UN
INIZIO? UNA CAUSA?
Che l'universo abbia avuto un'origine sembra una
conclusione logica. Poiché tutto ciò
che cade sotto i nostri sensi ha avuto un inizio,
poiché ogni effetto ha una causa, la domanda
di quale possa essere stata la causa prima di tutte
le cose deve essere sorta spontaneamente nell'anima
dei nostri antenati. Vedremo in seguito che forse
non è proprio così e che, anzi, il
più antico pensiero mitico aveva concepito
il mondo come una ciclica eternità di
periodiche distruzioni e rinnovamenti. Ma prima di
affrontare acque tanto profonde,
sarà meglio rimanere in ambiti a noi
più vicini e familiari: la mitologia
classica, quella ebraica, quella del Medio Oriente.
Le concezioni di tali popoli sembrano considerare
una sorta di stato primordiale di amorfa e confusa
immobilità, in cui tutte le cose erano
contenute in potenza, ma non ancora distinte una a una nel loro essere e nelle loro caratteristiche.
|
VERSO UNA CONCEZIONE DI CAOS
Intorno al 300 a.C. l'esploratore greco Pitea,
abbandonato il consueto mondo mediterraneo,
attraversò le Colonne d'Ercole e diresse la sua nave verso i lontani mari boreali.
Dopo essere giunto in Britannia, proseguì in
direzione nord fino alla misteriosa terra di Thule... e lasciamo agli amanti dei misteri
decidere se dietro questo nome si celino le isole
Orcadi, la Scandinavia o la
lontanissima Islanda. Pitea fu il primo esponente
del mondo classico a osservare i lastroni di
ghiaccio che si staccavano dalle banchise polari e
le fitte nebbie dei mari settentrionali. Di fronte
a queste inaudite trasformazioni e mescolanze tra
elemento solido e liquido, tra liquido e aeriforme,
Pitea dedusse di essere giunto agli estremi confini
del mondo, laddove tutti gli elementi perdevano la
loro stabilità e si confondevano nel caos
primordiale.
«Caos». Con questa parola si indicava,
particolarmente nei miti teogonici, lo stato
iniziale di tutte le cose, prima che esse
prendessero le forme e gli attributi stabiliti
dall'ordine interno del'universo. Ma cháos acquistava
il suo pieno significato solo in opposizione alla
nozione di kósmos, termine
con il quale già i Pitagorici (secondo
Diogene Laerzio) o Parmenide (secondo Teofrasto)
designavano il mondo in quanto ordine, compiutezza,
determinatezza. Il kósmos era
distinzione degli elementi, ordine matematico,
precisione astronomica; era sia la struttura
cosmologica dell'universo, sia le leggi che
governavano la società umana. Nel kósmos tutte le cose godevano
della loro natura specifica. Al contrario, il cháos era
l'indeterminatezza, la confusione, la mancanza di
identità. Nel cháos tutte le
cose già erano presenti in potenza, per quanto indistinguibili dal fondo caotico, ma
è solo nel kósmos che
acquistavano forma distinta e contingente.
Publius Ovidius Naso, che degli scrittori augustei fu forse il più brillante, diede
principio alla sua scintillante rassegna di
metamorfosi proprio con la prima di tutte le
trasformazioni, quella dal cháos in kósmos.
Ante mare et terras et quod tegit omnia
caelum
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere chaos: rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque
eodem
non bene iunctarum discordia semina rerum.
nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan,
nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe,
nec circumfuso pendebat in aere tellus
ponderibus librata suis, nec bracchia longo
margine terrarum porrexerat Amphitrite;
utque erat et tellus illic et pontus et aer,
sic erat instabilis tellus, innabilis unda,
lucis egens aer; nulli sua forma manebat,
obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno
frigida pugnabant calidis, umentia siccis,
mollia cum duris, sine pondere, habentia
pondus. |
Prima del mare e
della terra e del cielo che tutto
ricopre, unico e indistinto era
l'aspetto della natura in tutto
l'universo, e lo dissero caos, mole
informa e confusa, nient'altro che peso
inerte, ammasso di germi discordi di
cose mal combinate. Nessun titano
ancora donava al mondo la luce,
Né Febe ricolmava crescendo la
sua falce, né la terra, trovato
il proprio equilibrio, stava immensa e
sospesa nell'aria, né Anfitrite
aveva proteso le braccia a ricingere i
lunghi orli della terraferma. E per
quanto lì ci fosse la terra, il
mare e l'aria, instabile era la terra,
non navigabile l'onda, l'aria priva di
luce: nulla riusciva a mantenere una
sua forma, ogni cosa contrastava le
altre, poiché nello stesso corpo
il freddo lottava col caldo, l'umido
con l'asciutto, il molle col duro, il
peso con l'assenza di peso.
|
Ovidius:
Metamorfosi [I: 5-20] |
E dunque, secondo Ovidius, nella caotica primordialità già esistevano terra e
mare e aria, ma non avevano quelle caratteristiche
che le distinguono, che ne definiscono la
rispettiva natura. La terra era instabile, l'onda
non navigabile, priva di luce l'aria. Nessuna cosa
poteva dirsi calda o fredda, umida o asciutta,
molle o dura. Ovidius sembra avere un'idea quasi teologica del
caos, ma non dimentichiamo che alle sue spalle c'era almeno
mezzo millennio di speculazioni filosofiche. Ovidius aveva a
sua disposizione un terreno molto solido su cui camminare. La
sua scrittura è disinvolta, la filosofia si fonde alla poesia
con noncuranza e naturalezza.
La creazione dell'universo, a opera di un non
precisato dio con capacità demiurgiche,
sarebbe stata in Ovidius proprio un districamento di
tutti gli elementi dalla loro mescolanza
primordiale, così che ciascuna cosa avrebbe
finito con l'acquistare la propria identità
e diventare come noi oggi la conosciamo. Ma meglio
lasciare ancora una volta la parola a Ovidius, assai
più lieve di noi nel narrare le cose
profonde:
Hanc deus et melior litem natura diremit.
nam caelo terras et terris abscidit undas
et liquidum spisso secrevit ab aere caelum.
quae postquam evolvit caecoque exemit
acervo,
dissociata locis concordi pace ligavit:
ignea convexi vis et sine pondere caeli
emicuit summaque locum sibi fecit in arce;
proximus est aer illi levitate locoque;
densior his tellus elementaque grandia
traxit
et pressa est gravitate sua; circumfluus
umor
ultima possedit solidumque coercuit orbem. |
Un
dio, e una più benigna
disposizione della natura, sanò
questi contrasti: separò dal
cielo la terra, dalla terra le onde, e
distinse dall'aria spessa il cielo
puro. E dopo aver districato e liberato
queste cose dall'ammasso informe,
dissociatene le sedi, le riunì
in un tutto concorde. Il fuoco,
imponderabile energia della volta
celeste, sprizzò e si
stabilì nella regione più
alta. Subito sotto, per sede e
leggerezza, c'è l'aria. La
terra, più densa, assorbì
gli elementi più grossi e rimase
premuta in basso dal proprio peso.
L'acqua, fluida, occupò gli
ultimi spazi avvolgendo tutto in giro
la massa solida del mondo.
|
Ovidius:
Metamorfosi [I:
21-31] |
In epoca augustea la sapienza del mondo
classico era in decadenza. Gli antichi miti
si stavano cristallizzando in favole, in allegorie,
in bizzarre narrazioni che poco conservavano della loro
originale sacralità. In Ovidius
poi i miti erano solo l'occasione per eseguire scintillanti
esperimenti stilistici; di essi non rimaneva che la forma esteriore, resa con
elegante ricercatezza, ma non vi era quasi più nulla
del loro significato. Nelle parole
«un dio o una più
benigna disposizione della natura»,
Ovidius prelude forse a quella sorta di filosofico
monismo a cui la civiltà classica sarebbe
certo pervenuta se il Cristianesimo non avesse
imposto una diversa visione del mondo. Voci attente
alla tradizione, come sarà quella di Ploútarkhos, si faranno sempre più rare nei
secoli successivi, fino al tramonto della classicità.
Cercare di districarsi tra le concezioni
greco-romane riguardo agli inizi è compito
superiore alle nostre forze. Come vedremo in
seguito, non vi era affatto, nel mondo classico,
una concezione unitaria. Alle tradizioni mitiche si
sovrapponevano le concezioni dei culti misterici e
in epoca tarda ogni idea venne rielaborata in senso
filosofico. Tra i problemi principali affrontati
dalla filosofia c'era infatti proprio questa
ricerca dell'arché,
dell'origine di tutte le cose. Le concezioni di Platone
(428-348 a.C.) sulla relazione tra idee e forme
erano state il punto d'arrivo di una lunga serie di
speculazioni che rimontavano ad almeno due secoli
dietro di lui e che erano state principiate dalla
scuola di Mílētos, colonia ionica in Asia minore.
Aveva cominciato Thalḗs (VI secolo a.C.), indicando
nell'acqua il principio da cui tutte le cose
avevano tratto la loro origine. Il suo discepolo Anassimene
(circa 560-525 a.C.) aveva visto tale
arché nell'aria,
intesa probabilmente come soffio vitale che
permeava l'universo, mentre l'altro discepolo,
Anassimandro (nato intorno al 610 a.C.), aveva per
primo rifiutato gli elementi materiali per porre
l'origine di tutte le cose in una sostanza
infinitamente sottile che egli aveva chiamato
ápeiron,
«senza limiti».
La speculazione filosofica sull'arché si era
dunque spostata nella direzione di elementi via via
più sottili. Dall'acqua di Thalḗs all'aria
di Anassimene, fino all'illimitato ápeiron di
Anassimandro; è aperta la via per le
concezioni di Platone, sul passaggio dalle idee
alle forme, che avrebbero condizionato la filosofia
successiva: non solo i brillanti poemi di Ovidius,
ma anche il tardo neoplatonismo, le correnti
gnostiche e naturalmente le stesse concezioni
giudeo-cristiane. L'idea stessa della creatio ex nihilo, che
in seguito sarebbe divenuto dogma nella teologia
medievale, fu il naturale punto di arrivo delle
speculazioni classiche.
Se in origine il mýthos era
sapienza sacra, intuizione di verità
pre-razionali, la cultura classica non
poteva più accettare le risposte poetiche.
Le nuove esigenze scientifiche ponevano domande
divergenti rispetto a ciò che poteva offrire
il mondo mitico delle origini. I filosofi di Mílētos
(VI secolo a.C.) nelle loro speculazioni
sull'arché indugiano
ancora tra il mýthos e il
lógos,
ma dopo di loro la filosofia sceglierà senza
dubbio la via del lógos. Già
con Ferecide e Acusilao di Argo (V secolo a.C.) si
viene ad affermare l'interpretazione secondo cui il
mito, pur latore di qualche verità, altro
non sarebbe che una ricostruzione di fatti storici
distorta dall'esagerazione epica. In seguito
Platone, e dopo di lui Aristotele, definendo la
differenza tra «discorso che non richiede
dimostrazione» e «argomentazione
razionale», pongono limiti precisi al campo
d'indagine del mýthos e del
lógos. E
da allora il mito sarà considerato prodotto
imperfetto dell'attività intellettuale,
approssimazione e deformazione della verità.
Ma il concetto di cháos è
più antico di Ovidius, più antico di
Platone e Aristotele, più antico ancora dei
filosofi di Mílētos. Il mito, che precede la
filosofia di parecchie centinaia di anni, aveva
concluso la sua parabola già nel remoto VII
secolo, allorché Hēsíodos, poeta e non
filosofo, aveva chiamato il disordine primordiale
col suo vero nome:
Ê toi mèn prṓtista Cháos génet'... |
Dunque per primo fu Cháos...
|
Hēsíodos:
Theogonía [116] |
Nella sua Theogonía, Hēsíodos non si
sofferma a descrivere nei dettagli questo
primordiale caos. Cháos viene soltanto
citato come punto di partenza. Cháos non è
qualcosa da spiegare, è una situazione su
cui non è possibile dare dettagli, di cui,
anzi, si ha percezione soltanto quando
l'immobilità originale viene spezzata dalla rottura
operata dalla creazione. Non vi sono
divinità o demiurghi, ma forse soltanto quella «benigna
disposizione della natura» che voleva
che le cose sorgessero spontaneamente, senza una
vera causa, estrapolandosi da sole dalla confusione
iniziale per assumere la loro identità.
Ê toi mèn prṓtista Cháos
génet', autàr épeita
Gaî' eurásternos, pántōn édos asphalès aieì
athanátōn, hoì échousi kárē niphóentos
Olýmpou,
Tártará t' ēeróenta mychôı chthonòn euruodeíēs,
ēd' Éros, hòs kállistos en athanátoisi
theoîsi,
lysimelḗs, pántōn dè theôn pántōn t' anthrṓpōn
dýmnatai en stḗthessi nóon kaì epíphrona
boulḗn. |
Dunque per primo fu
Cháos, e
poi
Gê dall'ampio
petto, sede sicura per sempre di
tutti
gli
immortali che tengono la vetta nevosa
d'Olimpo,
e
Tártaros nebbioso nei
recessi della terra dalle ampie
strade,
poi
Éros, il
più bello degli
immortali,
che
spezza le membra, e di tutti gli
dèi e di tutti gli uomini
doma nel petto il cuore
e il saggio consiglio...
|
Hēsíodos:
Theogonía [116-122] |
Ecco. Dall'iniziale Cháos a un certo
punto sgorgano fuori, senza ragione alcuna, Gê, la dea-terra per
prima, e per secondo Tártaros, gli oscuri
recessi delle profondità sotterranee. Terzo
è Éros,
l'amore, la forza dirompente che spezza le membra e
che la dolce-ridente Saffo coronata di viole
avrebbe cantato nei suoi immaginifici frammenti. La
nascita di Éros
è necessaria affinché alla
generazione spontanea segua la procreazione
cosciente. E continua Hēsíodos:
Ek Cháeos d'Érebos te mélainá
te Nỳx egénonto:
Nyktòs d'aût' Aithḗr te kaì
Hēmérē exegénonto,
hoùs téke kysaménē Erébei philótēti migeîsa.
Gê dé toi prôton mèn egeínato îson he'
autēı.
Ouranòn asteróenth', hína min perì pánta
kalýptoi,
ophr' eín makáressi theoîs hédos asphalès
aieí. |
Da
Cháos nacquero
Érebos e la nera
Notte [Nýx],
dalla Notte
provenettero le Etere [Aithḗr] e il Giorno
[Hḗmēra]
che
lei concepì a
Érebos unita in
amore.
La
terra [Gê] per prima
generò, simile a
sé,
il
cielo [Ouranós] stellato,
che l'avvolgesse tutta d'intorno
e
fosse ai beati sede sicura per
sempre.
|
Hēsíodos:
Theogonía
[122-127] |
Potremmo stare a lungo a parlare di questi nomi,
ché ciascuno di essi nasconde infinite
delizie. Érebos era la personificazione
delle tenebre maschili, forse derivato da una
radice fenicia ’RB che stava a indicare il lontano occidente, da cui il nome
stesso dell'Europa. E Nýx, la Notte dalle
nere ali, era un'antichissima divinità a cui
i Greci, anche in epoca classica, guardarono sempre
con timorosa venerazione. Ma per ora non ci
interessa proseguire lungo questa strada. La cosa
che ci preme sottolineare è che, anche
secondo le testimonianze antiche, Hēsíodos sia stato
il primo a parlare di Cháos. Hēsíodos si colloca,
subito dopo Omero, agli albori della letteratura greca, ma
ciò non significa che la mitologia greca sia cominciata con
loro. Anzi, in un certo senso Omero ed Hēsíodos chiusero il periodo mitogenico, fissando, una
volta per tutte, delle tradizioni che alla loro
epoca erano già antichissime.
La parola cháos è legata
al verbo greco kaínō «aprirsi, spalancarsi». Se dunque il
tardo significato di questo termine aveva la
nozione di «disordine primordiale», filologicamente andrebbe tradotta con «vuoto
spalancato» o, più poeticamente,
«abisso». Lo stesso Ploútarkhos afferma che
era questa l'idea inerente al pensiero di Hēsíodos,
il quale avrebbe inteso il Cháos come un immenso
vuoto, pronto ad accogliere la successiva
creazione.
|
UN CAOS LIQUIDO?
Quando la scrittura fissa la Sapienza mitica,
trasformandola in poesia o letteratura o filosofia,
vuol dire che è matura l'esigenza di fissare
i miti in una forma canonica. Quando questo
avviene, di solito, si tende a conservare le forme
del mito più che il loro significato. Il
lavoro di Hēsíodos, che da un lato aveva iniziato la
letteratura greca, dall'altro aveva chiuso la
stagione mitogenetica. Che cosa c'è alle
spalle di Hēsíodos? Il Medioevo Ellenico, di cui
l'unica voce è quella di Omero, le
civiltà micenea e minoica e, ancora
più indietro, l'epoca eroica, i miti
indoeuropei portati dagli antenati degli Achei che
si confondevano con le più antiche tradizioni preelleniche. È impossibile trovare un'origine
al mito. Si possono solo analizzare le forme
più estreme, cristallizzate in letteratura
nel momento stessa in cui cessano di essere
vero comprese.
Molte antiche idee mitiche si confondono su
questo punto, parlandosi reciprocamente l'una con
l'altra. A ben guardare il Cháos esiodeo, visto
come una confusione degli elementi posti in uno
spazio vuoto, sembra divergere da una concezione
differente, che configurava piuttosto il caos
iniziale in forma liquida. Un passo di Achille
Tazio suggerisce un evidente confusione tra caos
esiodeo e caos acqueo:
Thalḗs di Mílētos e
Pherekýdēs di Sýros suppongono l'acqua
come principio di tutte le cose,
proprio l'acqua che Pherekýdēs chiama
anche cháos, ricavando
questo probabilmente da
Hēsíodos...
|
Achilleús Tátios:
Eisagōgḕ eis Áraton [3] |
Ma Hēsíodos non aveva mai parlato di un caos
liquido! L'idea che il principio caotico
primordiale fosse in stato liquido era tuttavia
già presente nel pensiero greco. Abbiamo
visto che Thalḗs di Mílētos aveva posto l'acqua
quale arché di tutte le
cose... ma quali erano le ragioni a sostegno di
una simile affermazione?
Aristotélēs suppone che
ciò fosse dovuto alla constatazione che ogni
cosa cresce e si sviluppa nell'umidità e
aggiunge che Thalḗs sia risalito al mito omerico (e non esiodeo) della creazione, che vedeva in Ōkeanós e Tēthýs i liquidi
principi primordiali da cui sarebbero derivate
tutte le cose (Metá ta physiká [983 b27
– 984
a2]).
Quest'idea affiorerà in seguito nei
neoplatonici. Phílōn Alexandreús (I secolo d.C.), nel suo ottimistico tentativo di fondere
sapienza ebraica e filosofia greca, cerca di
dimostrare il carattere creato della terra, nega
la creatio
ex nihilo e va a ripescare l'antico
stadio caotico esiodeo, ma aggiungendo qui una nota
interessante:
Il
caos fu concepito da Aristotélēs come un
luogo, perché era assolutamente
necessario che prima dei corpi
esistesse un luogo per riceverli.
Alcuni stoici tuttavia ritengono che
fosse acqua...
|
Phílōn ho Alexandreús:
De Æternitate
Mundi [18] |
«Ritengono che fosse
acqua...» Filone potrebbe aver
facilmente desunto questo caos liquido dell'abisso
di cui parla la Genesi biblica. Ma che
il caos primordiale si configuri in forma liquida
era un'idea che pervadeva l'intero mondo antico.
Lasceremo stare per ora le concezioni bibliche e omeriche, a cui torneremo nel prossimo capitolo,
per cercare le origini di questo caos liquido nella
prima di tutte le civiltà umane che sia
entrata nella storia.
|
IL PAESE
DI SUMER: RESTI DI UNA MITOLOGIA PERDUTA
Quando si tratta di mitologia mesopotamica non
si deve dimenticare che dalle prime idee
mitologiche sumeriche fino alle più tarde
speculazioni babilonesi passano tremila anni,
durante i quali la Mesopotamia fu teatro di
imponenti migrazioni e invasioni. Queste
riflessioni dovrebbero spingerci a una certa
cautela quando trattiamo la mitologia mesopotamica
come fosse un fenomeno unitario. Non lo fu.
Ma possiamo cercare di mettere insieme le
più antiche cosmologie, possiamo prendere in
considerazione i mille anni intercorsi
dall'invenzione della scrittura (3000 a.C.) fino
all'epoca paleobabilonese (circa 2000 a.C.),
sufficientemente sicuri di circoscrivere il
fenomeno in un ambito strettamente sumerico. Da
questo campo già più circoscritto si
possono estrapolare una serie di punti che sembrano
comuni al pensiero del
«popolo dalle teste nere».
Gli dèi principali dei Sumeri erano An, Enlil ed Enki. Insieme componevano la
cosiddetta «triade astrale».
An era il dio del
cielo, anzi, era il cielo stesso. Il suo nome
significava «cielo» [AN]. Essendo il dio posto
più in alto, quale potenza nell'essere, era
anche il più lontano dalle vicende umane.
Enlil aveva avuto
in potestà lo spazio compreso tra il cielo e
la terra. Era il vento, la pioggia e la tempesta;
il suo carattere era non di rado violento e
distruttivo. Ma era anche il re degli dèi,
colui che regnava sull'universo in nome del
distante e inaccessibile padre An. Laddove An era potenza nell'essere,
Enlil era potenza
nell'azione. Il suo nome voleva dire «signore
[EN] del vento [LIL]».
Enki era il dio
della saggezza, la cui dimora era nel profondo
abisso sotterraneo. Egli era potenza nel pensiero.
Possedeva i me, i
princìpi funzionali dell'universo, che aveva
distribuito tra gli dèi allorché
aveva dato a ciascuno la sua funzione. Il suo
potere era creativo: Enki aveva organizzato il
mondo, aveva plasmato dall'argilla gli esseri
umani, aveva suscitato la vita nel paese di Sumer e
aveva fondato il vivere civile. Enki era il dio della
sapienza, dell'arte e della magia, signore supremo
di tutte le funzioni e nozioni morali. Il suo nome
significava «signore [EN] della terra [KI]».
L'intero universo sumerico era dunque ripartito
in tre grandi sfere cosmiche, ciascuna assegnata a
un dio. An dimorava nell'alto del
cielo stellato, Enlil
nell'atmosfera, Enki
negli abissi. Questi abissi erano visti dai Sumeri
come un'immensa distesa acquea su cui galleggiava
il mondo. Il termine sumerico era abzu, e rappresentavano il
caos primordiale, l'indefinitezza, l'increato. Ma
anche la sorgente da cui provenivano tutte le
acque.
Non è impresa semplice definire la
mitologia sumerica. La maggior parte dei racconti
sulla nascita e il divenire dell'universo che sono
arrivati fino a noi, fissati sulle tavolette
d'argilla, sono a loro volta inclusi in leggende
più specifiche, in preghiere e incantesimi.
In secondo luogo, anche se i Sumeri condividevano i
più importanti nomina divina, ogni
città-stato si affidava al culto di una
divinità poliade su cui riscriveva daccapo
l'intera mitologia. Nel corso della storia,
l'influenza dell'una o dell'altra città
portò ad aumento di popolarità della
divinità che incarnava, sul piano
metafisico, i destini della città stessa.
Ecco perché, confrontando i diversi testi,
troviamo che l'opera della creazione è
sovente attribuita a divinità diverse.
Inoltre, nei secoli successivi, l'eredità
sumerica fu raccolta dai molti popoli che
s'insediarono nella fertile terra tra il Tigri e
l'Eufrate, tra cui gli Accadi (Babilonesi e
Assiri). L'antica mitologia fu soggetta a continue
e intense rielaborazioni, in certi casi davvero
splendide dal punto di vista letterario, ma che
cosa rimaneva in quei casi dello spirito originale?
Non conosciamo nei dettagli la più antica
cosmologia sumerica; si può solo mettere
insieme i pochi indizi che affiorano qua e
là dalle antichissime tavolette che gli
archeologi hanno trovato negli archivi reali delle
varie città. Come leggiamo nel prologo di
Ud rea ud sudra rea («In
quei giorni, in quei giorni remoti»), testo conosciuto
informalmente come Bilgameš,
Enkidu e gli inferi:
ud re-a ud sù-rá re-a
i₆ re-a i₆ ba₉-rá re-a
mu re-a mu sù-rá re-a
ud ul ní-du₇-e pa è-a-ba
ud ul ní-du₇-e mí zid dug4-ga-a-ba
èš kalam-ma-ka ninda šú-a-ba
išu-rin-na kalam-ma-ka ní-tab ak-a-ba
an ki-ta ba-da-ba₉-rá-a-ba
ki an-ta ba-da-sur-ra-a-ba
mu nam-lú-u₁₈-lu ba-an-ar-ra-a-ba
ud an-né an ba-an-de₆-a-ba
en-líl-le ki ba-an-de₆-a-ba
ereš-ki-gal-la-ra kur-ra sa rig₇-bi-šè im-ma-ab-rig₇-a-ba |
In
quei giorni, in quei giorni
remoti...
In
quelle notti, in quelle notti
arcaici...
In
quegli anni, in quegli anni
antichi...
In quei giorni passati, quando le cose vennero
all'esistenza,
in quei giorni passati, quando le cose vennero fatte
per la prima volta,
quando il pane fu gustato per la prima volta nel
santuario della Terra,
e quando i forni vennero accesi per la prima volta.
quando il cielo fu
separato dalla terra,
e la terra fu separata dal cielo,
quando la fama del genere umano venne stabilita,
An prese per sé il cielo
ed Enlil prese per sé la
terra
e gli Inferi vennero dati in dono a
Ereškigal... |
Ud rea ud sudra rea
[-] |
E similmente in un altro testo:
|
Quando il Cielo fu
separato dalla Terra,
(fino ad allora
strettamente tenuti insieme)
e
le dèe madri apparvero;
quando la Terra fu
fondata e messa al suo posto
e
gli dèi ebbero stabilito il
programma dell'universo... |
«Il racconto della
creazione dell'Uomo»
[1-5] |
Oppure ancora:
en-e ni2-du7-e pa
na-an-ga-mi-in-e3
en nam tar-ra-na šu nu-bal-e-de3
{d}en-lil2 numun kalam-ma ki-ta
an ki-ta ba9-re6-de3
sa na-an-ga-ma-an-šum2
ki an-ta ba9-re6-de3
sa na-an-ga-ma-an-šum2 |
Non solo il Signore fece apparire il mondo in
perfetta forma,
il Signore che immutabili stabilisce i destini,
Enlil, che fece emergere il seme umano dalla Terra;
che ebbe cura di separare il Cielo dalla Terra,
che ebbe cura di separare la Terra dal Cielo... |
«L'invenzione della zappa e
l'origine degli uomini» [1-5] |
Nella ricostruzione della cosmogonia sumerica
effettuata da Samuel Noah Kramer, all'inizio del
tempo vi sarebbe stato soltanto l'abisso liquido,
l'abzu. A un tratto
da questo abisso sarebbe sorta la montagna cosmica h̬ursaganki
«montagna
del cielo e della terra», insieme cielo
[AN] e terra
[KI]. Si
tratta come si vede di una concezione parallela al
mito di Hēsíodos del Cháos primordiale,
dal quale d'un tratto, obbedendo a sconosciute
casualità, emerse Gê, la terra
dall'ampio petto, la quale a sua volta avrebbe
generato Ouranós, il cielo
stellato. In entrambi i casi la situazione è
così conformata: un abisso iniziale (liquido
nel mito sumerico, spaziale in quello esiodeo) da
cui d'un tratto scaturiscono, in un'unica massa,
terra e cielo.
Nella mitologia sumerica, non è semplice
distinguere un vero mito cosmogonico da una qualche
«piccola cosmogonia» finalizzata a un
incantesimo o a una preghiera, anche se la maggior
parte dei miti converge raccontandoci di questa
unione iniziale tra il cielo e la terra. Anche nel
prologo della tenzone «Albero contro Canna», risalente ai
primi secoli del secondo millennio a.C., si assiste al tema
cosmogonico dell'accoppiamento tra cielo e terra:
|
L'immensa piattaforma
della terra scintillava: verde la sua
superficie!
La
terra era vestita d'argento e
lapislazzuli,
ornata di diorite,
calcedonio, cornalina,
antimonio.
Agghindata
splendidamente di vegetazione, aveva
qualcosa di regale!
È che la nobile
terra, la santa terra, si era fatta
bella per il cielo, prestigioso!
E
cielo, il dio sublime, affondò
il suo pene nella terra;
versò insieme,
nella sua vagina, il seme dei valorosi
Albero e Canna.
E
tutta, come vacca irreprensibile, [la
terra] fu gravida del ricco seme del
cielo! |
«Albero contro
canna» [1-8] |
È possibile che questo testo voglia
piuttosto descrivere il potere fecondante del
cielo, le cui piogge irrigano e fanno germogliare
la terra: non sarebbe in tal caso un testo
cosmogonico, bensì sarebbe il semplice
racconto metaforico della continua e incessante
fecondità della terra. Sia come sia, vi
è comunque alla base l'idea di un'unione
sessuale tra cielo e terra.
Ma torniamo alla ricostruzione del mito sumerico
secondo Kramer. Ecco che dall'unione del cielo e
della terra nacque il dio-vento Enlil, il quale, con
funzioni demiurgiche, provvide alla separazione di
genitori. Cielo e terra, fino allora
indissolubilmente uniti, furono strappati l'uno
dall'altra e spinti in direzioni opposte. Le acque
cosmiche e abissali dell'abzu si trovarono confinate
ai confini del cosmo, sotto la terra e al di
là del cielo. In seguito, dall'unione del
dio-cielo An con la
madre primordiale Nammu nacque il dio
della sapienza Enki. A
quel tempo il mondo era ancora avvolto
dall'oscurità, così Enlil generò Nanna, il dio-luna, che a
sua volta avrebbe generato il dio-sole Utu e la dea Inanna, la stella del
mattino e della sera.
Il prologo di «Gilgameš e gli
inferi» tratta la separazione del cielo e
della terra come un atto violento: «Quando il cielo fu separato dalla
terra, e la terra fu separata dal
cielo...». L'impresa di Enlil si configura come intrusione del
vento tra il cielo e la terra, in quello che poi sarebbe stato
lo spazio atmosferico. Conferendo a Enlil il
potere di sconvolgere l'immutabile introducendovi
il moto, un potere che fa del vento l'elemento
principale della creazione del mondo, la
tradizione sumerica inaugurò la strada che
sarà più tardi seguita da altre
cosmogonie. Il ruolo di separatore di Enlil si spiega con la sua
stessa natura. Come vento [LIL], Enlil è soffio,
è verbo, è parola creatrice: in
questo senso presenta aspetti comuni con lo Yahweh ebraico, e vedremo in
seguito come al concetto sumerico del lil corrisponda tra gli
ebrei l'equivalente concetto del rûªḥ, lo
spirito divino che nel
Bərē’šît,
la Genesi biblica, troviamo
ad aleggiare sopra le acque degli abissi.
Secondo un più tardo e complesso schema
di cosmogenesi, la montagna h̬ursaganki
a un certo punto
cominciò a produrre una complicata creazione
in un processo di molte tappe [AMA-A-A] o tentativi che si
conclusero nella costituzione dei due
princìpi An (il
cielo) e Ki (la
terra). Di qui, il grande pensiero
teologico babilonese, che moltiplicherà le
coppie primordiali partendo dall'indeterminatezza
iniziale fino ad arrivare al cosmo a noi conosciuto. |
EGITTO: IL
SOLE DALLE ACQUE
Abbiamo dunque
visto che la cultura greca, al bivio tra sapienza poetica e
filosofica, aveva due diverse idee sul caos primordiale: una
dove il caos era visto in forma spaziale, e così cantava
Hēsíodos, l'altro dove il caos era liquido, e questa era la
sapienza di Omero poi ripresa dai filosofi ionici, primo tra
tutti Thalḗs. Ma sull'origine di
quest'ultima concezione i Greci non avevano dubbi.
Eudemo di Rodi c'informa che Thalḗs aveva preso
buona parte delle sue conoscenze geometriche e
sapienziali dagli Egiziani, e anche Ploútarkhos
è molto chiaro su questo punto:
|
E
credono che Omero, e lo stesso si dice
di Thalḗs, abbia posto l'acqua come
principio e origine di tutte le cose,
dopo aver appreso ciò dagli
Egizi...
|
Ploútarkhos:
De Iside et Osiride [34]
|
Anche in Egitto, come in Mesopotamia, esisteva
sì, un sottofondo mitico comune a tutte le
terre percorse dal Nilo, ma allo stesso tempo ogni
città aveva una sua precisa teologia e
l'importanza che questa o quella città
assumeva nel corso di secoli di storia si
rifletteva immancabilmente nei suoi miti.
Nonostante lungo tutto il corso del Nilo si
adorassero un po' gli stessi dèi, accadeva
che spostandosi di regione in regione, gli aspetti
delle divinità, i loro attributi, i loro
ruoli mutassero al contempo. Dal Regno Antico
all'epoca dei Tolomei vi sono quasi tremila anni di
speculazioni mitiche: non ci può certo pretendere di
considerare la mitologia egizia un fenomeno unitario!
Tra i vari sistemi teologici, uno dei più
sofisticati era forse quello che faceva capo alla
città di Eliopoli. Erodoto, che discusse con
i teologi di Menfi, di Tebe e di Eliopoli, disse
poi che gli Eliopolitani erano i più saggi
tra gli Egizi. È appunto nella teologia di
Eliopoli che troviamo la versione egizia del tema
della separazione del cielo e della terra.
|
Nût e Geb |
Disegno da un papiro |
Stiamo
parlando di una delle scene più frequenti e suggestive di
tutta l'iconografia egizia. Una dea, completamente nuda, dalla
pelle scura e il ventre cosparso di stelle, si inarca al di
sopra dell'intero quadro. Solo le punte delle dita delle mani
e dei piedi poggiano a terra, ma su quel precario sostegno
ella si sostiene con straordinaria leggerezza. È
Nût, la
dea-cielo, dal ventre cosparso di stelle, colei che
avvolge e delimita l'universo. La barca del sole
scivola durante il giorno sul suo corpo, s'immerge
al tramonto nella sua bocca, scorre di notte nelle
sue viscere e all'alba emerge dal suo grembo. Il
sole può così rinascere a nuova vita
giorno dopo giorno e l'aurora rossastra altri non
è che il sangue del parto mattutino.
Così Nût
assicura perennità e vita ai cicli del tempo
e dello spazio.
Sotto di lei, steso al suolo, è
raffigurato un altro dio. Le sue dimensioni sono
ovviamente ridotte rispetto alla dea che lo
sovrasta. Egli non sembra a suo agio, con una gamba
piegata, il capo voltato di lato e le braccia
protese a cercare qualcosa alle sue spalle. Talora
il membro è rizzato in alto, quasi cercasse
di raggiungere la bella Nût inarcata sopra di
lui. È Geb, il
dio-terra. Colui che fa crescere le piante sul suo
corpo e trattiene i morti nelle sue viscere
profonde.
E tra l'uno e l'altra,
Šû, il dio dell'atmosfera, che
con i piedi puntati contro Geb e le mani sollevate
verso Nût, per
sempre li tiene separati.
Ci piacerebbe conoscere questo mito nei
particolari, ma disgraziatamente i molti testi che
ne fanno accenno non sono mai eccessivamente
esplicativi. Le fonti sono le colonne di
geroglifici presenti nelle sale delle piramidi del
Regno Antico (ca. 2649-2151 a.C.). Iniziò il
faraone Wenis (2350 a.C.), con le iscrizioni che
fece incidere nel vestibolo e nella sala del
sarcofago della piramide a Saqqara, necropoli della
capitale reale di Menfi, con l'intento di
assicurarsi un posto nell'aldilà. I
successivi monarchi continuarono tale tradizione e
così ebbe origine quel corpus di formule e
speculazioni noto come Testi delle piramidi.
Secondo la sofisticata cosmogonia eliopolitana,
all'origine di tutto era un abisso di acque
stagnanti, assolutamente immobili, circondato e
avvolto da un'oscurità assoluta che non era
ancora quella della notte, perché notte e
giorno non erano ancora stati creati. Il nome
egiziano per descriverlo era nûn, che pare vada
tradotto come «non esistenza». I testi
che descrivono il nûn, tutti molto
brevi, procedono per antitesi, negando tutti quegli
elementi che per gli Egizi rappresentavano il mondo
creato. Né il cielo né la terra
esistevano, né gli dèi né gli
uomini: l'ira, il frastuono e le battaglie non
esistevano ancora, non esistevano il timore di
quello che poteva accadere all'occhio di Ḥur e la morte.
Così dicono i testi.
C'è un che di inatteso in questa lista
delle cose che determinano il mondo come ci appare; la
creazione si distingue dunque per il tumulto
delle battaglie, per la morte e il timore che
l'occhio solare possa spegnersi. L'idea, molto
sottile, è che mentre il nûn non può
essere che statico e immoto, il mondo
è in continuo divenire e il divenire
è connaturato con la paura e con la morte.
Ma torniamo al nûn, a questo
illimitato oceano di acque inerti, versione
egiziana della medesima concezione che abbiamo
trovato tra i Sumeri col nome di abzu. Gli Egizi, che ogni
anno sperimentavano il miracolo delle piene del
Nilo, apportatrici di vita, vedevano probabilmente
nel nûn non
soltanto il caos liquido degli inizi, ma anche
l'origine di tutte le cose e della vita stessa. Nei
santuari si onorava questo nûn primigenio sotto
forma di un sacro laghetto, a rappresentare la
«non esistenza» precedente la creazione.
In effetti si credeva che questo stagno cosmico non
avesse cessato di esistere ma fosse stato respinto
ai confini dell'universo. Il nûn circondava il
firmamento celeste con i suoi astri, e la terra e
l'oltretomba. A giudicare da alcuni testi dal
vivido sapore escatologico, tra gli Egizi era
sempre presente il timore che il nûn spezzasse il cielo
e si rovesciasse sulla terra, riconducendola allo
stadio increato.
Secondo il sistema teologico di Eliopoli, la
creazione ebbe inizio nel momento in cui un'altura
[benben] emerse dal nûn, un tumulo
primigenio.
Qui sorse, primo essere, il dio-sole
tum, ovvero
Reʿ. Il nome tum significa
«totalità». In esso si trova in
potenza l'intero universo delle manifestazioni.
tum era la monade,
l'essere supremo, la quintessenza di tutti gli
elementi della natura.
Trovandosi solo al centro del nulla, tum sembrerebbe
impossibilitato a continuare l'opera di creazione.
Non dimentichiamo che in lui erano contenuti
tutti gli aspetti delle forme che dovevano nascere.
Anche se iconograficamente maschio, tum è una forma
dell'indiviso androgino primordiale. Ed ecco che
tum si accoppia con
sé stesso. Si masturba. E così
genera Šû e
Tefnût, il dio
dell'aria e la dea dell'umidità.
Tutte le manifestazioni
vennero a esistere dopo che io le
creai...
Non
esisteva il cielo, non esisteva la
terra...
creai da solo tutti gli
esseri...
Il
mio pugno divenne la mia
sposa...
Mi
accoppiai con la mia mano...
Da
un mio starnuto nacque
Šû...
Da
uno sputo nacque
Tefnût...
Poi
Šû e
Tefnût generarono
Geb e
Nût...
|
Testi delle piramidi
|
È interessante la scelta delle parole per
indicare la nascita di
Šû e Tefnût. tum afferma di essersi masturbato,
eppure poco sotto l'eiaculazione è sostituita da uno
starnuto per creare il dio dell'aria e da uno sputo per
creare la dea dell'umidità. Diversi egittologi non hanno
esitato a tacciare questo mito come «rozzo», quando in
realtà le idee si presentano in forma purissima. Lo starnuto
è l'equivalente del soffio creatore che troviamo anche nel
Bərē’šît, lo sputo
è un'emanazione liquida del sé;
entrambi gli elementi definiscono perfettamente la
natura delle due divinità che sono
così generate.
Troviamo questo stesso racconto, assai
più elaborato e teologizzato, nei più
tardi Testi dei sarcofagi, formule funerarie assai
diffuse nel Medio Regno (2040-1783 a.C.). In uno di
questi brani, svegliandosi tum alla coscienza,
all'inizio dei tempi, guarda per primo nel profondo
del mare increato del nûn e afferma:
«Ero solo con il
nûn,
nell'inerzia e non trovavo luogo in cui
stare. [...] Gli dèi della
prima generazione non erano ancora
giunti all'esistenza, eppure erano con
me. [...] Fluttuavo tra le acque
completamente inerte, ed è mio
figlio il cui nome è Vita, che
ha risvegliato il mio spirito, che ha
fatto vivere il mio cuore e radunato le
mie membra inerti.»
|
Testi dei sarcofagi [II: 33-34]
|
A questo punto è il nûn stesso che si
rivolge ad tum
dicendo:
«Allora respira tua figlia
Ma‘t e portala
alla tua narice affinché il tuo
cuore viva. Che non si allontanino da
te tua figlia
Ma‘t e tuo
figlio
Šû il cui nome è
Vita.»
|
Testi dei sarcofagi [II:
33-34] |
La creazione procede dunque
dall'immobilità primordiale, attraverso la
rottura operata dall'improvvisa scoperta della
dualità. All'inizio tutto era confuso e
indeterminato. tum
già era presente nell'immenso mare increato
del nûn, anche
se non si distingueva da esso. E d'un tratto la
dissociazione: tum
acquista l'autocoscienza, si individualizza, e nel
momento in cui diventa sé stesso comincia a
guardarsi intorno. Gli altri dèi, quelli che
si sarebbero moltiplicati dopo la creazione, non
esistevano ancora, ma in qualche modo già
erano presenti in potenza dentro di lui. Questa
consapevolezza dà l'avvio al processo
creativo e una nuova vita si manifesta
spontaneamente dal demiurgo, nella forma di un
figlio; in seguito ci vien detto poi che questo
figlio è il dio
Šû.
Allora tum si
mette a parlare e racconta del suo risveglio alla
coscienza. Prima di allora, il nûn stesso non sapeva
di esistere, ma con la rottura operata dalla parola
di tum, il
nûn percepisce
sé stesso come «altro» rispetto ad
tum. La vita genera
la parola, la parola genera il dialogo. Tale
dialogo, attraverso una sorta di operazione
maieutica, ci rivela il motore della futura
creazione: la vita è assimilata a Šû, il dio
dell'atmosfera, e a Ma‘t (che in questo
testo sostituisce evidentemente Tefnût), che è
la norma universale
che regolerà tutte le leggi future
dell'universo e della civiltà umana. Le
splendide speculazioni mitiche dei Testi dei sarcofagi ci
mostrano una teologia complessa e sottile, che
evidentemente già risente di secoli di
speculazioni sacerdotali.
Ma torniamo ora al proseguo del mito, integrando
quel che sappiamo con le splendide fonti
iconografiche presenti nelle tombe egiziane.
Šû e Tefnût sono a loro
volta i genitori di Geb e Nût, il dio-terra e la
dea-cielo. Per lungo tempo Geb e Nût giacquero
strettamente avvinti l'uno all'altra, con la
conseguenza che tra loro non c'era abbastanza
spazio perché qualsiasi altra cosa potesse
esistere. Allora tum
ordinò al padre loro
Šû di separarli. Pura immagine
dell'atmosfera, che riempie tutto lo spazio tra la
terra e il cielo,
Šû s'intromise tra i suoi
figli, puntò i piedi contro Geb e sollevò Nût sui palmi delle
mani, separandoli l'uno dall'altra e impedendo per
sempre il loro ricongiungimento. Šû è
l'atmosfera, sì, ma più precisamente l'aria
trasparente alla luce, che permette al sole
d'irradiare il mondo con la sua carezza
apportatrice di vita. Da Nût e Geb sarebbero poi nati i
cinque dèi principali della religione
egizia: Ûsr,
Ḥur, Sûth̬, Iset e Nebt-ḥût.
Cominciamo dunque a vedere un quadro in questo
sistema mitico. Dopo l'emersione delle prime
realtà del caos, troviamo l'universo chiuso
in sé stesso, poiché il cielo e la
terra sono così strettamente avvinti l'uno
all'altra da impedire di fatto l'esistenza di ogni
altra realtà. È a questo punto che
interviene il dio
separatore, che tra i Sumeri e tra gli Egizi
è una sorta di nume atmosferico, il quale,
spezzando l'egoistica passione del cielo e della
terra e separandoli fisicamente l'uno dall'altra,
permette il proseguo del processo creativo e la
nascita dell'ultima generazione divina.
Qui termina la teogonia eliopolitana e questo
gruppo di nove divinità:
- Šû
- Tefnût
- Geb
- Nût
- Ûsr
- Ḥur
- Sûth̬
-
Iset
- Nebt-ḥût
forma la pesdet, o per usare il
termine greco, l'«Enneade» di Eliopoli. |
LA NARRAZIONE DI PLOÚTARKHOS: THṒT GIOCA A
DAMA
Se il mito narrato nei Testi delle piramidi e
nei Testi dei sarcofagi ci appare di difficile
interpretazione, abbiamo la fortuna di disporre di un interprete di eccezione.
Ploútarkhos (47-127), sacerdote di Delphoí, fu l'ultimo
autentico conoscitore della tradizione antica prima
del crollo del mondo classico. Nel suo
De Iside et Osiride rinarra,
in chiave fortemente ellenizzata, gli antichi miti
egiziani. Questo libretto fu l'unico tramite per il
quale il mondo cristiano, fino alla decifrazione
dei geroglifici a opera di Champollion (1822),
ebbe notizia della sapienza egizia. Siamo
infinitamente grati a Ploútarkhos delle preziose
informazioni che ci fornisce, ma non gli perdoniamo
di averci tramandato il mito, come lui stesso afferma,
«sfrondandolo da tutto ciò che è superfluo». Essendo il
libretto dedicato all'amica Kléa, iniziata ai misteri di
Iset, Ploútarkhos riteneva
presumibilmente di non dover approfondire dettagli che la
donna doveva ben conoscere. Certo Kléa avrà apprezzato la
fiducia del suo amico e maestro, ma quanto ci avrebbe fatto
piacere, a noi che viviamo in un'epoca tanto più tarda, avere a
disposizione quel «superfluo»!
Ploútarkhos adopera, secondo l'uso
dell'interpraetatio graeca, i nomi
degli dèi classici in luogo di quelli
egiziani. La lettura però è
perfettamente trasparente:
|
Si
racconta che quando
Rhéa
[Nût] si
unì a
Krónos di nascosto
[Geb], il Sole
[tum], che se
n'era accorto, lanciò contro di
lei questa maledizione, di non poter
generare figli né in un mese
né in un anno. Ma
Hermês
[Ḏeḥûtî], innamorato
della dea, si unì a lei; e poi,
giocando a dama con la luna,
riuscì a vincerle la
settantesima parte di ogni lunazione:
con questa luce mise insieme cinque
giorni e li intercalò all'anno
di trecentosessanta giorni. Anche ai
nostri giorni gli Egiziani li
festeggiano come genetliaco degli
dèi. Il primo giorno nacque
Ûsr [...]. Il
secondo giorno nacque
Arueris
[Ḥur]. Il terzo
giorno nacque
Typhôn
[Sûth̬] ma la sua
nascita non avvenne nel momento dovuto
e neppure per via naturale: con un
colpo squarciò il fianco della
madre e saltò fuori. Il quarto
giorno nacque
Iset nella
stagione delle piogge. Il quinto giorno
Nebt-ḥût, che essi
chiamano
Aphrodítē...
|
Ploútarkhos:
De Iside et Osiride [2]
|
|
Ḏeḥûtî |
Il dio egizio della sapienza, il
greco Thot. Statua conservata al Museo del Louvre. |
Entriamo un
po' più in dettaglio. La novità
rispetto agli antichi testi è che qui tum ha colpito Nût e Geb con una maledizione che
impedisce alla dea-cielo di dare alla luce i figli
che tiene nel suo grembo. Non c'è in
Ploútarkhos l'intervento di
Šû a separarli, ma troviamo in
una posizione analoga Ḏeḥûtî, il dio
dalla testa d'ibis. Ploútarkhos lo identifica con
Hermês, e
giustamente, perché Ḏeḥûtî (il cui nome i greci
trascriveranno Thṓt) era il dio della
sapienza. Le tarde correnti ermetiche li fonderanno
addirittura in unico personaggio dal doppio nome di Thṓt-Hermês.
Ammirando il meraviglioso corpo di Nût inarcato sopra il
mondo, Ḏeḥûtî ne prova
amore e pietà e si unisce a lei. A questo
punto Ḏeḥûtî decide di
giocare d'astuzia. Poiché la maledizione di
tum impedisce a Nût di sgravarsi in
qualsiasi giorno dell'anno, Ḏeḥûtî pensa bene di aggirare questa
interdizione con una specie di cavillo. Come ci fa sapere
anche Plátōn (Phaîdros [274b]), proprio
Ḏeḥûtî aveva
inventato le pedine della dama e i dadi. Ed
è appunto giocando a dama con la Luna che
Ḏeḥûtî vince la
settantesima parte dell'anno, cioè cinque
giorni che, intercalati all'anno solare di
trecentosessanta, gli permettono di creare un tempo
fuori dal tempo in cui Nût potrà dare
alla luce i suoi figli. (In realtà Ploútarkhos
arrotonda un po' i suoi calcoli, ma non importa.)
Il risultato di tale machiavello è che
l'anno solare è composto di 365 giorni e
non, come evidentemente doveva sembrare più
ragionevole, di 360. Il calendario egizio
considerava questi cinque giorni epagomeni,
chiamati dua heru
renepet «i cinque al di sopra
dell'anno», come un tempo extra-calendariale. In questi cinque
giorni, Nût
poté dare alla luce i figli che
tratteneva nel ventre. Il primo giorno nacque
Ûsr, il secondo
Ḥur, il
terzo Sûth̬, il quarto Iset, il quinto Nebt-ḥût.
Di
questi figli, aggiunge Ploútarkhos, Ûsr e Ḥur erano figli
di tum, Nebt-ḥût e Sûth̬ erano figli di Geb, mentre la sola Iset era figlia di
Ḏeḥûtî.
Il fatto che due di questa discendenza fossero
figli di tum, fa
forse capire per quale motivo il demiurgo si fosse
tanto adirato per l'unione di Nût e Geb. Non è male
ricordare che nei Testi delle
piramidi non si parla di alcuna
maledizione: era stata la passione di Nût e Geb, incapaci di staccarsi
l'uno dall'altra, a impedire la nascita della
nuova generazione divina e, su un diverso piano,
il proseguimento del processo creativo.
Non sappiamo ovviamente quanto del racconto di
Ploútarkhos derivi da fonti egizie e quanto sia stato
da lui ulteriormente interpretato. Il fatto che Ploútarkhos fosse
un iniziato, molto addentro al pensiero teologico,
non lo rende, paradossalmente, una fonte del tutto
attendibile. Non dimentichiamo che il mito teogonico da lui riferito è probabilmente il
punto d'arrivo di una speculazione mitica
già antica di tremila anni. Tra i Testi delle piramidi che
abbiamo analizzato in precedenza e l'De Iside et Osiride di
Ploútarkhos c'è un abisso di ventisei secoli.
In entrambe le fonti, però, compare una
difficoltà che impedisce il proseguimento
della creazione, una situazione statica che viene
rotta dall'intervento del dio
separatore che agisce al fine di permettere
al processo creativo di andare avanti. All'origine
questo personaggio era
Šû, il dio dell'atmosfera, in
Ploútarkhos è invece Ḏeḥûtî,
il signore della sapienza. Si tratta di un cambiamento
significativo, che mostra in quale modo l'antico mito
egiziano fosse stato reinterpretato nel corso dei secoli. È
curioso il fatto che in Ploútarkhos
Ḏeḥûtî sembri non
avere alcuna genealogia. Scaturisce dal nulla, un
po' come l'Éros
in Hēsíodos, allo scopo di superare l'ostacolo che
impedisce alla dea-cielo di dare alla luce i suoi
figli. Con Ploútarkhos ci troviamo sicuramente in un
piano più attento ai significati misterici.
Ḏeḥûtî non
è l'Amore, non è il Soffio Vitale, ma
è la Sapienza. L'increata Sapienza dei
primordi. La stessa Sapienza [Ḥọkmāh] che troviamo nei
libri poetici della Bibbia, laddove essa stessa
annuncia:
Mē‘ôlām nissakətiy
mērō’š miqqadəmê-’ārẹṣ. |
Dall'eternità fui stabilita, dal principio, prima che la terra
fosse.
|
Bə’ên-təhōmôt
ḥôlālətî bə’ên ma‘əyānôt
nikəbadêy-mâyim. |
Quando non esistevano gli abissi,
io fui generata; prima delle sorgenti cariche d'acqua. |
Bəṭẹrẹm
hārîm
hāṭəbā‘û
lip̄ənê
ḡəbā‘ôt
ḥôlālətî. |
Prima che fossero fissate le basi
dei monti, prima delle colline, io fui generata. |
Mišlēy ‹Proverbi›
[8: 23-25] |
Non abbiamo purtroppo tutti i dati per decifrare
questo immenso affresco del pensiero umano, per
capire dove e quando e perché gli eventi
mitici siano stati inventati, interpretati,
modificati. Possediamo soltanto alcuni squarci di
quella che fu la Sapienza poetica degli antichi, di
cui in questo modesto saggio stiamo cercando
semplicemente di mostrare alcuni dettagli. |
GRECIA: LA PAROLA A HĒSÍODOS
Ma adesso ritorniamo in Grecia antica, presso il
grande Hēsíodos e la sua poderosa Theogonía. Avevamo
lasciato la dea-terra Gê, emersa
spontaneamente dal Cháos, la quale aveva
a sua volta generato il dio-cielo Ouranós. E ora terra
e cielo, Gê e
Ouranós, si
uniscono in un cosmico amplesso che spazio non
lascia per nuove creazioni. Anche se intorno a loro
venivano alla luce altre creature, come
l'Erebo, la Notte, il Giorno, l'Etere, Gê e Ouranós continuavano
a occupare tutto lo spazio disponibile, uniti l'uno
all'altra in una sorta di coito totalizzante, nel cui atto si
esauriva praticamente la totalità dell'universo.
Dall'unione tra Gê, la terra dall'ampio petto,
e l'Ouranós
stellato che la avvolgeva tutta d'intorno, nacquero
i tremendi Titânes:
...Autàr, épeita
Ouranôı eunētheîsa ték' Ōkeanòn
bathydínēn
Koîón te Kreîón th' Hyperíoná t' Iapetón te
Theían te Rhéan te Thémin te Mnēmosýnēn te
Phoíbēn te chrysostéphanon Tēthýn t' erateinḗn,
toùs dè méth' hoplótatos géneto Krónos
aŋkylomḗtēs,
deinótatos paídōn... |
...Dopo, con Ouranós giacendo,
[Gê]
generò Ōkeanós dai gorghi
profondi,
e Koîos e Kreîos, e
Hyperíōn e Iapetós,
Theía, Rhéa,
Thémis e Mnēmosýnē,
e Phoíbē dall'aurea
corona, e l'amabile Tēthýs,
e
dopo questi, per ultimo, nacque
Krónos dai torti
pensieri,
il
più tremendo dei figli... |
Hēsíodos:
Theogonía [132-138] |
Dodici erano i
Titânes, sei maschi e sei femmine.
-
Ōkeanós
-
Koîos
-
Kreîos
-
Hyperíōn
-
Iapetós
-
Krónos
-
Theía
-
Rhéa
-
Thémis
-
Mnēmosýnē
-
Phoíbē
-
Tēthýs
Ma, dice Hēsíodos, i figli di Gê furono presi in
odio dal padre loro Ouranós, e fin
dall'inizio, appena uno di essi veniva generato,
Ouranós non gli
permetteva di nascere e tutti li costringeva a
rimanere nel profondo ventre di Gê.
Hóssoi gàr Gaíēs te kaì Ouranoû
exegénonto,
deinótatoi paídōn, sphetérōı d' ḗchthonto
tokêi,
ex archês, kaì tôn mèn hópōs tis prôta
génoito,
pántas apokrýptaske
kaì es pháos ouk aníeske
Gaíēs en
kenthmôni,
kakôı d'
epetérpeto érgōı,
Ouranós... |
Ma
quanti da Gê e
Ouranós
nacquero,
ed
erano i più tremendi dei figli,
furono presi in odio dal padre
fin
dall'inizio, e appena uno di loro
nasceva,
tutti li nascondeva, e
non li lasciava venire alla
luce,
nel
seno di Gê, e si
compiaceva della sua malvagia
opera
Ouranós... |
Hēsíodos:
Theogonía [154-159] |
In altre parole, come l'universo era impedito
nella sua esistenza dall'egoismo di Ouranós, che
tenendosi in intima unione con la sua sposa Gê non lasciava
spazio per l'esistenza di qualsiasi altra cosa,
così ai suoi figli era negata una nascita.
Si tratta dello stesso motivo che abbiamo
già trovato nel mito egizio, nella versione
di Ploútarkhos. La pretesa di Ouranós di impedire
la nascita dei figli dal ventre di Gê, ricorda la maledizione che tum aveva gettato su Nût, impedendole di
generare una discendenza.
Ma Gê, che
portava in grembo dei figli senza poter darli alla
luce, non poteva permettere che tale stato di cose
continuasse per sempre. Così trasse da
sé stessa una falce e con essa armò
la mano di Krónos, l'ultimo
nato.
Ed ecco la
drammatica vicenda secondo le parole di Hēsíodos:
Hḕ d' entòs stonachízeto Gê pelṓrē
steinoménē, dolíēn dè kakḕn
epephrássato téchnēn.
Aîpsa dè poiḗsasa
génos polioû adámantos
teûze méga drépanon kaì epéphrade paisì
phíloisin,
eîpe dè tharsýnousa, phílon tetiēménē êtor:
«paîdes
emoì kaì patròs atasthúlou, aí k' ethélēte
peíthesthai, patrós ke kakḕn teisaímetha lṓbēn
hymetérou, próteros gàr aeikéa mḗsato
érga».
Hṑs pháto,
toùs d' ára pántas hélen déos, oudé tis
autôn
phthégxato. Tharsḗsas dè mégas Krónos
aŋkylomḗtēs
aîps' aûtis mýthoisi prosēúda mētéra
kednḗn:
«mētér, egṓ ken toûto g' hyposchómenos
telésaimi
érgon, epeì patrós ge dysōnýmou ouk alegízō
hēmetérou, próteros gàr aeikéa mḗsato
érga».
Hṑs pháto: gḗthēsen dè méga
phresì Gê pelṓrē,
eîse dé min krýpsasa lóchōı, enéthēke dè
chersìn
hárpēn karcharódonta, dólon d' hypethḗkato
pánta. |
Ma
dentro si doleva Gê prodigiosa,
stipata;
allora escogitò
un artificio ingannevole e
malvagio.
Presto, creata la
specie del livido ádamas,
fabbricò una
gran falce e si rivolse ai suoi
figli,
e
disse, a loro aggiungendo coraggio,
afflitta nel cuore:
«Figli
miei e d'un padre scellerato, se voi volete
obbedirmi potremo
vendicare il malvagio oltraggio del
padre
vostro, ché
per primo concepì opere infami».
Così disse, e
tutti allora prese il timore, né
alcuno di loro
parlò; ma, preso
coraggio, il grande Krónos dai torti
pensieri
rispose con queste
parole alla madre sue illustre:
«Madre,
sarò io, lo prometto, che compirò questa
opera, ché d'un
padre esecrabile cura non ho,
sia pur mio, che per primo compì opere infami».
Così disse, e
gioì grandemente nel cuore Gê
prodigiosa,
e
lo pose nascosto in agguato; e gli
diede in mano
la
falce dai denti aguzzi e ordì
tutto l'inganno. |
Hēsíodos:
Theogonía
[159-175] |
Ci siamo. Armato della falce dai denti aguzzi,
Krónos dai
«torti pensieri» si pone in agguato,
all'interno di quel grembo materno dal quale non
è ancora venuto alla luce, e attende il momento
propizio. Splendida la scena dell'arrivo di Ouranós, nella quale Hēsíodos
riesce ad armonizzare l'elemento cosmico con quello
antropomorfo.
Êlthe dè
nýkt' epágōn mégas Ouranós, amphì dè Gaíēı
himeírōn philótētos epéscheto, kaí rh' etanýsthē
pántēı, ho d' ek lochéoio páis ōrézato
cheirì
skaiêı, dexiterêı dè pelṓrion éllaben hárpēn,
makrḕn karcharódonta, phílou d' apò mḗdea
patròs
essyménōs ḗmēse... |
Venne, portando la
notte, il grande Ouranós, e attorno a
Gê
desideroso d'amore, incombette e
si stese
dovunque. Ma
dall'agguato il figlio si sporse con la
mano
sinistra, e con la
destra prese la falce terribile,
grande, dai denti
aguzzi, e i genitali del padre
con forza tagliò... |
Hēsíodos:
Theogonía [176-181] |
Grazie all'intervento di Krónos quale dio separatore, il cielo e
la terra vennero per sempre separati. Urlante e
sanguinante, Ouranós si
staccò dalla terra e finalmente i figli di
Gê vennero
alla luce. Il taglio del membro di Ouranós avrebbe
impedito al cielo ogni futuro
ricongiungimento con la terra. Da questo momento in
poi, Ouranós
non avrà più alcuna attività
generatrice, ma rimarrà accanto a Gê come saggio
consigliere.
Dai Titânes
nasce una lunga progenie di
divinità che popolano la terra, il cielo e
il mare, di cui Hēsíodos traccia abbondantemente la
genealogia, spiegandoci come siano venuti a essere
i princìpi divini di tutte le cose. Krónos, che aveva
«torti pensieri», è ora il sovrano
di questa felice età, e Rhéa è sua
sposa. Dalla loro unione nasce una nuova
generazione di dèi.
Rheíē dè dmētheîsa Krónōı téke phaídima
tékna,
Histíēn Dḗmētra kaì Hḗrēn chrysopédilon,
íphthimón t' Aídēn, hos hypò chthonì dṓmata
naíei
nēleès êtor échōn, kaì epíktypon Ennosígaion,
Zêná te mētióenta, theôn patér' ēdè kaì
andrôn,
toû kaì hypò brontês pelemízetai eureîa
chthṓn. |
Rhéa, poi,
unitasi a Krónos,
partorì illustri figli,
Hestía, Dēmḗtēr ed
Hḗra dagli aurei calzari
e
il forte Hádēs, che sotto
la terra ha la sua dimora,
spietato nel cuore, e
il forte tonante Ennosígaios [Poseidôn],
e Zeús prudente,
degli dèi e degli uomini;
sotto il suo trono
trema l'ampia terra. |
Hēsíodos:
Theogonía
[453-458] |
Ma per qualche oscura legge del contrappasso,
Ouranós e Gê profetizzano a
Krónos che,
com'egli aveva strappato la suprema regalità
a suo padre, così era destinato a essere
spodestato a sua volta da uno dei suoi figli. Fu
così che Krónos mette in atto
un'orrenda risoluzione:
Kaì toùs mèn katépine mégas Krónos, hṓs
tis hékastos
nēdúos ex hierês mētròs pròs goúnath'
híkoito,
tà phronéōn, hína mḗ tis agauôn
Ouraniṓnōn
állos en athanátoisin échoi basilēída timḗn.
Peútheto gàr Gaíḗs te kaì Ouranoû
asteróentos
hoúneká hoi péprōto heôı hypò paidì damênai,
kaì kraterôı per eónti, Diòs megálou dià
boulás;
tôı hó g' ár' ouk alaoskopiḕn échen, allà
dokeúōn
paîdas heoùs katépine, Rhéēn d' éche pénthos
álaston. |
Ma
questi [figli] li divorava il grande
Krónos, appena
ciascuno
dal
ventre della sacra madre ai suoi
ginocchi arrivava,
e
ciò escogitava perché
nessuno degli illustri figli di
Ouranós
fra
gli immortali avesse il potere
regale.
Infatti aveva saputo da Gê e da
Ouranós
stellato
che
per lui era destino l'essere vinto da
un figlio
per
forte che fosse, per il volere di
Zeús
grande;
a
ciò non inutile guardia faceva,
ma sempre in sospetto
i
figli suoi divorava, e un dolore
crudele teneva Rhéa. |
Hēsíodos:
Theogonía
[459-467] |
|
Saturno divora suo figlio |
Dipinto di Pieter Paul Rubens. 1636. |
I figli che
dà alla luce,
Rhéa li presenta a Krónos, com'era uso
affinché il padre li riconoscesse come suoi legittimi discendenti. Ma Krónos, re
dell'universo, ha saputo che uno dei suoi figli lo
spodesterà a sua volta, come già lui
aveva spodestato suo padre Ouranós, e se non
vuole perdere la sua regalità non può
permettersi di avere una discendenza. Così
al riconoscimento fa seguire l'eliminazione.
È stato Ouranós ad avvertire
Krónos del
destino che lo attende. L'antico dio-cielo era
stato privato della virilità e della
regalità: che Krónos si macchi
adesso del delitto del padre, perdendo allo stesso
modo la propria legittimità a regnare!
È questa la vendetta di Ouranós. E
così, i figli e le figlie che Rhéa, dopo aver
partorito, deposita nelle braccia del padre, uno a uno Krónos li
divora. Al contrario si suo padre, Krónos non respinge i
suoi figli nel ventre della madre, impedendo a essi una nascita, ma dà loro diretta
sepoltura nel proprio stomaco.
La situazione è capovolta. Mentre con
Ouranós il
tempo era congelato nell'immutabilità
primordiale, con Krónos il tempo
sembra capovolto. Il ventre maschile sembra
configurarsi qui come antitesi dell'utero
femminile. I figli che la madre dà alla
luce, il padre li riconduce alle tenebre.
Cinque figli partorisce Rhéa, tre femmine e due maschi: Hestía, Dēmḗtēr, Hḗra, Hádēs e Poseidôn. E tutti scompaiono nella vorace bocca
del padre. Grande è il dolore di Rhéa nel vedere la
propria discendenza annullata nel momento stesso in
cui si è affacciata alla vita. Così,
incinta per la sesta e ultima volta, Rhéa sa già
che il nascituro è destinato a fare la
medesima fine dei suoi fratelli. Ma intervengono
Ouranós e Gê con i loro
saggi consigli, e Rhéa decide di
giocare d'astuzia. Giunto per lei il momento del
parto, Rhéa si
reca nell'isola di Creta, si rifugia in una grotta
sul monte Ditteo e là, nel buio della notte,
partorisce segretamente l'ultimo dei suoi figli,
Zeús. Poi, dopo
aver affidato il bambino alla nutrice Amáltheia, si reca al
cospetto di Krónos,
consegnandogli al posto del neonato una pietra
avvolta dalle fasce.
Krónos,
ignaro dello stratagemma, strappa il fagotto
dalle mani di Rhéa e la trangugia,
credendo si tratti dell'ultimo dei suoi figli.
Così Zeús è salvo e
nulla può impedire che si compia il destino.
Come dice Hēsíodos:
Tôı dè sparganísasa mégan líthon
eŋguálixen
Ouranídēı még' ánakti, theôn protérōn
basilêi;
tòn tóth' helṑn cheíressin heḕn eskáttheto
nēdún,
schétlios, oud' enóēse metà phresín, hṓs
hoi opíssō
antì líthou heòs huiòs aníkētos kaì akēdḕs
leípeth', hó min tách' émelle bíēı kaì
chersì damássas
timês exeláan, ho d' en athanátoisin anáxein. |
A
quello [Krónos] poi,
avvolta di fasce, una grande pietra
[Rhéa]
dette,
al
figlio di Ouranós, grande
signore, primo re degli
dèi;
egli la prese con le
sue mani e giù la
inghiottì nel suo ventre
sciagurato, e non
pensava che,
al
posto del sasso, suo figlio invitto e
indenne
gli
era rimasto, e che quello presto lo
avrebbe vinto per forza di
braccia,
cacciato dal trono e
fra gli immortali avrebbe
regnato. |
Hēsíodos:
Theogonía
[485-491] |
Zeús viene
nascosto a Creta. La sua culla viene sospesa al
ramo di un albero, affinché Krónos non possa trovare il neonato né in cielo e né
in terra. La nutrice Amáltheia, che alcuni
dicono fosse una ninfa, altri una capra,
nutre il piccolo col latte delle sue mammelle e i Cureti intrecciano fragorose danze guerriere
intorno alla grotta dittea, battendo le lance
contro gli scudi di bronzo, per nascondere i
vagiti del neonato al crudele genitore. E quando, col
trascorrere degli anni, Zeús diviene un
giovane grande e vigoroso, si presenta a suo padre
Krónos e riesce
a fargli a bere una pozione che lo costringe a
vomitare dapprima la pietra, poi i cinque figli
che aveva ingoiato. Hestía, Dēmḗtēr, Hḗra, Hádēs e Poseidôn tornano
alla luce. A questo punto, Zeús e i suoi rinati
fratelli combattono una lunga guerra contro Krónos e i titânes
che
lo spalleggiano. Sconfitto, Krónos viene privato
della regalità e Zeús diviene il nuovo
sovrano dell'universo.
Hòn gónon hàps anéēke mégas Krónos
aŋkylomḗtēs,
nikētheìs téchnēısi bíēphí te paidòs heoîo.
Prôton d' exḗmēse líthon, pýmaton katapínōn,
tòn mèn Zeùs stḗrixe katà chthonòs euruodeíēs
Pythoî en ēgathéēı, guálois hýpo Parnēssoîo,
sêm' émen exopísō, thaûma thnētoîsi brotoîsi... |
...Il grande Krónos dai torti
pensieri risputò i suoi
figlioli,
vinto dalle arti e
dalla forza del figlio.
Per
prima vomitò la pietra che
ultima aveva mangiato,
e
che Zeús fissò
nella terra dagli ampi cammini,
in
Pythó divina, sotto i gioghi del Parnassós,
che
un segno fosse in futuro, meraviglia
per i mortali... |
Hēsíodos:
Theogonía
[495-500] |
Il sofferto passaggio di consegne da Krónos, sovrano della
generazione titanica, a Zeús, sovrano della
generazione olimpica, sembra esclusivo del mito
greco, non trovandosi nulla di simile nel mito
egiziano. È il motivo della successione alla suprema
regalità. Stessa cosa dicasi della
scena, davvero truculenta, del vecchio re che
divora i suoi figli, di cui possiamo facilmente
immaginare le implicazioni psicanalitiche. È
anche interessante il particolare della pietra che
viene ingoiata in luogo di un figlio e che in
seguito viene fatta vomitare. Stando alla
testimonianza di Pausanías, questa pietra veniva
conservata a Delfi in piena età storica,
dove era oggetto di un particolare culto (Helládos
periḗgēsis
[X: 24:
6]).
|
PROBLEMI D'INTERPRETAZIONE
|
Rhéa consegna a Krónos una pietra avvolta
nelle fasce in luogo del figlio. |
Bassorilievo in marmo su una metopa. ±350 a.C.
Musei Capitolini, Roma (Italia). |
Quando Ploútarkhos,
opera, in De Iside et Osiride, la sua
interprætatio græca nei riguardi
dei personaggi del mito egizio, incontra tutta una
serie di incompatibilità che aggira in modo
non del tutto soddisfacente. Ad esempio,
poiché in Egitto Nût e Geb sono rispettivamente la
dea-cielo e il dio-terra, sembra ovvio che Ploútarkhos
dovrebbe identificarli con Gê e Ouranós, la dea-terra
e il dio-cielo del mito greco, i quali, come i loro
equivalenti egizi, vennero separati con a forza al
fine di garantire la continuazione del processo
creativo. Invece Ploútarkhos li identifica con
Rhéa e
Krónos, i quali
appartengono in realtà alla generazione titanica.
Il problema è che
Ploútarkhos cerca delle omologie con personaggi non
omologhi, quando forse avrebbe dovuto cercare
piuttosto delle analogie. Ma anche qui avrebbe
incontrato difficoltà insormontabili, non
ultima il fatto che in Egitto il cielo è
femminile e la terra maschile, laddove in Grecia,
come presso tutti i popoli di origine indoeuropea,
è esattamente il contrario. Non c'è
dunque alcuna possibilità di operare
associazioni tra Nût e Geb da un lato e Gê e Ouranós dall'altro,
per il semplice fatto che i sessi non
corrispondono, e Ploútarkhos mirava a comparare i
personaggi divini piuttosto che le situazioni in
sé stesse.
Ma anche a interpretare Nût e Geb secondo Rhéa e Krónos, s'incontrano
altre difficoltà, la prima delle quali
è che in tal modo viene tagliato fuori il dio separatore, che
nel mito greco è proprio Krónos. Potrebbe
forse essere questa la ragione per cui Ploútarkhos
ignora Šû e
il suo ruolo di separatore nel mito egiziano. Ma
evidentemente Ploútarkhos, sulla scolta dei sapienti
che prima di lui avevano operato comparazioni tra
il mito egizio e quello greco, segue un criterio
basato sulla posizione genealogica dei personaggi.
In Egitto
Šû era padre del cielo e della
terra, laddove in Grecia il titano Krónos ne era invece
figlio. Non vi era alcuna possibilità di
confrontare i due personaggi nelle loro funzioni.
Invece, come nel mito greco Krónos è re
della generazione titanica e padre di Zeús e degli
dèi della generazione olimpica, così
nel mito egizio Geb
è padre di Ûsr e dei suoi
fratelli e sorelle. In tal modo si giustifica l'operato di
Ploútarkhos... ma il suo è
il ragionamento del teologo e non del comparatore
di miti.
Il mito della separazione del cielo e della
terra è attestato sia in Egitto che in Grecia,
ma i protagonisti non coincidono. Si ha l'impressione che i personaggi del mito esiodeo siano stati posti a recitare in un mito di
cui non erano gli originari protagonisti. Se noi
andiamo a confrontare il mito greco con quello di
altri popoli indoeuropei, troveremmo delle omologie
a livelli dei personaggi ma nessuna analogia nella
loro funzione. I miti dell'India vedica, ad
esempio, contemplano ugualmente una dea-terra e un
dio-cielo, i cui nomi sono Pṛthivī
Mātar e Dyaus
Pītar, ma essi sono piuttosto omologhi,
anche nell'etimologia, a Dēmḗtēr
e Zeús
Patḗr. E nessun mito indiano
racconta di una loro forzata separazione a opera
di un dio atmosferico. Il dio-cielo esiodeo, Ouranós, era in
origine, probabilmente, la versione ellenica del
vedico Varuṇa,
dio dal carattere magico e terrifico, custode dei
patti e dei giuramenti, dapprima dio uranico,
in seguito trasformato in dio dell'oceano. E anche
Krónos, colui che,
assumendo il ruolo di dio separatore che altrove apparteneva a Enlil e Šû, doveva
essere in origine un personaggio affatto diverso.
Ci sarebbe molto da dire su Krónos. I filologi
negano il fatto che egli sia stato un dio del tempo
(in greco chrónos è
scritto con il chi X e non col kappa K),
ma non la pensavano così, a quanto pare, gli stessi
teologi del mondo classico. Il colpo di falce col
quale Krónos
aveva separato i genitori, era visto, su un piano
più metafisico, come l'atto che aveva
spezzato l'eternità immutabile e aveva dato
origine al flusso del tempo e dunque a questo
nostro mondo temporale che gli
Egiziani sapevano indiscindibile dalla paura e
dalla morte. Krónos era a tutti
gli effetti l'iniziatore del tempo, il signore
della felice età dell'oro. Come tale,
è forse possibile ritrovarlo in India col
nome di Yama, il primo
uomo a sperimentare la morte per divenire re
dell'oltretomba. In
Īrān è Yima, uno degli antichissimi
sovrani che Ferdowsī canta nello Šāhnāmè persiano. A Roma
viene in seguito identificato con Saturnus, un
antico dio laziale della semina e del raccolto,
anch'egli considerato il signore di un'età
remota e felice. La falce dentata di ádamas con
cui Krónos
aveva compiuto l'atto fatale, si sarebbe
specchiata nella falce presente nell'iconografia
agricola di Saturnus.
Tale falce, simbolo del tempo che tutto consuma,
sarebbe ricomparsa nelle figurazioni medievali, ma
questa volta impugnata dalla sinistra mano della
Morte.
Il mito greco sembra essere dunque una
convergenza di tradizioni. Personaggi appartenenti
all'antico fondo comune del mito indoeuropeo
vengono utilizzati da Hēsíodos in una narrazione
affatto differente, di probabile origine egiziana o
mediorientale, dove un dio opera la separazione del
cielo e della terra, che nella loro egoistica
unione impedivano la giusta continuazione
dell'opera della creazione, e quindi dà
l'avvio alla successiva generazione divina. Altra
differenza è che in Egitto Šû, dopo aver separato il
cielo e la terra, è rimasto per sempre bloccato nello spazio
intermedio, eterna colonna lì posta a impedire al cielo e
alla terra di ricongiungersi, laddove invece in Hēsíodos
Krónos si
sbarazza per sempre del problema evirando il padre
con un colpo di falce.
Ma si può ancora
notare che il mito egizio di
Šû, eliminato dalla cosmogonia
greca, sia ugualmente entrato, per così
dire, dalla porta di servizio. Lo ritroviamo
infatti nelle vesti del titano Átlas, che ai confini
del mondo è condannato a sostenere il cielo
sulle sue possenti spalle.
Constatati così i numerosi debiti che il
mito greco deve all'Egitto e al Medio Oriente,
rimangono tuttavia ampie zone d'ombra. Ad esempio, il motivo dell'evirazione di
Ouranós
è completamente ignorato nelle altre
versioni del mito della dio
separazione del cielo e della terra. Il mito greco ha dunque debiti anche con altri
popoli, e ora vedremo con chi.
|
RICERCHE IN ANATOLIA
Dice Poseidôn, dio del mare
e dei terremoti:
Treîs gár t' ek Krónou eimèn adelpheoì
hoùs téketo Rhéa
Zeùs kaì egṓ, trítatos d' Aḯdēs enéroisin
anássōn.
Trichthà dè pánta dédastai, hékastos d'
émmoretimês,
ḗtoi egṑn élachon poliḕn hála naiémen
aieì
palloménōn, Aïdēs d' élache zóphon ēeróenta,
Zeùs d' élach' ouranòn en aithéri kaì nephélēısi,
gaîa d' éti xynḕ pántōn kaì makròs Ólympos. |
Tre sono i figli di Krónos che
Rhéa generò,
Zeús, io, e terzo Hádēs
signore degli inferi.
E tutto in tre fu diviso, ciascuno ebbe una parte:
a me toccò di vivere sempre nel mare canuto,
quando tirammo le sorti, Hádēs ebbe l'ombra
nebbiosa,
e Zeús si prese il cielo fra le nuvole e l'etere;
comuni a tutti la terra e l'alto Olimpo rimane. |
Omero: Iliade
[XV: 187-193] |
Omero conosceva dunque una
generazione precedente alla olimpica, la
stirpe titanica, a cui appartenevano Krónos e Rhéa. Ma egli – come vedremo – attribuiva l'origine degli
dèi a
Ōkeanós e Tēthýs e non
trattava il mito di Gê e Ouranós e della loro
separazione.
È Hēsíodos a farlo, utilizzando personaggi
che in origine dovevano avere un ruolo del tutto
diverso, narrandoci della difficile nascita dei
Titânes, della cruenta evirazione del dio-cielo e
trattando il tema della separazione del cielo e della
terra. Una vicenda che ha sicure attinenze
con l'Egitto e l'antica Mesopotamia ma non deriva
certo dal fondo indoeuropeo.
Non tutti i dati collimano. E di sicuro altri
fattori hanno influenzato il mito greco. Ma quali?
Si è sempre saputo che nel corso del
secondo millennio a.C. il mar Egeo era al centro di
un vasto traffico di popoli, oggi assai difficile
da definire e datare. Non bisogna sottovalutare
la complessità di relazioni che nel
corso di quasi due millenni i Greci abbiano avuto
con i loro dirimpettai anatolici. La guerra di
Troia non è stato che il momento più
eclatante di questa lunga storia.
|
H̬attuša |
La Porta dei Leoni ad H̬attuša,
capitale del regno degli H̬ittiti.
Boğazköy (Turchia). |
L'Anatolia. Stiamo parlando di una
costellazione di popoli che abitava l'odierna Turchia: Lidi, Palaici, Luviani,
H̬ittiti. E più est, gli H̬urriti, che con gli Anatolici avevano da sempre
fecondi e ripetuti contatti. E tutto questo fervido mondo
culturale, ancora non ben conosciuto, risentiva
dell'influenza che arrivava, fortissima, dalla Mesopotamia. Fu per loro tramite che molti elementi
della cultura mesopotamica giunsero in tempi remoti fino alla
lontana Grecia.
Quando i cuneiformi h̬ittiti vennero
decifrati, si scoprì con sorpresa che questo
popolo apparteneva alla famiglia indoeuropea, anche
se a un ramo dai tratti decisamente arcaici. Gli
antichi miti anatolici tornarono a parlarci dopo un
silenzio di tremila anni e l'innegabile
rassomiglianza di questi con i racconti greci
balzò subito all'occhio degli studiosi.
Il padre di Hēsíodos proveniva da Cuma, una
città dell'Asia Minore. Hēsíodos, nel cantare
la Theogonía, doveva avere presenti le versioni dei miti
greci che circolavano nel suo paese di origine e che
probabilmente risentivano di tradizioni provenienti
da oriente. Ma attenzione: non si vuol
dire che Hēsíodos abbia trasportato di peso i miti anatolici in
Grecia. Più probabilmente molte versioni dei medesimi miti
s'intrecciavano in tutti i paesi intorno all'Egeo e i Greci,
specialmente coloro che vivevano sulla costa ionica, ne
conoscevano diverse varianti.
C'è un testo che gli specialisti chiamano
Kumarbis, o «Poema della regalità celeste», a sua volta
adattamento anatolico di un mito di origine h̬urrita. Il titolo non è stato scelto
a caso, perché da molto tempo gli studiosi
hanno rilevato i rapporti tra questo e la Theogonía di Hēsíodos. Il
testo, il più famoso dei molti rinvenuti nelle rovine dell'antica capitale del
regno h̬ittita,
H̬attuša
(l'odierna Boğazköy), fu
redatto verso la fine del XIII secolo a.C.. Uno
scriba a nome Ašh̬apa (questo il nome
riportato sulla tavoletta) lo redasse sulla base di
un testo ancora più antico che si era
rovinato. Purtroppo il testo che ci è
arrivato è a sua volta incompleto:
metà della tavoletta è andata
perduta e la parte conservata, fatta eccezione per
la prima colonna, presenta una superficie
fortemente abrasa. Il cattivo stato di
conservazione del testo limita di molto la
comprensione delle vicende narrate e quindi
è assai problematico comprendere appieno le
ragioni che fanno di questo importantissimo mito il
trait-d'union tra la precedente tradizione
mesopotamica e la successiva letteratura greca.
Il testo si apre con un invito agli
«dèi antichi» [karuileš
šiuneš] affinché
ascoltino la narrazione. In quanto esistenti fin
dagli albori del tempo, essi conoscono tutto quanto
è accaduto da allora e sono in grado di
testimoniarne la veridicità. Il racconto che
segue è composto in uno stile elaborato,
ricco di riprese e di apposizioni. Ma vediamolo.
Un
tempo, in anni remoti, Alalus era re nel
cielo. Alalus sedeva sul
trono e il potente Anus, il primo
degli dèi, stava davanti a lui;
si inchinava ai suoi piedi e gli
porgeva nella mano le coppe per bere.
Per nove anni contati Alalus fu re nel
cielo; ma nel nono anno Anus portò
battaglia davanti ad Alalus e sconfisse
lui, Alalus. |
E questi fuggì davanti a
lui e lontano da lui andò giù nella nera terra; andò
giù nella nera terra e sul trono sedette
Anus.
Anus sedeva sul
trono e il potente Kumarbis gli dava da bere; si
inchinava ai suoi piedi e gli porgeva nella mano le
coppe per bere. |
Per nove anni contati Anus fu
re del cielo; nel nono anno
Anus portò
battaglia davanti a Kumarbis;
Kumarbis,
rampollo di Alalus,
portò battaglia davanti ad
Anus. |
E Anus non sostenne
gli occhi di Kumarbis e
sfuggì a Kumarbis dalla sua
mano; ed egli, Anus, se ne
andò e cercò di andare in
cielo. Kumarbis si
precipitò dietro a lui e
afferrò lui, Anus, per i piedi
e lo tirò giù dal cielo.
Addentò i suoi lombi; la sua [di
Anus]
virilità si unì alle
viscere di Kumarbis come bronzo. |
Kumarbis |
I punti di contatto con il mito esiodeo sono
innegabili! Troviamo non solo il motivo della successione alla
suprema regalità, ma
anche e soprattutto quello della castrazione del
dio-cielo.
Non abbiamo alcuna indicazione che possa
aiutarci a identificare il personaggio di Alalus. Diverso però
è il caso di Anus.
Anu era il dio-cielo babilonese, tarda
semitizzazione dell'antico An sumerico. Non dobbiamo
stupirci di trovarlo nel pantheon anatolico, che
accoglie del resto altre divinità di
differente origine. È probabile che gli
dèi che compaiono nei miti h̬ittiti
non siano affatto gli dèi stessi dèi
del pantheon mesopotamico, ma siano stati a essi
assimilati (in base a chissà quali processi
di interpretazione teologica) per il
tramite della scrittura cuneiforme. Un confronto
tra l'Anus
h̬ittita e l'Anu babilonese
ci mostra immediatamente che a
Babilonia Anu mantenne sempre
intatto il suo posto di dio-cielo, situato ancora più in alto di Enlil, che era il re degli dèi, e nessuna delle
divinità inferiori si sognò mai lontanamente
di deporlo e tantomeno di castrarlo!
Dunque, l'Anus del
mito anatolico, pur essendo con tutta
probabilità un dio-cielo, poco aveva
del potente Anu
babilonese. E il motivo della sua castrazione
appartiene al fondo h̬ittita e/o h̬urrita, non certo a quello semitico.
Dunque, è proprio in questo Anus anatolico che va
cercata l'origine dell'Ouranós di Hēsíodos. L'analogia dei due personaggi è
perfetta. Il greco ouranós e il sumerico an hanno il medesimo
significato di «cielo». È
presumibile quindi che un antico dio greco chiamato
Ouranós, in
origine una divinità dai caratteri affatto diversi,
sia stato proprio ridisegnato sul calco del
dio-cielo anatolico Anus.
Altra attinenza in entrambi i miti è la
castrazione del dio-cielo. Là era Krónos a falciare via
il fallo proteso di Ouranós. Qui è
Kumarbis a strappare
con i denti la virilità di Anus. Prescidendo dalle ovvie implicazioni freudiane, che il primo
abbia usato una falce e il secondo i denti sembra
un particolare di un certo peso, ma il significato
francamente ci sfugge (si ricordi in ogni caso che
nel testo esiodeo è detto che la falce aveva
«denti aguzzi»).
Ma andiamo
avanti con la narrazione del mito:
Quando
Kumarbis ebbe
inghiottito la virilità di
Anus
si rallegrò e rise.
Anus si volse
dietro di lui e prese a dire a
Kumarbis:
«Tu
gioisci in relazione alle tue viscere,
perché hai inghiottito la mia
virilità. Non gioire per le tue
viscere! Nelle tue viscere ho posto un
peso! Guarda: ti ho ingravidato nel
potente Tarh̬unta, il dio
della tempesta; in secondo luogo di ho
ingravidato dell'irresistibile fiume
Aranzah̬ [il Tigri];
in terzo luogo ti ho ingravidato del
possente dio
Tašmišu. E due altre terribili
divinità ho posto come pesi nelle tue viscere!» |
Quando
Anus ebbe finito di parlare
salì in cielo e si nascose. |
Kumarbis, il saggio
re, sputò fuori dalla bocca;
dalla bocca sputò saliva e
sperma mescolati insieme. Ciò
che
Kumarbis aveva
sputato [...] terrore nel cielo. |
Kumarbis |
Con questa terribile prospettiva per Kumarbis, si chiude la prima tavoletta
del testo anatolico. La seconda,
purtroppo assai mutila, non permette di seguire nei
dettagli il seguito della vicenda. Assistiamo alle
difficoltà di Kumarbis di mettere al mondo
i figli di cui è stato ingravidato. Alcune
divinità, tra cui Anus ed Ea, assistono al parto di
Kumarbis, suggerendo
ai nascituri come trovare la via per uscire fuori
dal corpo del padre loro. Il primo figlio, che
dovrebbe essere Aranzah̬, dio del fiume Tigri,
viene fuori dal cranio di Kumarbis spezzandolo come si
spezza la roccia. Il secondo figlio, il dio del
tuono Tarh̬unta, esce, dice il testo,
dal «posto giusto» (e tutti ci chiediamo
quale sia). Kumarbis
si reca poi al monte Ganzura e qui dà alla
luce il terzo figlio, che secondo quanto detto
precedentemente dovrebbe trattarsi del dio Tašmišu, anche se
il testo, non chiaro, sembra presentare un altro
nome.
C'è un dettaglio interessante che si
colloca subito dopo la nascita del primo figlio
(Aranzah̬?).
Quando egli [Kumarbis?] fu in
grado di camminare, si presentò
davanti a
Ea;
Kumarbis si
piegò e cadde a terra.
Kumarbis si riscosse
e cercò (?) di nuovo suo figlio
[...] e davanti a
Ea
prese a dire: «Dammi il bambino, voglio
divorarlo!» [Qui
il brano si fa di difficile
interpretazione: si capisce però
che Ea consegna a
Kumarbis una pietra.]
Kumarbis
cominciò a mangiare ma la pietra
gli urtò i denti nella bocca;
quando gli urtò i denti nella
bocca, [Kumarbis]
cominciò a gridare... |
Kumarbis |
Kumarbis sputa la
pietra. Allora Ea
prende questa pietra e vi istituisce sopra un
culto, fissando le offerte che gli uomini dovranno
fare, ciascuno secondo le proprie
possibilità. Le offerte degli uomini
aiuteranno la nascita del secondo figlio di
Kumarbis, il dio della
tempesta Tarh̬unta, che uscirà,
abbiamo detto, dal «posto giusto».
A questo punto ci si dovrebbe aspettare che il
dio della tempesta Tarh̬unta, secondo il motivo
della successione alla
suprema regalità, spodesti a sua
volta Kumarbis e s'impossessi del
trono. Questo episodio, presupposto da altri miti, non si
trova nel
Kumarbis. Quello che
rimane del testo mostra che il desiderio di potere
del dio della tempesta viene fortemente ostacolato
dagli altri dèi. Anus lo invita alla
moderazione, Ea gli
diventa nemico e assume egli stesso la
regalità. Una lunga lacuna tra la terza e la
quarta colonna impedisce di valutare correttamente
la conclusione della vicenda. Si parla di alcuni
figli che il carro di Tarh̬unta
avrebbe generato unendosi
con la terra, unione favorita da Ea, ma non è chiaro
se questi figli dovranno segnare la fine del
contrasto tra le due divinità, oppure Ea, che ne ha favorito la nascita, abbia intenzione di utilizzarli contro lo
stesso Tarh̬unta.
Dettaglio più importante, nel mito
h̬ittita sembra mancare il motivo della separazione del cielo e della
terra. Si può solo notare che, dopo
essere stati spodestati, seppure in tempi diversi,
Alalus sia fuggito
verso il basso, «giù nella nera
terra», e Anus verso l'alto,
«in cielo».
È anche ipotizzabile che con il tempo tale
motivo non sia stato più sentito importante
di fronte a quello della successione divina, ma si
tratta soltanto di ipotesi. A parte questo
elemento, però, il parallelo tra il mito
anatolico e il testo di Hēsíodos è serrato. Le
generazioni divine si rispecchiano assai
chiaramente l'una con l'altra e possiamo
agevolmente disporle in parallelo:
Kumarbis |
Theogonía
di Hēsíodos |
|
Alalus |
Gê
|
Solo una lieve
analogia: Gê era la dea-terra, mentre di
Alalus si dice solo che dopo essere
stato spodestato scese verso la
terra. |
Anus |
Ouranós
|
Stretta omologia: si
tratta di due divinità del cielo.
Inoltre vengono entrambi castrati dal dio
della generazione seguente. |
Kumarbis |
Krónos
|
Omologia e analogia:
entrambi castrano il sovrano della
precedente generazione e ne assumono il
rango. Entrambi si presentano in una
situazione di
«gravidanza»: Kumarbis lo è dei figli
generati in lui dal seme di Anus;
inoltre, dopo averli «partoriti», minaccia di
ingoiare di nuovo. Krónos divora invece i figli avuti da
Rhéa, che in seguito è
costretto a vomitare. Infine entrambi, anche se per
ragioni diverse,
ingoiano e quindi vomitano una pietra che
diventerà oggetto di culto. |
Tarh̬unta |
Zeús
|
Analogia: si tratta di
due divinità legate al tuono (ma solo
Tarh̬unta
è un dio-tuono originario, Zeús
è un dio-cielo a cui è stato in seguito attribuito il
dominio del tuono).
Omologia: entrambe entreranno in conflitto
col padre per la
sovranità. |
Ma che gli
Anatolici conoscessero una versione del mito della
separazione del cielo e della terra, ne abbiamo la certezza
grazie a un altro mito, conosciuto dagli studiosi come
Ullikummi. Questo testo ci è
giunto in varie copie, tutte purtroppo
frammentarie, e la ricostruzione è stata
dura e travagliata.
Kumarbis un brutto
giorno concepisce un piano per vendicarsi di suo
figlio, il dio della tempesta, che in questo testo
non ha il nome h̬ittita di
Tarh̬unta
ma quello
h̬urrita di Tešub, reo di avergli
soffiato la suprema regalità. Perciò
egli lascia la sua città, Urkiš,
e, trovata una pietra di grandi dimensioni,
preso dal desiderio, si unisce a lei
ingravidandola. La roccia partorisce un bambino. Le
dee del fato lo pongono sulle ginocchia di Kumarbis che lo riconosce
come suo figlio. Il bimbo è fatto di roccia
e Kumarbis gli mette
nome Ullikummi.
All'inizio Ullikummi
viene tenuto nascosto, affinché gli altri
dèi non si accorgano della sua esistenza e
non lo uccidano. In seguito Kumarbis chiama le
divinità Irširra e ordina loro
di portare il bambino negli abissi, dove l'antico
gigante Upelluri (un
parente anatolico di Átlas e Šû) regge la
terra e il cielo, e di porlo sulla sua spalla
destra. Col tempo, Ullikummi cresce sempre di
più, finché il suo corpo emerge dagli
abissi del mare e si stende a dismisura verso il
cielo. A quel punto gli dèi si radunano sul
monte H̬azzi da dove possono scorgere,
sull'orizzonte, l'ombra smisurata del gigante.
Ne è particolarmente atterrita la
dea Šauška
(il cui nome in questo testo è trascritto
con il logogramma usato in accadico per Ištâr). E a ben
ragione: quel gigante è talmente ottuso da
non rendersi conto nemmeno della più piccola cosa,
eppure sarebbe capace di distruggere l'universo
semplicemente con la sua inarrestabile
crescita.
Šauška si reca sulla riva del
mare, dove usa tutte le sue arti nel tentativo di
sedurre il gigante: inutilmente, ché Ullikummi è cieco e
sordo, insensibile alle lusinghe e alla bellezza.
Dopo di lei Tašmišu, dio del
temporale, si prepara suscitando venti e pioggia.
Settanta dèi, guidati dal dio della guerra
Aštabi, muovono
contro Ullikummi. Il
testo è corrotto, anche se apprendiamo che
gli dèi vengono sconfitti e persino il
potente Tešub
viene abbattuto, tanto che sua moglie H̬ebat piange e si dispera,
ignorandone la sorte. Alcune righe più sotto
ecco però Tešub e Tašmišu discutere
la situazione, e dalle loro parole sembra di capire
che sia in gioco la stessa regalità suprema.
Più tardi, è lo stesso Ea a muoversi. Il saggio dio
scende negli abissi e si rivolge direttamente a
Upelluri.
«Possa tu vivere,
Upelluri, egli sul
quale il cielo e la terra furono
costruiti. [...]. Non sai nulla,
Upelluri? Non conosci
quel veloce dio che
Kumarbis ha creato
contro gli dèi? [...] Quella
diorite che è cresciuta
dall'acqua non la conosci? Quella si
è alzata come un fungo e ha
sovrastato il cielo e i sacri templi!
Forse perché, o
Upelluri, sei lontano dalla nera
terra, non conosci tale veloce dio?» |
Upelluri prese a
rispondere [ad
Ea]: «Quando costruirono
il cielo e la terra sopra di me, non seppi nulla; e
quando accadde che tagliarono il cielo e la terra con
il coltello, neppure allora seppi nulla, ma ora
qualcosa mi ferisce la spalla destra e non so chi sia
tale dio.» |
Quando
Ea udì
le parole, girò la spalla destra
di
Upelluri e la diorite
si ergeva sulla spalla come una lama
(?). |
Ullikummi [III: 27-43] |
«Tagliarono il cielo
e la terra con un coltello...» Quanto
ci piacerebbe poter interrogare noi stessi il
torpido Upelluri per
conoscere nei dettagli questo particolare della
cosmogonia h̬ittita! Apprendiamo da questo
laconico scambio di battute, che il cielo e la
terra erano stati «costruiti» in una sola
massa sopra l'abissale titano e che a un certo
punto erano stati separati tagliandoli con un
coltello.
Ea si reca
allora dagli
«dèi antichi» [Karuileš
šiuneš], i quali sono i
custodi dei magazzini dove vengono conservate le
cose dei tempi della creazione, e li investe
dicendo:
«Ascoltate le mie parole, o dèi antichi, che
[esistete] fin dall'antichità e conoscete i fatti!
Riaprite i magazzini degli antenati! Si porti il
sigillo degli antichi padri e con esso di nuovo i
magazzini siano sigillati e si porti fuori l'antica
sega con la quale si separarono il cielo e la terra e
si tagli sotto i piedi di
Ullikummi, la diorite,
che
Kumarbis fece crescere per
combattere gli dèi!» |
Ullikummi [III: 47-53] |
Il coltello qui è diventato una sega.
Quel che sia, viene subito in mente Krónos e il suo
falcetto. Un'altra lacuna alla base della terza
colonna impedisce di comprendere il seguito della
vicenda. La quarta colonna è inizialmente
mutila, dopodiché si assiste a un'altra
battaglia tra Tešub e Ullikummi. Sembra di capire
che nel frattempo gli altri dèi stiano
segando le gambe del gigante. Poiché il
finale della tavoletta è andato perduto, non
sappiamo che cosa sia accaduto. È
presumibile che gli dèi abbiano abbattuto
Ullikummi, salvando
così l'universo e frustrando i piani di
Kumarbis.
|
GLI H̬URRITI:
DÈI DI ANTICHE GENERAZIONI
Il Kumarbis era la versione
anatolica di un mito proveniente ancora più
da est. Gli h̬urriti occupavano un vasto
territorio compreso l'alta valle del Tigri, il
massiccio dell'Armenia, l'Antitauro e il deserto
siriano. Da questa posizione, essi svolsero un
ruolo di primo piano non tanto per
l'originalità della loro cultura, in gran
parte debitrice alla Mesopotamia babilonese, quanto
per la trasmissione della cultura mesopotamica verso
l'Anatolia e la Siria cananea. La loro lingua,
ancora in corso di decifrazione, non apparteneva
né al gruppo semitico né a quello
indoeuropeo, ma era imparentata con la lingua del
regno di Urarṭu, che si trovava dove oggi è
l'Armenia. Quasi tutti i testi h̬urriti che
ci sono pervenuti, quando non sono traduzioni di
composizioni babilonesi, cananee o h̬ittite, sono
testi religiosi e liste divine. Ragione per cui
conosciamo abbastanza bene il pantheon di questo
popolo.
Il dio principale era Tešub, dio del tuono,
che abbiamo già incontrato nel mito
anatolico di Ullikummi
al posto del locale dio-tuono Tarh̬unta. Sua paredra era
H̬ebat. Tra i principali
dèi figuravano
Šuwaliyat, Eya,
Šauška, Aštabi, Išh̬ara, Kušuh e Šimegi (il sole e la
luna). Lo stesso Kumarbis era un dio di
origine h̬urrita.
Le liste divine h̬urrite in genere
presentano gli dèi elencati in coppie di
maschio e femmina. Molto spesso le successioni si
ripetono nelle varie liste, facendo capire che i
teologi h̬urriti avevano un'idea assai
meditata delle gerarchie e dei poteri divini. Gli
elementi dello spazio geografico erano parimenti
divinizzati: vi era infatti una coppia costituita
da un dio-cielo e da una dea-terra, più
svariate divinità dei monti, dei fiumi, dei
laghi e via dicendo. Lo studio delle gerarchie
divine ha mostrato che l'organizzazione del
pantheon operato dagli H̬urriti ricalcava il
sistema babilonese allora in vigore. La successione
della lista di H̬attuša (Kumarbis, Eya, Kušuh̬,
Šimegi, Aštabi) è
costruita pari pari su quella babilonese (Enlil, Ea, Sîn, Šamaš, Ninurta). La presenza del
dio del tuono Tešub in posizione di
preminenza nella lista di Aleppo era determinata da
quella, già realizzata, di Adad e Ba‘al nel mondo
semitico occidentale. Insomma, la teologia
babilonese era un po' la chiave con la quale i
sacerdoti h̬urriti si erano sforzati di
interpretare il loro pantheon.
Kumarbis era una
divinità h̬urrita di un certo peso,
solo in seguito passata al mondo anatolico. Gli H̬urriti la identificarono via via al cananeo
El, oppure al
sumerico-babilonese Enlil. Si trattava in ogni
caso di un dio sentito come antico e remoto, legato
alla regalità primordiale e alla creazione.
Gli H̬urriti ponevano Kumarbis tra gli
«dèi antichi» [karuileš
šiuneš], di cui abbiamo
già fatto conoscenza nell'Ullikummi,
coloro che custodivano il coltello che aveva
separato il cielo e la terra. Troviamo questi
«dèi antichi» elencati in varie
liste o rituali h̬urro-h̬ittiti. Una
lista dei loro nomi è la seguente:
-
Nara e Napsara
-
Minki e Munki
-
Tuh̬usi e Ammizadu
-
Alalu
-
Kumarbis
-
Anu e Antum
-
Enlil e Ninlil
Si tratta evidentemente di una forma locale
degli Anunnaki
sumerici, gli dèi mesopotamici della vecchia
generazione, che, secondo alcuni testi, risiedevano
nel profondo della terra. Il fatto che tutte queste
divinità h̬urrite venissero chiamate
«antiche», appartenenti a un tempo ormai
trascorso, e che nessuna di queste (a parte Kumarbis) svolgesse un ruolo
apprezzabile nel mito, né fosse oggetto di
sacrifici e preghiere, provano che abbiamo a che
fare con dèi in pensione, decaduti,
riprovati, rigettati nelle tenebre degli abissi.
Se a questo poi aggiungiamo il fatto che gli
«dèi antichi» della lista
h̬urrita sono in dodici e, con la sola
eccezione di Alalu e
Kumarbis, disposti a coppie di una divinità maschile
con l'equivalente femminile, non si può fare a meno di
constatare che anche in Hēsíodos i
Titânes erano in dodici, erano
disposti in coppie e vennero
relegati nelle viscere della Terra. Al Kumarbis
h̬urro-h̬ittita corrisponde dunque, in
Hēsíodos, Krónos
«dai torti pensieri». È evidente
che stiamo scendendo alle origini stesse del mito
greco.
Dietro a questi miti profila la nozione di una
regalità divina che passa da una dinastia
alla successiva, di un potere trasmesso da una generazione
titanica a una generazione divina, da forze cosmiche e
disordinate a energie coscienti e razionali. L'idea è quella che abbiamo trovata
sottesa a tutta la mitologia h̬ittita, che
è per buona parte di origine h̬urrita.
Il ciclo di Kumarbis
è per noi testimonianza eccellente di questa
storia mitica, che Hēsíodos avrebbe infine trasmesso
al mondo classico ma di cui nell'VIII secolo lui
era soltanto l'ultimo cantore in occidente.
Il mitema della successione alla suprema
regalità era già era presente
nel grande mito babilonese dell'Enûma
Elîš, ma lo troviamo diffuso,
in una forma piuttosto diversa, in ambito
indoeuropeo. Ci si può ancora chiedere quale
fosse l'origine di questo motivo presso gli
H̬urriti: vi erano senza dubbio profonde
radici babilonesi... ma indoeuropee? Ebbene, nella
mitologia h̬urrita era presente, in un certo
grado, una componente indoeuropea, giunta nella
regione all'epoca in cui le tribù h̬urrite si erano unite in uno stato
politicamente organizzato, il regno di Mitanni,
nell'alta Mesopotamia. Gli dèi di Mitanni
erano conosciuti già dalla fine
dell'Ottocento, quando dagli archivi di al-‘Amārna,
in Egitto, era venuta alla luce la lettera del re
Tušratta al faraone Ỉmen-ḥutep/Aménophis. Essi erano: Tešub, Šauška ed Eašarri.
Nel 1907, però, fu rinvenuto, negli scavi
di H̬attuša, in Anatolia, un trattato,
redatto questa volta in accadico, del re h̬ittita Šuppiluliuma I (1380 a.C.), il
quale regolava le sorti del paese dei Mitanni dopo
la sua conquista a opera degli H̬ittiti,
enumerando quali garanti del trattato sia gli
dèi anatolici che quelli h̬urriti.
È una lista abbastanza strana, dove mancano
grandi divinità nazionali come Kumarbis, Hebat e
Šauška, ma troviamo elencate delle
divinità che non ci saremmo mai aspettati di
trovare, quali Mitrašil, Uruwanašil, Indara e Nasatianna. Queste erano le
divinità di una casta militare di origine
proto-ariana, i maryani, i cui membri, per
ragioni che rimarranno per sempre sconosciute,
offrivano i propri servigi nel regno di Mitanni.
Per quanto h̬urritizzate, queste
divinità rivelano i nomi degli dèi
più importanti dell'India vedica: Mitra e Varuṇa, Indra, i due Nāsatya, e
perdipiù disposti nello stesso ordine
funzionale in cui compaiono negli inni del Ṛg-veda.
Ora gli indiani, membri rispettabilissimi della
grande famiglia indoeuropea, conoscevano l'antico
mito della titanomachia, essi sapevano
che gli antichi Asura
si erano scontrati con i più giovani Deva. È forse un po'
troppo ottimista andare a cercare in India i
dettagli del passaggio di consegne tra generazioni
divine che abbiamo visto attestato in Hēsíodos e nei
miti h̬urro-h̬ittiti. Si può
solo far notare che gli «dèi
antichi», che in Grecia sarebbero stati
identificati con i Titânes, avevano in India una
corrispondenza con gli Asura. Non ci può
istituire un parallelo preciso, né
comprendere i quale modo le divinità indiane
siano state recuperate dai teologi h̬urriti.
I Greci, tuttavia, che con gli Indiani avevano in
comune le medesimi radici indoeuropee, non devono
aver fatto molta fatica a riconoscere in queste
storie di lotte tra generazioni divine che
arrivavano loro dall'Anatolia, i loro stessi miti
più antichi. |
CONCLUSIONE
Il tema della separazione
del cielo e della terra, che presenta molti
tratti simili tra svariati popoli
dell'antichità, può essere riassunto
in questi punti:
-
L'origine di tutte le cose è una
situazione di confusione caotica, vista in forma
liquida o intesa come spazio vuoto.
-
Prima cosa a emergere dal caos sono il cielo e la terra,
così strettamente avvinti l'uno all'altra da non lasciare
alcuno spazio perché altre cose possano venire alla luce.
-
Alla seguente generazione divina viene impedita una
nascita.
-
Quest'impedimento alla successiva evoluzione
dell'universo è superata grazie a un dio separatore, un
dio atmosferico che separa il cielo e la terra,
costringendo il primo verso l'alto e la seconda
verso il basso, e facendo così spazio per
la successiva creazione.
-
Nasce una nuova generazione divina, che
spodesterà il vecchio dio separatore e
procederà nel motivo della successione alla suprema
regalità, dando spazio all'ultima
generazione divina.
Le origini di questo mito sembrano essere
mesopotamiche. Ne troviamo tracce tra i Sumeri, che a quanto
pare ne conosceva una qualche versione in epoca precedente
all'invasione semitica. Le origini degli stessi Sumeri non
sono ben chiare: questo antichissimo popolo, che
parlava una lingua agglutinante, sembra fosse
giunto nella fertile vallata tra il Tigri e
l'Eufrate proveniendo dal nord, forse
dall'Anatolia, ma non è stato mai possibile
localizzare la sua patria ancestrale. Nel corso dei
secoli, dopo l'invasione semitica, la mitologia
sumera formerà la base sulla quale Assiri e
Babilonesi costruiranno le loro imponenti creazioni
mitologiche.
Intanto, a nord della Mesopotamia erano
stanziati gli H̬urriti, altro popolo non
classificato dal punto di vista linguistico, la cui
cultura era pesantemente debitrice di quella
mesopotamica. Alcuni elementi della cultura h̬urrita erano stati importati nel regno di
Mitanni da un'immigrazione di proto-ariani, i quali
avevano condotto nel bel mezzo della Mesopotamia le
divinità vediche, creando quindi un importante ponte
con il mondo mitico indoeuropeo.
A
nord-est del territorio degli H̬urriti si stendeva
l'Anatolia, già teatro dei primissimi
insediamenti urbani della civiltà umana
(Çatal Hüyük). Nel secondo
millennio a.C., l'Anatolia era abitata da una
costellazione di popoli affini per lingua e per
cultura. Gli H̬ittiti erano i più
noti, ma H̬attici, Lidi, Luviani e Palaici
erano altri membri rispettabilissimi di tale
famiglia. Tali lingue apparivano correlate alle
indoeuropee, essendosi evidentemente distaccate dal
tronco principale in un'epoca remota, tanto che gli
studiosi preferiscono parlare di lingue indoittite,
raccogliendo in un'unica famiglia i due rami anatolico e indoeuropeo. La cultura anatolica
risentiva a sua volta, grazie alla mediazione h̬urrita, della forte influenza mesopotamica,
a cominciare dalla scrittura cuneiforme babilonese
che essi avevano ingegnosamente adattato alle loro
necessità fonetiche. Il pantheon h̬urro-h̬ittita,
come appare nel
Kumarbis e nell'Ullikummi,
sembra essere una combinazione di elementi
indoeuropei, h̬urriti e mesopotamici. Il tema
della successione alla
suprema regalità ha molti elementi
indoeuropei, il motivo della separazione del cielo e della
terra è invece
probabilmente originato dalla grande matrice afroasiatica.
I popoli di lingua anatolica, abbiamo detto, si
erano separati assai precocemente dal grande tronco
delle lingue indoittite. L'altro ramo, quello delle
lingue indoeuropee, avrebbe dato origine a una
vasta esplosione di popoli che, nel corso di molti
millenni, avrebbe invaso a ovest l'intera Europa,
dalla Grecia alla Britannia, a est l'Irān e
l'India, fino a spingersi nel Turkestān
cinese. Indiani, Iranici, Armeni, Greci, Illirici,
Italici, Celti, Germani, Slavi e Baltici furono le
schegge di questa grande esplosione e, poiché
conosciamo la mitologia di molti di questi popoli,
possiamo essere sufficientemente sicuri che il loro
sistema mitico non prevedesse il mitema della successione alla suprema
regalità.
In questi miti, a operare
l'impresa di scissione del cielo e della terra
è sempre un dio
separatore, in genere legato all'elemento
atmosferico. È Enlil nel mito
sumerico,
Šû in quello egiziano. Il vento
sarà anche il mezzo con cui analoghe imprese
compiranno Yahweh nel
mito ebraico e Marduk
in quello babilonese, anche se in questi casi non
saranno il cielo e la terra a venire separati
bensì lo stesso caos acqueo primordiale,
come vedremo nel prossimo capitolo. (Al contrario,
in tutti i miti indoeuropei di cui conosciamo gli
esiti, cioè in India, in Irān, tra i
Germani e tra i Celti, non troviamo mai il motivo
della separazione del cielo e
della terra, bensì un motivo
differente, che è quello del sacrificio del macroantropo.)
La mitologia greca era dunque nata dalla fusione
di diversi substrati. Da un lato il fondo
indoeuropeo, dall'altro un forte influsso
mediorientale. È fuori di dubbio,
confrontando i vari testi, che la mitologia greca,
così come Hēsíodos l'aveva codificata nel suo
imponente sistema, risentiva di influssi anatolici,
i quali a loro volta, per tramite h̬urrita,
provenivano dalla Mesopotamia. Tali tradizioni di
origini mediorientali erano state incorporate nel
mito greco, costringendo Hēsíodos (o i suoi ignoti
predecessori) a rielaborare i personaggi
dell'antica tradizione indoeuropea in un senso
affatto nuovo. Ecco dunque che antiche
divinità come Ouranós e Krónos (i cui
archetipi sembrano essere stati divinità
assimilabili agli indiani Varuṇa e Yama) vennero rilette in
funzione delle idee mitiche mediorientali. Vedremo
in seguito come altri substrati siano giunti in
Grecia da direzioni diverse. Sembra che l'idea di
un caos acqueo sia giunto in Grecia dall'Egitto.
È fuor di dubbio, in ogni caso,
che fin dai tempi più remoti vi fu un'infinità
di scambi attraverso il Medio Oriente e il
Mediterraneo orientale; facile immaginare che
un'infinità di idee e concezioni mitiche si
siano intrecciate in quest'area fin dai primordi della civiltà
ellenica.
Parallelamente, però il motivo della separazione del cielo e della
terra era comparso anche sull'altra sponda
del Mediterraneo, tra gli Egizi, dove aveva assunto
una forma peculiare. La maggiore differenza dell'Egitto
col modello sumero-anatolico-greco è
l'inversione di sessi tra il cielo e la terra. Si
potrebbe pensare a un'interpretazione locale di
un'antica tradizione, senonché Joseph
Campbell fa notare come le attinenze culturali tra
Egitto e Medio Oriente, in una fase precoce della
loro storia, facciano pensare piuttosto a un comune
retroterra culturale. Campbell, che
in questi studi si riallaccia alle teorie del noto
africanista Leo Frobenius, pensa a una matrice
mitogenetica che abbia avuto la loro origine
nell'antica civiltà del Sahara.
Ma qui non vi è più nulla di
certo, soltanto ipotesi affascinanti sulla storia
della cultura umana. Se poi volessimo tornare
ancora più indietro a cercare l'origine di
questi mitemi, finiremmo davvero stupiti
nell'accorgerci che il tema della separazione del cielo e della
terra è diffuso, in molte varianti,
nei miti di tutto il mondo. Lo troviamo in Cina e
in Tibet, lo troviamo in Polinesia con tratti
straordinariamente simili al mito greco, lo
troviamo in America. Alla fine saremmo davvero
costretti a risalire alle origini stesse
dell'umanità.
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MITI SUMERICI
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MITI EGIZIANI
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MITI GRECI
(Hēsíodos) |
MITI ANATOLICI
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0 |
Situazione
caotica primordiale vista come massa
d'acqua indifferenziata: Abzu. |
Situazione
caotica primordiale vista come massa
d'acqua inerte e stagnante, il
Nûn. |
Situazione
caotica primordiale vista come spazio di
confusione degli elementi, il
Cháos. |
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1 |
La montagna
cosmica
Hursaganki, insieme cielo e terra, emerge
spontaneamente dall'Abzu. |
L'altura
primordiale emerge spontaneamente dal
Nûn. Sopra di essa si trova il
dio-sole
tum-Reʿ, il quale genera
Šû e
Tefnût, i quali generano a loro volta
Nût e
Geb, dea-cielo e dio-terra. |
La dea-terra
Gê emerge spontaneamente dal
Cháos, e in seguito genera
Ouranós, il cielo stellato. |
Cielo e terra
sono stati «costruiti» in
un'unica massa solida. |
2 |
An
e Ki,
cielo e terra, sono uniti in un
accoppiamento cosmico che blocca di fatto
ogni successiva evoluzione del processo
creativo. |
Nût e
Geb, cielo e terra, sono uniti in
un accoppiamento che blocca di fatto ogni
successiva evoluzione del processo
creativo. |
Una maledizione
lanciata da
tum impedisce a
Nût di partorire i suoi
figli. |
Ouranós e
Gê sono uniti in un accompiamento
cosmico.
Ouranós impedisce ai figli, i dodici
Titânes generati nel ventre di
Gê, di venire alla luce. |
Nasce la prima
generazione divina, quella degli
«dèi antichi»
[karuileš
šiuneš]. |
3 |
Enlil, il dio dell'aria e
dell'atmosfera, provvede alla separazione
dei genitori, spingendo in alto il cielo e
in basso la terra. |
Šû, il dio dell'aria e
dell'atmosfera, provvede alla separazione
dei figli, spingendo in alto il cielo e in
basso la terra. |
Il dio della
sapienza
Ḏeḥûtî escogita un piano che dà
a Nût la possibilità di
sgravarsi. |
Krónos, l'ultimo dei figli di
Ouranós e
Gê, evira il padre e separa il
cielo e la terra. In tal modo i
Titânes ancora stipati nel ventre di
Gê possono venire alla
luce. |
Cielo e terra
vengono separati con un coltello (o una
sega). |
Alalus viene sconfitto da
Anus e cacciato nella terra;
Anus viene sconfitto da
Kumarbis e cacciato in cielo.
Kumarbis evira
Anus ingoiandone la virilità. |
4 |
Superata questa
difficoltà, prosegue il processo
teogonico nelle successive generazioni
divine [AMA-A-A]. |
Superata questa
difficoltà, prosegue il processo
teogonico nelle successive generazioni
divine [pesdet]. |
Superata questa
difficoltà, prosegue il processo
teogonico nelle successive generazioni
divine [Olimpici]. |
Prosegue il processo
teogonico nelle successive generazioni
divine [Tarh̬unta
e i suoi fratelli]. |
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