VITERBO

Città di origine etrusca ma fieramente medievale, Viterbo era dotata di sei nobiltà, tra cui la bella Galiana, donna di impareggiabile bellezza, tuttora orgoglio e vanto del capoluogo della Tuscia.

MITI
  1. Il castello di Ercole
  2. La «troia» e il leone
  3. La bella Galiana
  4. Le sei nobiltà di Viterbo
    Fonti

SAGGI
  1. La città di Viterbo
  2. Le origini etrusche, greche e bibliche di Viterbo
  3. Ercole, il fondatore
  4. La Galiana storica
  5. La leggenda della bella Galiana

1 - IL CASTELLO DI ERCOLE

arrano che Iafet, figlio di Noè, lasciati i monti dell'Ararat, dove si era posata l'Arca, si recò in Inghilterra dove fondò Londra ed altre città. I suoi figli, dopo essersi sparsi per le terre circostanti, scesero infine in Italia costruendo vari castelli e città. Tra questi vi era un barone chiamato Corinto, che alcuni dicono figlio di Iafet, la cui moglie Elettra aveva fama di essere saggia quanto bella. Suo fratello Tusco fondò la città di Arezzo, dove istituì molti altari; altri due suoi parenti, i fratelli Italon e Savio, scesero a sud del lago di Bolsena e lì, in una zona dove si trovavano abbondanti sorgenti sulfuree, fondarono due città: la prima chiamata Surrena, l'altra chiamata Muserna.

Le città di Surrena e Muserna divennero ben presto ricche e popolose, si combatterono e si distrussero a vicenda.

In seguito capitò in quel paese un valente eroe chiamato Ercole, conducendo i buoi che aveva rubato a Gerione. Vedendo il bel paese devastato dalla guerra e le terre disfatte, egli edificò un castello, che venne chiamato Castrum Herculi, e gli donò, quale simbolo, il leone la cui pelle egli usava come mantello. In questo luogo, alla confluenza dei fiumi Urcionio e Paradosso, sorse la città chiamata Etruria Urbs, composta inizialmente da quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula. (Altri dicono che fu Noè stesso che, sotto il nome di Enotrio o di Giano bifronte, che giunse in Etruria e fondò queste quattro fortezze.) Fu un nipote di Ercole, Terbo Tirreno, il capostipite dei Terbienses.

I quattro abitati etruschi di Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula rimasero separati per molti secoli, finché Desiderio, ultimo re dei Longobardi, emanò un decreto con il quale si cingevano con unico giro di mura. Così nacque la città di Viterbo.

 

2 - LA «TROIA» E IL LEONE

ltri dicono che Viterbo venne fondata da alcuni esuli troiani, sbarcati sulle coste d'Etruria dopo la distruzione della città natia ad opera degli Achei. Secondo quanto era stato profetizzato, una scrofa dal manto bianco apparve loro indicando il punto dove avrebbero dovuto stabilire la loro nuova patria. Dopo aver fondato la nuova città, gli esuli presero a nutrire e venerare il feroce animale, che chiamarono «troia» in ricordo della patria perduta e consacrarono alla loro dea Elena.

In seguito a questi fatti, i cittadini di Viterbo furono impegnati, per volere della dea, ad un sacrificio annuale. Ogni anno, nel corso delle festività primaverili, essi avrebbero consegnato alla «troia» una vergine di diciotto anni, sorteggiata fra le ragazze più belle e virtuose della città. La fanciulla veniva condotta fuori dalle mura cittadine, presso il fiume Paradosso, e là veniva denudata e legata a un macigno. La popolazione si ritirava poi ad una certa distanza e assisteva all'arrivo della sacra scrofa che, emersa dal bosco, divorava la sua vittima.

La barbara usanza si perpetuò nel tempo ed era ancora in uso all'inizio del XII secolo; nonostante fosse trascorso tanto tempo, la scrofa era ancora lì, ansiosi di nutrirsi delle carni di una vergine, come esigeva il patto che gli esuli troiani avevano anticamente stretto con la loro dea. Ma gli abitanti di Viterbo, con l'avanzare della civiltà e l'ingentilirsi degli animi, non accettavano più l'idea di questo assurdo sacrificio, a cui pure si piegavano tra le lacrime. L'avvicinarsi del giorno di Pasqua giungeva come un incubo, diventando un giorno di lutto e non più di festa.

Accadde così che a Viterbo, in una bella casetta, nacque Galiana, una fanciulla di modesta origine, la cui impareggiabile bellezza era pari soltanto alle sue virtù. Ed accadde che, quando Galiana compì diciotto anni, proprio lei fu estratta a sorte per essere sacrificata alla scrofa bianca. I Viterbesi ne provarono dolore e sgomento, ma il fato aveva designato Galiana all'orribile sorte e nessuno poteva impedirlo. Così Galiana fu condotta sul luogo del sacrificio, venne fatta spogliare e fu legata al macigno.

Quando l'orologio della torre comunale suonò i rintocchi del mezzogiorno, la scrofa bianca emerse dalla foresta. Ma mentre l'animale si avvicinava alla fanciulla per divorarla, dal limite del bosco uscì un leone che, avventandosi sulla scrofa, la dilaniò con quattro terribili colpi dei suoi artigli. Mentre l'orologio suonava nuovamente dodici rintocchi, il leone, così com'era apparso, nuovamente scomparve.

La città di Viterbo, riconoscente per essere stata liberata dal crudele tributo di sangue, rimosse il vecchio emblema della città, che fino a quel giorno aveva raffigurato un cavallo o un liocorno, e fece dell'immagine del leone, con accanto la pelle bianca della scrofa con le quattro ferite rosse poste in croce, l'emblema civico.

 

3 - LA BELLA GALIANA

osì avvenente era la bella Galiana che i giovani venivano anche da paesi lontani per poterla ammirare e chiederla in sposa. Ma Galiana, fidanzata con un giovane contadino chiamato Marco, respingeva ogni proposta, anche se avanzata da nobili. Si narra che un giorno Giovanni di Vico, discendente di una potente famiglia prefettizia di Roma, venne nella cittadina della Tuscia appositamente per ammirare la stupenda ventenne viterbese di cui non si fa che lodare in ogni dove l'incomparabile bellezza. Il nobile vide la fanciulla uscire con un'amica dalla chiesa di San Silvestro e, avvicinatosi, le fece un inchino, ma Galiana neppure lo degnò d'uno sguardo.

Nei giorni successivi, Giovanni compì ogni tentativo per avvicinare Galiana, parlarle, dichiararle il proprio amore, con l'unico risultato di sentirsi riferire che la ragazza non gradiva la sua corte e lo pregava di desistere dalle sue insistenze. Ferito nell'orgoglio da questo rifiuto, Giovanni stabilì di rapire la ragazza. Così, in una notte particolarmente buia, Giovanni  si arrischiò ad arrampicarsi con una fune fino alla finestra della camera dove dormiva Galiana. Pare che un fulmine colpisse quella notte la campana della torre Monaldesca, che risuonò su tutta la città. I cittadini accorsero e impedirono al nobile romano di portare a termine il suo piano. I priori bandirono Giovanni di Vico da Viterbo, proibendogli il ritorno in città, pena la morte.

Passò del tempo e Giovanni, radunato un esercito, marciò contro Viterbo, minacciando di prendere d'assedio la città se Galiana non fosse stata sua sposa. La risposta dei Viterbesi fu un netto e chiaro rifiuto. Allora il nobile mise in atto il suo piano. Cinse d'assedio Viterbo e concentrò i suoi sforzi dalla parte di Valle Faul, che era la più vulnerabile.

 

 

 

 

Porta di Valle e la Torre detta della Bella Galiana.

 

Secondo la tradizione, fu dalla lunetta di questa torre che si affacciò per l'ultima volta la bella Galiana. In realtà la torre, chiamata Torre Branca, è posteriore agli avvenimenti, essendo stata fatta costruire nel 1295, dal podestà di Viterbo Orazio di Corrado Branca.

   

Ma il popolo in armi seppe respingere ogni assalto, infliggendo gravi perdite alle truppe prefettizie. Si racconta che le donne viterbesi stavano a fianco degli armati sulle mura e che, anzi, proprio ad una di esse toccò la ventura di scagliare la freccia che colpì Giovanni, ferendolo gravemente. Allora il nobile romano fece sapere ai Viterbesi che se ne sarebbe andato, a patto che gli mostrassero Galiana. Egli si sarebbe accontentato di ammirarla per l'ultima volta, poi avrebbe tolto l'assedio.

I priori si rivolsero a Galiana, la quale accettò per amor di patria. Il giorno successivo la ragazza si affacciò da una lunetta nella torre di Porta di Valle, quando una freccia scoccata da un soldato prefettizio la colpì alla gola. È incerto se il soldato scagliasse la freccia per sua iniziativa, o se compì il misfatto per ordine dello stesso Giovanni. La ragazza cadde morta. Molto violenta fu la reazione dei Viterbesi, i quali uscirono dalle mura in armi, guidati da un certo Guerriante, e costrinsero alla fuga le schiere prefettizie. Sembra che anche Giovanni di Vico morisse per le ferite riportate.

Era l'anno 1138. Il corpo di Galiana fu tumulato in un sarcofago che era stato tratto, dicono alcuni, dall'antico masso del sacrificio, sul quale venne scolpito il miracolo del leone e della strofa. Il sarcofago fu portato nel portico della chiesa dedicata all'Angelo con la Spada, dove ancora oggi si può ammirare.

 

4 - LE SEI NOBILTÀ DI VITERBO

i narrano i cronisti locali, che sei nobiltà adornavano la città di Viterbo.

La prima era la libertà: Viterbo era un comune indipendente e non rendeva conto a nessuno.

La seconda era un altare viareccio o carroccio, preso nella Martana, isola del lago di Bolsena, dove era stato lasciato dai Goti, i quali lo avevano condotto là da Ravenna. I Viterbesi, ovunque conducessero quel carroccio, risultavano vincitori in ogni guerra intrapresa. Infatti, il carroccio fu in seguito donato al papa Innocenzo III, il quale lo donò all'imperatore Enrico, figlio di Federico Barbarossa. Non appena i Viterbesi si privarono dell'altare viareccio, cominciarono a subire molte traversie e molestie, che culminarono con la solenne sconfitta nella battaglia di Monterazzano (1193).

La terza nobiltà era ovviamente la bella Galiana. Era così bella, e la sua pelle era così candida, si dice, che quando beveva del vino rosso, lo si vedeva scendere in trasparenza attraverso la gola.

La quarta nobiltà era una donna di nome Anna, che aveva i capelli rossi da una parte e verdi dall'altra.

La quinta nobiltà era un cavallo grande, bello ed animoso, famoso in tutta Italia, tanto che molti valenti cavalieri venivano apposta a Viterbo ad ammirarlo.

La sesta nobiltà era Frisigello, un giullare abilissimo, del quale non se ne trovava pari, e che faceva giochi meravigliosi di nove maniere.

 

Fonti

1

  • Frate Francesco d'Andrea: Cronaca Viterbese

  • Giovanni Nanni (Annio): Commentari

2-4
  • Niccolò della Tuccia.

I - LA CITTÀ DI VITERBO

Viterbo è un comune con poco più di sessantamila abitanti, capoluogo dell'omonima provincia. Centro della Tuscia, è situata a ridosso dei monti Cimini, tra il lago di Bolsena e il lago di Vico.

L'origine della città è etrusca, come testimoniano resti di edifici etruschi sul Colle del Duomo, tra cui probabilmente un tempio dedicato ad Ercole. Quest'insediamento, chiamato probabilmente Surna o Surrena, sorgeva su una collina che si ergeva solitaria, come una fortezza naturale, alla confluenza dei torrenti Paradosso e Urcionio. Il luogo fu tuttavia conquistato dai romani verso la fine del 310 a.C., quando Fabio Rulliano invase i territori al di là dell'inviolabile Silva Ciminia, secondo la testimonianza di Tito Livio. I Romani costruirono una città sull'antistante colle del Riello (Surrina Nova), dove una le sorgenti sulfuree del Bullicame ermisero lo sviluppo di fiorenti centri termali, a cui si aggiunsero edifici, ville e costruzioni lungo il primitivo tracciato della consolare Cassia. La Vetus Urbs, cioè la vecchia città, tornò alla primitiva funzione di sicuro rifugio al tempo delle invasioni barbariche, per diventare il Castrum Viterbii, fortificazione longobarda posta al confine tra i possessi longobardi della Tuscia e il ducato bizantino di Roma. Il castello è ricordato nella donazione di Sutri tra i possessi che Liutprando elargì alla Chiesa nel 729; Desiderio (756-772) vi si ritirò da Roma, che aveva rinunciato ad attaccare. La prima menzione della città di Viterbo è in un documento, la cartula convenientiæ, stilato a Tuscania nel 768 e conservato nell'Archivio del Monte Amiata, dov'è nominato tale Aimone habitatore castello Veterbo. Risale all'852 un documento papale che riconosce il Castrum Viterbii proprietà delle terre di San Pietro.

Nel 1099 la scelta dei primi consoli sanciì il passaggio della città a libero comune. Divenuta cattedra vescovile nel 1194, la città accrebbe in prestigio e peso politico. La pressione del papato spinse tuttavia Vierbo a invocare la protezione di Federico II: si aprì così, fino alla metà del XIII secolo, un periodo di lotte interne tra guelfi (famiglia Gatti) e Ghibellini (famiglia Tignosi). Il fallimento dell'assedio della città da parte di Federico II, nel 1243, sancì il successo della parte guelfa finché i pontefici scelsero Viterbo come sede papale dal 1270 circa. È il periodo di massimo splendore di Viterbo, sia economico, quale centro posto lungo la Cassia, e architettonico, con l'edificazione di edifici, torri e chiese.

Con l'esilio avignonese iniziò la decadenza della città. La storia successiva di Viterbo seguì le sorti dello Stato della Chiesa, e con l'età moderna la città imboccò un lungo periodo di scarsa vitalità, economica, politica e culturale. Oggi Viterbo è una piccola cittadina accogliente, che conserva molte memorie del suo passato, tra cui il quartiere medievale di San Pellegrino, splendidamente conservato, il Palazzo dei Papi e un giro di possenti mura che circondano quasi completamente il centro storico. Dal punto di vista architettonico presenta dei tratti piuttosto originali, tra cui le caratteristiche fontane a fuso e i famosi profferli: le scalinate ad arco che adornano le facciate degli edifici più antichi.

 

II - LE MITICHE ORIGINI ETRUSCHE, GRECHE E BIBLICHE DI VITERBO

Le leggende più conosciute riguardarti le origini della città di Viterbo le dobbiamo ad alcuni cronisti del quattrocento, che attinsero ad uno storico del XII secolo, chiamato Lanzillotto. L'ipse dixit è naturalmente processo comune a quanti intendevano nobilitare i propri racconti riferendoli a presunte fonti più antiche e autorevoli, delle quali è lecito dubitare. L'autore della Cronaca viterbese, frate Francesco d'Andrea, così principia il suo lavoro verso la metà del Quattrocento:

Io frate Francesco d'Andrea della città di Viterbo, scriverò alcuni ricordi antichi trovati in certi libri e memoriali d'antiqui authori et de Viterbesi, dei quali farò mentione in breve parole delle novità di Viterbo, et d'altri lochi scripti del dicto paese de Viterbo, et comenzeremo da Iafet uno dei figlioli di Noè, il quale partendosi dalli fratelli dalla montagne d'Armenia dove vi posò l'archa del diluvio, e pigliando la via verso Europa nostra....

Frate Francesco d'Andrea: Cronaca viterbese

Secondo frate Francesco d'Andrea, le origini di Viterbo prenderebbero l'avvio da un certo Corinto, figlio di Iafet figlio di Noè, il quale giunse in Etruria in tempi antichissimi con i suoi parenti, uno dei quali, Tusco (evidente eroe eponimo degli Etruschi) fondò città e altari nella regione di Arezzo; altri due suoi parenti, i fratelli Italon e Savio, scendendo in quello che ai tempi del cronista era il  «Patrimonio di Viterbo», vi avrebbe fondato due città, Surrena e Muserna, la prima delle quali innalzata nei pressi del Bullicame, le sorgenti sulfuree sparse nelle campagne a nord-ovest della città - ricordate anche da Dante -, che già in epoca romana erano un rinomato centro termale. I nomi di queste due città, che nel racconto di Andrea si sarebbero distrutte a vicenda combattendo tra loro, sono evidentemente etruschi, segno che alcune delle tradizioni a cui il cronista attinse erano di grande antichità.

 

 

 

 

Il Leone, simbolo di Viterbo
Monumento in Piazza del Plebiscito

   

La versione alternativa della fondazione di Viterbo la dobbiamo a un frate domenicano viterbese, Giovanni Nanni detto Annio, singolare figura di umanista, letterato, filologo e orientalista, vissuto tra il 1432 e il 1502. Nei suoi Commentari, secondo il gusto dell'epoca, volle anch'egli glorificare la propria città e, come già aveva fatto frate Francesco d'Andrea, propose anche lui un improbabile intreccio tra genealogie bibliche e miti greci, fondendo il tutto con l'eredità etrusca che proprio in quegli anni cominciava a suscitare l'interesse degli studiosi. Le argomentazioni anniane dovettero godere di un certo credito, a tal punto che alle sue tesi si dedicò un ciclo di affreschi nella Sala Regia e nella Sala del Consiglio del Palazzo dei Priori di Viterbo. Annio riporta tuttavia la fondazione del primo nucleo della città allo stesso Noè (che nel suo scritto viene anche identificato con Enotrio e Giano Bifronte, in quanto vide i due aspetti del mondo antidiluviano e postdiluviano), a cui viene attribuita la costruzione dei quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula, la mitica Tetrapoli Viterbese il cui acrostico FAVL fa tuttora parte dello stemma cittadino. Anche qui compare Ercole quale costruttore del Castrum, primo nucleo della città qui chiamata Etursia o Etruria Urbs, traversata dai fiumi Urgionus, Vetuloniensis e Paratussus (Urcionio e Paradosso), con il tempio del Fanum Voltumnæ (che è veramente esistito, ma non dove lo ipotizzò Annio), nel locus sacer degli Etruschi, posto poco fuori dall'abitato.

Dopo aver menzionato addirittura Atlante, Corinto e Iasio come successivi regnanti, Annio vide nel nipote di Ercole, Terbo Tirreno, il capostipite dei Terbiensis, eroe eponimo della città di Viterbo. Quindi Annio si rivolge a Tarconte, personaggio della mitologia etrusca, eroe eponimo di Tarquinia, a cui egli attribuisce addirittura la fondazione della dodecapoli etrusca. La genealogia anniana coinvolge persino Desiderio, ultimo re dei Longobardi, a cui è attribuito un decreto con cui si cingevano con mura i quattro castelli della Tetrapoli. Come prova, Annio presentò una ruota semicircolare in marmo (attualmente al Museo Civico della città) rinvenuta casualmente tra le rovine dell'antica Torre Damiata presso Piazza della Morte, incisa in caratteri longobardi, ma poi dimostratasi un falso.

 

III - ERCOLE, IL FONDATORE

Dove Francesco d'Andrea e Giovanni Nanni detto Annio sono d'accordo, è la fondazione, per opera dell'eroe greco Ercole, di una fortezza sull'attuale Colle del Duomo, il Castrum Herculi. La notizia deriva da Niccolò della Tuccia che, rifacendosi alle memorie scritte del cronista Lanzillotto, riferisce che Ercole «edificò uno bel castello, che fu chiamato il Castello di Ercole, e per l'amore che gli portava donolli per arma il leone, della cui pelle andava egli coperto».

L'evidenza archeologica mostra che proprio il Colle del Duomo fu il primo nucleo della città, abitato fin dal tempo degli Etruschi, come testimoniano le pietre di un antico pagus poste all'ingresso di Piazza San Lorenzo, ove oggi sorgono la Cattedrale e il Palazzo Papale. Il nome del pagus, piuttosto attivo nel V e IV secolo a.C., non ci è noto; alcuni studiosi pensano possa appunto essere Surna (da cui la Surrena della cronaca di d'Andrea), con riferimento al dio degli inferi Suri, la cui presenza veniva giustificata, secondo le credenze popolari, con le esalazioni sulfuree del Bullicame. Che il pagus fosse dedicato ad Ercole, divinità che gli etruschi adoravano sotto il nome di Herχle Unial Clan, è documentato dai fregi marmorei ed i frammenti di iscrizioni rinvenuti nella seconda metà del XIX secolo. Latino Latini, uno studioso del XVI secolo, riporta il testo un'epigrafe romana, oggi perduta, murata nella Cattedrale:

DEO HERCVLI MAGNO
LVCIVS SPVRINA
LEGIONIS XI METATOR
EX VOTO NVNCVPATO
SACRAVIT

Al dio Ercole Magno
Lucio Spurina
agrimensore dell'Undicesima Legione
in seguito a un voto promesso
consacrò.

(Traduzione di Francesca Garello)

Difficile dire a quale epoca risalga l'iscrizione: certamente di poco posteriore al 58 a.C., visto che l'Undicesima Legione era stata costituita in quest'anno da cesare per la sua Campagna contro gli Elvezi e in epoca augustea si trovò in zona per sedare una rivolta presso Perugia. Il nome Spurina d'altronde è etrusco, attestato in Provincia di Viterbo (Tarquinia) già nel V-IV secolo, dettaglio che può far appunto pensare a un culto locale ad Ercole.

Il passaggio di Ercole in Etruria è d'altra parte testimoniato da una serie di leggende tramandate intorno alla sua figura, le quali si riallacciano al ciclo delle dodici fatiche. Dopo aver rubato il bestiame di Gerione, Eracle/Ercole lo condusse dall'Iberia alla Gallia, quindi in Liguria, in Italia e da qui in Grecia. Nel corso di questo lunghissimo viaggio, egli avrebbe lasciato testimonianza del suo passaggio in innumerevoli località, così come moltissime sono le città che avrebbe fondato. In Etruria egli avrebbe appunto fondato il Castrum Herculi, istituendo verosimilmente il culto che gli tributavano gli Etruschi.

Si narra ancora che, in una valle a sud della città, incitato dai lucumoni a provare la sua forza, Ercole avrebbe conficcato al suolo la sua clava sfidando gli abitanti del luogo ad estrarla. Nessuno vi riuscì. Ma quando Ercole si riprese la sua clava, dal foro sgorgò un getto d'acqua che riempì la valle, formando l'odierno lago di Vico, il quale sembra fosse considerato sacro alle genti etrusche. Altri vogliono che in questo modo Ercole abbia fatto sgorgare dalla terra le sorgenti termali del Bullicame.

 

IV - LA GALIANA STORICA
 

A Viterbo, murato nella facciata chiesa di Sant'Angelo de la Spatha, in Piazza del Plebiscito (o Piazza del Comune), si trova un sarcofago romano in marmo, risalente al II secolo, sul quale sono scolpite alcune scene di caccia. A seconda degli interpreti, si tratterebbe della caccia al cinghiale caledonio, della caccia al leone nemeo, oppure delle battute di caccia di Alessandro Magno. Secondo lo storico viterbese Giovanni Nanni detto Annio, tale sepolcro sarebbe appartenuto a un certo Valerio Agricola Urbano, sesto pretore romano d'Etruria, il quale sembra fosse solito dare la caccia ai cinghiali utilizzando un leone da lui addomesticato.

Nel 1988 il sarcofago è stato rimosso e trasferito nel Museo Civico di Viterbo; qui, nel corso dei lavori di restauro, nel 1991, il sepolcro venne aperto, ma - con gran delusione dei viterbesi - fu trovato vuoto. Sulla facciata della chiesa è stata in seguito apposta una copia in marmo di Carrara.

Stando a quanto riferiscono le cronache cittadine, nella prima metà del XII secolo morì in Viterbo una gentildonna di insolita bellezza, chiamata Galiana. Essa venne seppellita in questo sepolcro, posto sotto il portico che allora si stendeva davanti alla chiesa. Così scrive il cronista Niccolò Della Tuccia: «Quando Galiana morì, fu messa in un bello avello di marmo intagliato e posto dinante la chiesa di Santo Angelo de la Spatha».

Quando, nel 1549, crollò il campanile della chiesa di Sant'Angelo, il portico venne travolto, e con esso il sarcofago di Galiana. Ricostruita la facciata della chiesa nella forma attuale, vi fu apposto il sarcofago, recuperato dalle macerie. In testa al sarcofago vennero poste due epigrafi. Una era il rifacimento dell'autentica epigrafe tramandata da Lanzillotto, l'altra venne scolpita per l'occasione. L'una e l'altra epigrafe portavano la presunta data della morte di Galiana, il 1138.

Questo il testo delle due epigrafi:

 

 

 

 

Il sepolcro di Galiana.
Sulla facciata della chiesa di Sant'Angelo de la Spatha, in Piazza del Plebiscito, a Viterbo

   
 

Flos et honor patriæ, species pulcherrima rerum
clauditur hic tumulo Galeana ornata venusto
fœmina si qua polos conscendere pulchra meretur
angelicis manibus diva hic Galiana tenetur.
Si Veneri non posse mori natura dedisset
nec fragili Galiana mori mundo potuisset.
Roma dolet nimium, tristatur Thuscia tota.
Gloria nostra perit, sunt gaudia cuncta remota.
Miles et arma silent, nimio perculsa dolore.
Organa iam fidibus pereunt caritura canoris
anno milleno canteno terque deceno
octonoque diem clausit dilecta tonanti.
 

Fiore e onore della patria, bellissima sembianza del creato, Galiana con gli ornamenti è chiusa in questo sarcofago. Se bella donna merita di salire verso il cielo, Galiana è sorretta dalle mani degli angeli. Se la natura avesse concesso a Venere di non poter morire, neanche Galiana sarebbe potuta morire per il mondo caduco. Roma si duole molto, la Tuscia tutta è triste, la gloria nostra è morta, sono finite tutte le gioie. Il soldato e le armi tacciono colpite da un dolore troppo grande. Organi e cetre vanno in rovina e mai più daranno suono. Nell'anno 1138 chiuse la vita, cara al Signore dei Cieli.

 

Prima epigrafe

Galianæ patritiæ viterbensi
cuius incomparabilem pulchritudinem
insigni pudicitiæ iunctam
sat fuit vidisse mortales
consules maiestatis tantæ fœminæ
admiratione hoc honoris ac pietatis
monumentum hieroglyphicum ex S.C. ppp
MCXXXVIII.

A Galiana, patrizia viterbese, la cui incomparabile bellezza unita a straordinaria pudicizia, fu il vederla grande premio ai mortali. I consoli in ammirazione della nobiltà di così magnifica donna, per decreto del Consiglio, posero questo ricordo d'onore e di pietà, scolpito nella pietra. 1138.

 

Seconda epigrafe

L'una e l'altra epigrafe ricordano semplicemente la bellezza e le virtù di una gentildonna viterbese vissuta nella prima metà del XII secolo, ma non fanno alcun riferimento ai dettagli delle due leggende fiorite intorno al nome di Galiana: quella del sacrificio alla scrofa bianca e quella dell'assedio della città da parte delle truppe prefettesche. Sembra certo che fino alla metà del XII secolo la leggenda non esisteva ancora, ed è dunque assai probabile che la leggenda di Galiana sorse soltanto dopo il XIV secolo. Quel sarcofago, dalle movimentate figurazioni e di cui forse nessuno comprendeva ciò che vi era rappresentato, e la fama della bella donna il cui ricordo era ad essa legato, dovettero certamente indurre qualcuno - forse un cantastorie - a crearvi sopra una vicenda, di cui ora analizzeremo gli elementi.

 

V - LA LEGGENDA DELLA BELLA GALIANA

 

 

 

 

Lo stemma di Viterbo.

 

Il drappo retto dal leone mostra la croce bianca che divide i quattro quarti rossi, di cui la leggenda di Galiana narra l'origine. Le insegne papali vanno ascritte al fatto che Viterbo fu residenza papale nella seconda metà del XIII secolo. La palma dietro il leone era il simbolo della cittadina di Ferento, vinta e distrutta dai Viterbesi nel Medioevo.

   

Che lo stemma di Viterbo (una croce bianca che divide quattro parti rosse) derivi, secondo la leggenda, dal manto insanguinata della scrofa bianca uccisa dal leone, è naturalmente una pura invenzione. È vero che nei tempi antichi si trova talvolta come emblema della città il cavallo o il liocorno, ma è anche vero che da tempo immemorabile Viterbo ha avuto per stemma il leone, simbolo di nobiltà e di forza [Leo sum qui signo Viterbum], che cronisti come frate d'Andrea e Annio rimandano alla presunta fondazione della città da parte di Ercole. Soltanto più tardi comparve il drappo rosso diviso in quattro da una croce bianca, e precisamente nel 1316, data a cui risale il diploma di Bernardo da Cucuiaco, conservato nell'Archivio Storico presso la Biblioteca Comunale della città, con il quale viene concesso a Viterbo di inalberare nel vessillo comunale le insegne papali e viene insignito il popolo viterbese del titolo di perpetuo Gonfaloniere della Chiesa.

Difficile stabilire l'origine della leggenda della bella Galiana. Abbiamo visto che una Galiana esistette veramente: era una gentildonna viterbese che morì nella prima metà del XII secolo e venne sepolta in un sarcofago romano custodito nel portico della chiesa di Sant'Angelo della Spatha. Le scene di caccia scolpite sul sarcofago, tra le quali si vede un leone assalire un cinghiale, possono aver suggerito alcuni elementi della leggenda che sorse su Galiana.

La leggenda di Galiana non è tuttavia priva di alcuni elementi colti che rimandano ai poemi omerici, i quali fanno pensare che venne forse elaborata da un cantastorie professionista. Vi è innanzitutto il motivo di una guerra e di  città assediata per il possesso di una donna d'incomparabile bellezza, che è Elena nei poemi omerici e Galiana nella leggenda viterbese. Il tentativo di rapimento di Galiana da parte di Giovanni di Vico potrebbe ancora ricordare quello di Elena da parte di Paride. Che in questa tradizione Viterbo venga vista come una novella Troia è un motivo esplicitamente sottolineato dalla leggenda locale, nella quale si vuole che furono proprio gli esuli troiani a fondare la cittadina della Tuscia. La tradizione locale d'altronde vuole che le donne di Viterbo vantino una bellezza proverbiale (da cui il detto «Viterbo dalle belle torri, dalle belle fontane e dalle belle donne», di cui esiste anche una versione salace).

Galiana si configura dunque come una versione locale di Elena. È d'altronde facile notare che il nome di Galiana/Galeana sembra corradicale con quello di Elena. Un ulteriore collegamento si ha nel fatto che la scrofa a cui viene sacrificata ogni anno la fanciulla più bella di Viterbo, sia consacrata proprio alla dea Elena. È evidente che chi inventò la leggenda viterbese di Galiana aveva senz'altro una certa conoscenza dell'Iliade.

Il racconto della scrofa bianca che avrebbe indicato agli esuli troiani il luogo dove fondare la futura Viterbo, rimanda invece a Virgilio, all'episodio in cui Enea, sbarcato nel Lazio, fonda la città di Lavinio nel luogo dove trova, secondo un vaticinio, una scrofa bianca allattare trenta porcellini (Eneide [VIII: 42-48.]). Tuttavia, nel racconto di Virgilio, è la scrofa ad essere sacrificata insieme ai suoi lattonzoli, non è ad essa che vengono tributati sacrifici di fanciulle. La leggenda viterbese sembra presentare tratti più feroci, addirittura più arcaici, dalla levigata versione virgiliana.

Ma proviamo a scendere più in profondità. Se nell'Iliade Elena compare come una regina mortale, gli studiosi ritengono generalmente che essa sia probabilmente il residuo di un'antica dea lunare (Helénē < Selḗnē). Gli etruschi la chiamavano Elina (Elina, Elinai, Elinei, Elnei), non smisero mai di considerarla una dea e sovente la raffigurarono, sul retro dei loro specchi, insieme alle altre divinità del loro pantheon. È dunque probabile che circolassero, presso gli Etruschi, antiche leggende su Elina, e forse alcune di esse erano parallele alla vicenda omerica della guerra di Troia,. È anche possibile che alcune di queste versioni etrusche del mito di Elena siano alla base della leggenda viterbese di Galiana.

Che alla base vi siano antichi culti, sembra anche sottolineato da un altro dettaglio. In una delle zone più antiche di Viterbo, presso il fosso del Paradosso, là dove secondo la leggenda si trovava la pietra alla quale venivano sacrificate le fanciulle viterbesi, vi è una stradina oggi chiamata Via della Discesa, al cui imbocco si trova una cappella dedicata alla Madonna del Soccorso. Questo nome, confermano gli storici, ne cancellò uno più antico che era Madonna della Troia o Madonna della Scrofa, che ad un certo punto venne avvertito come irriverente e sostituito con uno più conveniente. Quali siano le origini di questo strano epiteto mariano non lo sappiamo: forse alla base vi era un culto precristiano tributato a qualche divinità femminile della fertilità che compariva accessoriamente in forma di scrofa.

La scena del leone che uccide la scrofa sorse probabilmente dal racconto, ricordato da Annio, sul pretore romano Valerio Agricola Urbano, che in questa zona andava a caccia di cinghiali con il suo leone addomesticato, e probabilmente fissato nella memoria collettiva dalle immagini sul sepolcro incastonato nella facciata della Chiesa di Sant'Angelo. Non si può nemmeno dimenticare che il leone era comunque il simbolo di Ercole, altro presunto eroe fondatore di Viterbo. Si può forse vedere nella lotta tra il leone e la scrofa l'abbattimento di un'antica religione matriarcale per opera di un nuovo culto? È un 'ipotesi affascinante, ma soltanto un'ipotesi.

Per concludere, è probabile che la leggenda viterbese di Galiana abbia assorbito elementi antichissimi, forse di origine etrusca, che vennero riletti, interpretati e fissati storicamente intorno al XIII-XIV secolo. A quell'epoca che Viterbo era da poco assurta alla dignità di libero Comune e le sue lotte vittoriose erano ancora vive nel ricordo di tutti. C'erano tutti gli ingredienti perché, eccitata da antiche leggende, la fantasia del popolo creasse una sua epopea ed una sua eroina.

 

Bibliografia

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  • EGIDI V.M.: Leggende nella storia viterbese: La Bella Galiana. In «Viterbo», II. Viterbo 1937.
  • GALEOTTI Mauro: L'illustrissima città di Viterbo. Viterbo 2002.
  • GIANNINI Paolo: Viterbo, fierezza medievale. Viterbo 1971.
  • MECUCCI Francesco: Viterbo. Laborintus, Viterbo 2004.
  • POLIDORI M.L. • TIBURLI A.: La Bella Galiana tra mito e leggenda a Viterbo e a Toledo. In «Biblioteca e Società», VI: 1-4. Viterbo 1984.
  • SCRIATTOLI Andrea: Viterbo nei suoi monumenti. Roma 1915-1920.
Area Italiana - Fuggisole e Galiana.

Ricerche e testo: Dario Giansanti, Anna Perugini.
Si ringrazia Francesca Garello per la sua consulenza in materia epigrafica e monumentale.

 

Creazione pagina: 28.02.2006
Ultima modifica:
30.05.2007

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