in cielo e terra.

①▲ Nella vecchia interpretazione di Enūma elîš [I: -] compariva una terza persona oltre ad Apsū e Tiāmat, un certo Mummu, la cui presenza si trova ancora nei vecchi libri di mitologia. Abbiamo preferito seguire la lezione di Samuel Kramer e Jean Bottéro, oggi accettata dalla maggior parte degli orientalisti, secondo cui Mummu sarebbe in realtà un'errata lettura dell'accadico ummu «madre», quindi un epiteto di Tiāmat, e considerato, a torto, una terza persona. Quest'errore, già presente nell'antichità (lo ritroviamo nella versione greca di Damáskios) sarebbe stato anche favorito dalla successiva presenza di un Mummu, detto paggio di Apsū.

ACQUE COSMICHE: DA BABILONIA AL MONDO CLASSICO

Il motivo della lotta di un dio contro le acque era probabilmente originario dall'area Cananea, nato cioè lungo le coste della Siria, e forse portata in Mesopotamia da tribù amorree verso il 2000 a.C.. Si potrebbero fare molti esempi, basterà ricordare un antico testo scolastico della fine del III millennio a.C., dove è un certo dio Tišpak a tenere lontane le acque debordanti:

 

O padre! Tu, la cui funzione è quella di costituire una barriera contro Yam [il «mare»], guerriero feroce, attacca! O Tišpak! O padre! Tu la cui funzione è quella di costituire una barriera contro Yam, El, re degli dèi...

MAD [I: 192]

Queste tradizioni cananee diedero evidentemente molto da pensare ai popoli della Mesopotamia, e sul fertile humus degli antichi miti sumerici, si sarebbe ben presto sviluppata la grande teogonia accadica, che avrebbe avuto il suo culmine nell'epopea dell'Enūma elîš.

La composizione dell'Enūma elîš si faceva inizialmente risalire all'epoca di Ḫammurapi (dunque XVIII sec. a.C.), ma in seguito la datazione è stata abbassata di circa mezzo millennio, all'epoca di Nabû-kudurri-uṣur I (♔ ±1124-±1103 a.C.).

La popolarità dell'Enūma elîš nel corso del Primo Millennio avanti Cristo, è attestata dal gran numero di versioni che venivano trascritte in tutta la Mesopotamia. I manoscritti meglio conservati provengono dalla biblioteca di Aššur-bāni-apli (♔ 668-627 a.C.) a Ninive, ma sono giunti frammenti da altri siti. Indicativo delle particolari condizioni della cultura mesopotamica del tempo è che i vari frammenti di cui siamo in possesso riproducono esattamente lo stesso testo, aiutando in questo i filologi nella ricostruzione del testo completo. Sotto Sīn-aḫḫī-erība (♔ 704-681 a.C.) i letterati assiri si limiteranno a sostituire il nome di Marduk con quello del loro dio nazionale Aššur, adattando l'intero poema alle proprie necessità teologiche.

È evidente che gli autori dell'Enūma elîš babilonese hanno la sola preoccupazione di esaltare il dio nazionale di Babilonia: lo celebrano ad oltranza, spiegandone l'autorità, la maestà, la preminenza universale. La lista dei cinquanta nomi che chiude il poema è una dichiarazione teologica dei poteri che Marduk riassume su di sé. Occorre considerare che Marduk è uno degli ultimi dèi ad essere inserito nella religione mesopotamica, un vero e proprio parvenu in un pantheon consolidato da secoli, e quindi era necessario ribadire la sua importanza. Il poema veniva recitato durante le feste di capodanno, nei giorni extracalendariali dell'akîtu.

Intorno al IV secolo avanti Cristo prima dell'invasione di Mégas Aléxandros, il sacerdote babilonese Bêl-uṣur, meglio conosciuto con il nome ellenizzato di Bḗrōssos, scriverà in greco un'opera mitico-storica su Babilonia, la Babyloniaká, allo scopo di far conoscere alla cultura ellenica la traduzione e la sapienza caldea. Quest'opera è andata perduta e solo pochi frammenti sono sopravvissuti, tramandati da autori posteriori quali Abydēnós e Aléxandros Polyḯstōr. Abydēnós riporta poche citazioni, Polyḯstōr qualcosa in più, senonché l'opera di Polyḯstōr non ci è pervenuta; di essa si sono conservati pochi frammenti inseriti a loro volta da Eusébios Kaisareús (260/265-39/340) nella prima parte della sua Pantodapḕ historía (o Chronicon) composta intorno al 303. Se questo non bastasse, l'originale greco della Pantodapḕ historía è anch'esso scomparso, ne resta solo una traduzione armena del VI Secolo, neppure effettuata sul testo originale, bensì su una revisione, e un adattamento in greco dello storico Geṓrgios Sýŋkellos (761-846).

Nel compendio che ne faceva Abydēnós si leggeva:

Dicono che all'inizio di tutto era acqua, che si chiamava Thalássa. Bêl, avendola soppressa, assegnò a ciascun essere il suo territorio e circondò Babilonia con un bastione.

Bḗrōssos: Babyloniaká (apud Abydēnós)

La versione di Polyḯstōr dà un riassunto più dettagliato:

C'era stato un tempo, quando l'universo non era che tenebre e acqua, nel quale erano giunti alla vita esseri mostruosi e di forme particolari [...]. Comandava questa moltitudine una donna chiamata Omorka, nome che corrisponde in caldeo a Thalatt e si traduce in greco con «mare» [thálassa]. Era sopravvenuto Bêl e aveva tagliato in due questa donna; con una metà aveva fatto la terra, e con l'altra il cielo, dopo aver distrutto tutti gli esseri viventi mostruosi che si trastullavano in lei.

Bḗrōssos: Babyloniaká (apud Aléxandros ho Polyḯstōr)

Ritroviamo qui, per sommi capi, lo stesso mito già narrano nell'Enūma elîš. Non è un caso che il nome Thalatt (cioè Tiāmat) venga tradotto in greco con thálassa, antica parola preindoeuropea che, oltre a ricordare foneticamente l'originale caldeo, ha anche la medesima attinenza etimologica, significando appunto «mare». In quanto al nome Omorka, si tratta probabilmente di una traduzione più o meno storpiata del termine accadico Umma-ḫubur, «Madre-abisso», epiteto di Tiāmat in Enūma elîš [I, ].

In queste fonti tarde l'uccisore di Tiāmat è chiamato Bêl. Questo appellativo, «signore», era usato a Babilonia per indicare Marduk, ma altrove veniva usato per altre divinità. Molto spesso era epiteto di Enlil. Si crede che il testo di Bḗrōssos si riferisca a Marduk, ma non se ne ha la precisa certezza. D'altronde chi sia l'effettivo protagonista a questo punto ha poca importanza.

Verso il 480, il filosofo neoplatonico Damáskios ci dà un'ulteriore versione del poema babilonese, dicendo:

Tra i barbari, non sembra che i Babilonesi abbiano parlato di un principio unico dell'universo. Essi ne ipotizzano due: Thaute e Apason, facendo di quest'ultimo lo sposo di quella, che chiamano «madre degli dèi» [...]. Prodotta dagli stessi genitori, un'altra generazione era seguita: Dachē e Dachos. Poi una terza: Kissarē e Assōros, che diedero vita alla triade: Anos, Illinos e Aos. Aos e Dauche misero al mondo un figlio di nome Bēlos: e dicono che costui fu il demiurgo.

Damáskios: Aporíai kaì lýseis perì tn prṓtōn arkhn

Si noti la perplessità di Damáskios davanti al fatto che, mentre gli altri popoli vedevano il caos iniziale in unica configurazione, i Babilonesi ne ipotizzavano due. Si riconoscono qui tutti i personaggi dell'Enūma elîš.

  • Thaute e Apason sono Tiāmat e Apsū.
  • Dachē e Dachos sono Laḫamu e Laḫmu (con erronea sostituzione di lambda Λ con delta Δ).
  • Kissarē e Assōros sono Kinšar e Anšar.
  • Con Anos, Illinos e Aos, eccoci di nuovo alla triade cosmica sumera: Anu, Enlil, Ea, qui finalmente reintegrata nella sua completezza.
  • Bēlos (forma grecizzata di Bêl) è chiaramente Marduk.

Queste fonti posteriori fanno ben capire quanto gli antichi miti caldei avessero ampia diffusione in tutto il mondo tardo-classico. È sbagliato considerare le varie mitologie come settori stagni: ogni idea veniva praticamente incrociata con qualsiasi altra, e questo è un punto che deve essere sempre tenuto in considerazione.

TRA GLI EBREI: MITI BIBLICI IN FILIGRANA

A una prima occhiata, non sembrano esservi molti rapporti tra l'Enūma elîš e il Bǝrēʾšîṯ. Lo stile e il tono sono profondamente diversi. L'atmosfera guerresca dell'Enūma elîš è lontanissima dal solenne stile biblico. Il primo poema è la vivace celebrazione di un dio guerriero, il secondo è l'azione cosciente e meditata di un dio unico.

Pretendere una loro origine comune può forse sembrare eccessivo. È possibile ipotizzare una versione più antica del mito ebraico del Bǝrēʾšîṯ, dove Yǝhwāh lōhîm si fosse impegnato, alla stregua di Marduk, in un combattimento contro le acque primordiali? La risposta è sì, come è evidente dai testi biblici più antichi, ad esempio nei «Salmi»:

Tǝhôm kallǝḇûš kissîṯô ˓al-hārîm ya˓amǝdû-māyim. Con l'abisso [tǝhôm] a mo' di mantello l'avevi avvolta: fin sopra le montagne dimoravano le acque.

Min-ga˓ărāṯǝḵā yǝnûsûn min-qôl ra˓amǝkā yēḥāpēzûn.

Al tuo rumoreggiare sono fuggite, al fragore del tuo tuono hanno preso il volo.
Ya˓ălû hārîm yērǝdû ḇǝqā˓ôṯ el-mǝqôm zeh, yāsadǝtā lāhem. Salivano sulle montagne, percorrevano gli abissi verso il luogo che tu avevi loro fissato.
Gǝḇûl-śamǝtā bal-ya˓ăbōrûn bal-yǝšûḇûn lǝḵassôṯ hāʾārẹṣ. Hai posto un limite che non varcheranno, non torneranno ad avvolgere la terra.

Tǝhillîm [104, -]

La divisione delle acque

Michelangelo, Cappella Sistina (1508-1512).

In questa scena non solo di adombra uno scontro di Yǝhwāh contro le acque, ma anche l'imposizione forzata di un ordine, un limite che viene imposto a Yǝhwāh alle acque e che esse non dovranno varcare, un po' come Marduk aveva posto chiavistelli alle porte del cielo e annodato la coda di Tiāmat affinché le acque non invadessero la terra. E la parola «abisso» viene resa qui resa dalla parola ebraica tǝhôm, stessa espressione già presente nel secondo versetto del Bǝrēʾšîṯ, laddove dice «e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso», e che, come abbiamo notato, contiene la stessa radice THM o THMT indicante il «mare» o più esattamente il mare primordiale e caotico che precede la creazione. È la stessa radice che a Babilonia avrebbe dato origine al nome di Tiāmat.

Analizzando più a fondo entrambi i miti, quelle babilonese e quello ebraico, troviamo molte altre attinenze. In entrambi i casi c'è la concezione di un caos acqueo originario (unico nel mito ebraico, duale in quello babilonese), che un dio creatore divide in due parti, separando le acque che sono «sopra il firmamento» da quelle che sono «sotto il firmamento». Questa divisione ha innanzitutto lo scopo di rompere l'immutabilità primordiale e di aprire un varco per la successiva creazione. Ma il caos originario viene anche ristrutturato in funzione di un nuovo assetto cosmologico, formando così le fonti celesti e abissali delle acque, che attraverso la pioggia e le sorgenti, daranno vita al mondo.

Strumento del dio è in entrambi i casi il vento. Nel Bǝrēʾšîṯ, lōhîm soffia sulle acque il suo rûḥ, scuotendo la loro immobilità primordiale e vivificandole. In quella sumerica era stato il violento Enlil, vento egli stesso, che aveva provveduto a strappare il cielo dalla terra per riempire tutto lo spazio atmosferico. In quella egiziana, Šû, dio dell'aria, o meglio, dell'atmosfera trasparente ai raggi del sole, aveva separato a sua volta cielo e terra. In quella mesopotamica, Marduk scaglia invece i suoi venti contro Tiāmat per annientarne il potere, squarciandola in due parti: non è vento vivificante in questo caso, ma distruttore.

In tutti questi casi, il dio che provvede a rompere l'immobilità primordiale per separare la terra e il cielo è un dio atmosferico. Il nome stesso dell'antico dio atmosferico sumerico, Enlil, significava «signore [EN] del vento [LÍL]». Ma quest'ultima parola, LÍL, è sì «vento», ma anche nel senso di «spirito di vita». Si trova all'origine dell'aria [ánemos] che il filosofo greco Anaximénēs considerava fondamento di tutte le cose, ma anche e soprattutto all'origine del concetto biblico di rûh. Guardando in filigrana attraverso la figura di Yəhwāh, così come compare nella Bibbia, non si stenta a scorgere l'antica immagine di Enlil che probabilmente né è il lontanissimo archetipo.

Ci troviamo probabilmente di fronte a due esiti di uno stesso tema interpretati in maniera diametralmente opposta. L'Enūma elîš babilonese risale al 1100 a.C., il Bǝrēʾšîṯ (nella forma che ci è pervenuto) a circa sette secoli dopo, e la differenza di tono è evidente: se nel primo caso il mito mesopotamico viene indirizzato verso la glorificazione di un giovane dio, di cui si narra la potenza e la maestà, nel secondo caso la vicenda è assai più meditata, significativamente indirizzata verso il monoteismo.

La letteratura rabbinica ci ha tramandato molte storie, sicuramente di grande antichità, che vanno ad aggiungersi al sobrio racconto del Bǝrēʾšîṯ e che narrano di come separare le acque e costringerle ad ubbidire non fu una cosa tanto facile nemmeno per Dio in persona.

Nel Sēḏer Rabbāh, un tardo commento al Bǝrēʾšîṯ, sta scritto che quando Yəhwāh ordinò alle acque di separarsi in superiori e inferiori, le superiori gioirono dicendo: «Benedetti coloro che hanno il privilegio di risiedere accanto al creatore e al suo santo trono!» Così giubilando si librarono verso l'alto ed elevarono un inno di gloria al creatore. Invece le acque sottostanti si dolsero e gemettero: «Ahinoi, che non siamo state giudicate degne di dimorare al cospetto di Yəhwāh come le nostre compagne!» Allora tentarono di salire in alto, sinché Yəhwāh non le respinse comprimendole sotto terra.

I Midrāšîm riportano tuttavia versioni ancora più dure, come il mito della ribellione di Rāḥāḇ, l'angelo del mare, che aveva pagato la sua insubordinazione con la morte. Rāḥāḇ è anche citato nel libro di Iyyôḇ, in due righe parallele che mettono in risalto la possenza di Yəhwāh:

Bǝḵōḥô rāḡa˓ hayyām ûḇiṯûḇǝnāṯô māḥaṣ rāhab. Con la sua potenza minaccia i mari, e con la sua intelligenza abbatte Rāhab.

Iyyôḇ [26, ] 

È stato anche notato che nella Bibbia compare un gran numero di mostri marini, di cui i più noti sono il Līwǝyāṯān, il Tannīn, il Bǝhemōṯ. Tutti sembrano derivare dal medesimo mitema, e la vittoria di Dio su queste creature è sottolineata in molti passi biblici. Ad esempio, in «Isaia»:

Bayyôm hahûʾ yipǝqōd yǝhwāh bǝḥarǝḇô haqqāšāh wǝhagǝḏôlāh wǝhaḥăzāqāh ˓al liwǝyāṯān nāḥāš bāriḥ wǝ˓al liwǝyāṯān nāḥāš ˓ăqallāṯôn wǝhārag eṯ-hatannîn ăšer bayyām. In quel giorno, il Signore punirà con la sua spada, dura, pesante e forte, il Līwǝyāṯān, serpente guizzante, il Līwǝyāṯān, serpente tortuoso, e ucciderà il drago [Tannīn] che abita nel mare.

Yǝša˓yāhû [27, ] 

È particolarmente interessante ai nostri fini il Bǝhemōṯ (citato sempre in Iyyôḇ), una creatura mitica che in seguito verrà erroneamente identificata con l'ippopotamo. Ma la natura di questo essere è assai più complessa. Innanzitutto la parola è plurale di bǝhôm, parola che può essere messa in relazione con il termine biblico per indicare l'«abisso», tǝhôm. E tǝhôm e bǝhôm hanno tra loro lo stesso rapporto che c'è tra ṯōhû e ḇōhû. Se ne potrebbe dedurre che i termini astratti ṯōhû e ḇōhû, l'«informità» e la «vacuità» della terra primordiale, siano stati creati a partire da un mito assai più antico e dinamico della lotta di Dio contro le acque primordiali maschili e femminili. Ma qui bisogna fare attenzione, ché le etimologie proposte non sono molto chiare.

Tuttavia non si può fare a meno di ricordare la strana definizione proveniente da un importante trattato talmûḏico risalente agli inizi del VI secolo:

È stato insegnato: ṯōhû è una linea verde che circonda tutto il mondo, da cui proviene la tenebra [...], mentre ḇōhû sono le pietre limacciose, affondate nell'abisso, da cui sgorga l'acqua.

Talmûḏ ḥagîgāh [12: a]  

Come nota Giulio Busi, i due termini vengono qui contrapposti in un'antinomia che individua in ciascuno di essi due fasi diverse del processo di creazione. V'è un'opposizione tra l'acqua terrestre e la linea dell'orizzonte da cui proverrebbe la tenebra della notte. Questo punto è interessante, perché ci consente di creare un altro parallelo: dopo la separazione delle acque celesti dalle acque terrestri, come abbiamo visto, queste ultime furono respinte ai confini della terra.

Il termine biblico per «confini della terra» è asayîm o asê ereṣ, parola che sopravvive in diversi passi biblici, come in questa profezia:

Ûmāšǝlô miyyām ˓aḏ-yām ûminnāhār ˓aḏ-ap̄sê-ʾāreṣ.

Il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra [asê-ʾāres].

Zǝḵaryā [9, ]

Che il creatore tenga stretti in pugno tutti gli elementi cosmici, è un tema favorito dai miti del vicino oriente. La vittoria di Yəhwāh sigli asayîm è ricordata in altri passi biblici (Tǝhillîm [67] | Šǝmûʾēl [I: 2]). Anche in altri testi, i «confini della terra» sono legati alle acque cosmiche, che Yəhwāh aveva chiuso in un lembo della sua veste. Ci domanda il libro dei «Proverbi»:

Mî ˓ālāh-šāmayim? wayyērad mî āsa-rûḥ? bǝḥānâw mî ṣārar-mayim? baśśimǝlāh mî hēqîm kāl-asê-āreṣ?

Chi è salito in cielo e ne è disceso? Chi ha raccolto il vento nei suoi pugni? Chi ha racchiuso le acque della sua veste? Chi ha fissato tutti i confini della terra [asê-āreṣ]?

Mišlēy [30: ]

In questo caso la sorpresa è duplice, perché è facile mettere in relazione il termine asê col babilonese apsū, derivando entrambi i termini da una medesima radice semitica ʾPS. Ci troviamo anche qui di fronte a una straordinaria convergenza di motivi mitici.

È evidente che l'antico mito prevedeva la vittoria di un dio sulle acque caotiche primordiali, che venivano ammansite e dominate tramite un uso di un'arma simile al vento. Le acque venivano poi divise: quelle femminili da quelle maschili, le une spinte verso il cielo, le altre schiacciate in basso e poi costrette a ritrarsi ai confini della terra.

Da questo antichissimo mito sarebbero derivate le due versioni che conosciamo. Da un lato, fondendosi con i miti sumerici, la versione babilonese dell'Enūma elîš. Dall'altro lato, passando attraverso le successive rielaborazioni monoteistiche, il mito biblico presente nel Bǝrēʾšîṯ.

UGARIṬ: UNA VISIONE INASPETTATA

A cambiare per sempre il nostro modo di vedere la Bibbia, furono le accresciute conoscenze riguardo la religione e la mitologia dei popoli cananei. Prima degli anni '30, tutto ciò che si sapeva di questo ampio mosaico di popolazioni imparentate con gli Ebrei, erano solo pochi nomi divini esecrati dalla Bibbia, che talora trovavano riscontro in scarne documentazioni epigrafiche.

Nel 1929, dopo un oblio di tremila anni, gli archeologi estrassero dal sito di Ras Šamra, in Siria, oltre 1300 tavolette ricoperte di una scrittura cuneiforme sconosciuta. Si trattava, come ci si rese conto in brevissimo tempo, di una vera e propria scrittura alfabetica. La traduzione fu velocissima, in quanto la lingua era affine al fenicio e all'ebraico biblico: ritornò così alla luce la letteratura di Ugariṭ.

L'esegesi biblica ne fu rivoluzionata. Il testo biblico, che prima di allora era stato praticamente un unicum nel panorama religioso medio-orientale, venne contestualizzato. Si scoprì che nella Bibbia era contenuto quasi il cinquanta per cento dei termini religiosi ugariṭici, in contesti che ne approfondivano e ne chiarivano il senso. Ci si rese così conto che l'antica religione ebraica, prima del radicalismo monoteista, dovesse essere abbastanza simile alle concezioni ugariṭiche.

Nei testi mitologici ugariṭici scompare un pantheon piuttosto organizzato, anche se molto diverso da quello assiro-babilonese.

Dio principale di questo sistema divino è El, la nota parola cananea per «Dio», colui che presiede all'assemblea degli dèi. È il protagonista del testo registrato come Cuneiform Alphabetic Text 1.23, «Io invoco gli dèi graziosi e belli», purtroppo mutilo e di difficile interpretazione, in cui lo vediamo in riva all'oceano in un passo molto interessante:

 

El raggiunse la sponda del mare,
s'incamminò lungo la riva dell'abisso...

CAT 1.23 []

La parola qui tradotta con «abisso» è ancora una volta THM, vocalizzata in Tahāmu. Tuttavia non sembra esservi alcuno scontro tra El e Tahāmu. L'avventura che segue è essenzialmente erotica: due donne fanno salire l'acqua verso l'alto ed El vuole possederle. Ma nel momento in cui le porta nella sua casa, «nel mezzo dei due oceani», si scopre impotente a unirsi a loro. Riesce a guarire solo dopo aver mangiato la carne di un uccello che lui stesso colpisce con una freccia. Dopo di ché, le due donne lo invocano e lui giace con loro. Da questa unione nascono due divinità astrali: la stella del mattino e la stella della sera, e poi gli dèi «graziosi e belli» di cui non sappiamo né il nome né il numero. Verso la fine, El sembra scontrarsi con il dio della morte Mōt. A un suo cenno vediamo le acque salire verso il cielo. Ma è tutto talmente vago che, seppur ci siano abbastanza elementi per esserne tentati, non osiamo comunque metterlo in correlazione con quanto detto sopra.

Più interessante il mito di Ba˓al, narrato in una serie di poemi. Costui è il dio del tuono, il signore delle acque celesti, un dio atmosferico, regale e irruento. Il suo nome vuol dire «signore» (è la versione ugariṭica del Bêl babilonese). Tra Ba˓al ed El sembra esservi lo stesso rapporto che già avevamo visto presso i Sumeri tra Enlil ed An: la potenza nell'azione contrapposta alla potenza dell'essere.

Nel poema Ba˓al e il mare assistiamo alla lotta di questi contro il principe Yam «mare», anche chiamato giudice Nahar «fiume», termine, quest'ultimo, col quale molti mitografi credono di designare il corso d'acqua che circonda il mondo.

All'inizio del poema troviamo Ba˓al e Yam in aperto contrasto, con invettive e minacce reciproche. Sembra che la posta in gioco del loro scontro sia la costruzione di una palazzo, forse a simboleggiare la sovranità sull'universo. Yam invia i suoi messaggeri davanti all'assemblea degli dèi, presieduta da El, per chiedere che Ba˓al gli venga consegnato e sembra che sia sul punto di ottenerlo nonostante il furore del diretto interessato. Le lacune del testo non permettono di seguire tutti gli episodi né di comprendere il concatenamento dei fatti: comunque alla fine troviamo Ba˓al sul punto di affrontare il suo pericoloso rivale.

Interviene il dio fabbro Koṯar-wa-ḫasis che gli fornisce due mazze dai nomi propiziatori: «che possa cacciare» e «che possa espellere». La descrizione della battaglia è drammatica. La prima mazza si rivela inefficace, ma lo scopo è ottenuto solo con la seconda:

 

La mazza si slancia dalla mano di Ba˓al
come uno sparviero tra le sue dita
colpisce il principe Yam alla spalla
il giudice Nahar al petto.
Ma Yam resta forte
non si abbatte
le sue articolazioni non si indeboliscono
il suo volto non si scompone. [...].
La mazza si slancia dalla mano di Ba˓al
come uno sparviero tra le sue dita
colpisce il principe Yam sul cranio
il giudice Nahar in fronte.
Yam crolla
cade a terra
le sue articolazioni cedono
il suo volto è sconvolto.

Ba˓al e il Mare

Alcuni mitografi trattano questo mito come una semplice teomachia, ma non è esatto. Già i due nomi di Yam e Nahar («mare» e «fiume») dovrebbero richiamare la nostra attenzione. Questi stessi termini compaiono ben appaiati nella Bibbia, nei versi già citati della profezia di Zǝḵaryā, dove indicano il regno del futuro māšîḥ:

Ûmāšǝlô miyyām ˓aḏ-yām ûminnāhār ˓aḏ-asê-ʾāreṣ.

Il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra.

Zǝḵaryā [IX: 10]

«Fiume» e «mare» sono dunque simboli di universalità: hanno un significato cosmologico, ben più vasto che se si trattasse di una semplice teomachia. Non c'è altra possibilità che ricondurre il mito ugariṭico al tema della lotta di un dio creatore contro le acque cosmiche.

Ma non è finita, perché il ciclo di Ba˓al ci fornisce altri spunti interessanti. Nei racconti informalmente intitolati «Ba˓al e ˓Anat» e «Il palazzo di Ba˓al», assistiamo agli stratagemmi con i quali Ba˓al ottiene da El l'autorizzazione a costruire il suo palazzo. Nell'Enūma elîš, Marduk aveva ottenuto la sovranità semplicemente riunendo gli dèi in assemblea e offrendosi di andare a combattere Tiāmat, e alla fine della sua vittoria aveva edificato il suo tempio Esagil. Per Ba˓al le cose sono più complicate. Assistiamo sgomenti a una carneficina compiuta da ˓Anat, sorella e (forse) sposa di Ba˓al, di cui tuttavia ci sfuggono le ragioni. Convocata da quest'ultimo sul monte Safon, gli offre la sua collaborazione per la costruzione del palazzo. Il dio fabbro Koṯar-wa-ḫasis prepara un dono per conquistare la benevolenza della dea Atirat, sposa di El, la quale parla favorevolmente a suo marito di Ba˓al. Quest'ultimo riceve infine il permesso di costruire il suo palazzo, che sarà sempre opera dell'abile Koṯar-wa-ḫasis.

Nell'ultimo poema del ciclo, «Ba˓al e Mōt», assistiamo allo scontro tra Ba˓al e un nuovo possente nemico, Mōt. Questo nome significa «morte». Mōt ha come residenza il deserto, come patrimonio il vuoto, si lamenta amaramente della sua fame e della sua sete insaziabili, ad espressione del tema universale dell'eterna fame e sete dei morti.

 

Sì, la mia gola è la gola dei leoni del deserto,
o la gola del narvalo in mare,
o la cisterna che attira i buoi selvatici,
o la fonte che attrae le cerve.
È vero, la mia gola si bagna solo di fango.
Ah, veramente mangerei a piene mani.
Placa il mio desiderio con la brocca
o il tuo scalco empia la coppa.
«Ba˓al e Mōt»

Per placare la sua fame e la sua sete, Mōt ha bisogno delle vive acque celesti su cui Ba˓al ha il potere. Sembra vi siano dei negoziati tra Ba˓al e Mōt, ma il richiamo di quest'ultimo è troppo forte:

 

Rècati nel cuore della montagna, mia sepoltura,
solleva la montagna sulle tue mani,
la collina sui tuoi palmi,
e scendi nella dimora di sotterranea reclusione.
Sarai annoverato fra coloro che scendono in terra
e gli dèi sapranno che sei morto.
«Ba˓al e Mōt»

La scomparsa di Ba˓al viene accolta dagli dèi, soprattutto da El e ˓Anat, con gran dolore e costernazione. Con l'aiuto di una dea solare, Šapaš, la «lampada divina», ˓Anat fa risalire in cielo il corpo morto di Ba˓al e lo seppellisce nel cimitero divino. Annuncia poi la morte di Ba˓al alla dea Atirat, che può ora rallegrarsi con i suoi figli e che propone infatti per la sua successione uno di essi, che però si rivela incapace di occupare il trono che era stato di Ba˓al.

Ma nonostante la sepoltura di Ba˓al, sembra probabile che il suo corpo non sia stato trovato per intero, perché ˓Anat e Šapaš continuano la ricerca. E Mōt, dal suo antro sotterraneo, continua a vantarsi di aver inghiottito il dio della pioggia:

 

La mia gola era priva di uomini,
era priva di uomini terrestri.
Sono arrivato al più gradevole dei terreni di pascolo
al più gradevole campo presso la dimora dei morti.
Sono io che ho assalito il potentissimo Ba˓al,
e ne ho fatto un agnello nella mia bocca,
un capretto nel profondo della mia gola,
ed egli è scomparso.
«Ba˓al e Mōt»

Allora ˓Anat, presa dal furore, vuole vendicare il fratello e assale Mōt, distruggendolo. Dopo la scomparsa di Mōt, Ba˓al ritorna in vita. Una lacuna nel testo non ci dice come, solo che poco dopo, ecco troviamo Ba˓al intento a massacrare i figli di Atirat.

Ma in capo a sette anni Mōt ricompare, furente per la sconfitta da parte di ˓Anat. Questa volta Ba˓al e Mōt si scontrano direttamente:

 

Essi si affrontavano come campioni,
talvolta prevale Mōt, talvolta Ba˓al.
S'incornano come tori selvaggi,
talvolta prevale Mōt, talvolta Ba˓al.
Si mordono come serpenti,
talvolta prevale Mōt, talvolta Ba˓al.
Balzano come corsieri,
talvolta Mōt cade, talvolta Ba˓al.
«Ba˓al e Mōt»

La vittoria arride a Ba˓al, che può sedere finalmente sul trono regale, sulla cattedra del suo dominio.

È evidente che quest'ultimo mito appartiene a un mitema diverso. Da un lato vi si trova il motivo del dio che muore e risorge, che ritroviamo presente in tutte le mitologie dell'Egitto e del Vicino Oriente, da Ûśir a Tammûz, su su fino a Cristo. La sparizione di Ba˓al nel sottosuolo assetato è un'evidente metafora della pioggia che scende a rendere fertile il terreno desertico. Šapaš rappresenta il calore incandescente del sole che contribuisce all'evaporazione delle acque e quindi alla ricostituzione delle nuvole, ˓Anat è simbolo delle sorgenti (tale sembra essere il significato del suo nome) che raccolgono l'umidità di cui le acque della pioggia avevano intriso il suolo.

Tutto questo è vero, tuttavia non si può fare a meno di notare il parallelo con la cosmologia semitica, di cui finora abbiamo trattato, dove la terra si ergeva al di sopra di su un abisso acqueo, rappresentano da Apsū a Babilonia, simbolo delle acque dolci sotterranee da cui provengono tutte le sorgenti, i fiumi e le acque affioranti della terra. Si dice nel testo che Mōt abbia come residenza il Deserto e come dimora il Vuoto. Queste espressioni sono rese in ugariṭico con i termini appaiati tuha-bihu: è con sorpresa che scopriamo di trovarci ancora una volta di fronte al disordine dell'increato ṯōhû wa ḇōhû biblico. Per quanto il mito di Mōt sia di carattere naturalistico, non c'è dubbio che ci troviamo di fronte a frammenti ancora più antichi, che sfiorano i princìpi cosmogonici.

IN GRECIA: IL MITO OMERICO DELLA CREAZIONE

Trattando la cosmogonia greca, si fa sempre riferimento alla Theogonía di Hēsíodos, alla lunga e complessa genealogia titanica che è diventata un po' la versione «ufficiale» dei miti greci. Come sappiamo, in origine vi era il cháos primordiale, da cui sarebbe spontaneamente sorta la dea-terra G. G avrebbe generato il dio-cielo Ouranós, con cui si sarebbe unita in amore. Da questa unione sarebbero nati i dodici Titânes . Krónos, l'ultimo dei dodici, aveva poi mozzato il pene del padre e diviso così il cielo dalla terra, creando uno spazio intermedio per la nascita del mondo.

È il mitema della separazione del cielo e della terra, che abbiamo già trattato nel precedente articolo. Anche se siamo in un diverso ordine d'idee, c'è comunque l'idea di qualcosa che viene spinto in alto e qualcos'altro che viene lasciato in basso, creando uno spazio intermedio disponibile per la successiva creazione. Ma non solo: come gli dèi babilonesi che si erano moltiplicati dentro gli abissi liquidi di Apsū e Tiāmat, anche i Titânes greci erano rimasti rinchiusi dentro l'utero di mamma G, finché l'atto di separazione non aveva permesso loro di venire alla luce. In Hēsíodos le acque caotiche primordiali dei miti semitici diventano, in un certo senso, le acque amniotiche dello stadio prenatale dei Titânes.

L'equivalenza tra la Theogonía di Hēsíodos e l'Enūma elîš babilonese rimane tuttavia al semplice stadio di analogia: vi sono antichi motivi che spingono nella medesima direzione, ma non sembra esservi insomma un reale rapporto di omologia. Però, come sappiamo, Hēsíodos aveva strutturato una cosmogonia sul modello delle antiche versioni anatoliche, che certamente alla sua epoca circolavano lungo tutta la costa ionica.

Se dovessimo andare a cercare dei personaggio analoghi ad Apsū e Tiāmat nel mito greco, non avremmo dubbi ad indicare un'altra coppia primordiale, Ōkeanós e Tēthýs:

...Autàr, épeita
Ouranı eunētheîsa ték' Ōkeanòn bathydínēn
Koîón te Kreîón th' Hyperíoná t' Iapetón te
Theían te Rheían te Thémin te Mnēmosýnēn te
Phoíbēn te chrysostéphanon Tēthýn t' erateinḗn,
toùs dè méth' hoplótatos géneto Krónos aŋkylomḗtēs,
deinótatos paídōn...
...Dopo, con Ouranós giacendo,
[G] generò Ōkeanós dai gorghi profondi,
e Koîos e Krýos, e Hyperíōn e Iapetós,
Theía, Rheía, Thémis e Mnēmosýnē,
e Phoíbē dall'aurea corona, e l'amabile Tēthýs,
e dopo questi, per ultimo, nacque Krónos dai torti pensieri,
il più tremendo dei figli...

Hēsíodos: Theogonía [-]

Hēsíodos pone Ōkeanós e Tēthýs a un punto ormai avanzato nel processo teogonico: essi sono due dei dodici Titânes, figli di G e Ouranós, mescolati in una comune discendenza insieme a una serie di altri personaggi di cui la maggior parte sono semplici nomi privi di una vera identità. Ma andando a guardare più da vicino, scopriamo che Ōkeanós e Teti si distaccano non poco dai loro titanici fratelli. Mentre i Titânes sono divinità di stampo più arcaico, qualcosa a metà tra giganti e dèi, Ōkeanós e Tēthýs sono degli esseri legati all'acqua, anzi, fatti essi stessi d'acqua.

 

Il cerchio dell'instancabile Ōkeanós dalla bella corrente
che con i suoi vortici volgendosi intorno chiude la terra.

Orphicorum fragmenta [115K]

A differenza dei Titânes suoi fratelli, esseri primordiali e nerboruti, comunque personaggi dai tratti antropomorfi, Ōkeanós era un vero e proprio principio cosmologico. Nella cosmologia greca, era l'oceano d'acqua salata che circondava il mondo e scorreva instancabile rifluendo su sé stesso in un circolo eterno. Ōkeanós si muoveva ai confini dello spazio, là dove non esistevano né cielo e né terra, e i suoi flutti tumultuosi delimitavano le estremità dell'universo, il limite del nulla. Le sue acque avevano anche un potere catarchico e rigeneratore. Tēthýs era anch'essa una creatura acquea primordiale, ma di natura femminile, il cui corso era mescolato e indistinguibile da quello di Ōkeanós.

Uniti l'uno all'altra in un unico flusso, Ōkeanós e Tēthýs erano le sorgenti donde scaturivano tutte le acque che scorrevano sulla terra e il luogo ultimo ove esse tornavano a defluire. Attraverso le acque dei mari e dei fiumi, Ōkeanós e Tēthýs penetravano all'interno delle terre, rendendole fertili e creando ogni possibilità di vita. Si configuravano insomma quali realtà cosmologiche e primordiali, i principi da cui tutto scaturiva e a cui tutto ritornava, proprio come le loro acque eternamente rifluenti in sé stesse.

Oudè bathyrreítao méga sthénos Okeanoîo,
ex hoû per pántes potamoì kaì pâsa thálassa
kaì pâsai krēnai kaì phreíata makrà náousin.

Nemmeno la forza grande di Ōkeanós dai gorghi profondi,
da cui tutti i fiumi fluiscono, e tutte le acque del mare
tutte le fonti, e le cupe sorgenti traboccano.

Hómēros: Iliás [XXI: -]

Si ha dunque il sospetto, giustificato, che nel porre Ōkeanós e Tēthýs tra i dodici Titânes, Hēsíodos abbia dato a questi due personaggi una collocazione non attinente alla loro vera natura. All'epoca in cui fu scritta la Theogonía, altri miti della creazione circolavano per la Grecia, ma rimasero nell'ombra, schiacciati dall'alto magistero di Hēsíodos. Non ci stupiremo dunque di trovare, alla base di alcune di queste cosmogonie «alternative», non il vuoto Cháos di Hēsíodos, ma proprio Ōkeanós e Tēthýs. Si tratta insomma di un mito diverso da quello esiodeo, ed a quanto pare di grande antichità, come attesta Aristotélēs:

Vi sono alcuni, poi, i quali credono che anche gli antichissimi e primi teologi, molto prima dell'attuale generazione, abbiano avuto una tale opinione riguardo alla natura primordiale: concepirono infatti Ōkeanós e Tēthýs come autori della creazione e riferirono il giuramento degli dèi dell'acqua, quella chiamata da loro Stýx[Stige].
Aristotélēs: Metá ta physiká [983 b27 - 984 a2]

Tutto ciò rientra nel discorso che facevamo nel precedente capitolo. Avevamo visto che, anche in epoca classica, esistevano in Grecia due correnti di pensiero: l'una, quella che faceva capo a Hēsíodos, che concepiva il cháos come uno spazio vuoto e spalancato, l'altra, che infine sarebbe stata ripresa dai filosofi di Mílētos, prima di tutti Thalḗs, secondo la quale era l'acqua l'origine o arché di tutte le cose. Questa concezione, cosmogonica prima che filosofica, veniva fatta risalire già nell'antichità a Hómēros, in quanto la sua definizione più autorevole si trovava nell'Iliás. Contrariamente ad Hēsíodos, infatti, in Hómēros non sembra esserci traccia del cháos originario, ma una scaturigine degli dèi dalle acque primordiali. In questo importante brano è la stessa dea Hḗra:

Eîmi gàr opsoménē polyphórbou peírata gaíēs,
Ōkeanón te then génesin kaì mētéra Tēthýn,
hoí m' en sphoîsi dómoisin eǘ tréphon ēd' atítallon
dexámenoi Rheías, hóte te Krónon eurúopa Zeùs
gaíēs nérthe katheîse kaì atrygétoio thalássēs.
Toùs eîm' opsoménē, kaí sph' ákrita neíkea lúsō:
ḗdē gàr dēròn chrónon allḗlōn apéchontai
euns kaì philótētos, epeì chólos émpese thymōı.

Io vado a vedere i confini della terra feconda,
a Ōkeanós, origine degli dèi, e a madre Tēthýs,
che nelle loro case mi nutrirono e crebbero,
affidata da Rheía nei giorni che Zeús vasta voce
scoscese Krónos sotto la terra e il mare infecondo.
Loro vado a trovare, ché scioglierò un dissidio infinito:
ché ormai d'amore e di letto sono divisi da tempo,
ché avvampano d'ira nel seno.

Hómēros: Iliás [XIV: -]

Che Ōkeanós fosse assai più di un semplice titano, quale Hēsíodos l'aveva gabellato, appare chiaro in molti punti del mito greco. Essendo il più antico e venerando degli dèi, Ōkeanós poteva opporsi persino alla volontà di Zeús. Narra Hómēros che quando Zeús radunò tutti gli dèi a consiglio sul monte Ólympos, convenne ogni divinità, non mancò nemmeno il più umile degli dèi fluviali. Solo Ōkeanós rifiutò di intervenire e rimase nel suo posto ai confini della terra.

Nelle cosmogonie accennate da Hómēros e ribadite da Aristotélēs, dunque, furono Ōkeanós e Tēthýs i progenitori degli dèi, e non Ouranós e G come invece vuole Hēsíodos. Uniti l'uno all'altra, essi formavano una massa fluida e indefinita, ma vitale, che portava in sé, grazie al dualismo insito nell'opposizione maschio/femmina, una fecondità senza limiti, e quindi la pluralità che si sviluppa nella creazione.

Ritroviamo qui, ancora una volta, la stessa coerente impalcatura delle cosmologie semitiche. Essendo anche un luogo fisico, e cioè il confine del mondo col nulla, Ōkeanós corrisponde punto per punto agli asayîm ebraici, termine che indicava insieme il confine del mondo e l'oceano esterno. Una delle possibili etimologie del nome Ōkeanós lo fa risalire all'accadico uginna «anello», evidenziando la funzione del fiume che circonda la terra. Sposa di Ōkeanós, Tēthýs riecheggia da vicino la Thaute di Damáskios, che come sappiamo è a sua volta la Tiāmat babilonese. La situazione presenta ellenica più analogie che omologie, perché secoli di interpretazione teologica hanno mutato i rapporti tra le divinità, le loro lotte cosmologiche e le loro interazioni. Ma rimane interessante quel dissidio che interpone Ōkeanós e Tēthýs, per cui i due esseri acquei risultano divisi «d'amore e di letto». Hómēros non spiega la causa della lite: forse, l'autore del testo, stava riportando semplicemente un mito antichissimo di cui non gli era chiara la ragione. Sembra evidente che, chiuso il periodo cosmogonico, l'attività generativa di Ōkeanós e Tēthýs debba fermarsi, e il loro dissidio ne è la probabile giustificazione mitologica. Ma quello che noi non possiamo fare a meno di pensare, però, è che il «divorzio» di Ōkeanós e Tēthýs sembra riecheggiare la divisione delle acque primordiali presente nei miti semitici. In Grecia, perduto il senso cosmologico del racconto, questo si è trasformato in un litigio che tiene i due coniugi separati l'uno dall'altra; in origine, quella separazione doveva avere un significato cosmogonico, analogo forse alla divisione delle acque dalle acque, o al motivo di Tiāmat spezzata in due.

Ma a rendere ancora più stretta la relazione, vi sono anche alcune considerazioni formali. Ad esempio, due versi del poema accadico, «Apsū, di tutti il progenitore, e la loro madre Tiāmat, di tutti la generatrice» [Apsū-ma rêštû zârûšun mummu Tiāmat mu(w)allidat gimrišun] (Enūma elîš [I: -]), mostrano un perfetto parallelismo con il verso omerico: «a Ōkeanós, origine degli dèi, e a madre Tēthýs» [Ōkeanón te then génesin kaì mētéra Tēthýn], verso la cui natura formulare è confermata dalla sua ripetizione (Iliás [XIV:  | ]).

A questo ci possiamo chiedere per quale tramite le antiche teogonie semitiche siano finite a far parte dei poemi omerici. Non lo sappiamo con certezza. Platone, che cita in un passo del Kratýlos i precedenti versi di Hómēros, si cura di far risalire il mito di Ōkeanós e Tēthýs quali origini di tutte le cose addirittura all'antica dottrina di Orpheús, di cui cita un verso:

 

Dice anche Orpheús: - Ōkeanós per primo, dalla bella corrente, diede principio alle nozze, lui che sposò la sorella Tēthýs, nata dalla stessa madre.

Plátōn: Kratýlos [402 c]

Ploútarchos a sua volta ne fa risalire l'origine agli egiziani:

 

E credono che Hómēros, e lo stesso si dice di Thalḗs, abbia posto l'acqua come principio e origine di tutte le cose, dopo aver appreso ciò dagli Egizi...
Ploútarchos: De Iside et Osiride [34]
Ratto di Europa

Affresco di epoca romana. Pompei, casa di Giasone.

Solo negli ultimi anni si è cominciato a sospettare che i rapporti tra l'antica Ellade e il mondo semitico siano stati più stretti di quanto si fosse ritenuto in passato. È noto che gli Elleni furono i discendenti degli antichi invasori indoeuropei i quali, nel corso del Secondo millennio avanti Cristo, scesero nella penisola ellenica dove, nell'incontro con la più antica civiltà minoica, sarebbe nata la civiltà micenea. La lingua greca presenta una buona percentuale di parole di origine non indoeuropea. La parola thálassa «mare», che sembra avere attinenze con il gruppo Tǝhôm / Tiāmat / Thaute / Tēthýs, non era indoeuropea, bensì risaliva a quello che, in mancanza di una migliore definizione, o forse proprio ignorando volutamente la possibile origine semitica, veniva spesso chiamato substrato «pelasgico» o «egeo» della cultura greca (Pelasgi erano chiamati, nella tradizione antica, i popoli pre-elleni dell'Ellade). Ma poiché una buona percentuale di parole pre-elleniche sembra non essere incompatibile con un'origine semitica, studiosi come Martin Bernal sono arrivati a ipotizzare una stetta dipendenza culturale della Grecia arcaica con l'area fenicia e/o egiziana.

Non si può tacere, a questo proposito, che anche molti miti sembrano suggerirci questa forte presenza mediorientale alla base della civiltà ellenica. I Greci stessi narravano di come Zeús, in forma di toro, avesse rapito la giovane Eurṓpē dalle spiagge di Fenicia, per condurla a Creta, dove l'avrebbe resa madre, tra gli altri, di Mínōs, re e fondatore della civiltà cretese. Secondo il mito, Eurṓpē era sorella del re fenicio Kádmos, a cui la tradizione fa risalire la creazione dell'alfabeto poi utilizzato dagli stessi greci. Rimane è la possibilità che i Cretesi fossero di stirpe semitica, cosa di cui non avremo mai la conferma almeno finché non verrà decifrata la Lineare A. È però indubitabile che nel mito greco vi sia una forte componente mediorientale, e ritengo che i Greci abbiano desunto molti elementi della loro mitologia da storie che circolavano nel Mediterraneo orientale e nel Mar Egeo forse già all'epoca del loro insediamento nell'Ellade, nel Secondo millennio avanti Cristo, e che poi le abbiano lentamente integrate al loro corpus mitologico.

UN TENTATIVO DI RICOSTRUZIONE

La forma più antica di questo mito, sembrerebbe l'idea di un abisso liquido primordiale, da cui d'un tratto ecco il sorgere della prima materia organizzata. In Egitto troviamo il concetto del nûn, che nel sistema teologico eliopolitano rappresentava la personalità divina dell'oceano increato, la massa liquida da cui emerse, prima creatura, il dio sole tūm-Reʿ. Oppure, nel sistema elaborato dai sacerdoti ermopolitani, da cui emerse la prima altura, e quindi, la nascita di tūm-Reʿ da un uovo sorto su questa altura. Il nome dell'altura era Tatenen nella dottrina menfitica. Parallela alla versione egiziana, quella sumerica, secondo il quale esisteva l'abzu, un abisso cosmico di acque primordiali. Ad apparire, secondo la ricostruzione operata da Samuel Noah Kramer, fu la montagna cosmica Ḫursaganki, terra e cielo insieme, dalla cui separazione nacque l'universo.

Una seconda tradizione che si mescolò con la prima fu una lotta di un dio contro le acque furiose, che minacciano di travolgere il mondo, proveniente probabilmente dall'area cananea. Si pensa si sia sviluppata forse lungo le coste della Siria e quindi sia stato portata in Mesopotamia da tribù amorree verso il 2000 a.C.. In tutta questa famiglia di miti, il motivo dell'ammansimento delle acque venne indirizzato in una doppia funzione: da un lato per impedire le inondazioni, e qui si può pensare alle piene del Tigri e dell'Eufrate e si può anche arrivare al mito del Diluvio, dall'altra per impedire la siccità, vista come presenza di un mostro che imprigiona tutte le acque impedendo di fatto la regolazione dei cicli della fertilità.

In Mesopotamia, i semiti assorbirono l'intero substrato sumerico e lo riadattarono a nuove concezioni. Nasce così l'idea di un oceano primordiale, confusione di acque salmastre femminili e acque dolci maschili. Un dio avrebbe sconfitto queste masse acquee, le avrebbe strappate l'una all'altra, con una parte avrebbe creato il cielo atmosferico, con l'altra parte l'oceano esterno e sotterraneo. Ecco dunque che la barriera che gli dèi erigono nei confronti delle acque acquista un vero e proprio sapore cosmologico, come un qualcosa atto a impedire il ritorno dell'universo allo stato caotico dei primordi. Tra i Sumeri questo compito era assegnato a Enlil, signore dello spazio atmosferico, dio del vento vivificante e della parola creatrice.

È dunque possibile che Enlil, quale re degli dèi, fosse rimasto protagonista dell'impresa anche nei più antichi miti cosmogonici semitici. Forse, prima del sorgere di Babilonia, si raccontavano versioni dell'Enūma elîš che avevano il dio Enlil come protagonista dell'impresa. Forse, in tali versioni, Apsū e Tiāmat sarebbero stati sconfitti, ma quest'ultima non avrebbe forse subìto l'onta di essere strappata in due. Piuttosto, sarebbe stata strappata controvoglia dal suo sposo Apsū e costretta a formare il cielo. Le acque terrestri sarebbero poi state costrette a circondare il mondo, ponendo quindi barriere alla loro invasione delle terre emerse.

Credo che il motivo della separazione delle acque maschili da quelle femminili sia semitico, mentre quello del «sacrificio» delle sole acque femminili sia più recente, probabilmente importato in Mesopotamia da altre correnti culturali (si può pensare ai Cassiti, indoeuropei, i quali avrebbero potuto introdurre il motivo del sacrificio del macroantropo). Ma ora ci stiamo muovendo sull'infido terreno delle ipotesi...

Fatto sta che la versione finale del mito accolse questo motivo del sacrificio. È probabile che parecchie versioni del mito circolassero in Mesopotamia, allorché Babilonia divenne la capitale culturale del mondo orientale. Nell'Enūma elîš babilonese a Marduk toccò la parte di uccisore di Tiāmat e di demiurgo ordinatore dell'universo. In Assiria questo posto fu assegnato al dio locale Aššur. Ma è possibile che altrove Enlil abbia tenuto il suo antico ruolo, cosa che spiegherebbe la sua presenza (o il suo affiancamento con Marduk) nei tardi riassunti ellenistici di Bḗrōssos e di Damáskios.

Questo in Mesopotamia. Altrove il medesimo mito ebbe diversi esiti. È possibile che gli Ebrei, che già avevano nel loro repertorio il mito cananeo della lotta di un Dio contro le acque ribelli, finirono col creare il motivo della ribellione delle acque cosmiche, della vittoria di lōhîm su di esse e dalla loro nuovo collocazione, in alto le acque femminili, in basso quelle maschili, e quindi il confinamento di queste ultime ai confini della terra. E alla fine di una lunga speculazione sacerdotale, nella quale presumibilmente gli antichi miti furono reinterpretati secondo le modalità essenziali del monoteismo, rimase soltanto Dio a regolare l'amorfa materia primordiale secondo il suo capriccio.

Questo humus di idee, circolante in tutto il Mediterraneo orientale, germinò probabilmente in Grecia dove sviluppò l'idea cosmologica di Ōkeanós e Tēthýs, acque cosmiche maschili e femminili che delimitavano i confini del mondo. Ignoriamo la forma dei più antichi miti riguardo questa concezione, che già all'epoca di Hómēros era ormai irrimediabilmente sbiadita. Il poco spazio a disposizione c'impedisce di seguirne gli infiniti addentellati nel pensiero teologico e filosofico greco, che in certi casi sono davvero imponenti... si pensi all'ultimo discorso di Sōkrátēs, che Plátōn ci riferisce in Phaídōn [107d-115a], dove Ōkeanós e i mitici fiumi suoi tributari, sono descritti come attraversanti gli spazi cosmici e le profondità abissali della terra, trattati come realtà cosmiche legate al flusso e alle purificazioni delle anime.
MITI BABILONESI
(
Enūma elîš)
MITI EBRAICI
(
Bǝrēʾšîṯ)
MITI EBRAICI
(Fonti rabbiniche)
MITI UGARITICI MITI GRECI
(Hómēros)
0 Acque caotiche primordiali come miscuglio indifferenziato di acque dolci maschili [Apsū] e acque salate femminili [Tiāmat]. Acque caotiche primordiali come massa d'acqua indifferenziata. Acque caotiche primordiali come massa d'acqua indifferenziata. El cammina dinanzi alle acque abissali [Tahāmu] degli inizi. Acque caotiche primordiali in doppia configurazione maschile [Ōkeanós] e femminile [Tēthýs].
1 Marduk uccide Tiāmat usando i suoi venti come arma. lōhîm vivifica e domina le acque caotiche col suo soffio o vento. lōhîm abbatte Tǝhôm con i suoi venti, o Rahab, il principe del mare, gettandone la carcassa negli abissi. Ba˓al sconfigge Yam, il principe del mare, con le due mazze magiche.  
2 Marduk spacca in due il cadavere di Tiāmat e con una metà costruisce il cielo. lōhîm divide le acque che sono sopra il cielo da quelle che sono il cielo, e crea un firmamento tra le une e le altre. lōhîm divide le acque che sono sopra il cielo da quelle che sono il cielo. Le acque superiore salgono cantando, le acque inferiori si dolgono di scendere nella profondità. Mōt assorbe nel suo regno sotterraneo le acque celesti rappresentate da Ba˓al, le quali tuttavia vengono di nuovo ricondotte in cielo da ˓Anat e Šapaš. Ōkeanós e Tēthýs, divisi da un interminabile dissidio, sono separati di letto e d'amore.
3 Marduk costruisce la terra con l'altra metà del cadavere di Tiāmat e annoda la coda in modo che le acque non possano invadere la terra. lōhîm ordina alle acque che sono sotto il cielo di ritrarsi in un luogo per lasciar affiorare la terra. Le acque inferiori erompono rabbiose sulla terra, ma lōhîm le domina e le caccia ai confini del mondo. Mōt viene sconfitto da Ba˓al, e presumibilmente ricacciato al suo posto.  

Fonti

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Rubrica: Studi - Anubis.
Materia: Biblistica e cristianesimo -
Yəhûdāh Κqəriyyôt.
Ricerche e testi di Dario Giansanti e Oliviero Canetti.
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Creazione pagina:29.01.2004
Ultima modifica: 25.05.2015
 
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