DIO:
L'UNICO?
Il monoteismo,
che è il carattere fondamentale, anzi, distintivo, della
religione ebraica, non è altro che il punto di arrivo di una
lunga speculazione sacerdotale.
Lo studio esegetico degli scritti biblici, unito
ai ritrovamenti archeologici, indica senza ombra di
dubbio che la religione ebraica delle origini non
dovette essere molto dissimile dai politeismi che
troviamo attestati presso gli altri popoli cananei.
Fin dagli anni '50 gli studiosi hanno cominciato a
rendersi conto che sotto il rigore teologico
documentato dalla Bibbia sussisteva una situazione
completamente diversa. Per quanto il culto
dell'unico dio Yǝhwāh
fosse l'aspetto principale dell'Antico Testamento,
non di meno poteva non essere il principale
aspetto della religione dell'antico Israele. Come
afferma il biblista Massimo Baldacci, «si
hanno oggi elementi tali di giudizio da poter
affermare che il Dio solo, almeno in una fase
iniziale della fede di Israele, fosse venerato al
pari di un nutrito numero di altri
dèi».
La religione di Israele antecedente all'esilio,
prima del V secolo avanti Cristo, doveva essere una semplice
diramazione della religione cananea, all'inizio
forse neppure riconoscibile da quella. Yəhwāh era dio di Israele,
ma nessuno, prima dei Profeti, immaginava di essere
nel peccato se coltivava una fede politeista o se
annetteva alla figura di Yəhwāh simboli propri di
altre divinità cananee, come El o Ba˓al, né se
affiancava a Dio la figura femminile di Ašerah.
Le iscrizioni dell'VIII secolo a.C. sono chiare:
la dea Ašerah
è menzionata alla stessa stregua di
Yəhwāh in contesti
benedizionali.
Ti
benedico tramite
Yəhwāh e tramite la
sua
Ašerah.
|
Iscrizione paleoebraica |
Un processo verso un enoteismo sempre più
spinto porterà nel corso dei secoli la
figura di Yəhwāh ad
emergere e distaccarsi dalle altre figure divine,
assorbendo nel contempo i caratteri delle
divinità che metteva in ombra. La preminenza
cosmica di El, il
carattere atmosferico e temporalesco di Ba˓al e Hadad, la potenza e la
regalità di Enlil. Molti nomi e molte
figure divine concorsero alla formazione di quello
che sarebbe stato il Dio Unico degli Ebrei. Ma
sarà solo con la fine della monarchia, nel
586 a.C., che lo yahwismo monoteista
inizierà finalmente la sua corsa
inarrestabile, lasciando al palo tutti gli altri
dèi di Kǝnaʿan.
La Bibbia fu compilata probabilmente durante
l'epoca della deportazione babilonese (586-538 a.C.) o subito dopo. I teologi che si occuparono di dare una
forma canonica agli scritti sacri cucirono testi di diversa
antichità e provenienza, adattandoli a una realtà religiosa
diretta verso il monoteismo. Tuttavia, a voler leggere la
Bibbia in filigrana, traspaiono molti aspetti e frammenti
che riflettono una situazione antica affatto diversa.
Troviamo scritto nel libro dei «Salmi»:
lōhîm
niṣṣāḇ ba˓ăḏaṯ-ʾēl
bǝqereḇ
ʾlōhîm
yišǝpōṭ. |
lōhîm
presiede all'assemblea divina
in
mezzo agli dèi egli
giudica. |
Tǝhillîm [82, ] |
Vi traspare, com'è evidente, una
situazione di enoteismo. Yəhwāh
lōhîm è il più
grande e potente di tutti gli dèi, ma non
è l'unico. Vi è anzi un'assemblea
degli dèi a cui lōhîm presiede. La medesima
immagine ricompare nelle iscrizioni cananee, dove
troviamo il dio supremo El presiedere all'assemblea
divina. La scoperta delle tavolette di Ugariṭ, nel
1929, ha permesso di contestualizzare la
Bibbia.
Molte immagini riferite a Yəhwāh sono comuni di una
realtà religiosa assai più vasta e
variegata. Leggiamo in un altro salmo biblico:
Šîrû l-ʾēlōhîm!
Zammǝrû šǝmô!
Sōllû
lārōḵēḇ
bā˓ărābôṯ!
Bǝyāh
šǝmô
wǝ ˓ilǝzû lǝānâw! |
Cantate, o dèi!
Inneggiate, o suoi cieli!
Spianate la strada al
cavaliere delle nubi!
In Yəhwāh
gioite
ed
esultate dinanzi a lui!
|
Tǝhillîm [68, ] |
Sembra che Yəhwāh
avesse il predominio sul cielo e sulle nubi non in
quando «Dio», ma in quanto dio dalle caratteristiche
originariamente atmosferiche. Probabilmente
perché nella figura del dio biblico si fuse
quella di una divinità adorata in una zona
montuosa della Palestina, prima che Mōšẹh e
le sue genti ne facessero il loro dio tutelare.
L'espressione «cavaliere delle nubi»
[rōḵēḇ
bā˓ărābôṯ], che troviamo anche
in Yǝša˓yāhû
[19, ], era un epiteto del
dio cananeo Ba˓al [RKB
˓RPT], dispensatore della pioggia
vivificante oltre che dio guerriero,
caratteristiche che passarono entrambe a Yəhwāh nel momento in cui il
titolo slittò dal mondo cananeo a quello
biblico, diventando appannaggio del dio
d'Israele. Leggiamo infatti in un testo proveniente
da Ugariṭ e risalente al XIV
secolo a.C.:
|
Per
sette anni possa Ba˓al essere
assente,
per
otto anni il cavaliere delle
nubi!
|
CAT [1.19 - I: -] |
Per comprendere la natura e l'origine dei miti,
bisogna inserire ogni tradizione nel suo contesto
geografico e storico. Il testo biblico non sfugge a
questa necessità. Ogni espressione mitica,
così come ci è pervenuta, è il
risultato di secolari trasformazioni e
interpretazioni di cui non conosciamo le fasi
più antiche. Noi siamo spesso testimoni
soltanto dei risultati finali, allorché
molte espressioni mitiche avevano già
assunto la loro forma ultima e definitiva.
|
PARTIAMO DALLA
BIBBIA: CAOS ACQUEO E SUA SEPARAZIONE
Partiamo dal
Bǝrēʾšîṯ e dal suo
possente incipit:
Bǝrēʾšîṯ bārāʾ lōhîm ēt haššāmayim
wǝ ēṯ ārẹṣ. |
In
principio
lōhîm creò il cielo e la
terra.
|
Bǝrēʾšîṯ
[1, ] |
La parola solitamente qui tradotta con «Dio»
è nell'originale
lōhîm, forma plurale del
termine generico ēl, «dio». Non bisogna
però pensare, in questo caso, al residuo di
un antico politeismo, quanto a un plurale di
maestà, tant'è vero che il verbo
è regolarmente disposto al singolare. Questo
plurale non deve suggerire un'immagine sul tipo
«tutti gli dèi» (traduzione che
troviamo in alcuni tentativi di fare una resa
«letterale» del testo), ma
l'identificazione di una divinità totale e
definita. Il termine ēl avrebbe reso un significato
generico, «un dio», ma lōhîm si
traduce senz'altro con «Dio».
Come abbiamo visto, il passaggio concettuale tra
«un dio» e «Dio» non fu
immediato, ma il risultato di una lunga
elaborazione teologica. Allo stesso modo, il motivo
della creatio ex
nihilo dell'universo da parte di questo unico Dio è solo
il punto d'arrivo di analoghe speculazioni. La teologia
cristiana, seguendo in ciò il pensiero ebraico, ha
tradizionalmente interpretato i primi versi del
Bǝrēʾšîṯ
come una prova della
creazione dal nulla, ma oggi gli stessi biblisti
tendono a pensare che l'idea di tale intento esuli
dalle intenzioni del testo. In una fase più
antica, presumibilmente, non si parlava di
creazione ma di imposizione di un ordine sul caos.
Ma andiamo ancora avanti di un mezzo versetto:
Bǝrēʾšîṯ bārāʾ lōhîm ēt haššāmayim
wǝ ēṯ ārẹṣ. |
In principio lōhîm creò il cielo e la
terra.
|
Wǝ hāʾārẹṣ hāyǝṯāh ṯōhû wā ḇōhû... |
La terra era informe e vuota...
|
Bǝrēʾšîṯ
[1, -] |
|
La creazione del sole e della luna |
Michelangelo, Cappella Sistina (1508-1512). |
Poniamo
l'attenzione sui due aggettivi che descrivono la
terra appena creata, «informe e vuota».
Nell'originale ebraico si tratta di due parole di
ardua decifrazione: ṯōhû wā ḇōhû, regolarmente coordinate
dalla congiunzione wā.
Questi termini paiono suggerire una sorta di
formula evocativa piuttosto che richiamare un reale
significato. Fatto il parallelo con altre lingue
semitiche, senza addentrarci nel campo della
filologia, sembra che ṯōhû indichi
l'asprezza del deserto e ḇōhû la
vacuità. La locuzione è rimasta a
indicare l'idea di uno stato primordiale, caotico,
privo di forma e di sostanza.
Di qui la curiosa traduzione greca nella Bibbia
dei Settanta, che di questi due termini
preferì catturarne il suono più che
il significato, rendendoli con aóratos e
akataskeuástōs,
letteralmente «invisibile» e
«impreparato», e che tuttavia ampliano
già il senso concettuale dei termini
originali. Nelle successive speculazioni
rabbiniche, ṯōhû e ḇōhû
arrivarono a indicare l'opposizione di materia e
forma, suggerendo l'idea che tutte le cose
già preesistessero nel caos originario, ed lōhîm, evocandole, le abbia tratte fuori dal loro
stato di potenza dando loro un'identità
precisa. Ci stiamo dunque movendo lentamente verso
i concetti che nella filosofia greca erano definiti
dalle parole cháos e kósmos, di cui
abbiamo parlato nella sezione precedente.
Phílōn di Alexándreia (±20 a.C. – ±45 d.C.), che come sappiamo
cercò di fondere la sapienza ebraica alla
filosofia greca, suggerì un parallelo tra il ṯōhû
wā ḇōhû biblico
e il cháos con cui
Hēsíodos aveva aperto la Theogonía, facendone la
prima manifestazione della realtà. E
afferma, come abbiamo visto, che, per quanto il
cháos fosse stato concepito come luogo, nondimeno
c'erano altri che ritenevano che fosse acqua
(De aeternitate mundi [18]). Che
nell'antichità sussistesse una concezione
per cui il caos primordiale avesse un aspetto
liquido è stato uno degli argomenti della
sezione precedente. Abbiamo già visto come
quest'idea che il caos originario fosse un elemento
liquido era presente nelle speculazioni greche e di
come riaffiora nel primo filosofo, Thalḗs di
Mílētos. Ma tali idee covavano da secoli
nell'amalgama della comune mitologia, poiché
le troviamo tra i Sumeri, con la concezione
dell'abzu, e tra gli
Egizi in quella del nûn. In entrambi i
casi si parlava di un abisso primordiale costituito
d'acqua, spinto ai confini dell'universo dalla
successiva creazione, e da cui derivavano tutte le
acque che scorrevano sul mondo per affioramento o
vi cadevano con la pioggia.
Ma torniamo al mito biblico e proseguiamo lungo il secondo
versetto:
Bǝrēʾšîṯ bārāʾ
lōhîm ēt haššāmayim
wǝ ēṯ ārẹṣ. |
In principio lōhîm creò il cielo e la
terra.
|
Wǝ hāʾārẹṣ hāyǝṯāh ṯōhû wā
ḇōhû wǝ ḥōšek
˓al-pǝnê
ṯǝhôm... |
La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie del
ṯǝhôm...
|
Bǝrēʾšîṯ
[1, -] |
Quando le traduzioni del
Bǝrēʾšîṯ
riportano «e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso», impiegano, per indicare
l'abisso, una parola molto interessante:
ṯǝhôm. Questa parola
deriva dalla radice semitica THM che indica il
«mare», ma più esattamente il
caotico abisso delle acque primordiali che precede
la creazione.
Concludiamo ora il secondo versetto:
Bǝrēʾšîṯ bārāʾ
lōhîm ēt haššāmayim
wǝ ēṯ ārẹṣ. |
In
principio lōhîm creò il cielo e la
terra.
|
Wǝ hāʾārẹṣ hāyǝṯāh tōhû wā
bōhû wǝ ḥōšek ˓al-pǝnê
ṯǝhôm wǝ rûḥ lōhîm
mǝraḥeeṯ
˓al-pǝnê
hammāyim. |
La terra era informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie del
ṯǝhôm, e il rûḥ lōhîm aleggiava sopra le acque.
|
Bǝrēʾšîṯ
[1, -] |
È insieme delicata e possente l'immagine
del
rûḥ lōhîm che aleggia sulla superficie
delle acque. La traduzione interconfessionale della
Bibbia rende questo passo in maniera orribile:
«un vento tempestoso
agitava le acque». Non va bene. La
resa tradizionale di
rûḥ con «spirito» è il risultato di
un secolare e delicatissimo lavoro di traduzione e
non può essere rimossa con tanta
facilità. Inoltre il verbo utilizzato per
indicare l'aleggiare dello Spirito è mǝraḥeeṯ, la cui radice
RḤP è impiegata per
descrivere il delicato batter d'ali degli uccelli
in volo, e dunque totale assenza di suono e di
energia.
L'interpretazione di questo passo è
comunque assai complicata: qual era lo scopo di lōhîm nell'accarezzare dolcemente o nello scuotere
violentemente (comunque lo si voglia rendere) le
acque caotiche primordiali?
Rûḥ è una parola che se da
un lato evoca il subitaneo erompere del vento,
dall'altra ha un'immensa varietà di
significati, estendendosi dall'indefinibile spazio
divino fino al pulsare della vita umana. Come
spiega Giulio Busi, «il simbolismo di rûḥ è
onnicomprensivo e tende a penetrare nelle pieghe
più riposte del reale, poiché indica
il vero principio dinamico di ogni cosa».
È appunto rûḥ quell'alito che Yǝhwāh soffierà su
Ādām, rendendolo da materia inerte creatura
vivente. Il secondo versetto dal
Bǝrēʾšîṯ, con
quel rûḥ che aleggia sulle acque,
sembrerebbe un elemento pittoresco, è invece
l'indicazione di uno spirito divino che scende a
vivificare la materia stessa, traendola dallo
stadio di ṯōhû wā ḇōhû e rendendola dinamica
e vibrante.
Nella versione greca dei Settanta la parola
sarà resa con pneûma, parola
indicante qualcosa tra la vita, il respiro e
l'anima. La resa latina con spiritus si pone in
linea con questa straordinaria convergenza di
significati.
Quale che sia il giusto confronto di forze tra
il divino rûḥ e le acque caotiche
primordiali, non si può far notare che il
passo biblico si pone come spartiacque tra due
concezioni quasi opposte. È il punto di rilettura tra un antico mito dove il soffio
violento di lōhîm incatena le acque caotiche al suo
possente volere e l'idea successiva di un dio che
col suo soffio gentile trae le acque cosmiche dallo
stato caotico degli inizi trasformandole acque vive
e feconde che dovranno sostenere la successiva
creazione.
Questa che può parere solo una
speculazione tratta da due diverse traduzioni del
passo biblico, quella classica («lo spirito di Dio aleggiava sopra
le acque») e la disastrosa
interconfessionale («un
vento tempestoso agitava le acque»). Non è così,
come sarà chiaro nel proseguo della nostra indagine. Ma
torniamo al seguito del Bǝrēʾšîṯ.
Wayyōʾmer lōhîm yǝhî ôr wa yǝhî-ôr. |
Ed lōhîm disse: «Sia la luce» e la luce fu.
|
Wayyarǝʾ lōhîm et-hāʾôr kî-ṭôb wayyabǝdēl
lōhîm bên hāʾôr ûbên haḥōšek. |
lōhîm vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre. |
Wayyiqǝrāʾ lōhîm lāʾôr
yôm wǝlaḥôšek
qārāʾ
lāyǝlāh
wayǝhî-˓ereḇ
wayǝhî-ḇōqer yôm ẹḥâḏ. |
E chiamò giorno la luce e chiamò notte le tenebre. E fu sera e fu mattino: il
primo giorno. |
Bǝrēʾšîṯ
[1, -] |
All'inizio del secondo giorno, l'universo
è un'immensa massa d'acqua che si stende
fino ai confini del nulla. lōhîm ha già
vivificato queste acque caotiche dei primordi con
il suo soffio divino, rûḥ, ma di fatto questa situazione
ancora caotica impedisce un ulteriore evoluzione
del processo creativo. Così lōhîm separa quest'oceano cosmico in due parti, creando uno
spazio per la successiva creazione, e tra le due
masse d'acqua pone nientemeno che l'intero cielo
stellato:
Wayyōʾmer lōhîm yǝhî rāqî˓a
bǝṯôk
hammāyim
wîhî
maḇǝdîl
bên mayim lāmāyim. |
Ed lōhîm disse: «Ci sia un firmamento in mezzo alle acque che divida le acque dalle
acque».
|
Wayya˓aś lōhîm eṯ-hārāqî˓a
wayyaḇǝdēl
bên hammāyim
āšer
mitaḥaṯ
lārāqî˓a
ûḇên
hammāyim
āšer mē˓al
lārāqî˓a
wayǝhî-ḵēn. |
Ed lōhîm fece il firmamento, separando le acque che sono sotto il
firmamento e le acque che sono sopra il firmamento.
|
Wayyiqǝrāʾ lōhîm lārāqî˓a
šāmāyim wayǝhî-˓ereḇ
wayǝhî-ḇōqer yôm šēnî. |
Ed lōhîm chiamò cielo il firmamento. E fu sera e fu mattino: il secondo giorno.
|
Bǝrēʾšîṯ
[1, -] |
Abbiamo adesso una sorta di situazione dipolare:
una distesa di acqua in basso, una distesa di acqua
in alto. Tra le due è stato interposto il
firmamento. Così lōhîm ha adempiuto alla
creazione del cielo. Ora, secondo passo, bisogna
creare la terra.
Wayyōʾmer lōhîm
yiqqāwû hammayim mitahaṯ haššāmayim
el-māqôm ẹḥāḏ wǝṯērāʾeh hayyabāšāh wayǝhî-ḵēn. |
Ed lōhîm disse: «Si raccolgano in un luogo sole le acque che sono
sotto il cielo e appaia l'asciutto». E così fu.
|
Wayyiqǝrāʾ lōhîm layyabāšāh
erẹṣ. ûlǝmiqǝwēh
hammayim qārāʾ
yammîm
wayyarǝʾ
lōhîm kî-ṭôḇ. |
Ed lōhîm chiamò terra l'asciutto e chiamò mare la massa delle acque.
Ed lōhîm vide che
ciò era buono.
|
Bǝrēʾšîṯ
[1, -] |
La terra non viene creata, bensì resa
disponibile dal ritiro delle acque. Le antiche cosmologie
ebraiche avevano la concezione di una massa d'acqua su cui
la terra stessa galleggiava e che la circondava da ogni
lato. Su questo punto ovviamente non si può prendere a
testimone il Bǝrēʾšîṯ,
che come si vede non è molto chiara sul dove e sul come si
raccolgano le acque. Però troviamo molti passi interessanti
nelle speculazioni rabbiniche, che se da un lato si basavano
con fiducia totale sul Bǝrēʾšîṯ, dall'altra non
ignoravano la sapienza orale trasmessa
parallelamente ai testi sacri. A spulciare la
letteratura talmudica e midrašica si trovano molti esempi
di tali concezioni. Che l'oceano circondi la terra è detto
in diversi testi rabbinici, mentre lo stesso rabbî lî˓ẹzẹr
bẹn Hurqānôs (80-118) parlava della terra come di una nave
che galleggiava sulle acque del
ṯǝhôm (Pirqîm [5]).
|
BABILONIA:
«QUANDO LASSÙ»...
|
Marduk |
Immagine di epoca babilonese rappresentante
Marduk con, ai suoi piedi, il
drago Mušḫuššu. |
I semiti giunsero
in Mesopotamia intorno al 2400 a.C., approfittando
delle rivalità tra le città-stato
sumeriche, e presto sorse il primo impero accadico
ad opera di Šarru-kīnu di Akkad (Sargon I
il grande, ♔ ±2334-±2279 a.C.). Nei secoli successivi
arrivarono altri popoli semiti: prima gli Amorrei,
poi gli Assiri, in seguito gli Aramei. Intorno al
1750 a.C., con Ḫammurapi, nasce il regno
babilonese. Questo subirà un'eclisse
politica con l'invasione da parte dei Cassiti, un
popolo indoeuropeo. Il dominio dei Cassiti
durerà per cinque secoli anni,
finché, verso il 1300 a.C. si
affermerà la potenza assira.
Gli Assiri, affini per lingua e costumi ai
Babilonesi, dovranno poi disputare con questi
l'egemonia della Mesopotamia. Il periodo tra il
1100 e il 600 a.C. è una continua lotta tra
i due grandi rivali. Sotto Nabû-apal-uṣur (♔ ±658-±605 a.C.), Babilonia
si libera del dominio assiro (609 a.C.) e raggiunge
il suo apogeo con il figlio di questi, Nabû-kudurri-uṣur
II (♔ ±605-±562). La potenza di Babilonia
verrà in seguito piegata dalla conquista
persiana di Kūruš II Haxāmanišiya(539 a.C.) e quindi da quella di
Mégas Aléxandros (330 a.C.).
Se le vicissitudini politiche sono varie e
complesse, più stabili sono quelle culturali. Dall'epoca di
Ḫammurapi fin quasi
in epoca tardo-classica, la cultura babilonese
dominò senza confronti tutta la Mesopotamia.
I Babilonesi non fecero che attualizzare l'antica
cultura sumerica e nei confronti dei Sumeri si
sentirono sempre culturalmente debitori, un po'
come in seguito i Romani vincitori non potranno
fare a meno di venire catturati dalla cultura
ellenica.
Ritroviamo a Babilonia l'intero pántheon sumerico, aggiornato e riattualizzato. Gli antichi
dèi continuano a regnare. Il dio sumerico An ha
semplicemente semitizzato il suo nome in Anu. Enlil è ora chiamato
Illil. Enki invece ha
un diverso nome ma sempre sumerico: Ea «casa [É]
dell'acqua [A]» con chiaro
riferimento alla sua dimora nelle acque abissali.
L'unica grande innovazione della mitologia
babilonese è la rivalsa di un nuovo
personaggio: Marduk.
Eletto dio poliade di Babilonia, l'importanza di
Marduk era cresciuta
di pari passo con la trionfale ascesa politica
della città. All'epoca in cui Babilonia era
la città più importante del mondo,
capitale di un impero così grande quale non
se ne era mai visto l'uguale, l'intera mitologia
mesopotamica era stata totalmente riscritta intorno
a Marduk, che ne era
diventato l'assoluto protagonista.
La presenza di Marduk è già dichiarata esplicitamente
da Ḫammurapi
(1792-1750 a.C.) nel prologo al suo codice:
|
Anu il sublime,
il re degli dèi
Anunnaki, e
Enlil, il signore
del cielo e della terra, che assegnano
i destini del paese, hanno donato a
Marduk, figlio di
Enki, il potere
supremo su tutti gli uomini e l'hanno
fatto prevalere su tutti gli dèi
Igigi, quando
hanno concesso a Bābilu un ruolo
preminente e fatto estendere la sua
autorità sull'universo,
stabilendovi una regalità
eterna, incrollabile come il cielo e la
terra... |
Codice di Ḫammurapi
[Recto: I, -] |
Nella nuova teologia,
Marduk era il signore
degli dèi, avendo assunto su di sé il
ruolo mitico che era stato di Enlil. Nasce così la
grandiosa epica dell'Enūma
elîš, il poema della
glorificazione di Marduk, il cui titolo, «Quando lassù», deriva proprio
dal suo possente incipit:
e-nu-ma e-liš la na-bu-ú šâ-ma-mu
šap-liš am-ma-tum šu-ma la zak-rat
ZUAB ma reš-tu-ú za-ru-šu-un
mu-um-mu ti-amat mu-al-li-da-at
gim-ri-šú-un
A-MEŠ-šú-nu iš-te-niš i-hi-qu-ú-šú-un
|
Quando lassù il
cielo non aveva ancora nome
e
quaggiù la terra non aveva
ancora nome,
soli, Apsū, di tutti il
progenitore
e
la loro madre Tiāmat, di tutti la
genitrice,
mescolavano insieme le
loro acque. |
Enūma
elîš
[I, -] |
I motivi e il linguaggio hanno molti debiti nei
confronti delle antiche cosmogonie sumeriche, in
cui alle origini di tutto vi era l'abisso acqueo
dell'abzu, ma ora ci
troviamo in un ordine di idee assai diverso. Gli
aspetti liquidi del caos iniziale si presentano in
doppia configurazione. Apsū è ora il
principio maschile, l'abisso delle acque dolci
sotterranee; Tiāmat il principio
femminile, le salate profondità del mare.
Essi erano, più che accoppiati, mescolati e
confusi insieme. Apsū e Tiāmat appaiono
considerati contemporaneamente come materie acquee,
luoghi e personalità fantastiche. Forse proprio per
questa loro natura cosmologica, o forse a causa del loro
carattere malvagio, i nomi di
Apsū e Tiāmat sono gli unici teonimi
che il testo cuneiforme presenta senza il tipico
determinativo «».
①▼
Quest'Apsū
babilonese, com'è evidente, è un
ulteriore sviluppo, anche nel nome, dell'antico
AB.ZU sumerico. Col
nome di Apsū era
anche chiamata la versione babilonese dell'oceano
che circondava la terra, dal quale derivavano tutti
i fiumi, i laghi, le sorgenti e i corsi d'acqua del
mondo. In questa cosmologia, la terra sorgeva come
un monte sopra il cerchio delle acque.
Tiāmat
è invece una novità nella mitologia
mesopotamica. Il nome di questa dea deriva dalla
medesima radice, THM o THMT, che abbiamo già
visto impiegata per l'«abisso» delle
acque primordiali [tǝhôm] di cui si è
parlato nel secondo versetto del
Bǝrēʾšîṯ.
Apsū e Tiāmat non si
trovavano semplicemente nell'universo ma erano essi
stessi l'universo. Erano mescolati insieme, in una
sola massa indifferenziata, e proprio perché
erano sia luoghi che persone, nulla esisteva al di
fuori di essi. Quando
nacquero le successive generazioni divine,
l'intera teogonia si svolse interamente all'interno
della mescolanza di Apsū e Tiāmat.
e-nu-ma DIIR-DIIR la
šu-pu-u ma-na-ma
šu-ma la zuk-ku-ru ši-ma-tú la ši-na-ma
ib-ba-nu-ú-ma DIIR-DIIRR qê-reb-šú-un
laḫ-mu la-ḫa-mu
uš-ta-pu-ú šu-mi iz-zak-ru
a-di ir-bu-ú i ši ḫu
an-šâr ki-šâr ib-ba-nu-u e-li-šu-nu at-ru
ur-ri-ku U₄-MEŠ us-si-bu
MU-MEŠ
a-num a-pil-šu-nu šâ-nin AD-AD-šú |
E
mentre degli dèi, nessuno era
ancora apparso,
nessuno aveva nome
né era definito da un
destino,
dentro [in Apsū e Tiāmat] furono
creati:
Laḫmu e Laḫamu apparvero e
furono chiamati per nome.
Prima che fossero
divenuti grandi e forti
furono creati Anšar e Kišar, che erano loro
superiori.
Quando ebbero
prolungati i propri giorni,
moltiplicati i propri anni,
Anu fu il primo
nato, simile ai suoi genitori. |
Enūma
elîš
[I, -] |
La prima coppia che Apsū e Tiāmat generò,
e che nacque all'interno della loro mescolanza di
acque abissali, è formata da questi Laḫmu e Laḫamu, i quali però non
avranno alcun ruolo nella successiva generazione.
Anšar e Kišar,
«totalità della terra» e
«totalità del cielo», sono gli
dèi primigeni da cui prendevano l'avvio le
antiche teogonie sumeriche, nella fase in cui si
cominciavano ad aggiungere varie tappe prima di
giungere alla divisione del cielo e della terra.
Figlio di Anšar e
Kišar è il
dio-cielo Anu.
Allo stesso modo, poi, Anu genera altri figli, tra
i quali Ea (qui detto
Nudimmud), il dio
dall'ampio intelletto. Questi giovani dèi,
svelti e irrequieti, cominciano presto ad agitarsi
e far chiasso.
in-nen-du-ma at-ḫu-ú
DIIR-meš-ni
e-šu-ú ti-amat-ma na-muš-šu-nu iš-tap-pu
dal-ḫu-nim-ma šâ ti-amat ka-ras-sa
i-na šu-ʾa-a-ri šu-ʾ-du-ru qê-reb
an-durun-na
la na-ši-ir ABZU-ri-gim-šú-un
ú ti-amat šu-qâm-mu-mat i-na igi-šu-un
im-tar-sa-am-ma ep-še-ta-šu-un e-li-ša
la-ta-bat al-kât-su-nu šu-nu-ti i-ga-mī-la |
Avendo dunque formato
una banda, questi dèi
fratelli
disturbarono Tiāmat
abbandonandosi al trambusto [?]:
sconvolgendo l'interno
di Tiāmat
turbarono con i loro
svaghi l'interno della «dimora
divina».
Apsū non riusciva
a placarne il tumulto;
Tiāmat, tuttavia
rimaneva impassibile davanti a
loro:
i
loro maneggi le erano sgraditi,
la
loro condotta, biasimevole; ma lei li
risparmiava. |
Enūma
elîš
[I, -] |
Apsū e Tiāmat sembrano avere
l'immobilità come caratteristica naturale,
al contrario gli dèi più giovani sono
agitati e irrequieti e col loro baccano sconvolgono
i loro letargici progenitori. Come già
avevamo visto accadere nel mito greco, dove
l'unione sessuale tra cielo e terra, Ouranós e
G, impediva ai
figli di nascere e bloccava di fatto il proseguo
della creazione, così nel mito babilonese
c'è una situazione di latenza primordiale da
parte di Apsū e
Tiāmat, la cui
stessa reciproca fusione impedisce alle giovani
generazioni di venire alla luce e allo stesso tempo
costringe l'intero universo all'immobilità
di un eterno stadio increato.
E Apsū dice a
Tiāmat: «La
condotta di costoro non mi piace! Di giorno non
riposo, di notte non dormo! Voglio ridurli in nulla
e abolire la loro attività, affinché
sia stabilito e il silenzio e noi si possa tornare
a dormire!» Ma Tiāmat rifiuta
energicamente la
proposta. «Perché dobbiamo
distruggere ciò che noi stessi abbiamo
creato?» E invita Apsū alla pazienza e
alla benevolenza.
Apsū tuttavia
decide lo stesso di procedere alla distruzione dei
giovani dèi. Quando questi vengono a
conoscenza del complotto rimangono costernati e
addolorati. Allora Ea,
il più saggio di tutti, evoca un incantesimo
potentissimo e addormenta Apsū. Dopo di che
lo spoglia del melāmmu (lo
splendore regale) di cui si appropria lui stesso, e
lo uccide. Apsū
viene ridotto da persona a luogo, da dio a inerte
massa liquida, e nelle sue acque profonde Ea stabilisce la sua dimora
e lì crea la sua camera nuziale.
In questa camera, Ea porta la sua sposa Damkina e qui essi generano
il figlio Marduk. Fin
dalla nascita, Marduk
appare dotato di un'eccezionale energia: il
melammû
di dieci dèi accumula su di lui un fulgore
insostenibile.
ina-qê-reb ABZU ib-ba-ni AMARUTU
ina-qê-reb KÚ-ABZU ib-ba-ni AMARUTU
ib-ni-šu-ma ê-a a-ba-šu
dam-ki-na ama-šu har-šâ-as šu
i-te₉-niq-ma ser-ret IŠTAR-MEŠ
ta-ri-tu it-tar-ru-šu pul-ha-a-ta uš-ma-al-li
šam-hat nab-nit-su sa-ri-ir ni-ši i-ni-šu
ut-tu-lat si-ta-šu ga-šêr ul-tu ul-la
i-mur-šu-ma a-num ba-nu-u a-bi-šu
i-riš im-mer lib-ba-šú hi-du-ta im-la
uš-ta-as-bi-šum-ma šu-un-na-at ilu-us-su
šu-uš-qu ma-'diš UGU-šú-nu a-tar mim-mu-šu
la-lam-da-ma nu-uk-ku-la mi-na-tu-šu
ha-sa-siš la-na-ta-a a-ma-riš pa-âš-qa
4(=limmu)-IGI II šú 4(=limmu)-GEŠTU II šú
šap-ti-šú ina-šu-ta-bu-li giš-bar it-tan-pah
ir-ti-bu-ú 4(=limmu)-ta-am ha-si-sa
ú-igi ki-ma šu-a-tu i-bar-ra-a gim-re-e-ti
|
Nel
grembo dell'Apsū nacque
Marduk,
nel
grembo del puro Apsū nacque
Marduk.
E
fu Ea suo padre, che lo procreò;
e Damkina, sua madre,
che lo partorì.
Egli succhiò il
seno delle dee;
la
nutrice che l'allevò lo rese
ricco di una vitalità
formidabile.
La
sua natura era esuberante, sfavillante
il suo sguardo;
fu
virile fin dalla nascita, e pieno di
forza dal principio.
Nel
vederlo, Anu, il padre di
suo padre,
si
rallegrò, si illuminò ed
ebbe il cuore pieno di gioia.
Quando l'ebbe ben
guardato: «La sua divinità
è ben altra!
È molto
più sublime: ci supera in
tutto!
Le
sue dimensioni sono incredibili,
ammirevoli:
impossibili da pensare,
insopportabili da guardare!
Quattro sono i suoi
occhi, e quattro le sue
orecchie.
Quando muove le labbra
il fuoco divampa!
Quattro orecchie gli
sono spuntate,
e i
suoi occhi, in numero uguale, vedono
l'intero universo!» |
Enūma
elîš
[I, -] |
Tiāmat,
malgrado la morte di Apsū, non è
uscita ancora dal suo stato di torpore. Un gruppo
di dèi che non approva la messa a morte di
Apsū la spinge
ad agire. Istigata dai suoi accoliti, Tiāmat decide di
scendere in guerra contro gli dèi.
Tiāmat
crea undici specie di mostri, definiti dal testo ušumgallû,
esseri al tempo stesso feroci e deformi, enormi e
incompiuti, con cui forma il suo esercito. Affida
il comando al suo nuovo amante Qingu, gli dà pieni poteri e gli
conferisce le ṭupšīmāti, le
«tavolette del destino»,
e con quelle l'anûtu, la
qualità propria del dio Anu, il potere supremo
sull'universo.
Quando Ea apprende
le trame di Tiāmat, si rivolge ad
Anšar
perché trovi il sistema di neutralizzare
l'assalto. Anšar
affida il compito di contrastare Tiāmat dapprima allo
stesso Ea, e quindi ad
Anu. Ma ambedue gli
dèi tornano indietro senza aver osato
affrontare Tiāmat e le sue
orribili schiere. Nel campo di Anšar domina lo
scoramento, perché non nessuno è
potente delle due divinità che non avevano
osato combattere Tiāmat. È Ea, al solito, a scoprire il
futuro vincitore: il suo stesso figlio Marduk, che essendo giovane
e inesperto se ne sta modestamente in disparte.
L'ingegnoso Ea
consiglia a Marduk di
avvicinarsi ad Anšar, quel poco che
basta ad attirarne l'attenzione. Così fa
Marduk, e Anšar si avvede che in
questo giovane dio vi sono tutte le necessarie
qualità per sconfiggere Tiāmat.
Anšar propone
a Marduk di difendere
i suoi fratelli contro Tiāmat. Marduk accetta la proposta,
ma pretende che le divinità radunate in
assemblea lo investino legittimamente dell'incarico
di essere loro campione, e che come premio della
vittoria gli siano dati sovranità e potere
su tutte le cose:
|
«Nella
sala del consiglio tutta l'assemblea sieda
lietamente,
e
fate sì che con una parola, in
vostra vece, io fissi i destini,
ché nulla sia
cambiato di ciò che io
disporrò,
e
che ogni ordine delle mie labbra resti
irreversibile, irrevocabile!» |
Enūma
elîš
[III, -] |
Allora Anšar
manda un messaggero negli abissi a chiamare gli
antichi Laḫmu e Laḫamu, perché
riuniscano tutti gli dèi delle
profondità e vengano a discutere la
faccenda. Quando l'assemblea divina è al
gran completo, gli dèi accettano la
richiesta di Marduk,
consapevoli che così facendo gli avrebbero
concesso la supremazia su tutti loro. Lo acclamano
re, gli dànno uno scettro, un trono e le
insegne regali, lo incitano a travolgere i nemici e
a uccidere Tiāmat.
Marduk si prepara
alla battaglia. Ma invece di circondarsi, come la
vecchia dea, di forze brute e selvagge, si
premunisce di armi razionali in funzione di una
tattica ben precisa. Afferra un arco e una freccia
di fulmine, dà di piglio alla mazza tonante,
e appronta una rete per catturare Tiāmat, sistemando ai
quattro angoli di questa i quattro venti che gli ha
donato Anu. Fatto
questo, Marduk sale
sul suo carro e muove verso i nemici.
Al solo veder arrivare Marduk, splendente di gloria
reale, Qingu e il suo
esercito perdono le forze e la volontà di
agire. Tiāmat
comincia a sibilare sortilegi e cerca di distrarre
il giovane campione, ma Marduk non si lascia
confondere; le grida di smetterla con i sotterfugi
e di farsi avanti. Allora Tiāmat, folle di
rabbia, balza su Marduk, le fauci spalancate
per divorarlo. I due si avvinghiano in un
terrificante corpo a corpo, durante il quale Marduk riesce a spiegare la
rete, catturando la terribile ava.
Dopodiché Marduk lancia un vento di tempesta [imḫullu] tra le fauci di
Tiāmat, e mentre
ella è impedita di richiudere le mascelle,
gli altri venti si sprofondano nel suo ventre,
gonfiandolo a dismisura. Senza porre tempo in
mezzo, teso l'arco, Marduk scocca una freccia e
il ventre di Tiāmat
si squarcia nel mezzo.
|
E
quando Tiāmat ebbe aperto
la bocca per inghiottirlo,
[Marduk] vi
riversò il imḫullu per
impedirle di chiudere le labbra.
Tutti i venti con furia
le riempirono il ventre,
così che il suo
corpo si gonfiò, la sua bocca
aperta allo spasimo.
Allora Marduk le
scoccò la sua freccia,
lacerandole il petto,
le
divise il corpo a metà e le
aprì il ventre.
Così
trionfò su di lei ponendo fine
alla sua vita. |
Enūma
elîš [IV,
-] |
Poi Marduk si
rivolge verso le orribili schiere di Tiāmat, che cercano di
fuggire, e le imprigiona nelle sue reti.
Incatenati, gli ušumgallû
sono gettati negli abissi. Quanto a Qingu, Marduk gli toglie le
ṭupšīmāti, che appende al suo petto dopo
avervi impresso il suo sigillo, a significare che
d'ora in poi soltanto lui ne è il
proprietario.
Infine Marduk si
rivolge al cadavere della sua nemica:
|
A
mente fresca Marduk contemplò il
cadavere di Tiāmat
e
volle tagliarne la carne mostruosa per
trarne cose belle.
La
tagliò in due come un pesce da
seccare,
e
ne dispose una metà incurvandola
come il cielo.
Ne
tese la pelle su cui insediò
guardiani
ai
quali affidò il compito di
impedire alle sue acque di
erompere... |
Enūma
elîš
[IV, -] |
Aprendo in due l'immenso cadavere di Tiāmat, Marduk fa spazio per la
creazione, a cui ora pazientemente si accinge.
Poiché tutto l'universo è
praticamente costituito dalle acque inerti di Tiāmat, Marduk ricava un vuoto
centrale nello spazio, spingendo in alto una
metà del cadavere della sua mostruosa
nemica.
Si crea così uno spazio vuoto, contenuto
dalle estremità del cadavere di Tiāmat: da una parte
la testa, a cui aderiscono sempre le due parti del
suo corpo diviso «come quello di un pesce da
seccare», dall'altro la coda.
|
Babilonia |
Ricostruzione di Babilonia ai tempi di
Nabû-kudurri-uṣur II. Si entra attraverso la porta
sull'Eufrate: davanti, il complesso templare di Esagila,
dominato dalla mole della ziqqurat Etemenanki, dedicata
a Marduk. |
Dapprima Marduk si rivolge al cielo: lo cosparge
di stelle, ordina
le costellazioni, vi fissa il polo celeste (che si trovava a
metà tra strada tra α Draconis
e α Ursae Minoris). Determina poi la suddivisione
dell'anno in dodici mesi. Al dio-luna Sîn affida la notte e
gli dà il compito di regolarizzare i mesi;
il dio-sole Šamaš
è incaricato di sorvegliare il corso
dell'anno. Marduk
stabilisce la successione del giorno e della notte
e definisce il quadro del tempo.
Poi Marduk
organizza la terra, a partire dall'altra
metà del corpo di Tiāmat. Quel corpo gli
serve da impalcatura, vi costruisce un basamento
duro che sarebbe stato il suolo terrestre. Colloca
la testa di Tiāmat a nord e su di
essa accumula una montagna. Nei suoi occhi apre il
Tigri e l'Eufrate, e l'acqua viva comincia a
scorrere. Infine annoda la coda di Tiāmat in modo che le
acque dell'abisso non possano più erompere
sulla terra. Annoda e avvolge in una rete cielo e
terra, terra e cielo, per renderli solidamente
parte di un ordine unico ed eterno. Poiché
il corpo di Tiāmat, diviso in due
parti e spinto ai confini dell'universo, era
composto di acqua, è ovvio che bisognava in
qualche modo impedire a quell'acqua di invadere il
mondo. Perciò Marduk pone due catenacci alle
porte che aveva aperto in cielo, in modo a
trattenere le acque cosmiche ai confini
dell'universo.
Qingu, ritenuto
responsabile della rivolta di Tiāmat, viene ucciso e
col suo sangue viene creato l'amêlu, l'uomo, che
Ea pone al servizio
degli dèi. Poi Marduk stabilisce i posti e i
ruoli di tutti gli dèi. Solo allora le altre
divinità salutano l'opera compiuta con
grandi manifestazioni di gioia e di rispetto. La
regalità di Marduk viene nuovamente
proclamata quando Anšar lo abbraccia e
pubblicamente lo saluta come re degli dèi.
Secondo un cerimoniale, i cui particolari appaiono
assai realistici, gli dèi gli baciano i
piedi e l'adorano con il volto a terra. Abbigliato
dell'abito regale [têdiq
rubûti], coperto dallo splendore
regale [melammû
šarrûti] e della tiara lucente [agû
rašubbati], Marduk solleva l'arma divina
con la mano destra, mentre nella sinistra tiene
saldamente lo scettro.
Con l'accordo degli altri dèi, Marduk termina la sua opera
di creazione con l'edificazione della città
di Babilonia, che sarebbe stata la sua dimora, sede
della sua regalità. Gli dèi, per
gratitudine verso di lui, gli erigono in Babilonia
il grande tempio di Esagil. Quando la
costruzione è terminata, gli dèi, che
hanno riconosciuto in Marduk l'autorità
suprema, vengono da lui invitati a risiedere nel
grande tempio e gli attribuiscono cinquanta nomi
conferendogli i relativi attributi.
Alla fine Marduk
appende in cielo il grande arco con il quale aveva
sconfitto i nemici, affinché tutti, compresi
gli uomini, servitori degli dèi, lo possano
vedere.
Nel mito babilonese, come si vede, si fondono i
due temi cosmogonici. Da un lato quello della
divisione
delle acque,
attestato nella Bibbia, dall'altro quello della
separazione del cielo e della
terra, di origine sumerica e presente sia in
Egitto che nel mito greco di Hēsíodos. Qui in
realtà non sono il cielo e la terra che
vengono separati, ma le acque cosmiche, le quali si
trasformano a loro volta in cielo e terra.
①▲ Nella vecchia interpretazione di
Enūma
elîš [I: -] compariva
una terza persona oltre ad Apsū e
Tiāmat, un certo
Mummu, la cui presenza si trova
ancora nei vecchi libri di mitologia. Abbiamo preferito seguire la lezione di Samuel Kramer e Jean Bottéro, oggi
accettata dalla maggior parte degli
orientalisti, secondo cui Mummu sarebbe in
realtà un'errata lettura
dell'accadico ummu «madre», quindi un
epiteto di Tiāmat, e considerato, a torto, una
terza persona. Quest'errore, già
presente nell'antichità (lo
ritroviamo nella versione greca di
Damáskios) sarebbe stato anche favorito
dalla successiva presenza di un Mummu, detto paggio di
Apsū. |
|
|
ACQUE
COSMICHE: DA BABILONIA AL MONDO CLASSICO
Il motivo della lotta di un dio contro le acque
era probabilmente originario dall'area Cananea,
nato cioè lungo le coste della Siria, e
forse portata in Mesopotamia da tribù
amorree verso il 2000 a.C.. Si potrebbero fare
molti esempi, basterà ricordare un antico
testo scolastico della fine del III millennio a.C.,
dove è un certo dio Tišpak a tenere lontane
le acque debordanti:
|
O
padre! Tu, la cui funzione è quella di costituire
una barriera contro Yam
[il «mare»], guerriero feroce,
attacca! O
Tišpak! O padre! Tu la
cui funzione è quella di costituire una barriera
contro Yam,
El, re degli dèi...
|
MAD [I: 192]
|
Queste tradizioni cananee diedero evidentemente
molto da pensare ai popoli della Mesopotamia, e sul
fertile humus degli antichi miti sumerici, si
sarebbe ben presto sviluppata la grande teogonia
accadica, che avrebbe avuto il suo culmine
nell'epopea dell'Enūma
elîš.
La composizione dell'Enūma
elîš si faceva inizialmente risalire
all'epoca di Ḫammurapi
(dunque XVIII sec. a.C.), ma in seguito la
datazione è stata abbassata di circa mezzo
millennio, all'epoca di Nabû-kudurri-uṣur I
(♔ ±1124-±1103 a.C.).
La
popolarità dell'Enūma
elîš nel corso del Primo
Millennio avanti Cristo, è attestata dal gran numero
di versioni che venivano trascritte in tutta la Mesopotamia. I manoscritti meglio conservati
provengono dalla biblioteca di Aššur-bāni-apli
(♔ 668-627 a.C.) a Ninive, ma sono giunti frammenti
da altri siti. Indicativo delle particolari
condizioni della cultura mesopotamica del tempo
è che i vari frammenti di cui siamo in
possesso riproducono esattamente lo stesso testo,
aiutando in questo i filologi nella ricostruzione
del testo completo. Sotto Sīn-aḫḫī-erība (♔ 704-681
a.C.) i letterati assiri si limiteranno a
sostituire il nome di Marduk con quello del loro
dio nazionale Aššur, adattando
l'intero poema alle proprie necessità
teologiche.
È evidente che gli autori dell'Enūma
elîš babilonese hanno la sola
preoccupazione di esaltare il dio nazionale di
Babilonia: lo celebrano ad oltranza, spiegandone
l'autorità, la maestà, la preminenza
universale. La lista dei cinquanta nomi che chiude
il poema è una dichiarazione teologica dei
poteri che Marduk
riassume su di sé. Occorre considerare che
Marduk è uno
degli ultimi dèi ad essere inserito nella
religione mesopotamica, un vero e proprio
parvenu in un pantheon consolidato da
secoli, e quindi era necessario ribadire la sua
importanza. Il poema veniva recitato durante le
feste di capodanno, nei giorni extracalendariali dell'akîtu.
Intorno al IV secolo avanti
Cristo prima dell'invasione
di Mégas Aléxandros, il sacerdote babilonese Bêl-uṣur, meglio conosciuto con il nome
ellenizzato di Bḗrōssos, scriverà in
greco un'opera mitico-storica su Babilonia, la
Babyloniaká, allo
scopo di far conoscere alla cultura ellenica la
traduzione e la sapienza caldea. Quest'opera
è andata perduta e solo pochi frammenti sono
sopravvissuti, tramandati da autori posteriori
quali Abydēnós e Aléxandros
Polyḯstōr.
Abydēnós
riporta poche citazioni, Polyḯstōr qualcosa in
più, senonché l'opera di
Polyḯstōr non ci è pervenuta; di essa si sono
conservati pochi frammenti inseriti a loro volta da
Eusébios Kaisareús (260/265-39/340) nella prima parte della
sua
Pantodapḕ historía (o Chronicon)
composta intorno al 303. Se questo non bastasse, l'originale
greco della
Pantodapḕ historía è
anch'esso scomparso, ne resta solo una traduzione
armena del VI Secolo, neppure effettuata sul testo
originale, bensì su una revisione, e un
adattamento in greco dello storico Geṓrgios Sýŋkellos
(761-846).
Nel compendio che ne faceva Abydēnós si leggeva:
Dicono che all'inizio
di tutto era acqua, che si chiamava
Thalássa.
Bêl, avendola
soppressa, assegnò a ciascun
essere il suo territorio e
circondò Babilonia con un
bastione.
|
Bḗrōssos:
Babyloniaká
(apud Abydēnós) |
La versione di Polyḯstōr dà un riassunto
più dettagliato:
C'era stato un tempo,
quando l'universo non era che tenebre e
acqua, nel quale erano giunti alla vita
esseri mostruosi e di forme particolari
[...]. Comandava questa moltitudine una
donna chiamata
Omorka, nome che
corrisponde in caldeo a
Thalatt e si traduce
in greco con «mare» [thálassa]. Era
sopravvenuto
Bêl e aveva
tagliato in due questa donna; con una
metà aveva fatto la terra, e con
l'altra il cielo, dopo aver distrutto
tutti gli esseri viventi mostruosi che
si trastullavano in lei.
|
Bḗrōssos:
Babyloniaká
(apud Aléxandros ho Polyḯstōr) |
Ritroviamo qui, per sommi capi, lo stesso mito
già narrano nell'Enūma
elîš. Non è un caso
che il nome Thalatt
(cioè Tiāmat) venga tradotto
in greco con thálassa, antica
parola preindoeuropea che, oltre a ricordare
foneticamente l'originale caldeo, ha anche la
medesima attinenza etimologica, significando
appunto «mare». In quanto al nome Omorka, si tratta
probabilmente di una traduzione più o meno
storpiata del termine accadico Umma-ḫubur, «Madre-abisso», epiteto di Tiāmat in
Enūma elîš [I, ].
In queste fonti tarde l'uccisore di Tiāmat è
chiamato Bêl.
Questo appellativo, «signore», era usato
a Babilonia per indicare Marduk, ma altrove veniva
usato per altre divinità. Molto spesso era
epiteto di Enlil. Si
crede che il testo di Bḗrōssos si riferisca a Marduk, ma non se ne ha la
precisa certezza. D'altronde chi sia l'effettivo
protagonista a questo punto ha poca importanza.
Verso il 480, il filosofo neoplatonico Damáskios ci dà un'ulteriore versione del
poema babilonese, dicendo:
Tra
i barbari, non sembra che i Babilonesi
abbiano parlato di un principio unico
dell'universo. Essi ne ipotizzano due:
Thaute e
Apason, facendo di
quest'ultimo lo sposo di quella, che
chiamano «madre degli
dèi» [...]. Prodotta dagli
stessi genitori, un'altra generazione
era seguita:
Dachē e
Dachos. Poi una
terza:
Kissarē e
Assōros, che diedero
vita alla triade:
Anos,
Illinos e
Aos.
Aos e
Dauche misero al
mondo un figlio di nome
Bēlos: e dicono
che costui fu il demiurgo.
|
Damáskios:
Aporíai kaì lýseis perì tn prṓtōn arkhn |
Si noti la perplessità di Damáskios
davanti al fatto che, mentre gli altri popoli
vedevano il caos iniziale in unica configurazione,
i Babilonesi ne ipotizzavano due. Si riconoscono
qui tutti i personaggi dell'Enūma
elîš.
-
Thaute e Apason sono Tiāmat e Apsū.
-
Dachē e
Dachos sono Laḫamu e Laḫmu (con erronea
sostituzione di lambda
Λ con delta Δ).
-
Kissarē e
Assōros sono
Kinšar e Anšar.
-
Con Anos, Illinos e Aos, eccoci di nuovo alla
triade cosmica sumera: Anu, Enlil, Ea, qui finalmente
reintegrata nella sua completezza.
-
Bēlos
(forma grecizzata di Bêl) è
chiaramente Marduk.
Queste fonti posteriori fanno ben capire quanto
gli antichi miti caldei avessero ampia diffusione
in tutto il mondo tardo-classico. È
sbagliato considerare le varie mitologie come
settori stagni: ogni idea veniva praticamente
incrociata con qualsiasi altra, e questo è
un punto che deve essere sempre tenuto in
considerazione. |
TRA
GLI EBREI: MITI BIBLICI IN FILIGRANA
A una prima occhiata, non sembrano esservi molti
rapporti tra l'Enūma
elîš e il
Bǝrēʾšîṯ. Lo stile e il
tono sono profondamente diversi. L'atmosfera
guerresca dell'Enūma
elîš è lontanissima
dal solenne stile biblico. Il primo poema è
la vivace celebrazione di un dio guerriero, il
secondo è l'azione cosciente e meditata di
un dio unico.
Pretendere una loro origine comune può
forse sembrare eccessivo. È possibile ipotizzare una
versione più antica del mito ebraico del
Bǝrēʾšîṯ, dove Yǝhwāh lōhîm si
fosse impegnato, alla stregua di Marduk, in un combattimento contro le
acque primordiali? La risposta è sì, come è evidente dai
testi biblici più antichi, ad esempio nei «Salmi»:
Tǝhôm kallǝḇûš
kissîṯô
˓al-hārîm
ya˓amǝdû-māyim. |
Con l'abisso [tǝhôm] a mo' di
mantello l'avevi avvolta:
fin
sopra le montagne dimoravano le
acque. |
Min-ga˓ărāṯǝḵā
yǝnûsûn
min-qôl ra˓amǝkā
yēḥāpēzûn. |
Al
tuo rumoreggiare sono fuggite,
al
fragore del tuo tuono hanno preso il
volo. |
Ya˓ălû
hārîm
yērǝdû
ḇǝqā˓ôṯ
el-mǝqôm
zeh, yāsadǝtā
lāhem. |
Salivano sulle
montagne, percorrevano gli
abissi
verso il luogo che tu
avevi loro fissato. |
Gǝḇûl-śamǝtā
bal-ya˓ăbōrûn
bal-yǝšûḇûn
lǝḵassôṯ
hāʾārẹṣ. |
Hai
posto un limite che non
varcheranno,
non
torneranno ad avvolgere la
terra. |
Tǝhillîm [104,
-] |
|
La divisione delle acque |
Michelangelo, Cappella Sistina (1508-1512). |
In questa scena non
solo di adombra uno scontro di Yǝhwāh contro le acque,
ma anche l'imposizione forzata di un ordine, un
limite che viene imposto a Yǝhwāh alle acque e che
esse non dovranno varcare, un po' come Marduk aveva posto
chiavistelli alle porte del cielo e annodato la
coda di Tiāmat
affinché le acque non invadessero la terra.
E la parola «abisso» viene resa qui resa
dalla parola ebraica tǝhôm,
stessa espressione già presente nel secondo versetto del
Bǝrēʾšîṯ, laddove dice
«e le tenebre erano
sulla superficie dell'abisso», e che,
come abbiamo notato, contiene la stessa radice THM o
THMT indicante il
«mare» o più esattamente il mare
primordiale e caotico che precede la creazione.
È la stessa radice che a Babilonia avrebbe
dato origine al nome di Tiāmat.
Analizzando più a fondo entrambi i miti,
quelle babilonese e quello ebraico, troviamo molte
altre attinenze. In entrambi i casi c'è la
concezione di un caos acqueo originario (unico nel
mito ebraico, duale in quello babilonese), che un
dio creatore divide in due parti, separando le
acque che sono «sopra il firmamento» da
quelle che sono «sotto il firmamento».
Questa divisione ha innanzitutto lo scopo di
rompere l'immutabilità primordiale e di
aprire un varco per la successiva creazione. Ma il
caos originario viene anche ristrutturato in
funzione di un nuovo assetto cosmologico, formando
così le fonti celesti e abissali delle
acque, che attraverso la pioggia e le sorgenti,
daranno vita al mondo.
Strumento del dio è in entrambi i casi il
vento. Nel
Bǝrēʾšîṯ, lōhîm
soffia sulle acque il suo
rûḥ, scuotendo la
loro immobilità primordiale e vivificandole.
In quella sumerica era stato il violento Enlil, vento egli stesso,
che aveva provveduto a strappare il cielo dalla
terra per riempire tutto lo spazio atmosferico. In
quella egiziana,
Šû, dio dell'aria, o meglio,
dell'atmosfera trasparente ai raggi del sole, aveva
separato a sua volta cielo e terra. In quella
mesopotamica, Marduk
scaglia invece i suoi venti contro Tiāmat per annientarne
il potere, squarciandola in due parti: non è
vento vivificante in questo caso, ma distruttore.
In tutti questi casi, il dio che provvede a
rompere l'immobilità primordiale per
separare la terra e il cielo è un dio
atmosferico. Il nome stesso dell'antico dio
atmosferico sumerico, Enlil, significava
«signore [EN] del vento [LÍL]». Ma
quest'ultima parola, LÍL, è sì
«vento», ma anche nel senso di
«spirito di vita». Si trova all'origine
dell'aria [ánemos] che il
filosofo greco Anaximénēs considerava fondamento di
tutte le cose, ma anche e soprattutto all'origine
del concetto biblico di rûh. Guardando in
filigrana attraverso la figura di Yəhwāh, così come
compare nella Bibbia, non si stenta a scorgere
l'antica immagine di Enlil che probabilmente
né è il lontanissimo archetipo.
Ci troviamo probabilmente di fronte a
due esiti di uno stesso tema
interpretati in maniera diametralmente opposta.
L'Enūma
elîš babilonese risale al
1100 a.C., il Bǝrēʾšîṯ
(nella
forma che ci è pervenuto) a circa sette
secoli dopo, e la differenza di tono è
evidente: se nel primo caso il mito mesopotamico
viene indirizzato verso la glorificazione di un
giovane dio, di cui si narra la potenza e la
maestà, nel secondo caso la vicenda è
assai più meditata, significativamente
indirizzata verso il monoteismo.
La letteratura rabbinica ci ha tramandato
molte storie, sicuramente di grande antichità, che vanno ad
aggiungersi al sobrio racconto del
Bǝrēʾšîṯ e che
narrano di come separare le acque e costringerle ad
ubbidire non fu una cosa tanto facile nemmeno per
Dio in persona.
Nel Sēḏer Rabbāh, un tardo commento
al Bǝrēʾšîṯ, sta scritto che
quando Yəhwāh ordinò alle acque di separarsi in
superiori e inferiori, le superiori gioirono
dicendo: «Benedetti coloro che hanno il privilegio
di risiedere accanto al creatore e al suo santo
trono!» Così giubilando si librarono verso
l'alto ed elevarono un inno di gloria al creatore.
Invece le acque sottostanti si dolsero e gemettero:
«Ahinoi, che non siamo state giudicate degne di
dimorare al cospetto di Yəhwāh come le nostre
compagne!» Allora tentarono di salire in alto, sinché Yəhwāh non le respinse comprimendole
sotto terra.
I
Midrāšîm
riportano tuttavia versioni ancora più dure,
come il mito della ribellione di
Rāḥāḇ, l'angelo del mare,
che aveva pagato la sua insubordinazione con la
morte. Rāḥāḇ è
anche citato nel libro di Iyyôḇ, in due righe parallele
che mettono in risalto la possenza di Yəhwāh:
Bǝḵōḥô
rāḡa˓
hayyām
ûḇiṯûḇǝnāṯô
māḥaṣ
rāhab. |
Con
la sua potenza minaccia i mari,
e
con la sua intelligenza abbatte
Rāhab. |
Iyyôḇ
[26, ] |
È stato anche notato che nella Bibbia
compare un gran numero di mostri marini, di cui i
più noti sono il Līwǝyāṯān, il Tannīn, il Bǝhemōṯ. Tutti sembrano
derivare dal medesimo mitema, e la vittoria di Dio su queste
creature è sottolineata in molti passi biblici. Ad esempio, in
«Isaia»:
Bayyôm hahûʾ
yipǝqōd
yǝhwāh
bǝḥarǝḇô
haqqāšāh
wǝhagǝḏôlāh
wǝhaḥăzāqāh
˓al liwǝyāṯān
nāḥāš
bāriḥ
wǝ˓al
liwǝyāṯān
nāḥāš
˓ăqallāṯôn
wǝhārag
eṯ-hatannîn
ăšer
bayyām. |
In
quel giorno,
il
Signore punirà con la sua spada,
dura, pesante e
forte, il
Līwǝyāṯān, serpente
guizzante,
il Līwǝyāṯān, serpente
tortuoso,
e
ucciderà il drago [Tannīn]
che
abita nel mare. |
Yǝša˓yāhû
[27, ] |
È particolarmente interessante ai nostri
fini il Bǝhemōṯ (citato sempre in
Iyyôḇ), una
creatura mitica che in seguito verrà
erroneamente identificata con l'ippopotamo. Ma la
natura di questo essere è assai più
complessa. Innanzitutto la parola è plurale
di bǝhôm, parola che
può essere messa in relazione con il termine
biblico per indicare l'«abisso», tǝhôm. E tǝhôm e bǝhôm hanno tra loro
lo stesso rapporto che c'è tra ṯōhû e
ḇōhû. Se ne
potrebbe dedurre che i termini astratti ṯōhû e
ḇōhû,
l'«informità» e la
«vacuità» della terra primordiale,
siano stati creati a partire da un mito assai
più antico e dinamico della lotta di Dio
contro le acque primordiali maschili e femminili.
Ma qui bisogna fare attenzione, ché le
etimologie proposte non sono molto chiare.
Tuttavia non si può fare a meno di
ricordare la strana definizione proveniente da un
importante trattato talmûḏico risalente agli inizi del
VI
secolo:
È stato
insegnato: ṯōhû è una
linea verde che circonda tutto il
mondo, da cui proviene la tenebra
[...], mentre
ḇōhû sono le
pietre limacciose, affondate
nell'abisso, da cui sgorga
l'acqua.
|
Talmûḏ ḥagîgāh [12: a]
|
Come nota Giulio Busi, i due termini vengono qui
contrapposti in un'antinomia che individua in
ciascuno di essi due fasi diverse del processo di
creazione. V'è un'opposizione tra l'acqua
terrestre e la linea dell'orizzonte da cui
proverrebbe la tenebra della notte. Questo punto
è interessante, perché ci consente di
creare un altro parallelo: dopo la separazione
delle acque celesti dalle acque terrestri, come
abbiamo visto, queste ultime furono respinte ai
confini della terra.
Il termine biblico per «confini della
terra» è asayîm o asê
ereṣ,
parola che sopravvive in diversi passi biblici,
come in questa profezia:
Ûmāšǝlô miyyām
˓aḏ-yām
ûminnāhār ˓aḏ-ap̄sê-ʾāreṣ. |
Il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai
confini della terra [asê-ʾāres].
|
Zǝḵaryā [9, ] |
Che il creatore tenga stretti in pugno tutti gli
elementi cosmici, è un tema favorito dai
miti del vicino oriente. La vittoria di Yəhwāh sigli asayîm è
ricordata in altri passi biblici (Tǝhillîm
[67] | Šǝmûʾēl [I: 2]). Anche in
altri testi, i «confini della terra» sono legati alle acque
cosmiche, che Yəhwāh aveva chiuso in un lembo della sua veste.
Ci domanda il libro dei «Proverbi»:
Mî ˓ālāh-šāmayim? wayyērad
mî āsa-rûḥ? bǝḥānâw mî
ṣārar-mayim?
baśśimǝlāh mî hēqîm kāl-asê-āreṣ? |
Chi
è salito in cielo e ne è
disceso?
Chi
ha raccolto il vento nei suoi
pugni?
Chi
ha racchiuso le acque della sua
veste? Chi
ha fissato tutti i confini della terra
[asê-āreṣ]? |
Mišlēy
[30: ] |
In questo caso la sorpresa è duplice,
perché è facile mettere in relazione
il termine asê col babilonese
apsū,
derivando entrambi i termini da una medesima radice
semitica ʾPS. Ci troviamo anche qui
di fronte a una straordinaria convergenza di motivi
mitici.
È evidente che l'antico mito prevedeva la
vittoria di un dio sulle acque caotiche
primordiali, che venivano ammansite e dominate
tramite un uso di un'arma simile al vento. Le acque
venivano poi divise: quelle femminili da quelle
maschili, le une spinte verso il cielo, le altre
schiacciate in basso e poi costrette a ritrarsi ai
confini della terra.
Da questo antichissimo mito sarebbero derivate
le due versioni che conosciamo. Da un lato,
fondendosi con i miti sumerici, la versione
babilonese dell'Enūma
elîš. Dall'altro lato, passando
attraverso le successive rielaborazioni monoteistiche, il
mito biblico presente nel Bǝrēʾšîṯ.
|
UGARIṬ:
UNA VISIONE INASPETTATA
A cambiare per sempre il nostro modo di vedere
la Bibbia, furono le accresciute conoscenze
riguardo la religione e la mitologia dei popoli
cananei. Prima degli anni '30, tutto ciò che
si sapeva di questo ampio mosaico di popolazioni
imparentate con gli Ebrei, erano solo pochi nomi
divini esecrati dalla Bibbia, che talora trovavano
riscontro in scarne documentazioni epigrafiche.
Nel 1929, dopo un oblio di tremila anni, gli
archeologi estrassero dal sito di Ras Šamra,
in Siria, oltre 1300 tavolette ricoperte di una
scrittura cuneiforme sconosciuta. Si trattava, come
ci si rese conto in brevissimo tempo, di una vera e
propria scrittura alfabetica. La traduzione fu
velocissima, in quanto la lingua era affine al
fenicio e all'ebraico biblico: ritornò
così alla luce la letteratura di Ugariṭ.
L'esegesi biblica ne fu rivoluzionata. Il testo
biblico, che prima di allora era stato praticamente
un unicum nel panorama religioso
medio-orientale, venne contestualizzato. Si
scoprì che nella Bibbia era contenuto quasi
il cinquanta per cento dei termini religiosi
ugariṭici, in contesti che ne approfondivano e ne
chiarivano il senso. Ci si rese così conto
che l'antica religione ebraica, prima del
radicalismo monoteista, dovesse essere abbastanza
simile alle concezioni ugariṭiche.
Nei testi mitologici ugariṭici scompare un
pantheon piuttosto organizzato, anche se molto
diverso da quello assiro-babilonese.
Dio principale di questo sistema divino è
El, la nota parola
cananea per «Dio», colui che presiede
all'assemblea degli dèi. È il
protagonista del testo registrato come
Cuneiform Alphabetic Text 1.23, «Io
invoco gli dèi graziosi e belli»,
purtroppo mutilo e di difficile interpretazione, in
cui lo vediamo in riva all'oceano in un passo molto
interessante:
|
El raggiunse la
sponda del mare,
s'incamminò
lungo la riva dell'abisso... |
CAT 1.23 [] |
La parola qui tradotta con «abisso»
è ancora una volta THM, vocalizzata in Tahāmu. Tuttavia non
sembra esservi alcuno scontro tra El e Tahāmu. L'avventura che
segue è essenzialmente erotica: due donne
fanno salire l'acqua verso l'alto ed El vuole possederle. Ma nel
momento in cui le porta nella sua casa, «nel
mezzo dei due oceani», si scopre impotente a
unirsi a loro. Riesce a guarire solo dopo aver
mangiato la carne di un uccello che lui stesso
colpisce con una freccia. Dopo di ché, le due
donne lo invocano e lui giace con loro. Da questa
unione nascono due divinità astrali: la
stella del mattino e la stella della sera, e poi
gli dèi «graziosi e belli» di cui
non sappiamo né il nome né il numero.
Verso la fine, El
sembra scontrarsi con il dio della morte Mōt. A un suo cenno
vediamo le acque salire verso il cielo. Ma è
tutto talmente vago che, seppur ci siano abbastanza
elementi per esserne tentati, non osiamo comunque
metterlo in correlazione con quanto detto sopra.
Più interessante il mito di Ba˓al, narrato in una
serie di poemi. Costui è il dio del tuono,
il signore delle acque celesti, un dio atmosferico,
regale e irruento. Il suo nome vuol dire
«signore» (è la versione ugariṭica
del Bêl
babilonese). Tra Ba˓al ed El sembra esservi lo stesso
rapporto che già avevamo visto presso i
Sumeri tra Enlil ed
An: la potenza
nell'azione contrapposta alla potenza dell'essere.
Nel poema Ba˓al e
il mare assistiamo alla lotta di questi
contro il principe Yam «mare», anche chiamato
giudice Nahar «fiume»,
termine, quest'ultimo, col quale molti mitografi
credono di designare il corso d'acqua che circonda
il mondo.
All'inizio del poema troviamo Ba˓al e Yam in aperto contrasto, con
invettive e minacce reciproche. Sembra che la posta
in gioco del loro scontro sia la costruzione di una
palazzo, forse a simboleggiare la sovranità
sull'universo. Yam
invia i suoi messaggeri davanti all'assemblea degli
dèi, presieduta da El, per chiedere che Ba˓al gli venga
consegnato e sembra che sia sul punto di ottenerlo
nonostante il furore del diretto interessato. Le
lacune del testo non permettono di seguire tutti
gli episodi né di comprendere il
concatenamento dei fatti: comunque alla fine
troviamo Ba˓al
sul punto di affrontare il suo pericoloso rivale.
Interviene il dio fabbro
Koṯar-wa-ḫasis che gli fornisce due mazze dai
nomi propiziatori: «che possa cacciare» e «che possa
espellere». La descrizione della battaglia è drammatica. La
prima mazza si rivela inefficace, ma lo scopo è ottenuto solo
con la seconda:
|
La
mazza si slancia dalla mano di
Ba˓al
come uno sparviero tra
le sue dita
colpisce il principe Yam alla
spalla
il
giudice Nahar al
petto.
Ma Yam resta
forte
non
si abbatte
le
sue articolazioni non si
indeboliscono
il
suo volto non si scompone.
[...].
La
mazza si slancia dalla mano di Ba˓al
come uno sparviero tra
le sue dita
colpisce il principe Yam sul
cranio
il
giudice Nahar in
fronte.
Yam
crolla
cade a terra
le
sue articolazioni cedono
il
suo volto è sconvolto. |
Ba˓al e il
Mare |
Alcuni mitografi trattano questo mito come una
semplice teomachia, ma non è esatto. Già i due nomi di Yam e Nahar
(«mare» e «fiume») dovrebbero richiamare la nostra attenzione.
Questi stessi termini compaiono ben appaiati nella Bibbia, nei
versi già citati della profezia di Zǝḵaryā, dove indicano il
regno del futuro māšîḥ:
Ûmāšǝlô
miyyām
˓aḏ-yām
ûminnāhār
˓aḏ-asê-ʾāreṣ. |
Il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai
confini della terra.
|
Zǝḵaryā [IX: 10] |
«Fiume» e «mare» sono dunque
simboli di universalità: hanno un
significato cosmologico, ben più vasto che
se si trattasse di una semplice teomachia. Non
c'è altra possibilità che ricondurre
il mito ugariṭico al tema della lotta di un
dio creatore contro le acque cosmiche.
Ma non è finita, perché il ciclo
di Ba˓al ci fornisce altri
spunti interessanti. Nei racconti informalmente intitolati «Ba˓al e ˓Anat» e
«Il palazzo di
Ba˓al», assistiamo agli stratagemmi
con i quali Ba˓al
ottiene da El
l'autorizzazione a costruire il suo palazzo.
Nell'Enūma
elîš, Marduk aveva ottenuto la
sovranità semplicemente riunendo gli
dèi in assemblea e offrendosi di andare a
combattere Tiāmat, e alla fine
della sua vittoria aveva edificato il suo tempio Esagil. Per Ba˓al le cose sono
più complicate. Assistiamo sgomenti a una
carneficina compiuta da ˓Anat, sorella e
(forse) sposa di Ba˓al, di cui tuttavia
ci sfuggono le ragioni. Convocata da quest'ultimo
sul monte Safon, gli offre la sua collaborazione
per la costruzione del palazzo. Il dio fabbro
Koṯar-wa-ḫasis prepara un dono per
conquistare la benevolenza della dea Atirat, sposa di El, la quale parla
favorevolmente a suo marito di Ba˓al. Quest'ultimo
riceve infine il permesso di costruire il suo
palazzo, che sarà sempre opera dell'abile
Koṯar-wa-ḫasis.
Nell'ultimo poema del ciclo, «Ba˓al e Mōt»,
assistiamo allo scontro tra Ba˓al e un nuovo
possente nemico, Mōt. Questo nome
significa «morte». Mōt ha come residenza
il deserto, come patrimonio il vuoto, si lamenta
amaramente della sua fame e della sua sete
insaziabili, ad espressione del tema universale
dell'eterna fame e sete dei morti.
|
Sì, la mia gola
è la gola dei leoni del
deserto,
o
la gola del narvalo in mare,
o
la cisterna che attira i buoi
selvatici,
o
la fonte che attrae le cerve.
È vero, la mia
gola si bagna solo di fango.
Ah,
veramente mangerei a piene mani.
Placa il mio desiderio
con la brocca
o
il tuo scalco empia la coppa. |
«Ba˓al e Mōt» |
Per placare la sua fame e la sua sete, Mōt ha bisogno delle
vive acque celesti su cui Ba˓al ha il potere.
Sembra vi siano dei negoziati tra Ba˓al e Mōt, ma il richiamo di
quest'ultimo è troppo forte:
|
Rècati nel cuore
della montagna, mia sepoltura,
solleva la montagna
sulle tue mani,
la
collina sui tuoi palmi,
e
scendi nella dimora di sotterranea
reclusione.
Sarai annoverato fra
coloro che scendono in terra
e
gli dèi sapranno che sei
morto. |
«Ba˓al e Mōt» |
La scomparsa di Ba˓al viene accolta
dagli dèi, soprattutto da El e ˓Anat, con gran dolore
e costernazione. Con l'aiuto di una dea
solare,
Šapaš, la «lampada
divina», ˓Anat fa risalire in
cielo il corpo morto di Ba˓al e lo seppellisce
nel cimitero divino. Annuncia poi la morte di Ba˓al alla dea Atirat, che può ora
rallegrarsi con i suoi figli e che propone infatti
per la sua successione uno di essi, che però
si rivela incapace di occupare il trono che era
stato di Ba˓al.
Ma nonostante la sepoltura di Ba˓al, sembra probabile
che il suo corpo non sia stato trovato per intero,
perché ˓Anat e Šapaš continuano
la ricerca. E Mōt, dal suo antro
sotterraneo, continua a vantarsi di aver
inghiottito il dio della pioggia:
|
La
mia gola era priva di uomini,
era
priva di uomini terrestri.
Sono arrivato al
più gradevole dei terreni di
pascolo
al
più gradevole campo presso la
dimora dei morti.
Sono io che ho assalito
il potentissimo Ba˓al,
e
ne ho fatto un agnello nella mia
bocca,
un
capretto nel profondo della mia
gola,
ed
egli è scomparso. |
«Ba˓al e Mōt» |
Allora
˓Anat,
presa dal furore, vuole vendicare il fratello e
assale Mōt,
distruggendolo. Dopo la scomparsa di Mōt, Ba˓al ritorna in vita.
Una lacuna nel testo non ci dice come, solo che
poco dopo, ecco troviamo Ba˓al intento a
massacrare i figli di Atirat.
Ma in capo a sette anni Mōt ricompare, furente
per la sconfitta da parte di ˓Anat. Questa volta
Ba˓al e Mōt si scontrano
direttamente:
|
Essi si affrontavano
come campioni,
talvolta prevale Mōt, talvolta
Ba˓al.
S'incornano come tori
selvaggi,
talvolta prevale Mōt, talvolta
Ba˓al.
Si
mordono come serpenti,
talvolta prevale Mōt, talvolta
Ba˓al.
Balzano come
corsieri,
talvolta Mōt cade,
talvolta Ba˓al. |
«Ba˓al e Mōt» |
La vittoria arride a Ba˓al, che può
sedere finalmente sul trono regale, sulla cattedra
del suo dominio.
È evidente che quest'ultimo mito
appartiene a un mitema diverso. Da un lato vi
si trova il motivo del dio che muore e risorge, che
ritroviamo presente in tutte le mitologie
dell'Egitto e del Vicino Oriente, da Ûśir a Tammûz, su su fino a
Cristo. La sparizione
di Ba˓al nel
sottosuolo assetato è un'evidente metafora
della pioggia che scende a rendere fertile il
terreno desertico.
Šapaš rappresenta il calore
incandescente del sole che contribuisce
all'evaporazione delle acque e quindi alla
ricostituzione delle nuvole, ˓Anat è simbolo
delle sorgenti (tale sembra essere il significato
del suo nome) che raccolgono l'umidità di
cui le acque della pioggia avevano intriso il
suolo.
Tutto questo è vero, tuttavia non si
può fare a meno di notare il parallelo con
la cosmologia semitica, di cui finora abbiamo
trattato, dove la terra si ergeva al di sopra di su
un abisso acqueo, rappresentano da Apsū a Babilonia,
simbolo delle acque dolci sotterranee da cui
provengono tutte le sorgenti, i fiumi e le acque
affioranti della terra. Si dice nel testo che Mōt abbia come
residenza il Deserto e come dimora il Vuoto. Queste
espressioni sono rese in ugariṭico con i termini
appaiati tuha-bihu: è con
sorpresa che scopriamo di trovarci ancora una volta
di fronte al disordine dell'increato ṯōhû wa
ḇōhû biblico.
Per quanto il mito di Mōt sia di carattere
naturalistico, non c'è dubbio che ci
troviamo di fronte a frammenti ancora più
antichi, che sfiorano i princìpi
cosmogonici.
|
IN
GRECIA: IL MITO OMERICO DELLA CREAZIONE
Trattando la cosmogonia greca, si fa sempre
riferimento alla
Theogonía di Hēsíodos, alla
lunga e complessa genealogia titanica che è
diventata un po' la versione «ufficiale»
dei miti greci. Come sappiamo, in origine vi era il
cháos
primordiale, da cui sarebbe spontaneamente sorta la
dea-terra G.
G avrebbe
generato il dio-cielo Ouranós, con cui si
sarebbe unita in amore. Da questa unione sarebbero
nati i dodici
Titânes
. Krónos, l'ultimo dei
dodici, aveva poi mozzato il pene del padre e
diviso così il cielo dalla terra, creando
uno spazio intermedio per la nascita del mondo.
È il mitema della
separazione del
cielo e della terra, che abbiamo già
trattato nel precedente articolo. Anche se siamo in
un diverso ordine d'idee, c'è comunque
l'idea di qualcosa che viene spinto in alto e
qualcos'altro che viene lasciato in basso, creando
uno spazio intermedio disponibile per la successiva
creazione. Ma non solo: come gli dèi
babilonesi che si erano moltiplicati dentro gli
abissi liquidi di Apsū e Tiāmat, anche i
Titânes
greci erano rimasti rinchiusi dentro l'utero di
mamma G,
finché l'atto di separazione non aveva
permesso loro di venire alla luce. In Hēsíodos le
acque caotiche primordiali dei miti semitici
diventano, in un certo senso, le acque amniotiche
dello stadio prenatale dei Titânes.
L'equivalenza tra la
Theogonía
di Hēsíodos e
l'Enūma
elîš babilonese rimane
tuttavia al semplice stadio di analogia: vi sono
antichi motivi che spingono nella medesima
direzione, ma non sembra esservi insomma un reale
rapporto di omologia. Però, come sappiamo,
Hēsíodos aveva strutturato una cosmogonia sul modello
delle antiche versioni anatoliche, che certamente
alla sua epoca circolavano lungo tutta la costa
ionica.
Se dovessimo andare a cercare dei personaggio
analoghi ad Apsū
e Tiāmat nel
mito greco, non avremmo dubbi ad indicare un'altra
coppia primordiale,
Ōkeanós e Tēthýs:
...Autàr, épeita
Ouranı eunētheîsa ték' Ōkeanòn
bathydínēn
Koîón te Kreîón th' Hyperíoná t' Iapetón te
Theían te Rheían te Thémin te Mnēmosýnēn te
Phoíbēn te chrysostéphanon Tēthýn t' erateinḗn,
toùs dè méth' hoplótatos géneto Krónos
aŋkylomḗtēs,
deinótatos paídōn... |
...Dopo, con Ouranós giacendo,
[G]
generò Ōkeanós dai gorghi
profondi,
e Koîos e Krýos, e
Hyperíōn e Iapetós,
Theía, Rheía,
Thémis e Mnēmosýnē,
e Phoíbē dall'aurea
corona, e l'amabile Tēthýs,
e
dopo questi, per ultimo, nacque
Krónos dai torti
pensieri,
il
più tremendo dei figli... |
Hēsíodos:
Theogonía
[-] |
Hēsíodos pone
Ōkeanós e Tēthýs a un
punto ormai avanzato nel processo teogonico: essi
sono due dei dodici Titânes, figli di G e Ouranós, mescolati in
una comune discendenza insieme a una serie di altri
personaggi di cui la maggior parte sono semplici
nomi privi di una vera identità. Ma andando
a guardare più da vicino, scopriamo che Ōkeanós e Teti si distaccano non poco
dai loro titanici fratelli. Mentre i
Titânes sono
divinità di stampo più arcaico,
qualcosa a metà tra giganti e
dèi,
Ōkeanós e Tēthýs sono
degli esseri legati all'acqua, anzi, fatti essi
stessi d'acqua.
|
Il
cerchio dell'instancabile
Ōkeanós dalla bella
corrente
che
con i suoi vortici volgendosi intorno
chiude la terra. |
Orphicorum fragmenta [115K] |
A differenza dei
Titânes suoi fratelli, esseri
primordiali e nerboruti, comunque personaggi dai
tratti antropomorfi,
Ōkeanós era un vero e proprio
principio cosmologico. Nella cosmologia greca, era
l'oceano d'acqua salata che circondava il mondo e
scorreva instancabile rifluendo su sé stesso
in un circolo eterno.
Ōkeanós si muoveva ai confini
dello spazio, là dove non esistevano
né cielo e né terra, e i suoi flutti
tumultuosi delimitavano le estremità
dell'universo, il limite del nulla. Le sue acque
avevano anche un potere catarchico e rigeneratore.
Tēthýs era
anch'essa una creatura acquea primordiale, ma di
natura femminile, il cui corso era mescolato e
indistinguibile da quello di
Ōkeanós.
Uniti l'uno all'altra in un unico flusso, Ōkeanós e Tēthýs erano le
sorgenti donde scaturivano tutte le acque che
scorrevano sulla terra e il luogo ultimo ove esse
tornavano a defluire. Attraverso le acque dei mari
e dei fiumi,
Ōkeanós e Tēthýs
penetravano all'interno delle terre,
rendendole fertili e creando ogni
possibilità di vita. Si configuravano
insomma quali realtà cosmologiche e
primordiali, i principi da cui tutto scaturiva e a
cui tutto ritornava, proprio come le loro acque
eternamente rifluenti in sé stesse.
Oudè bathyrreítao méga sthénos Okeanoîo,
ex hoû per pántes potamoì kaì pâsa thálassa
kaì pâsai krēnai kaì phreíata makrà náousin. |
Nemmeno la forza grande di Ōkeanós dai gorghi
profondi,
da
cui tutti i fiumi fluiscono, e tutte le
acque del mare
tutte le fonti, e le cupe sorgenti
traboccano. |
Hómēros:
Iliás [XXI:
-]
|
Si ha dunque il sospetto, giustificato, che nel
porre
Ōkeanós e Tēthýs tra i
dodici Titânes, Hēsíodos abbia dato a questi due
personaggi una collocazione non attinente alla loro
vera natura. All'epoca in cui fu scritta la
Theogonía, altri
miti della creazione circolavano per la Grecia, ma
rimasero nell'ombra, schiacciati dall'alto
magistero di Hēsíodos. Non ci stupiremo dunque di
trovare, alla base di alcune di queste cosmogonie
«alternative», non il vuoto Cháos di Hēsíodos, ma
proprio
Ōkeanós e Tēthýs. Si
tratta insomma di un mito diverso da quello
esiodeo, ed a quanto pare di grande
antichità, come attesta
Aristotélēs:
Vi
sono alcuni, poi, i quali credono che
anche gli antichissimi e primi teologi,
molto prima dell'attuale generazione,
abbiano avuto una tale opinione
riguardo alla natura primordiale:
concepirono infatti
Ōkeanós e
Tēthýs come autori
della creazione e riferirono il
giuramento degli dèi dell'acqua,
quella chiamata da loro Stýx[Stige]. |
Aristotélēs:
Metá ta physiká [983 b27 - 984
a2] |
Tutto ciò rientra nel discorso che
facevamo nel precedente capitolo. Avevamo visto
che, anche in epoca classica, esistevano in Grecia
due correnti di pensiero: l'una, quella che faceva
capo a Hēsíodos, che concepiva il cháos come uno
spazio vuoto e spalancato, l'altra, che infine
sarebbe stata ripresa dai filosofi di Mílētos, prima
di tutti Thalḗs, secondo la quale era l'acqua
l'origine o arché di tutte le
cose. Questa concezione, cosmogonica prima che
filosofica, veniva fatta risalire già
nell'antichità a Hómēros, in quanto la sua
definizione più autorevole si trovava
nell'Iliás.
Contrariamente ad Hēsíodos, infatti, in Hómēros non
sembra esserci traccia del cháos originario,
ma una scaturigine degli dèi dalle acque
primordiali. In questo importante brano è la
stessa dea Hḗra:
Eîmi
gàr opsoménē polyphórbou peírata gaíēs,
Ōkeanón te then génesin kaì mētéra Tēthýn,
hoí m' en sphoîsi dómoisin eǘ tréphon ēd'
atítallon
dexámenoi Rheías, hóte te Krónon eurúopa
Zeùs
gaíēs nérthe katheîse kaì atrygétoio thalássēs.
Toùs eîm' opsoménē, kaí sph' ákrita neíkea
lúsō:
ḗdē gàr dēròn chrónon allḗlōn apéchontai
euns kaì philótētos, epeì chólos émpese
thymōı. |
Io vado a vedere i confini della terra feconda,
a Ōkeanós, origine degli
dèi, e a madre Tēthýs,
che
nelle loro case mi nutrirono e crebbero,
affidata da Rheía nei giorni
che Zeús vasta
voce
scoscese Krónos sotto la
terra e il mare infecondo.
Loro vado a trovare, ché scioglierò un dissidio infinito:
ché ormai d'amore e di letto sono divisi da tempo,
ché avvampano d'ira nel
seno. |
Hómēros: Iliás [XIV:
-] |
Che
Ōkeanós fosse assai più
di un semplice titano, quale Hēsíodos l'aveva
gabellato, appare chiaro in molti punti del mito
greco. Essendo il più antico e venerando
degli dèi,
Ōkeanós poteva opporsi persino
alla volontà di Zeús. Narra Hómēros che
quando Zeús
radunò tutti gli dèi a consiglio sul
monte Ólympos, convenne ogni divinità, non
mancò nemmeno il più umile degli
dèi fluviali. Solo
Ōkeanós rifiutò di
intervenire e rimase nel suo posto ai confini della
terra.
Nelle cosmogonie accennate da Hómēros e ribadite
da
Aristotélēs, dunque, furono
Ōkeanós e Tēthýs i
progenitori degli dèi, e non Ouranós e G come invece vuole
Hēsíodos. Uniti l'uno all'altra, essi formavano una
massa fluida e indefinita, ma vitale, che portava
in sé, grazie al dualismo insito
nell'opposizione maschio/femmina, una
fecondità senza limiti, e quindi la
pluralità che si sviluppa nella creazione.
Ritroviamo qui, ancora una volta, la stessa
coerente impalcatura delle cosmologie semitiche.
Essendo anche un luogo fisico, e cioè il
confine del mondo col nulla,
Ōkeanós corrisponde punto per
punto agli asayîm ebraici,
termine che indicava insieme il confine del mondo e
l'oceano esterno. Una delle possibili etimologie del
nome Ōkeanós lo fa risalire
all'accadico uginna «anello», evidenziando la
funzione del fiume che circonda la terra. Sposa di
Ōkeanós, Tēthýs
riecheggia da vicino la Thaute di Damáskios, che come
sappiamo è a sua volta la Tiāmat babilonese. La
situazione presenta ellenica più analogie
che omologie, perché secoli di
interpretazione teologica hanno mutato i rapporti
tra le divinità, le loro lotte cosmologiche
e le loro interazioni. Ma rimane interessante quel dissidio
che interpone Ōkeanós
e Tēthýs, per cui i
due esseri acquei risultano divisi «d'amore e di letto».
Hómēros non spiega la causa della
lite: forse, l'autore del testo, stava riportando
semplicemente un mito antichissimo di cui non gli era chiara
la ragione. Sembra evidente che, chiuso il periodo
cosmogonico, l'attività generativa di Ōkeanós
e Tēthýs debba
fermarsi, e il loro dissidio ne è la probabile
giustificazione mitologica. Ma quello che noi non possiamo
fare a meno di pensare, però, è che il «divorzio» di Ōkeanós
e Tēthýs sembra
riecheggiare la divisione delle acque primordiali presente
nei miti semitici. In Grecia, perduto il senso cosmologico
del racconto, questo si è trasformato in un litigio che
tiene i due coniugi separati l'uno dall'altra; in origine,
quella separazione doveva avere un significato cosmogonico,
analogo forse alla divisione delle acque dalle acque, o al
motivo di Tiāmat spezzata in due.
Ma a rendere ancora più stretta la
relazione, vi sono anche alcune considerazioni formali. Ad
esempio, due versi del poema accadico, «Apsū,
di tutti il progenitore, e la loro madre
Tiāmat, di tutti la generatrice» [Apsū-ma rêštû
zârûšun mummu Tiāmat mu(w)allidat gimrišun]
(Enūma elîš [I: -]),
mostrano un perfetto parallelismo con il verso omerico: «a
Ōkeanós, origine degli dèi, e a
madre Tēthýs» [Ōkeanón te then génesin kaì mētéra Tēthýn],
verso la cui natura formulare è confermata dalla sua
ripetizione
(Iliás [XIV:
| ]).
A questo ci possiamo chiedere per quale tramite
le antiche teogonie semitiche siano finite a far
parte dei poemi omerici. Non lo sappiamo con
certezza. Platone, che cita in un passo del
Kratýlos i
precedenti versi di Hómēros, si cura di far risalire
il mito di
Ōkeanós e Tēthýs quali
origini di tutte le cose addirittura all'antica
dottrina di Orpheús, di cui cita
un verso:
|
Dice anche Orpheús:
-
Ōkeanós per primo,
dalla bella corrente, diede principio
alle nozze, lui che sposò la
sorella
Tēthýs, nata dalla
stessa madre. |
Plátōn: Kratýlos
[402 c] |
Ploútarchos a sua volta ne fa risalire l'origine agli
egiziani:
|
E
credono che Hómēros, e lo stesso si dice
di Thalḗs, abbia posto l'acqua come
principio e origine di tutte le cose,
dopo aver appreso ciò dagli
Egizi... |
Ploútarchos:
De Iside et Osiride [34] |
|
Ratto di Europa |
Affresco di epoca romana.
Pompei, casa di Giasone. |
Solo negli ultimi
anni si è cominciato a sospettare che i
rapporti tra l'antica Ellade e il mondo semitico
siano stati più stretti di quanto si fosse
ritenuto in passato. È noto che gli Elleni
furono i discendenti degli antichi invasori
indoeuropei i quali, nel corso del Secondo
millennio avanti Cristo, scesero nella penisola ellenica
dove, nell'incontro con la più antica
civiltà minoica, sarebbe nata la
civiltà micenea. La lingua greca presenta
una buona percentuale di parole di origine non
indoeuropea. La parola thálassa «mare», che sembra avere attinenze con
il gruppo Tǝhôm
/ Tiāmat / Thaute / Tēthýs, non era
indoeuropea, bensì risaliva a quello che, in
mancanza di una migliore definizione, o forse
proprio ignorando volutamente la possibile origine
semitica, veniva spesso chiamato substrato
«pelasgico» o «egeo»
della cultura greca (Pelasgi erano chiamati, nella
tradizione antica, i popoli pre-elleni dell'Ellade). Ma poiché una
buona percentuale di parole pre-elleniche sembra
non essere incompatibile con un'origine semitica,
studiosi come Martin Bernal sono arrivati a
ipotizzare una stetta dipendenza culturale della
Grecia arcaica con l'area fenicia e/o egiziana.
Non si può tacere, a questo proposito,
che anche molti miti sembrano suggerirci questa
forte presenza mediorientale alla base della
civiltà ellenica. I Greci stessi narravano
di come Zeús,
in forma di toro, avesse rapito la giovane Eurṓpē dalle
spiagge di Fenicia, per condurla a Creta, dove
l'avrebbe resa madre, tra gli altri, di Mínōs, re e
fondatore della civiltà cretese. Secondo il
mito, Eurṓpē era
sorella del re fenicio Kádmos, a cui la
tradizione fa risalire la creazione dell'alfabeto
poi utilizzato dagli stessi greci. Rimane è
la possibilità che i Cretesi fossero di
stirpe semitica, cosa di cui non avremo mai la
conferma almeno finché non verrà
decifrata la Lineare A. È però
indubitabile che nel mito greco vi sia una forte
componente mediorientale, e ritengo che i Greci
abbiano desunto molti elementi della loro mitologia
da storie che circolavano nel Mediterraneo
orientale e nel Mar Egeo forse già all'epoca
del loro insediamento nell'Ellade, nel Secondo
millennio avanti Cristo, e che poi le abbiano lentamente
integrate al loro corpus mitologico.
|
UN TENTATIVO
DI RICOSTRUZIONE
La forma più antica di questo mito,
sembrerebbe l'idea di un abisso liquido
primordiale, da cui d'un tratto ecco il sorgere
della prima materia organizzata. In Egitto troviamo
il concetto del nûn, che nel sistema
teologico eliopolitano rappresentava la
personalità divina dell'oceano increato, la
massa liquida da cui emerse, prima creatura, il dio
sole tūm-Reʿ. Oppure, nel
sistema elaborato dai sacerdoti ermopolitani, da
cui emerse la prima altura, e quindi, la nascita di tūm-Reʿ da un uovo sorto
su questa altura. Il nome dell'altura era Tatenen nella dottrina
menfitica. Parallela alla versione egiziana, quella
sumerica, secondo il quale esisteva l'abzu, un abisso cosmico di
acque primordiali. Ad apparire, secondo la
ricostruzione operata da Samuel Noah Kramer, fu la
montagna cosmica Ḫursaganki, terra e cielo
insieme, dalla cui separazione nacque l'universo.
Una seconda tradizione che si mescolò con
la prima fu una lotta di un dio contro le acque
furiose, che minacciano di travolgere il mondo,
proveniente probabilmente dall'area cananea. Si
pensa si sia sviluppata forse lungo le coste della
Siria e quindi sia stato portata in Mesopotamia da
tribù amorree verso il 2000 a.C.. In tutta questa famiglia di
miti, il motivo dell'ammansimento delle acque venne
indirizzato in una doppia funzione: da un lato per
impedire le inondazioni, e qui si può
pensare alle piene del Tigri e dell'Eufrate e si
può anche arrivare al mito del Diluvio,
dall'altra per impedire la siccità, vista
come presenza di un mostro che imprigiona tutte le
acque impedendo di fatto la regolazione dei cicli
della fertilità.
In Mesopotamia, i semiti assorbirono l'intero
substrato sumerico e lo riadattarono a nuove
concezioni. Nasce così l'idea di un oceano
primordiale, confusione di acque salmastre
femminili e acque dolci maschili. Un dio avrebbe
sconfitto queste masse acquee, le avrebbe strappate
l'una all'altra, con una parte avrebbe creato il
cielo atmosferico, con l'altra parte l'oceano
esterno e sotterraneo. Ecco dunque che la barriera
che gli dèi erigono nei confronti delle
acque acquista un vero e proprio sapore
cosmologico, come un qualcosa atto a impedire il
ritorno dell'universo allo stato caotico dei
primordi. Tra i Sumeri questo compito era assegnato
a Enlil, signore dello
spazio atmosferico, dio del vento vivificante e
della parola creatrice.
È dunque possibile che Enlil, quale re degli
dèi, fosse rimasto protagonista dell'impresa
anche nei più antichi miti cosmogonici
semitici. Forse, prima del sorgere di Babilonia, si
raccontavano versioni dell'Enūma
elîš che avevano il dio Enlil come protagonista
dell'impresa. Forse, in tali versioni, Apsū e Tiāmat sarebbero stati
sconfitti, ma quest'ultima non avrebbe forse
subìto l'onta di essere strappata in due.
Piuttosto, sarebbe stata strappata controvoglia dal
suo sposo Apsū e
costretta a formare il cielo. Le acque terrestri
sarebbero poi state costrette a circondare il
mondo, ponendo quindi barriere alla loro invasione
delle terre emerse.
Credo che il motivo della separazione delle
acque maschili da quelle femminili sia semitico,
mentre quello del «sacrificio» delle sole
acque femminili sia più recente,
probabilmente importato in Mesopotamia da altre
correnti culturali (si può pensare ai
Cassiti, indoeuropei, i quali avrebbero potuto
introdurre il motivo del sacrificio del macroantropo). Ma ora ci stiamo muovendo
sull'infido terreno delle ipotesi...
Fatto sta che la versione finale del mito
accolse questo motivo del sacrificio. È
probabile che parecchie versioni del mito
circolassero in Mesopotamia, allorché
Babilonia divenne la capitale culturale del mondo
orientale. Nell'Enūma
elîš babilonese a Marduk toccò la parte
di uccisore di Tiāmat e di demiurgo
ordinatore dell'universo. In Assiria questo posto
fu assegnato al dio locale Aššur. Ma è
possibile che altrove Enlil abbia tenuto il suo
antico ruolo, cosa che spiegherebbe la sua presenza
(o il suo affiancamento con Marduk) nei tardi riassunti
ellenistici di Bḗrōssos e di Damáskios.
Questo in Mesopotamia. Altrove il medesimo mito
ebbe diversi esiti. È possibile che gli
Ebrei, che già avevano nel loro repertorio
il mito cananeo della lotta di un Dio contro le
acque ribelli, finirono col creare il motivo della
ribellione delle acque cosmiche, della vittoria
di
lōhîm su di esse e dalla
loro nuovo collocazione, in alto le acque
femminili, in basso quelle maschili, e quindi il
confinamento di queste ultime ai confini della
terra. E alla fine di una lunga speculazione
sacerdotale, nella quale presumibilmente gli
antichi miti furono reinterpretati secondo le
modalità essenziali del monoteismo, rimase
soltanto Dio a regolare l'amorfa materia
primordiale secondo il suo capriccio.
Questo humus di idee, circolante in tutto il
Mediterraneo orientale, germinò
probabilmente in Grecia dove sviluppò l'idea
cosmologica di
Ōkeanós e Tēthýs, acque
cosmiche maschili e femminili che delimitavano i
confini del mondo. Ignoriamo la forma dei
più antichi miti riguardo questa concezione,
che già all'epoca di Hómēros era ormai
irrimediabilmente sbiadita. Il poco spazio a
disposizione c'impedisce di seguirne gli infiniti
addentellati nel pensiero teologico e filosofico
greco, che in certi casi sono davvero imponenti...
si pensi all'ultimo discorso di Sōkrátēs, che Plátōn
ci riferisce in
Phaídōn [107d-115a], dove Ōkeanós e i
mitici fiumi suoi tributari, sono descritti come
attraversanti gli spazi cosmici e le
profondità abissali della terra, trattati
come realtà cosmiche legate al flusso e alle
purificazioni delle anime.
|
MITI BABILONESI
(Enūma
elîš) |
MITI EBRAICI
(Bǝrēʾšîṯ) |
MITI EBRAICI
(Fonti
rabbiniche) |
MITI UGARITICI |
MITI GRECI
(Hómēros) |
0 |
Acque caotiche
primordiali come miscuglio indifferenziato
di acque dolci maschili [Apsū] e acque salate femminili
[Tiāmat]. |
Acque caotiche
primordiali come massa d'acqua
indifferenziata. |
Acque caotiche
primordiali come massa d'acqua
indifferenziata. |
El
cammina dinanzi alle acque abissali
[Tahāmu] degli inizi. |
Acque caotiche
primordiali in doppia configurazione
maschile [Ōkeanós] e femminile [Tēthýs]. |
1 |
Marduk uccide
Tiāmat usando i suoi venti come
arma. |
lōhîm vivifica e domina le acque
caotiche col suo soffio o vento. |
lōhîm abbatte
Tǝhôm con i suoi venti, o
Rahab, il principe del mare,
gettandone la carcassa negli
abissi. |
Ba˓al sconfigge
Yam, il principe del mare, con le
due mazze magiche. |
|
2 |
Marduk spacca in due il cadavere di
Tiāmat e con una metà
costruisce il cielo. |
lōhîm divide le acque che sono sopra
il cielo da quelle che sono il cielo, e
crea un firmamento tra le une e le
altre. |
lōhîm divide le acque che sono sopra
il cielo da quelle che sono il cielo. Le
acque superiore salgono cantando, le acque
inferiori si dolgono di scendere nella
profondità. |
Mōt assorbe nel suo regno
sotterraneo le acque celesti rappresentate
da Ba˓al, le quali tuttavia vengono di
nuovo ricondotte in cielo da
˓Anat e
Šapaš. |
Ōkeanós e
Tēthýs, divisi da
un interminabile dissidio, sono separati di letto e
d'amore. |
3 |
Marduk costruisce la terra con
l'altra metà del cadavere di
Tiāmat e annoda la coda in
modo che le acque non possano invadere la terra. |
lōhîm ordina alle acque che
sono sotto il cielo di ritrarsi in un luogo per lasciar
affiorare la terra. |
Le acque inferiori erompono rabbiose sulla terra, ma
lōhîm le domina e le caccia ai confini del
mondo. |
Mōt viene sconfitto da
Ba˓al, e presumibilmente
ricacciato al suo posto. |
|
|
|